Delli Colli Tonino (Antonio)

Tonino Delli Colli

All'anagrafe Antonio Delli Colli[1] (Roma, 20 novembre 1923[2] – Roma, 16 agosto 2005[3]), è stato un direttore della fotografia italiano, considerato uno sperimentatore e innovatore, nonché uno dei più abili e versatili direttori della fotografia del cinema italiano[1][2].

Era cugino di Franco Delli Colli, anch'egli direttore della fotografia e suo assistente.[3]

Biografia

Tonino Delli Colli fa il suo ingresso nel cinema nel 1938, dopo aver abbandonato gli studi, iniziando come assistente di Ubaldo Arata e Mario Albertelli a Cinecittà.[2] Durante la guerra esordisce come direttore della fotografia nel film Finalmente sì (1943), diretto da László Kish, una commedia del filone dei "telefoni bianchi", cui segue nel 1946 Il paese senza pace, diretto da Leo Menardi.[2] Ma dopo queste esperienze, a causa della sua giovane età, deve tornare a lavorare come operatore della macchina per Ubaldo Arata e per Anchise Brizzi.[2]

Negli anni seguenti viene nuovamente promosso a ruolo di direttore della fotografia da Dino De Laurentiis, che lo considera adatto a commedie, melodrammi musicali e film d'avventura, oltre ai film creati su misura per Totò e lo troviamo infatti nella troupe del primo film italiano a colori: Totò a colori di Mario Monicelli e Steno, del 1952.[2] In questo film riesce a sperimentare soluzioni dell'illuminazione insolite e contro il parere degli ingegneri della Ferrania, che vorrebbero sempre l'utilizzo di grandi quantità di luce.[2]

Successivamente è sotto contratto per le case di produzione Scalera Film e Titanus, trovando posto via via in produzioni sempre più importanti, tra le quali si annoverano Piccola posta di Steno del 1955, Donatella di Mario Monicelli del 1956 e Poveri ma belli di Dino Risi del 1957, in cui esprime la sua raffinatezza nell'uso del bianco e nero.[2] Ancora alle prese con il colore è nei due film d'avventura distribuiti nel 1961 Il ladro di Bagdad, di Arthur Lubin e Bruno Vailati, e Le meraviglie di Aladino di Mario Bava.[2]

Nel 1961 viene ingaggiato nel film Accattone di Pier Paolo Pasolini, per il quale modifica il proprio approccio alla fotografia, puntando sulle pellicole Ferrania dalla grana grossa, sfruttandone le imperfezioni e i forti contrasti, così da sovvertire delle regole date fino ad allora per consolidate e sperimentare nuove soluzioni, conferendo maggiore drammaticità ai primi piani e quella particolare efficacia espressiva propria dei film di Pasolini.[2] Il sodalizio con Pasolini porta alla ribalta il nome di Tonino Delli Colli, da prima considerato solo un onesto artigiano della luce, facendone un direttore della fotografia di rinomanza internazionale e legando il suo nome alla maggior parte delle opere cinematografiche pasoliniane.[2] Tale fama gli permette di guadagnare la stima anche di altri registi italiani dell'epoca, come Ugo Gregoretti, Mario Missiroli, Valerio Zurlini, Nelo Risi, Marco Bellocchio e Giuseppe Patroni Griffi.[2]

Nel 1966 avviene l'incontro con Sergio Leone per il quale cura la fotografia di Il buono, il brutto, il cattivo, applicando al colore stili già sperimentati nel bianco e nero dei film di Pasolini,[2] e successivamente di C'era una volta il West (1968) e C'era una volta in America (1984). Negli anni seguenti l'abilità di Tonino Delli Colli nell'uso del colore viene sfruttata ancora, oltre che nella Trilogia della vita di Pasolini, ancora in film come Cognome e nome: Lacombe Lucien (Lacombe Lucien, 1974) di Louis Malle - per il quale aveva inoltre lavorato nell'episodio William Wilson del film collettivo Tre passi nel delirio del 1968.[2]

Nei decenni successivi lo troviamo ancora all'opera in titoli come Casotto (1977) di Sergio Citti; Pasqualino Settebellezze (1975) di Lina Wertmüller; nell'ultimo film di Marco Ferreri Il futuro è donna (1984); nel film di Jean-Jacques Annaud Il nome della rosa (Der Name der Rose, 1986), tratto dall'omonimo romanzo di Umberto Eco; Luna di fiele (Bitter Moon, 1992) e La morte e la fanciulla (Death and the maiden, 1994) di Roman Polański; Marianna Ucrìa (1997) di Roberto Faenza; La vita è bella (1997) di Roberto Benigni.[2]

Tra gli altri registi con cui ha lavorato, vanno inoltre ricordati i nomi di Roberto Rossellini, Jean Delannoy, Luis García Berlanga, Renato Castellani, Alessandro Blasetti, Jean-Luc Godard, Salvatore Samperi, Yves Boisset e Alberto Lattuada.[2]

È stato attivo anche in televisione per la quale ha curato fra l'altro la fotografia dello sceneggiato televisivo del 1965 Resurrezione.


Così la stampa dell'epoca


1965 10 10 Rivista del cinematografo Tonino Delli Colli intro

Nato a Roma nel 1921, Tonino Delli Colli esordì come direttore della fotografia appena divenuto maggiorenne. Oggi ha alle spalle oltre 27 anni di esperienza ed un notevole prestigio, accresciuto recentemente dal « Nastro d’argento » meritatosi per la fotografìa di « Il Vangelo secondo Matteo ». Nonostante ciò, Delli Colli è un perfezionista. Pensa che non sarà mai del tutto soddisfatto della propria opera, anche perché, altrimenti, non potrebbe rinnovarsi. Ultimamente ha diretto la fotografia di « Le soldatesse ».

Le sere di maggio, a Roma, sono splendide, quando non piove, non tira vento, non fa freddo. E proprio in una di quelle splendide sere scendevo dal Pincio verso Piazza del Popolo dove avevo un appuntamento con una persona che non conoscevo. Il luogo preciso dell’incontro era la scalinata di S. Maria dei Miracoli, ma quando vi giunsi, puntualissimo, era discretamente pieno di gente. Girai intorno lo sguardo alla ricerca di un signore che l’abbigliamento, l’aspetto, il modo di fare indicasse chiaramente come un « cinematografaro ». Invano. Guardai allora insistentemente verso un locale vicino, tradizionale ritrovo di artisti e di gente dello spettacolo, al di là di via Ripetta. La sera era quasi discesa e la luce del crepuscolo pioveva ormai sulla bella piazza insieme a quella dei lampioni. Cercai di farmi notare in qualche modo, ostentando la mia borsa di pelle e passeggiando in cima ai gradini della chiesa. E ad un tratto vidi un uomo di media statura, con gli occhiali grigi, la capigliatura — una volta probabilmente folta — tagliata corta, elegante e inappuntabile nel vestire, che veniva verso di me, sorridendo amichevolmente e presentandosi. Era proprio Tonino Delli Colli.

1965 10 10 Rivista del cinematografo Tonino Delli Colli f1Ci siamo seduti ad un tavolo del caffè da dove mi aveva individuato ed abbiamo parlato a lungo di molte cose. E’ piacevole parlare con una persona che, oltre a lavorare attivamente nel campo della realizzazione cinematografica, ha la stessa nostra passione per il cinema. Eppure, Delli Colli non si è avvicinato al cinema per una vera e propria passione.

— Delli Colli, mi scusi, ma come ha cominciato a lavorare nel cinema?

— Vede, non è stato per passione. Lei sa come vanno certe cose. Nel 1938 — io avevo 17 anni — entrai come apprendista operatore a Cinecittà. Dovevo guadagnare. Gli inizi non sono rosei per nessuno. Mi piacque il lavoro e mi ci dedicai completamente. Durante la guerra ebbi la fortuna di poter esordire come direttore della fotografia a soli 21 anni: ero uno dei più giovani direttori di fotografìa italiani. Cominciarono i lavori sempre più impegnativi e le soddisfazioni che ripagano di ogni amarezza.

— Quali sono stati i film più importanti che ha fotografato?

— Ogni film fa storia a sé, e spesso risultano poi più importanti le pellicole in un primo tempo sottovalutate. Inoltre, c’è criterio e criterio per decidere dell’importanza di un’opera. Ad esempio, io giudico molto importanti sia sul piano personale, agli effetti della mia maturazione, che sul piano della validità fotografica alcuni dei miei primi film il cui esito può definirsi magari di tipo commerciale. Ad ogni modo, mi sembra logico citare soprattutto quello che mi ha valso il « Nastro d’argento »,  Il Vangelo secondo Matteo; ma non voglio dimenticare neppure — e li cito così, come li ricordo, non in ordine di importanza — gli altri film che ho fatto con Pasolini, I nuovi angeli di Gregoretti, La bella di Lodi di Arbasino-Missiroli, La ballata del boia di Berlanga, e ancora Mondo di notte, Totò a colori (il primo film a colori italiano), Liolà di Blasetti (con Barboni e di Palma), Donatella, Amore in quattro dimensioni, ecc.

— Qual’è l'ultimo film che ha girato?

— Le soldatesse, di Zurlini; un film che ritengo molto importante e che è stato designato dal Ministero del Turismo e dello Spettacolo a rappresentare l’Italia al prossimo Festival di Mosca.

— Come giudica la situazione attuale del cinema italiano?

— Il cinema, oltre che un’arte (spesso) è sempre un’industria. Il produttore è un signore che si procura i mezzi finanziari necessari per un investimento pluriannuale, sottoponendosi perciò ad uno sforzo non indifferente per anticipare delle somme ingenti che ritorneranno (almeno così egli spera) convenientemente accresciute dopo un certo periodo. E’ evidente che se non esiste una fonte alla quale il produttore possa attingere i capitali da investire tutto il meccanismo produttivo rallenta sensibilmente il suo ritmo; tale fonte è il cosiddetto « eredito ». Finche non sarà approvata la legge sul cinema, però, questo famoso « credito » resta con le mani legate, così come i produttori, così come le maestranze, i tecnici e gli artisti dello spettacolo cinematografico. E quando ci si trova in una situazione di « recessione » come la presente non ce da stare allegri. Queste situazioni io le conosco bene. Ritornano periodicamente ad affliggere il cinema e si verificano sempre dopo un periodo di notevole espansione della produzione. Il cinema italiano non dovrebbe produrre annualmente più di 150 pellicole, mentre invece tutti sanno quali sono stati i livelli raggiunti in questi ultimissimi tempi. Da quando sono direttore di fotografia, io ho visto almeno quattro o cinque di queste « stasi », più o meno pronunciate, più o meno gravi. Ed in tali occasioni ci si rende conto di quanto sia difficile, anche dal punto di vista economico, la nostra professione. Certe volte, ad esempio, vorrei avere anche qualche altra attività, oltre a questa mia di oggi. E le assicuro che non sono il solo a pensarla così.

— Vorrebbe dire, con ciò, che preferirebbe fare qualche altra cosa, che si è (mi passi la parola grossa) pentito di avere intrapreso questa sua strada?

— No! E come potrei? Non sono affatto pentito! Se mi ritrovassi nel 1938 rifarei senz’altro quello che ho fatto. Ma forse, ad un giovane che oggi volesse intraprendere anche lui la carriera, la professione di operatore cinematografico, illustrerei con particolare rilievo le delusioni che essa offre e che le soddisfazioni che si provano, i riconoscimenti che si ottengono, non valgono a far dimenticare.

— Che cosa ritiene di maggiore importanza ai fini del successo nel suo campo di lavoro?

— Guardi, io son convinto che la cosa principale sia di trovare un vero regista ed una buona storia. Sono due elementi con i quali l’operatore, il direttore della fotografia deve fare particolarmente i conti. Il rapporto con il regista è assoluta-mente essenziale. La collaborazione deve essere strettissima e totale. L'operatore deve saper penetrare nella visione del regista e questo deve poter veder con gli occhi dell’operatore. Fra i due, più ancora che con gli altri membri della « troupe », si deve stabilire un vero rapporto di amicizia professionale. Io ho sempre cercato di essere un sincero amico di ogni regista con il quale ho lavorato. Sono anche pienamente d’accordo con chi ritiene che una delle principali doti di un bravo operatore sia il senso di adattabilità alle più varie situazioni, che significa senso di rinnovamento, amore per la ricerca, capacità di mutare il proprio stile a seconda delle circostanze. Regista, operatore e film devono poter costituire un solo blocco, insomma, ed anche in questo senso ogni opera può ben dirsi che faccia storia a sé. Infine, ritengo che quanto ho detto sopra sia di grandissima importanza per un esordiente; il quale deve partire bene se vuole imparare, se vuole « sfondare » e andare avanti. Ed in ciò non nascondo che ci vuole anche fortuna, una fortuna che purtroppo non capita a tutti.

— Qual’è il tipo di fotografìa che preferisce? Si ispira forse a qualcuno in particolare?

— E’ una domanda alla quale non si può rispondere precisamente. Il gusto per la rappresentazione della realtà in certi moduli figurativi cambia a seconda dell’epoca, dell’autore del film, della storia di questo. Un operatore, quindi, deve saper « preferire »... tutti i generi che gli si possono presentare durante il suo lavoro, se non vuole essere limitato nella sfera delle proprie capacità. Ciò non toglie, naturalmente, che un gusto personale ce l’abbiamo tutti. Il neorealismo, ad esempio, ha portato una vera rivoluzione nel tipo di illuminazione, rispetto a quella che si usava prima anche in Italia, riportando la sorgente di luce alla sua reale natura ed origine. Poi il gusto ha camminato ancora eliminando anche certe ricercatezze che i nuovi canoni dell'illuminazione permettevano di realizzare con relativa facilità, come le famose proiezioni di ombre sugli sfondi chiari. Adesso nessun fotografo moderno ricorre più — a meno di effetti molto particolari — a simili proiezioni. I miei maestri sono stati, è vero, Arata e Brizzi, ma, logicamente, il loro modo di fotografare non è più attuale, adatto alle moderne esigenze delle storie cinematografiche. Nel campo del colore, poi, io ammiro molto la scuola inglese, che secondo me è all’avanguardia in tale settore, e nutro una particolare stima per l’operatore Krasker.

— Fra le opere italiane, ce n'è qualcuna non sua che lei avrebbe voluto aver fatto?

— Sì, ce ne sono diverse, forse perché io sono un critico severissimo con me stesso, apprezzando invece interamente quanto fanno i miei colleghi italiani, i quali, tra l’altro, credo siano ormai in senso assoluto fra i migliori del mondo. Tra le opere più recenti, soprattutto una ha destato la mia ammirazione: Deserto rosso. E’ un film che vorrei davvero aver fatto io. Di Palma è stato superlativo. Penso che Deserto rosso, per l’uso del colore in senso espressivo e non illustrativo come nei precedenti film italiani a colori (anche nei migliori, come Senso e Giulietta e Romeo »), sia un’opera che segni una tappa veramente fondamentale ne! cinema non soltanto nazionale. Sul piano personale, però, sono sempre dell’idea che per un’operatore un film in bianco e nero sia suscettibile di maggiori soddisfazioni, in quanto la resa della pellicola è in tal caso maggiormente legata alla sensibilità, alla capacità e alle decisioni del direttore della fotografia.

— Senta, Delli Colli, lei va spesso al cinema? Che cosa cerca nel film che va a vedere?

— Immagino che ora lei voglia scoprire le mie reazioni di spettatore diverso dagli altri, in quanto impegnato anche sul piano della realizzazione... Ecco, mi dispiace deluderla: io credo infatti di essere un comune spettatore cinematografico, forse un po’ esigente, questo si, ma assolutamente comune. Io vado spesso al cinema, non mi stanca, anzi, mi diverte. E soprattutto non guardo mai un film con l’occhio disincantato da chi sa cosa c’è dietro quelle scene, fuori di quel campo visivo, alle spalle degli attori, prima dell’attacco della sequenza o dell’inquadratura. Naturalmente, se devo emettere un giudizio critico sull’opera cerco di valutarne ogni aspetto ed in ciò credo di essere avvantaggiato sullo spettatore che è all’oscuro di tanti piccoli e grandi segreti del mezzo cinematografico. Ma io vado in genere al cinema non solo per vedere un film d’autore, o un’opera particolarmente notevole per qualche suo aspetto (e del resto molti spettatori ci vanno proprio per questo), ma anche per distendermi, per divertirmi. Io dal film voglio molte cose, molti ingredienti: correttezza tecnica, credibilità di situazioni e di personaggi (a meno che non ci trovi sul piano del paradosso), capacità di avvincere lo spettatore, ritmo e fotografia aderenti al soggetto, funzionalità nell’allestimento e nel commento musicale, insomma tutte quelle qualità che fanno di un film un « buon film ». Tanto meglio, poi, se si tratta di un « ottimo film »: in tal caso, c’è sempre da imparare qualcosa. Ed io cerco di cogliere ogni occasione per migliorare giacché non mi sento compieta-mente soddisfatto da nessuna delle prove finora fornite.

1965 10 10 Rivista del cinematografo Tonino Delli Colli f2

— Questo non solo mi sembra logico, ma anche positivo nei riguardi della sua vitalità inventiva.

— Ne sono convinto. Non guardi tanto al mio modo di lavorare: io preferisco scherzare sul lavoro, poiché ci si distende e si diventa amici prima e meglio. Anche per questo io ho moltissimi amici. Ma intimamente, penso, non sarò mai completamente soddisfatto di me. Guai se lo fossi; mi verrebbe allora a mancare una molla potente per rinnovarmi, per cercare altre vie, altre soluzioni ai problemi che mi si prospettano.

— E le verrebbe meno, concludo io, proprio una delle caratteristiche che lei mi ha prima citato come necessaria ad un buon operatore, o addirittura ad un « nastro d’argento ».

Ormai il materiale l’avevo raccolto, la consumazione che Delli Colli mi aveva gentilmente offerto era addirittura dimenticata; uscimmo dal locale sulla Piazza. Era tardi. Il tempo era passato senza che me ne fossi accorto. Salutai Delli Colli per andare a prendere la macchina e salendo verso il Pincio mi sorpresi a pensare — tanta era stata la naturalezza del colloquio e della persona — che riprendere le scene d’un film doveva in fin dei conti essere facile: bastava chiamarsi Delli Colli.

Alessandro Garbarino, «Rivista del cinematografo», 10 ottobre 1965


2005 08 18 CDS Tonino Delli Colli morte intro1

«Corriere della Sera», 18 luglio 2005


2005 07 18 L Unita Tonino Delli Colli intro

Si è spento ieri a Roma un protagonista del nostro cinema: Tonino Delli Colli, direttore della fotografia tra i più celebri. Aveva 82 anni, aveva legato il suo nome a quelli di Pasolini, Fellini, Monicelli, Leone e Risi, aveva vinto quattro David di Donatello (per film girati con Ferreri, Annaud, Faenza e Benigni). È proprio Dino Risi a ricordare «l’amico e il compagno di lavoro per tanti anni». Con lui, infatti, ha condiviso il set dai tempi di Poveri ma belli (1956), proseguendo con La nonna Sabella, Belle ma povere, Poveri milionari, Venezia, la luna e tu, poi, dopo una pausa di una trentina d'anni, di nuovo insieme a partire dal film collettivo I nuovi mostri ( 1977) fino agli ultimi come Caro papà o Sono fotogenico. «L’ho visto giusto tre giorni fa, abitavamo a due passi e ci incontravamo spesso. Un po’ di chiacchiere su quello che accade e soprattutto le sue lamentele sulle tasse, sul governo. Con Tonino ho passato parecchi degli anni migliori della mia vita, lavorando e divertendomi -, racconta Risi - Era innamorato del cinema, ma anche delle donne. Non si sa cosa venisse prima per lui. Ma tanto, allora, una cosa tirava l'altra. Oltretutto con le donne aveva un gran successo, nonostante fosse piccolino di statura». Risi ricorda «il geniaccio che aveva per la fotografia, quella capacità di adattare magnificamente luci e ombre a una commedia come a un film drammatico.

Sapeva fare tutto, tutti i generi, mettendosi completamente a disposizione. E non sbagliava mai - dice -. Era un istintivo, non aveva fatto corsi, aveva imparato tutto da solo». Cominciando giovanissimo: a 16 anni era già a Cinecittà come assistente operatore. Al suo fianco, dagli inizi fino alla fine degli anni '60, suo cugino Franco Delli Colli - anche lui scomparso recentemente -, che ne è stato l’assistente quando Tonino era operatore. L’esordio come direttore della fotografia è nel 1943 con Finalmente sì! dell’ungherese Laslo Kish. Nel 1952 gira il primo film italiano a colori Totò a colori di Steno. Tra le sue qualità Risi ricorda «l’essere veloce, come me del resto. Ci sbrigavamo e per questo eravamo molto amati dai produttori che così risparmiavano». Vitale, intelligente, allegro, Delli Colli «amava tantissimo scherzare - prosegue Risi -. Una volta sul set di un film americano di cui non ricordo il titolo si presentò alla star, invece che con Tesposimetro per misurare la luce, con una zeppa di legno che le mise sotto al naso. Lei si infuriò al punto da farlo cacciare dal produttore».

Nonostante lo spirito «goliardico», Dino Risi ricorda anche i suoi saldi principi etici: «Una volta offrì un viaggio in Tunisia a un'americana. All'Hilton lei ordinò una bistecca al sangue, ma la lasciò nel piatto e ci spense sopra la sigaretta: Tonino pagò il conto, la prese per mano, la portò all'aeroporto e la imbarcò per l'Italia. In quel periodo ricordavamo tutti la fame della guerra, certi gesti erano inconcepibili». Legato agli amici di un tempo, Tonino Delli Colli era un assiduo frequentatore delle cene da Otello alla Concordia, lo storico ristorante romano dove si «è sfamato» il grande cinema italiano. «Quante volte mi ha detto di andare - conclude Risi -. Lui era lì tutti i mercoledì insieme ai grandi superstiti. Oggi ha mancato l’appuntamento e sarà davvero una serata molto triste in quella stanza». I funerali si tengono domani alle 11 alla chiesa di Santa Maria dei Miracoli, a piazza del Popolo.

Gabriella Gallozzi, «L'Unità», 18 luglio 2005


Un artista che contagiò Benigni

Chi era Tonino. Si sentiva un artigiano ed era un maestro.

Scompare con Tonino un altro protagonista della grande stagione del cinema italiano. E il dolore si accresce pensando a quanto poco ne è rimasto nel giro di poche decine d’anni. Ricordo Tonino nella cerchia dei collaboratori più stretti a Cinecittà sul set degli ultimi film di Fellini; ed una volta alla Biennale di Venezia. Tonino parlava poco e preferiva starsene in disparte. Entrati comunque in confidenza, mi chiese improvvisamente - allora ero parlamentare - «di fare qualcosa per il cinema italiano». Ma non solo, come è evidente, non l’ho mai fatto, ma allora feci la brutta figura di non saper neppure come rispondergli. Pensai di riscattarmi, anni dopo, da presidente del Palazzo delle Esposizioni a Roma. Mi era venuta l’idea di far illuminare dai grandi maestri della fotografìa il venerabile quanto antiquato edifìcio di Pio Piacentini, in modo che sembrasse tutto nuovo.

Gliene parlai, ma Tonino non si entusiasmò affatto. Mi domandò invece, tutto serio, «come lo avrei voluto» e «a che cosa sarebbe servito». C’era nel suo rispondere domandando tutto il carattere artigianale di lavoro di squadra del cinema italiano che anche Tonino ha fatto grande. Hannah Arendt avrebbe riconosciuto in lui la grandezza e la libertà particolare dell’artista esecutore. Qualche giorno fa mi è capitato di vedere in tv La mandragola di Lattuada. Non fossero stati tagliati dalla cattiva abitudine televisiva i titoli di coda vi avrei letto il nome di Tonino come direttore della fotografia. Racconto questo perché pare una testimonianza di come il cinema italiano sia cresciuto attraverso il contagio. Lattuada ha contagiato Fellini, facendolo diventare da sceneggiatore regista; molto più tardi Fellini e Delli Colli hanno contagiato Benigni, che ha voluto, dopo La voce della luna, Tonino come direttore della fotografìa per La vita è bella. Contagio ed insieme capacità di lavorare non con uno solo ma con tutti. Delli Colli è stato infatti anche il direttore della fotografia di Pasolini, Ferreri, di Lina Wertmuller e tanti altri. Ma oggi, quando la produzione si è ridotta a poche decine di film all’anno, come è possibile lo scambio e il contagio?

Renato Nicolini, «L'Unità», 18 luglio 2005


Filmografia

Cinema

Il paese senza pace, regia di Leo Menardi (1943)
Finalmente sì, regia di László Kish (1944)
Trepidazione, regia di Toni Frenguelli (1946)
Felicità perduta, regia di Filippo Walter Ratti (1946)
O sole mio, regia di Giacomo Gentilomo (1946)
Voragine (Nada), regia di Edgar Neville (1947)
L'isola di Montecristo, regia di Mario Sequi (1948)
La città dolente, regia di Mario Bonnard (1948)
La strada buia, regia di Sidney Salkow (1949)
Nerone e Messalina, regia di Primo Zeglio (1949)
La mano della morta, regia di Carlo Campogalliani (1949)
Al diavolo la celebrità, regia di Mario Monicelli e Steno (1949)
Il voto, regia di Mario Bonnard (1950)
Alina, regia di Giorgio Pàstina (1950)
Io sono il Capataz, regia di Giorgio Simonelli (1951)
Totò terzo uomo, regia di Mario Mattoli (1951)
Il padrone del vapore, regia di Mario Mattoli (1951)
Milano miliardaria, regia di Marcello Marchesi e Vittorio Metz (1951)
Accidenti alle tasse!!, regia di Mario Mattoli (1951)
Era lui, si, si!, regia di Marino Girolami e Marcello Marchesi (1951)
Gli 11 moschettieri, regia di Ennio De Concini e Fausto Saraceni (1952)
I tre corsari, regia di Mario Soldati (1952)
Totò e le donne, regia di Mario Monicelli e Steno (1952)
Totò a colori, regia di Steno (1952)
Jolanda la figlia del corsaro nero, regia di Mario Soldati (1953)
Gioventù alla sbarra, regia di Ferruccio Cerio (1952)
Ti ho sempre amato!, regia di Mario Costa (1953)
Nerone e Messalina, regia di Primo Zeglio (1953)
Il sacco di Roma, regia di Ferruccio Cerio (1953)
Amori di mezzo secolo, regia di Mario Chiari, Pietro Germi, Glauco Pellegrini, Antonio Pietrangeli, Roberto Rossellini (1954)
Dov'è la libertà?, regia di Roberto Rossellini (1954)
Tradita, regia di Mario Bonnard (1954)
Donatella, regia di Mario Monicelli (1956)
Una voce, una chitarra, un po' di luna, regia di Giacomo Gentilomo (1956)
Femmine tre volte, regia di Steno (1957)
Poveri milionari, regia di Dino Risi (1958)
Marinai, donne e guai, regia di Giorgio Simonelli (1958)
L'amico del giaguaro di Giuseppe Bennati (1958)
Il mondo di notte, regia di Luigi Vanzi (1959)
Morgan il pirata, regia di André De Toth e Primo Zeglio (1960)
Accattone, regia di Pier Paolo Pasolini (1961)
Mamma Roma, regia di Pier Paolo Pasolini (1962)
Ro.Go.Pa.G., episodio La ricotta, regia di Pier Paolo Pasolini (1962)
La bella di Lodi, regia di Mario Missiroli (1963)
La ballata del boia, regia di Luis García Berlanga (1963)
Il Vangelo secondo Matteo, regia di Pier Paolo Pasolini (1964)
Comizi d'amore, regia di Pier Paolo Pasolini (1964)
Racconti a due piazze (Lit à deux places)
La Mandragola, regia di Alberto Lattuada (1965)
Uccellacci e uccellini, regia di Pier Paolo Pasolini (1966)
Andremo in città, regia di Nelo Risi (1966)
Il buono, il brutto, il cattivo, regia di Sergio Leone (1966)
Tiro a segno per uccidere (Das Geheimnis der gelben Mönche), regia di Manfred R. Köhler (1966)
Capriccio all'italiana, episodio Che cosa sono le nuvole?, regia di Pier Paolo Pasolini (1967)
La Cina è vicina, regia di Marco Bellocchio (1967)
C'era una volta il West, regia di Sergio Leone (1968)
Porcile, regia di Pier Paolo Pasolini (1969) (primo episodio)
Il Decameron, regia di Pier Paolo Pasolini (1971)
I racconti di Canterbury, regia di Pier Paolo Pasolini (1972)
Los amigos, regia di Paolo Cavara (1972)
Storie scellerate, regia di Sergio Citti (1974)
Pasqualino Settebellezze, regia di Lina Wertmüller (1976)
Salò o le 120 giornate di Sodoma, regia di Pier Paolo Pasolini (1975|1976)
Caro Michele, regia di Mario Monicelli (1976)
Viaggio con Anita, regia di Mario Monicelli (1978)
Primo amore, regia di Dino Risi (1978)
Temporale Rosy (Rosy Bourrasque), regia di Mario Monicelli (1979)
Sono fotogenico, regia di Dino Risi (1980)
Storie di ordinaria follia, regia di Marco Ferreri (1981)
Il futuro è donna, regia di Marco Ferreri (1984)
C'era una volta in America, regia di Sergio Leone (1984)
Ginger e Fred, regia di Federico Fellini (1986)
Il nome della rosa, regia di Jean-Jacques Annaud (1986)
Intervista, regia di Federico Fellini (1987)
Stradivari, regia di Giacomo Battiato (1988)
La voce della Luna, regia di Federico Fellini (1990)
L'africana, regia di Margarethe Von Trotta (1990)
La domenica specialmente, regia di Giuseppe Bertolucci (1991)
Luna di fiele, regia di Roman Polanski (1992)
La morte e la fanciulla, regia di Roman Polanski (1994)
Facciamo paradiso, regia di Mario Monicelli (1995)
Marianna Ucrìa, regia di Roberto Faenza (1997)
La vita è bella, regia di Roberto Benigni (1997)

Televisione

Resurrezione, regia di Franco Enriquez (1965) - miniserie TV
Notti e nebbie, regia di Marco Tullio Giordana (1984) - miniserie TV

Riconoscimenti

1965 - Nastro d'argento
alla migliore fotografia in bianco e nero per Il Vangelo secondo Matteo [3]
1968 - Nastro d'argento
alla migliore fotografia in bianco e nero per La Cina è vicina[3]
1982 - David di Donatello
migliore autore della fotografia per Storie di ordinaria follia[3]
1982 - Nastro d'argento
alla migliore fotografia per Storie di ordinaria follia[3]
1985 - BAFTA
candidatura alla migliore fotografia per C'era una volta in America[4]
1985 - Nastro d'argento
alla migliore fotografia per C'era una volta in America[3]
1986 - David di Donatello
migliore autore della fotografia per Il nome della rosa[3]
1987 - Nastro d'argento
alla migliore fotografia per Il nome della rosa[3]
1997 - David di Donatello
migliore autore della fotografia per Marianna Ucrìa[3]
1998 - David di Donatello
migliore autore della fotografia per La vita è bella[3]
1998 - Nastro d'argento
alla migliore fotografia per Marianna Ucrìa[3]
2005 - American Society of Cinematographers
premio speciale alla carriera[3]

Note

  1. ^ Salta a:a b Tonino Delli Colli, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 15 marzo 2011. URL consultato il 24 ottobre 2018. Modifica su Wikidata
  2. ^ Salta a:a b c d e f g h i j k l m n o p Tonino Delli Colli, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 24 ototbre 2018.
  3. ^ Salta a:a b c d e f g h i j k l m Roma: è morto Tonino Delli Colli, in Corriere della Sera, 17 agosto 2005. URL consultato il 25 ottobre 2018.
  4. ^ (EN) Tonino Delli Colli, su Internet Encyclopedia of Cinematographers. URL consultato il 25 ottobre 2018.

Riferimenti e bibliografie:

  • Tonino Delli Colli, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 15 marzo 2011
  • Tonino Delli Colli, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana
  • (EN) Tonino Delli Colli, su Find a Grave
  • Tonino Delli Colli, su CineDataBase, Rivista del cinematografo
  • Tonino Delli Colli, su MYmovies.it, Mo-Net Srl
  • Tonino Delli Colli, su Movieplayer.it
  • (EN) Tonino Delli Colli, su Internet Movie Database, IMDb.com
  • (EN) Tonino Delli Colli, su AllMovie, All Media Network
  • (DE, EN) Tonino Delli Colli, su filmportal.de
  • (EN) Tonino Delli Colli, su Internet Encyclopedia of Cinematographers
  • Alessandro Garbarino, «Rivista del cinematografo», 10 ottobre 1965