E. A. Mario (Ermete Gaeta Giovanni)

E A Mario

Pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta (Napoli, 5 maggio 1884 – Napoli, 24 giugno 1961), è stato un paroliere e compositore italiano, autore di numerose canzoni di grande successo, come La canzone del Piave[1]. Alcuni brani furono composti in lingua italiana, altri in lingua napoletana; di essi, quasi sempre, scriveva sia i testi che la musica.

È da annoverare, insieme a Salvatore Di Giacomo, Ernesto Murolo e Libero Bovio, tra i massimi esponenti della canzone napoletana della prima metà del Novecento ed uno dei protagonisti indiscussi della canzone italiana dal primo dopoguerra agli anni cinquanta, sia per la grandissima produzione - dovuta alla sua felicissima vena poetica - che alla qualità delle sue opere.

Biografia

Il futuro E. A. Mario nacque a Napoli da una modesta e povera famiglia di Pellezzano il 5 maggio 1884, in un basso di Vico Tutti i Santi, a ridosso della Parrocchia S. Maria di Tutti i Santi, in uno dei quartieri più popolari della città (Borgo S. Antonio Abate). Il padre, Michele Gaeta, era barbiere e la madre, Maria della Monica, una casalinga. Il retrobottega della barberia del padre era tutta la loro casa. Un locale dove vivevano molte persone di famiglia: il fratello Ciccillo, le sorelle Agata e Anna, lui, la madre ed il padre. In altre due piccole stanzette, tre zie ed uno zio. Si sposò nel 1919 con Adelina, figlia di un'attrice molto famosa all'epoca, Leonilde Gaglianone. Il loro fidanzamento fu brevissimo: durò infatti appena tre mesi. Dal loro matrimonio nacquero poi tre figlie: Delia, Italia e Bruna. In giovinezza frequentò un altro grande poeta e commediografo napoletano, da cui fu assai benvoluto, Eduardo Scarpetta, genitore dei fratelli Eduardo, Peppino e Titina De Filippo. Collaborò molto con il massimo editore napoletano dell'epoca, Ferdinando Bideri.

Non divenne mai ricco, poiché assai presto, per esigenze familiari e soprattutto a causa di una grave malattia della moglie, decise di vendere a una casa editrice di Milano i diritti di tutte le sue canzoni, dei quali ricevette, negli anni successivi, solo una piccolissima percentuale.

E. A. Mario fu direttore del coro degli allievi della Scuola Militare Nunziatella intorno al 1921[2].


È possibile incrociare a Little Italy anche E.A. Mario, che si è dovuto trasferire per un lungo periodo in America, partendo da Napoli sul Conte Rosso nel 1922, nella speranza di mettere fine ad autentici soprusi dei quali è vittima. A saccheggiare le canzoni di E.A. Mario negli States è, soprattutto e davvero spudoratamente, un tale che si fa chiamare Mario e che, non avendo un braccio, dice di aver subito l’amputazione combattendo nella Grande Guerra. E, visto che nel millantare proprio non ha confini, sostiene di essere, addirittura, l’autore della Leggenda del Piave.

In un libro appassionato che ricostruisce i momenti più significativi della vita di suo padre, la pianista Bruna Catalano Gaeta racconta diffusamente il perché della trasferta americana del geniale poeta. E.A. Mario trovò a New York una situazione ancora peggiore di quella che era riuscito a capire stando a Napoli. Il poeta riuscì, comunque, a smascherare il gaglioffo che si faceva passare per eroe di guerra e «sventando un’aggressione della famigerata “mano nera”», scrive Bruna, «tenne dei memorabili concerti all’Olimpic Theatre di New York, con la collaborazione di un “accompanist” d’eccezione: l’italo-americano Nick Aversano»


Lo studio

Fu un appassionato e accanito lettore di libri, specialmente storici, e così riuscì a formarsi una cultura assai ricca e pluridisciplinare.

Un suo vezzo era, di tanto in tanto, arricchire la sua dialettica con citazioni sempre precise.

In gioventù si iscrisse all'Istituto nautico ma, poiché le tasse scolastiche risultavano troppo impegnative per la modesta economia familiare, non poté mai concludere gli studi e diventare capitano di lungo corso.

Il mandolino

Quando aveva circa dieci anni, un posteggiatore, entrato nel negozio di barbiere del padre, dimenticò un mandolino sulla sedia e, grazie a quello strumento, che prese a strimpellare da solo, iniziò a suonare e iniziò a comporre le prime melodie. Apprese poi a suonare bene il mandolino e imparò a leggere la musica da autodidatta grazie a una pubblicazione settimanale della Casa Editrice Sonzogno, "La musica senza maestro". L'intera raccolta è tuttora in possesso della figlia Bruna. Molti lo chiamavano "maestro", ma lui, pur essendo di fatto divenuto musicista, si schermiva dicendo di non esserlo. Egli componeva la melodia, l'armonia completa di motivo e, in seguito, un maestro esperto trascriveva le partiture senza cambiare quasi mai nulla del motivo originale, sui testi precisi nel ritmo che, già all'abbozzo, risultavano perfetti e facili da trascrivere sul pentagramma.

Il lavoro alle Poste

Giovanissimo si impiegò nelle Regie Poste Italiane a Napoli, lavorando negli uffici di Palazzo Gravina, nella zona di Monteoliveto, vecchia sede delle Poste Napoletane, dove - alcuni anni prima di lui - aveva lavorato come telegrafista una grande scrittrice napoletana, Matilde Serao.

Gaeta fu assegnato allo sportello delle raccomandate e dei vaglia, dove, dopo poco tempo, fece un incontro fortunato. Un giorno riconobbe davanti a lui, avendone letto il cognome come mittente di una raccomandata, il musicista Raffaele Segrè, noto compositore di canzonette dell'epoca. Con la sfrontatezza e la sincerità propria del suo carattere e della sua giovanissima età, ebbe a dirgli: «Maestro, le vostre musiche sono bellissime, ma i testi sono tante papucchielle!». Il musicista, risentito, stava quasi per rispondergli in malo modo, ma le molte persone presenti e i colleghi del poeta, che già lo conoscevano molto bene, gli fecero capire che il ragazzo era molto bravo poeticamente: «Professò, chisto è uno ca 'e poesia se ne intende!». Il Segrè allora, preso da un'istintiva simpatia, gli lanciò una sfida: «Facimme 'na cosa, scrivetemi voi un testo, una poesia, e io, se sarà bella, ve la musicherò!».

Fu così che nacque la sua prima canzone in lingua napoletana, "Cara mamma", pubblicata dalla Casa editrice Ricordi.

L'inizio dell'attività di poeta

La sua attività di poeta iniziò nel 1902 a Genova e a Bergamo. A Genova conobbe Alessandro Sacheri, giornalista e redattore capo de "Il Lavoro" che, resosi conto del valore del giovanotto (aveva diciotto anni), gli diede il suo primo lavoro da giornalista. Il giovane talento scelse di utilizzare lo pseudonimo di "Hermes", utilizzato alternativamente con "Ermes".

Grazie alla cultura molto varia che si era costruito attraverso la lettura, era in grado di scrivere e pubblicare articoli su vari argomenti. Dalle Poste fu successivamente allontanato per "scarso rendimento", poiché l'impiegato postale Giovanni Gaeta si era assentato assai spesso, in apparenza senza giusti motivi. Successivamente, accertato che Giovanni Gaeta altri non era che il celebre E. A. Mario, fu reintegrato perché tutti erano orgogliosi di lui. E nell'amministrazione postale continuò a lavorare per tutta la vita.

Alla sua notevole cultura letteraria e musicale, unì un carattere generoso e sensibile, il che gli meritò grande stima e affetto da parte di tutti coloro che ebbero modo di frequentarlo.

Le sue composizioni furono anche oggetto di imitazioni: Totò, agli inizi della carriera, compose e recitò "Vicoli", una parodia della canzone "Vipera" di E. A. Mario.

"La canzone del Piave"

Nel 1918, nella notte del 23 giugno, poco dopo il termine della battaglia del solstizio, in seguito alla resistenza e alla vittoria italiana sul Piave, scrisse di getto i versi e la musica de La canzone del Piave, che gli procurò subito una grande notorietà[1]. La canzone servì a risollevare il morale dei soldati, e lo stesso comandante in capo, il generale Armando Diaz, gli telegrafò per fargli sapere che la sua canzone era servita a dare coraggio ai nostri soldati e ad aiutare lo sforzo bellico "più di un generale".

La canzone fu considerata una sorta di inno nazionale, poiché esprimeva la rabbia e l'amarezza per la disfatta di Caporetto e l'orgoglio per la riscossa sul fronte veneto.

In particolare, nel periodo costituzionale transitorio durante la fase conclusiva della seconda guerra mondiale, la canzone fu adottata provvisoriamente come inno nazionale italiano[3][4].

In seguito, ad Alcide De Gasperi, che l'aveva convocato a Roma, per chiedergli di scrivere l'inno ufficiale per la Democrazia Cristiana, facendogli intendere che avrebbe, con grande piacere, appoggiato la candidatura della sua canzone nella scelta dell'inno definitivo, E. A. Mario rispose che non se la sentiva di scrivere qualcosa su commissione, perché componeva solo per ispirazione. Lo statista trentino si offese, e sostenne invece l'Inno di Mameli.

Egli volle rendere un tributo alla amata Patria: di tutte le medaglie che aveva ricevuto dai comuni interessati, le prime cento le donò "alla Patria", assieme alle fedi nuziali sua e di sua moglie, nel novembre del 1941. Le altre che gli restarono furono poi rubate dopo la sua morte, nel maggio 1974, nella casa di una delle figlie, esclusa la Commenda in oro che gli aveva consegnato il re Vittorio Emanuele ed i gemelli in oro donati dall'ex re Umberto II in occasione del suo settantesimo compleanno. Questi cimeli sono attualmente conservati nella Biblioteca Nazionale di Napoli, Lucchesi Palli, nella sala a lui intitolata e dedicata.

La canzone del Piave è stata riproposta come inno nazionale il 21 luglio del 2008 da Umberto Bossi[5].

Lo pseudonimo

Nel 1904, Giovanni Gaeta adottò per la prima volta lo pseudonimo di E. A. Mario, che gli avrebbe poi portato tanta fortuna facendolo diventare famoso in tutto il mondo con le sue canzoni. Il suo nome d'arte E. A. Mario, è la composizione di varie scelte.

“E” deriva dal suo primo pseudonimo Ermes (o Ermete), “A” fu scelto come segno di riconoscimento e stima verso Alessandro Sacheri, giornalista e scrittore, suo amico fraterno, nonché caporedattore del quotidiano genovese Il Lavoro, che gli pubblicò i primi lavori di scrittore. Mario stava ad indicare il patriota Alberto Mario, che fu suo idolo nella giovinezza, trascorsa con grande passione mazziniana e, forse, anche perché gli piaceva lo pseudonimo con il quale si firmava la poetessa polacca, direttrice del periodico Il Ventesimo di Bergamo, Maria Clarvy.

Il suo pseudonimo fu adottato per la prima volta nel 1904 per la pubblicazione della sua prima canzone, in napoletano, intitolata Cara mammá, della quale si è detto in precedenza presso l'Editore Ricordi di Milano.


«La leggenda del Piave» nasce nel Varietà

In una sera della tarda estate del 1918, nel piccolo teatro Rossini nei pressi di piazza Dante a Napoli, debuttò un modesto spettacolo di Varietà. Faceva parte del programma una divetta abbastanza nota. Si chiamava Gina De Chamery ed era bella e brava.

Dopo di avere eseguito alcune canzoni brillanti del suo repertorio, ad una richiesta di bis, annunciò al pubblico : « Ed ora vi canterò una canzone nuova di E. A. Mario : « La Leggenda del Piave ».

Un piccolo applauso di convenienza e molti del pubblico pensano: ecco, ci siamo, la solita canzone patriottica per l’applauso facile.. .

La De Chamery inizia;

Il Piave mormorava,
calmo e placido al passaggio
dei primi fanti il ventiquattro maggio...

L’attenzione della sala si fa viva. L’artista avverte questa tensione e continua con più foga:

L’esercito marciava
per raggiunger la frontiera
e far contro il nemico una barriera...

Al finale della prima parte un tentativo di applauso, ma uno zittìo energico e perentorio volle significare che bisognava sentire il seguito. E il seguito venne impetuoso, trascinante, irresistibile.

Il finale della seconda parte venne coperto dagli applausi scroscianti del pubblico che, improvvisamente, cessarono all’inizio della terza strofa. Ma, al finale, la commozione, l’entusiasmo, la passione, a stenti fino a quel punto repressi, esplosero. Fu come il fragore di un tuono.

La canzone venne ripetuta, tre, quattro, cinque volte con il pubblico all’impiedi, preso da frenesia folle e incontenibile. Quelle parole e quelle note dilagarono come un torrente. In pochi giorni tutta la città le conobbe e le cantò. In meno di un mese La leggenda del Piave varcò i confini del Volturno, poi del Garigliano, poi del Tevere, delFAmo, del Po e giunse sulle rive del Piave, e più ancora, al di là di esse, sulle vie che portavano a Trento e a Trieste, cantata da un esercito intero, proteso verso le città promesse.

E. A. Mario, era diventato un personaggio celebre, e dopo la vittoria, La leggenda del Piave, per volontà di popolo, divenne un inno della Patria, e la cerimonia del Milite Ignoto sul monumento di piazza Venezia la consacrerà, come tale, alla posterità

Ma chi era questo E. A. Mario? Come mai un inno era potuto sbocciare da una canzone nata su di un palcoscenico di Varietà?

E. A. Mario si chiamava Giovanni Gaeta e le sue origini furono modeste e umili. Nacque il 5 maggio del 1884, l’anno del colera, nel retro-bottega del salone di suo padre Michele, che faceva anche lui, come il padre di Tagliaferri, il barbiere, al vico Tutti i Santi, nel cuore della Napoli angioina, in uno dei quartieri più popolari della città

Venne su con un carattere ribelle e sdegnoso. Dopo le elementari si iscrisse alle scuole tecniche, e, sia pure con molti stenti, riuscì a prendere la licenza. Ma le sue idee e il suo comportamento non si confacevano con i progetti e il modo di vivere del padre e di tutta la famiglia.

Un giorno, nel negozio di barbiere di don Michele, un avventore casuale, cioè di passaggio, come si dice in gergo commerciale, dimenticò un mandolino. Lo strumento era quasi nuovo, fiammante e don Michele saggiamente avrebbe voluto venderlo, ma Giovannino se ne impossessò quasi con violenza. Il padre subì l’atto di forza, ma non mancava di elevare le più fiere proteste quando il figliuolo usava lo strumento, strimpellandolo nella bottega e a casa, nelle ore più impensate e nei momenti meno favorevoli:

— Cca non se fatica, se sona! ... — protestava il barbiere.

— La bottega di don Michele è diventata una trattoria di Posillipo ... Ci sono i posteggiatori! — motteggiavano i vicini.

Giovannino fremeva, sdegnato. E sulle corde di quel mandolino fantasticava con note, accordi e frasi melodiche, improvvisando parole e rime, con fervore e accanimento, quasi come in quello strumento fosse nascosto il suo destino. Questa evasione in un mondo di sogni lo faceva sempre più estraneo alla famiglia e l’incomprensione tra lui e i suoi scavava un abisso sempre più profondo. Così, nei rapporti familiari egli ostentava un atteggiamento distaccato, faceva l’intellettuale, e, spesso, dimostrava compatimento e disprezzo per tutti. Il padre lo considerava un illuso e in famiglia lo chiamavano ’o milurdino, per quei suoi atteggiamenti di personaggio d’eccezione. Le liti erano frequenti, e, spesse volte, clamorose e violente.

Aveva meno di quindici anni, quando decise di abbandonare la casa patema. Chiese ospitalità ad un giornalaio del rione, certo Capuozzo, e passava le sue giornate nell’edicola di costui, divorando in rabbiose letture, giornali, libri e opuscoli.

Finalmente decise di darsi ad un lavoro. Con l’appoggio di qualche amico riuscì ad ottenere un posto di fattorino postale nella succursale delle Poste e Telegrafi di piazza della Ferrovia. Nell’espletamento delle sue modeste finizioni, conobbe l’uomo che avrebbe deciso del suo destino, il maestro Raffaele Segrè, una singolare figura d’artista, che accoppiava alla dolcezza dell’estro musicale una eccezionale fierezza di carattere. Il maestro Segrè fu preso da viva simpatia per Giovannino, che oramai era diventato un giovanotto. E questo giovanotto componeva delle piccole poesie, così piene di osservazioni e di immagini e le scriveva con rime, ritmi ed accenti così vivi e coloriti, che parevano esse stesse delle musiche. Segrè apprezzò molto queste disposizioni artistiche del suo giovane amico e un giorno gli disse:

— Perchè nun scrivi una canzone? Ce mett’io ’a musica...

Giovannino credette di aver sentito male e rimase stupefatto e silenzioso. Segrè credendo che si trattasse di timore, insistette;

— Sù, coraggio, Giovanni’, scrive na bella cosa! . ..

E la bella cosa non tardò a venire: il giovane scrisse la sua prima canzone. Aveva per titolo Cara mammà e le sue tre parti tradizionali erano tre letterine, che un soldato inviava a sua madre, con la richiesta di un po’ di danaro, perchè, oltre a doversi tenere buono il caporale, si era innamorato di una ragazza e non poteva sfigurare. Un piccolo, delizioso componimento poetico;

Cara mammà,
faciteme ’o favore,
mannateme nu vaglia ’e vinte lire...
Tengo nu caporale traditore,
ca si nun mollo ’e llire,
me po’ fa perdere ’a libertà ...

Segrè rivestì queste parole di una musichetta gentile, come il tono sommesso delle letterine richiedeva. La canzone piacque molto a Casa Ricordi, nientedimeno la Casa Editrice di Verdi e di Puccini, che la lanciò nella serie delle sue edizioni accanto a Tosti e a Denza.

Non c’è che dire, Giovannino aveva mirato giusto e ci aveva azzeccato! Il giovanotto era entrato nel regno della canzone per la porta grande e ciò significò per lui notorietà e prestigio. Ma il maestro Segrè decise improvvisamente di lasciare Napoli per raggiungere l’America del Sud, dove l’attendevano contratti artistici molto vantaggiosi. Per il giovane Gaeta fu un duro colpo. Si consolò pensando che una modesta eredità il maestro gliela lasciava: la preziosa conoscenza della tecnica della canzone e una certa norma di vita, che inciderà ancor più sul suo carattere già ribelle e insofferente di ogni costrizione. E per non piegarsi a compromessi nella ricerca di altri collaboratori, preferì comprimere i suoi impulsi di autore e prese parte ad un concorso per impiegato di ruolo nella stessa amministrazione delle Poste. Risultò uno dei primi e fu destinato alla Direzione Provinciale di Bergamo.

Si era fra il 1906 e il 1907. Napoli, per la gente del Nord, era, in quell’epoca, un miraggio lontano e quasi irraggiungibile, fatto di sole, di musica e di mare. Il giovane napoletano sembrò un ambasciatore di questo reame di sogno e venne circondato dalla più grande simpatia. Conobbe lo scrittore F. A. Tasca, direttore del « Giornale di Bergamo », e, poiché a Bergamo non si facevano canzoni, il Tasca chiese a Gaeta una novella da pubblicare sul giornale. Gaeta gliela scrisse. Aveva per titolo Concettino e fu compensato — caso raro per un giornale e per l’epoca — con cinquanta lire.

Attraverso l’ambiente giornalistico, strinse relazione con un altro scrittore, Alessandro Sacheri, redattore capo de « Il Lavoro » di Genova, dove collaborò con lo pseudonimo di Ermes. E fu appunto a seguito di queste sue conoscenze che nacque lo pseudonimo definitivo di E. A. Mario (dove c’è l'E di Ermes, l'A del nome di Sacheri e il Mario maschile del nome di una certa Maria, collaboratrice del giornale e non meglio identificata).

Dopo poco fu trasferito a Napoli. Ritornò nella sua città quando contava quasi trent’anni, ricco soltanto di esperienze e di uno pseudonimo, che doveva presto diventare una ditta popolare e famosa.

A Napoli, certe canzoni in boccio lo attendevano, impazienti di vivere e di spiccare il volo. Giovanni non chiese la collaborazione di nessuno. Aveva in sé quanto occorreva. Acquistò un manualetto dal titolo « Musica senza maestro » e con l’aiuto di quel mandolino che non aveva giammai abbandonato e la partecipazione discreta e modesta di un pianoforte, musicò dei versi che aveva già composti e che teneva in serbo. Firmò il tutto E. A. Mario e si presentò tutto solo alla ribalta dei teatri e al giudizio del pubblico.

Era il 1910 e fu quello l’anno della sua piena incontrastata affermazione. Seguirono, una dietro l’altra, tre bellissime canzoni: Comme se canta a Napule, Maggio si’ tu e Funtana all’ombra. Sembrarono tre folate di vento fresco e nuovo, in cui la melodia tenera e malinconica si fondeva con un certo ritmo fatto di allegria e di spensieratezza. Così il richiamo tenero di « Maggio si’ tu ...» e la nostalgia e la malizia di :

'Sta funtanella
ca mena ’a tantu tiempo l’acqua chiara
ha fatto ’a cchiù ’e nu secolo ’a cummara...

Il suo nome divenne famoso. Dal 1910 al 1913 fu un susseguirsi di successi. L’ultimo di questo periodo fu quello di una delle più belle canzoni di Napoli: Io, na chitarra e ’a luna:

Vattenne, core mio,
vattenne sulo pe’ vie sulagne...
Canto pe’ me
Canto pe’ me
Senza penzà a nisciuno...
Io, na chitarra e ’a luna!

La Casa Editrice tedesca Poliphon, che cercò in quel periodo di riunire in un trust tutti gli autori napoletani, invitò anche E. A. Mario di fame parte. Egli, com’era nel suo costume e nel suo carattere, sdegnosamente si rifiutò, creando intomo a sè un’atmosfera d’incomprensione e di ostilità.

Le polemiche che si accesero e divamparono violente furono spazzate via da un incendio più vasto e totale, quello della prima guerra mondiale. Il funzionario delle Poste, Gaeta signor Giovanni, fu destinato al servizio della corrispondenza sulle tradotte militari che raggiungevano le prime linee. Sicché anch’egli fece la guerra, in un cameratismo sempre più intimo e crescente con le truppe in grigio-verde. Visse con i soldati tutte le fasi dell’immane battaglia, dall’avanzata sanguinosa dei primi tempi fino ai giorni tristi e oscuri di Caporetto. Poi venne il Piave e l’invasione si arrestò. Si giunse al giugno del 1918 e la ripresa italiana, con l’offensiva vittoriosa di quel mese, apparve netta e definitiva. E nella notte del 29 di quello stesso mese, nell’angoletto deli'ambulante postale di un treno militare, reduce dai campi della battaglia già vinta, l’impiegato Gaeta, ritornato per qualche ora E. A. Mario, scrisse i versi e abbozzò le note di una canzone.

Fu quella la canzone che si chiamò « La leggenda del Piave ».

In qualunque altro paese del mondo, un autore, un artista siffatto sarebbe diventato un mito ed avrebbe potuto vivere per tutto il resto della sua vita senza più confondersi nella folla di ogni giorno. Ma E. A. Mario tornò a quel Varietà dal quale era venuto fuori. E, nel primo dopoguerra, lanciò Vipera, Rose rosse e Santa Lucia luntana, che fu l’inno della sua città.

I tempi che seguirono furono tempi pesanti per lui. Scrisse, discusse, polemizzò. Dissero che aveva un brutto carattere, ma forse non era vero, piuttosto egli era un uomo di carattere. Pieno di fierezza, non conosceva nè ammetteva i compromessi. Amava dire la verità sempre, anche se questa verità gli procacciava dei nemici, e a volte, nemici pericolosi.

Nel secondo dopoguerra, quando il Varietà era già morto da un pezzo, scrisse ancora qualche bella canzone, ma l’epoca era mutata e si viveva in un altro mondo. Si riempì allora, di amarezza e si rinchiuse in una solitudine sdegnosa

E quando la città di Belluno gli conferì la cittadinanza onoraria e incise sui pilastri di un nuovo ponte sul fiume sacro due versi della sua Leggenda, egli disse : « E’ il mio premio Nobel! ».

Non fu mai ricco. Le esecuzioni della Leggenda del Piave, che assommano a milioni, non gli hanno mai procurato incassi di sorta, poiché la canzone, essendo considerata — e a torto — un inno ufficiale, le esecuzioni non venivano segnate sui bollettini della Società degli Autori e perciò non producevano introiti.

II 24 giugno del 1961, dopo una lunga agonia spirituale, più straziante di quella fisica, il vecchio Giovanni Gaeta si spense.

A ricordarlo rimase soltanto una bianca lapide di pietra, murata ai piedi delle scale del Borgo Marinaro a Santa Lucia. Su di essa c’è un pentagramma e sulle note si legge:

Santa Lucia tu tiene
sulo nu poco ’e mare,
ma cchiù luntana staie
cchiù bella pare!. ..

Quella lapide non ricorda soltanto un uomo e una canzone, ma cinquant’anni di uomini e di canzoni a cavallo del secolo, la vita stessa di una città, l’immagine di un’epoca civile, sorridente e cortese.

Mario Mangini


Galleria fotografica e stampa dell'epoca

1927 12 15 Cafe Chantant E A Mario intro

...di napoletanità, di sentimento e di grazia infinita: solo così possiamo sintetizzare la multiforme vulcanica attività dell' illustre autore dei canti della Patria ; del poeta fecondissimo e del musicista geniale di un canzoniere che in tutti gli angoli del mondo solleva echi di nostalgia e diffonde amore alla terra lontana.

E. A. Mario, coerente, anche come editore, alla sua missione di Ambasciatore della canzone, ha da qualche mese, impiantato una succursale a Milano della sua fiorente Casa Editrice, in una sede degna, Piazza Duomo 23, ove convengono personalità ufficiali e artisti, desiderosi di ritrovare Napoli a Milano.

Le nuove illustrazioni già raffigurano la ben nota silhouette di E. A. Mario che appoggiando il piede sinistro solidamente al Vesuvio, allunga la gamba destra sulla Madonnina. E' un passo ampio: ma non certo superiore alle qualità dinamiche del geniale amico nostro.

«Cafè Chantant», 15 dicembre 1927


1928 09 20 Il Mezzogiorno EA Mario intro

«Il Mezzogiorno», 20 settembre 1928


1930 05 15 Varieta E A Mario intro

Si diceva da un pezzo che E. A. Mario, il quale ci aveva abituati a vederlo con un piede sul Vesuvio e l’altro sul Duomo di Milano avesse definitivamente optato per Milano come usavano ai tempi prefascisti i deputati eletti ai due collegi. Egli, invece è ancora... con le gambe aperte; e il « piè fermo » come quello che è il più basso, e cioè il retrostante, è sempre quello che sta sul Vesuvio : con questa differenza, che il tacco, invece di puntellarsi in Via Vittorio Emanuele Orlando, si puntella in Via Roma...

— Niente vagoni ferroviarii « uso Fregoli », dunque ? — abbiamo domandato al poeta di «Santa Lucia luntana».

E, l’autore della « Leggenda del Piave » ci ha risposto sorridendo :

— Pei mobili di casa, si; ma per i « fondi di magazzino » pel pianoforte e per il poco mobilio della sede Partenopea sono stati sufficientissimi i consueti facchini del 4 Maggio partenopeo, senza incomodare quelli del S. Michele di Milano e senza furgoni: son bastate le primitive carrettelle con i modestissimi cavalli nostrani.

— Come prima, dunque ?

— Meglio di prima ! Ridotta alle propor-
zioni di Sede secondaria, quella di Napoli agghindata, s’è snellita, s’è ringiovanita : il giovine Maestro Sylvan Navarro vi dà convegno alle « stelle * ed ai « divi » nell’annessa scuola di canto, e il non meno giovine poeta Ciro Grasso cura la parte amministrativa nei riguardi dei copisti e dei rivenditori al minuto della musica stampata ancora a Napoli.

— E a Milano ?

— Non avete ricevute le diverse circolari ? A Milano pontifica Raffaele Stocchetti, il maestro napoletano più popolare tra i molti maestri che convengono alia capitale morale d’ Italia, cosi come una volta vi conveniva il patriziolo lombardo da tutte le provincie limitrofe. Gli è che tutte le attività italiane son da reputarsi limitrofe in quella città che, per ragioni geografiche è vero, ma non soltanto geografiche, è l’indispensabile sbocco delle dette attività.

— E a Milano, che cosa farete ?

— Sopratutto il Napoletano, con la speranza di meritare ancora la maiuscola: il Napoletano, non in senso di oppositore, ma di apportatore. Io son lieto di avere in Raffaele Stocchetti un cooperatore prefisso e instancabile. E, permettetemi di essere un po’ riservato sui mio programma, anzi, sai nostro programma...

Dopo di che, non ci rimaneva che fare i nostri augurii al Cantore di Napoli che per essere anche il Cantore della Patria, non poteva macchiarsi di defezione ora, trasportando i suoi cari a Milano; egli non trascura, difatti, la città che maggiormente ama, pur se non è stato sempre ripagato dello stesso amore.

A. Chimenti, «Varietà», 15 maggio 1930


1931 06 15 Varieta E A Mario intro

Nella storia della canzone napoletana il nome del popolare poeta di «Santa Lucia luntana» rappresenta il simbolo della genialità a getto continuo. Con E. A. Mario la natura volle scapricciarsi creando qualcosa in più dell’essere comune, del solo uomo che spingendo innanzi a sè il plaustro della vita, compie il suo ciclo mortale e passa nella notte eterna senza lasciare traccia del cammino percorso.

L’ arte poetica e musicale di questo principe della canzone non ha oscillazioni, essa ritrova le vie del cuore con svolazzi giocondi e vigorose pennellate di passione che danno brividi come gli atti unici del Gran Guignol, con tumulti di voli lirici, vestiti di sensazioni gradite, che esaltano, che invitano a sognare e che irrompendo nel nostro spirito ageminate di grazia e dolcezza predispongono a riconciliarci con la vita.

Nella fucina cerebrale di E. A. Mario forgiatisi canzoni scintillanti di giovinezza, che oltre i chiaroscuri di questo cielo palpitante di orifiamme, hanno la tersura del nostro orizzonte senza corrucci, sul cui estremo limite fumiga l’ irrequieto Vesuvio e canta l'azzurro il mistero della divina creazione, gridi dell’ anima che soffre, che ama, che gioisce ed impera sovrana su le forze immani della natura.

Poeta e compositore gigante, mai tradito dalla propria lira, cantatrice d’ armonie di alta levatura, canzoniere stilizzato che non si può nè copiare nè imitare, estro canoro i cui giuochi sul pentagramma vibrano di risvegli inquieti e geniali da permettergli
vaste fioriture di canti sempre nuovi, spassosi, languidi, coloriti da motivi così originali che bevuti a larghi sorsi dai cuore, sono capaci d’immergere lo spirito in lungo sogno crivellato d’amore e felicità.

E. A. Mario ha dato a questa Napoli tutto il fasto della sua vivida intelligenza, cantandone ogni recondita bellezza, esaltando in versi ed in musica il favoloso folklore del popolo partenopeo e trasfigurando la propria musa allorché il nemico tentava di-struggerci la patria, dava all’ Italia esempio di fede intonando il celebre de profundis alla baldanza straniera, affacciata per un attimo alle sponde dell’italianissimo fiume. Lampi dei genio !

Roger de l'isle scrivendo in una notte satura di patriottismo la sua «Marsigliese» riuscì ad infiammare il cuore della Francia, risvegliandone il sentimento della libertà, E. A. Mario con la «Leggenda del Piave * disse al soldato italiano che il contaminato fiume era la patria e quindi sacro come i pani biblici del mistico Gesù.

Se il cantore della spirituale «Santa Lucia luntana» avesse chiusa la sua giornata letteraria con la leggenda che lo tramanderà ai posteri, Napoli avrebbe avuto abbastanza per annoverarlo fra i suoi più fulgidi figli, quel canto, nacque e segnò l’apoteòsi dell’artista, esso fu il capolavoro che lo consacrava cittadino illustre, l’attestazione della incrollabile fede nei fratelli combattenti, il monolito alzato là per avvertire l'aquila bicipite che il servaggio per gl’italiani non sarebbe tornato mai più.

E Mario canta ancora, per la gioia delle nostre folle, per coloro che al di là dei mari chiedono la canzone quale velabro di propaganda nazionale, per il bisogno del proprio cuore, per la facilità" con cui crea tanti piccoli gioielli lirici che formano intorno al loro autore quel cerchio di magia consentito ai canzonieri di razza, ai poeti che a sua simiglianza s’innalzano semplici ed originali, senza timori di naufragi, sostenuti da un ingegno potente come una forza teorica.

A Adriano Tilgher che nel suo ultimo libro «La poesia dialettale napoletana 1830- 1930» pubblicato in Roma dalla Libreria di Scienze e Lettere, canta il de profundis alla poesia napoletana e domanda quali sono i poeti che oggi possono cantare ancora come l* autore di «Marechiaro» noi rispondiamo ; eccone uno, E. A. Mario.

Dalla corba di questo «Profilo» emerge un latinismo :

«Tanto nomini nullum par elogium».

Alfredo Chimenti, «Varietà», 15 giugno 1931


1961 07 02 Epoca E A Mario intro

A settantasette anni E. A. Mario componeva ancora con entusiasmo: era celebre ma povero

«C’è ancora qualcuno che si ricorda di me? E a che scopo? Io sono un superato. Ma se volete onorarmi, venite, la mia casa è aperta agli amici!» La voce era flebile e stizzosa, al telefono. E quando bussai alla porta della casa di E. A. Mario, al numero 30 del viale Elena, a Napoli, l’autore de La leggenda del Piave mi sbirciò socchiudendo gli occhi. Era di media statura, rinsecchito, le spalle curve, una coppola in testa e la mano sinistra infilata nella tasca della giacca, allo stile dei posteggiatori. Mi precedette col suo passo strascicato nel salotto. Il pianoforte troneggiava in un angolo accanto alla finestra. Il leggio era aperto e su un foglio bianco erano segnati alcuni appunti.

«Ho avuto una brutta scoppola», disse, «e non mi sono ancora rimesso. Perciò vi chiedo scusa se tengo il cappello in testa. Uno di questi giorni me ne vado», disse proprio così, “me ne vado”, «ma resterà qualche mia canzone. È già qualcosa, non vi pare?»

Di canzoni ne ha scritte circa duemila, in dialetto e in lingua. Neppure lui ricordava più i titoli delle sue canzoni, ma se qualcuno improvviso, lui continuava fino all'ultima strofe. E gli occhi sprizzavano un focherello di malizia con il quale sembrava dire: “Gli anni non mi hanno incretinito: dite la verità, credevate di incontrarvi con una mummia?".

Aveva settantasette anni, ma se non fosse stato per quella scoppola - chè, tradotta in lingua, significava scompenso cardiaco e arteriosclerosi - non avrebbe dimostrato la sua età. Suo padre, Michele Gaeta, di professione barbiere, abitava in vicolo Tuttisanti, alla Vicaria quando, il 5 maggio 1884, nacque Giovanni. La madre, Maria della Monica, lo baciò in fronte e gli mormorò: «Auguri». Si attendevano, chissà poi perché, grandi cose da lui. frequentò le elementari e compì le tecniche inferiori: il padre, orgoglioso di tanti studi, gli propose: «Scegliti una professione, se non vuoi fare il barbiere come me!».

Il ragazzetto proclamò : «Voglio fare il capitano di marina». E. A. Mario (pseudonimo di Giovanni Gaeta) sorrise: «Finii impiegato alla succursale postale n. 10 di piazza Ferrovia. E, naturalmente, cominciai a scrivere versi».

Ai primi del Novecento erano gli anni d’oro della canzone: cantavano le sartine, le modiste, le impiegate. Gli abati, i professori, i nobili scrivevano canzoni. Nei salotti le belle donne deliravano per le musiche di Francesco Paolo Tosti, Mario Costa, Eduardo Di Ca-pua, Enrico De Leva: erano distinti signori col colletto duro, la cravatta a farfalla, il bastoncino col pomo d’avorio, avevano tutti e quattro baffoni da ufficiali della guardia. Nei loro occhi è un velo di malinconia: danno le ali alle parole. I poeti portano la paglietta: ce l’hanno Ferdinando Russo, Libero Bovio e Salvatore Di Giacomo. Giovanni Gaeta è affascinato da questo mondo: la musica è nell’aria come un merletto. Si compone anche per scommessa.

Un giorno del 1904 Raffaello Segrè, uno dei più noti musicisti del tempo, spedisce un vaglia allo sportello dell’impiegato Giovanni Gaeta. Il giovane arrossisce, vuol parlare, non osa, poi sbotta : «Maestro, le vostre musiche sono belle, ma le parole sono una fetenzia». Segrè lo guarda incuriosito: «E tu sapresti scriverne di più belle?». «Altroché», dice Gaeta. Toma a casa, si chiude in camera per comporre, ma non può raccogliersi perché la madre strilla a una ennesima richiesta del fratello che dal fronte chiede l’invio di un vaglia. È la cronaca triste e amara di tutti i giorni, ma in quell’episodio il giovane compositore trova la sua prima ispirazione e stende, in un’ora, Cara mammà. Segrè la legge, l’approva, la musica.

1961 07 02 Epoca E A Mario f1

I primi successi non gli danno alla testa. Un amico gli aveva proposto di abbandonare l’impiego e di darsi all’arte. «Se l’avessi fatto», disse poi E. A. Mario, «non avrei neppure queste quattro mura che mi assicurano una vecchiaia tranquilla.»

Non era ricco, non aveva mai vissuto nella prosperità. Gli editori pagavano poche lire una canzone, Bideri tartassava i giovani autori. Per poter comporre a getto continuo, E. A. Mario si era fatto fabbricare dal De Santo, uno dei migliori artigiani di Napoli, un mandolino tascabile e ne pizzicava le corde a casa, in ufficio, dovunque gli venisse il barlume di un’idea. Nel 1912 la sua Maggio sì tu! è canticchiata da tutta la città, varca i confini. Giovanni Gaeta si è fatto conoscere con lo pseudonimo di E. A. Mario. La prima lettera è l’iniziale del nome Ermete, lo pseudonimo con il quale firma le corrispondenze al Lavoro di Genova, la seconda lettera è l’iniziale di Alessandro Sacheri, direttore di quel giornale, e Mario è l’adattamento del nome di un’amica, la polacca Marie Clinarovitz.

«È tutto un po’ strambo, lo so, ma io ero giovane, allora», commentò quando andai a trovarlo. Poi mi chiese: «Volete ascoltare qualche mia canzone?». Non volevo affaticarlo, ma egli si alzò in piedi e chiamò la figlia

Il concertino, casalingo e un po’ malinconico, Iniziò con La leggenda del Piave. La voce era intonata come una corda di mandolino, e accennava ai passaggi accompagnandosi col gesto della mano. I tasti battevano marziali. Appena ripreso respiro, E. A. Mario, con quella sua vocina che sembrava tutto un filo di zucchero, sbottò: «Hanno scritto che ho composto questa canzone in un angolo di un café-chantant. Invece l'ho scritta dietro le retrovie. Nel '18 ero stato trasferito all'ufficio postale di Bergamo e avevo frequenti contatti con le truppe. Lo spunto mi fu dato da questo. I giornali d’oltralpe pubblicarono che contro l’Austria e la Germania si sarebbero schierati, oltre ai mafiosi della Sicilia e ai briganti della Calabria, anche i mandolinisti di Napoli. Io mi sentii chiamato personalmente in causa e immediatamente scrissi la mia prima canzone di guerra, Serenata all’Imperatore, nella quale immaginai che tutti i prufessure e cantante di Napoli dicessero a Checco Beppe: Maestà, venimmo a Vienna - venimmo cu’ chitarre e mandatine. E come potevo essere assente al Piave? La scrissi di notte, parole e musica, e ci misi tutto il cuore».

Dopo due giorni, quella canzone risuonava al fronte, sui palcoscenici, per le strade. Al ministero della Guerra, soddisfatti dell’effetto psicologico suscitato dalla canzone, decisero di offrire a E. A. Mario la croce di cavaliere. Ma lui non volle saperne.

«Un commissario di P.S.», mi disse, «mi avvicinò per informarsi se avrei gradito il dono di un orologio: me lo voleva dare il re. L’orologio ce l’ho già, risposi, e se lo sostituisco con quello del re non potrò mai venderlo. L’orologio rappresentava per me una riserva: come avrei potuto vendere o impegnare l’orologio del re?»

Nel 1922 Vittorio Emanuele volle conoscerlo e, alla fine dell'udienza, gli porse un pacchetto. La moglie Adele lo attendeva in strada. E. A. Mario le disse: «Il re ha voluto darmi l’orologio». Sciolse fi pacchetto, ma invece dell’orologio trovò una commenda.

«Sì, sono commendatore, un commendatore squattrinato.» Intonò un’altra canzone: Santa Lucia luntana. Migliaia di emigranti meridionali s’imbarcavano, dopo la guerra. per l’America. Avevano una valigia di legno con la biancheria e un fazzoletto di lacrime. E. A. Mario li accompagnò con una nostalgia sminuzzolata da mille violini. E nel 1922 salpò anche lui per la sua prima tournée: ebbe applausi, baci, abbracci, ma riscosse pochi quattrini. Sul palcoscenico del salone Margherita trionfavano le sue canzoni in lingua: Vipera, Balocchi e profumi. Gli applausi scrosciavano quando appariva Elvira Donnarumma, con le piume infilate nei capelli, drappeggiandosi nella seta come un'étoile. La Donnarumma e Gennaro Pasquariello furono i suoi cantanti preferiti.

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«Ma che spilorcio, pace alla buon'anima», diceva di Pasquariello. E mi raccontò un episodio. Pasquariello era andato alla casa musicale di E. A. Mario per fornirsi di spartiti. L'autore-editore, che non navigava in buone acque, aveva dato ordine che gli spartiti dovevano essere pagati. «Ma io sono Pasquariello!», gridò il cantante. «E anche Pasquariello paga», replicò E. A. Mario. Pasquariello estrasse cinque lire e gliele porse con disprezzo. Ma E. A. Mario non si scompose.

Chiamò un mendicante e gli regalò la moneta. Si rappacificarono dopo alcuni anni, ma Pasquariello rimpiangeva ancora quelle cinque lire. Morì quasi in miseria.

«Erano altri tempi», sospirava E. A. Mario. «Non riscuotevamo diritti d’autori a palate, come fanno oggi i giovani compositori. Non c'erano tante case discografiche, la televisione, i juke-boxes. Le canzoni si affermavano perché erano belle, ma gli autori tiravano avanti stentatamente. Vede, se io non avessi la pensione dello Stato, di che vivrei?»

Era stanco, il lungo sfogo l’aveva affaticato. Si allontanò dal piano e si sedette. La figlia Bruna gli portò un fascicolo stampato. C'erano le sue più recenti canzoni. Una di queste, L’urdemo curtile, l’avrebbe ascoltata alla radio la sera del 24 giugno 1961, giorno del suo onomastico, San Giovanni. Ma dal mattino non si era alzato dal letto. Gli amici si erano riuniti per festeggiarlo in casa. C’erano le sue tre figlie, Bruna, Delia, Italia. Faceva un gran caldo. E. A. Mario aveva il respiro debole. La figlia Delia, seduta al suo capezzale, gli chiese: * Papà, come ti senti?». E. A. Mario le prese una mano tra le sue mani scarne, ricoperte di vene, e le bisbigliò in un soffio: «Sto morendo». Non riuscì a pronunziare altro e reclinò il capo sul cuscino.

Aldo Falivena, «Epoca», anno XII, n.561, 2 luglio 1961


Dai periodici specializzati Café-Chantant e Varietà (1910-1930)

Mazzini

Agli inizi della carriera, era solito firmare i suoi lavori con il suo vero nome, Giovanni Gaeta. Nutriva in quel periodo, una grande ammirazione per il Carducci e per Mazzini, ai quali spesso dedicava i suoi versi.

Una delle sue prime composizioni in lingua, nel 1905, fu proprio la Canzone a Mazzini, con prefazione della poetessa veneta Vittoria Aganoor Pompilj, un poemetto di 999 novenari, che gli procurò anche un “amichevole richiamo” da Mario Rapisardi, appassionato mazziniano.

Ciò però non lo distolse dal desiderio di portare la prima copia del suo lavoro direttamente sulla tomba di Mazzini a Staglieno, in segno di grande ammirazione.

Il 9 febbraio 1916 fu iniziato in Massoneria nella Loggia Unione e Lavoro di Napoli[6].

Un aneddoto narra di quando, nel 1922, venne convocato al Quirinale dal re Vittorio Emanuele III, in occasione dell'inaugurazione del Vittoriano, e non seppe trattenersi dal professare apertamente in faccia al sovrano la sua fede repubblicana e mazziniana. Il re, che evidentemente quel giorno era di buon umore, gli rispose: «Vi sono parecchi repubblicani che, come lei, hanno reso grandi servigi alla monarchia!», e lo nominò commendatore[7].

Una vena inesauribile

Nell'attività di poeta e compositore esplose tutta la carica vulcanica della sua viscerale napoletanità. In tutta la sua lunga carriera scrisse oltre duemila canzoni, musicandone anche una parte.

La versatilità del suo genio artistico lo portava a toccare, con eguale abilità, tutte le varie sfaccettature di quel prisma luminoso che è l'arte letteraria: saggi storici, novelle, poesie, canzoni.

La sua passione per le poesie e la sua vena ricca e inesauribile — oltre che di grandissimo spessore e qualità, finezza e originalità — lo portarono ad essere, nella storia della letteratura partenopea, uno degli autori più produttivi e fecondi; un gigante e un punto di riferimento, diventato con il tempo un vero monumento artistico.

Le incisioni famose

Incisioni famose di sue canzoni sono, le interpretazioni di Santa Lucia luntana di Enrico Caruso, Beniamino Gigli, Franco Ricci, Gilda Mignonette, Francesco Albanese, registrate su dischi a 78 giri.

In seguito molte delle sue canzoni più famose vennero registrate ed interpretate dai più grandi tenori di tutti i tempi, quali, tra gli altri, Giuseppe Di Stefano, Mario Del Monaco, José Carreras, Plácido Domingo, fino a Luciano Pavarotti.

Le sue canzoni hanno fatto parte del repertorio dei maggiori cantanti napoletani di varie generazioni, da Massimo Ranieri a Mario Merola, da Peppino di Capri a Roberto Murolo, Mario Abbate, Sergio Bruni, Bruno Venturini e tanti altri ancora.

Tammurriata nera

La famosa canzone Tammurriata nera, della quale E. A. Mario compose la musica, nacque da una circostanza assai curiosa avvenuta nel 1944. Edoardo Nicolardi, amico di E. A. Mario, nonché dirigente amministrativo del famoso ospedale napoletano Loreto Mare, un giorno vide un particolare trambusto nel reparto maternità. Ciò che suscitò tanta meraviglia fu una ragazza napoletana che aveva partorito un bambino di colore. Il caso però non rimase isolato, vi furono altre ragazze che partorirono bambini frutto di relazioni con soldati afro-americani.

Quando la sera i due amici si ritrovarono a casa di E. A. Mario (i due, oltre che essere amici e colleghi, stavano per diventare anche consuoceri, poiché Italia, terza figlia di E. A. Mario, doveva di lì a poco sposare Ottavio, figlio del Nicolardi), si resero subito conto della svolta epocale che quel fatto rappresentava ed E. A. Mario esclamò commosso: "È 'na mamma curaggiosa! È 'na mamma chiena 'e core! Edua', facimmo 'sta canzone!". E fu così che sull'onda della commozione, con spirito partenopeo, sull'immediatezza dei versi del Nicolardi, dettati di getto, e l'istintiva melodia di E. A. Mario, nacque quella canzone diventata poi famosa.

La Commenda della Corona

Nel 1922, il re Vittorio Emanuele espresse il desiderio di conoscerlo, avendo avuto modo di ascoltare per la prima volta La leggenda del Piave, in occasione dell'arrivo al Vittoriano, a Roma, della salma del Milite Ignoto.

E fu in quella occasione che il Re, entusiasta, chiese chi fosse l'autore e lo convocò al Quirinale.

Saputo che l'autore era un impiegato delle Regie Poste Italiane, diede l'incarico al ministro delle Poste Giuffrida, che con orgoglioso interessamento lo fece cercare. Il poeta si presentò al Quirinale, al cospetto del Re che gli conferì personalmente l'onorificenza insignendolo della Commenda della Corona, assieme alla sua ammirazione e a parole di lode.

Quando per strada incontrava dei soldati, questi gli facevano il saluto militare.

A Santa Croce del Montello, il carillon del campanile, suona ancora oggi, ad ogni mezzogiorno, le note de La leggenda del Piave.

La fine

L'ultima sua abitazione, in affitto, fu in viale Elena, oggi viale Antonio Gramsci, dove poi morì. A ricordarlo vi è affissa una lapide. La moglie morì pochi mesi prima di lui. Le figlie, giacché il poeta era molto malato, per non dargli un ulteriore dispiacere, gli nascosero la morte della moglie, conoscendo il suo profondo affetto per lei e lo trasferirono al piano inferiore, nell'abitazione dell'altra figlia. Inizialmente non riusciva a comprendere perché non potesse vedere la moglie ma, dopo pochi giorni, capì e disse: «Adelina è finita, è vero?». Da quel momento, smise di parlare e incominciò a lasciarsi morire piano piano.

Si spense il 24 giugno 1961, giorno del suo onomastico. Aveva settantasette anni.

Un'altra targa che ricorda uno dei suoi più grandi successi mondiali, oltre che l'emigrazione di tanti napoletani, è quella fatta apporre sopra la scaletta del Borgo Marinari, sulla quale sono incisi solo i primi due versi di “Santa Lucia luntana”.

In molte città italiane esistono oggi, strade, piazze e scuole che ricordano il poeta E.A. Mario.

Le sue canzoni, specie quelle napoletane, sono divenute famose e hanno dato un notevole contributo alla diffusione della musica partenopea in tutto il mondo.

Le sue opere

Circa 2.000 canzoni

Raccolte di poesie e poemetti

Acqua chiara (Prima raccolta di poesie) (1908 – 1918) Illustrazioni di E.A. Macchia. Edizioni Matelda.
Cerase (Sonetti) Edizioni Remo Sandron.
Vangelo (Poesie) Edizioni Albrighi-Segati & C.
Il libro grigioverde' (Raccolta di canzoni di trincea). Edizioni E.A. Mario Napoli.
Parentali (Poema storico musicale in due atti). Edizioni E.A. Mario. Napoli.
'E rrose (Attounico dialettale) Illustrazioni P. Scoppetta e G. Spagnolo. Editrice Bideri. Napoli
Albero piccerillo (Raccolta di poesie). E. Chiurazzi Editore. Napoli 1930.
Funtane e funtanelle (Pubblicato postumo). Morano Editore.
'A storia d' 'o core. Istituto Grafico Editoriale Italiano.
All'insegna della Sirena (doppia edizione) Edizioni Chiurazzi 1930. Istituto Grafico Editoriale Italiano.
Cunfiette (Poemetto autobiografico). Edizioni Matelda.
Cunfessione (Poemetto con prefazione di A. Costagliola). Editrice Matelda.
'A Morte (Poemetto con illustr. Di Amos Scorzon). Editrice Matelda.
Mamme (Quattro episodi – Quattro atti dialettali). Illustr. di E.A. Macchia. Editrice Matelda.
'O Quarantotto (Poemetto).
Il fu Pulcinelle
'O libro d' 'e canzone


Note

  1. ^ Salta a:a b Com'è nata la “Leggenda del Piave”, ilpost.it, 24 maggio 2015. URL consultato il 25 maggio 2015.
  2. ^ Bruna Catalano Gaeta (1989) E.A. Mario: Leggenda E Storia, pag.57. Liguori Editore s.r.l.
  3. ^ E il ministro lodò il campano Giovanni Gaeta, Corriere della Sera, 22 luglio 2008. URL consultato il 1º ottobre 2009 (archiviato dall'url originale il 26 settembre 2015).
  4. ^ La Leggenda del Piave inno d'Italia dal 1943 al 1946 Archiviato il 9 novembre 2014 in Internet Archive..
  5. ^ Vedi l'articolo on-line de la Repubblica.
  6. ^ Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, 2005, p. 110.
  7. ^ Piave. Cronache di un fiume sacro, di Alessandro Marzio Magno, ed. Il Saggiatore, 2010, pag. 18

Riferimenti e bibliografie:

  • Ettore De Mura, Enciclopedia della canzone napoletana, Napoli, Il Torchio, 1969
  • Ettore De Mura, Poeti napoletani dal Seicento ad oggi, Napoli, Marotta Editore, 1977.
  • Libro di Famiglia N° B1, Biblioteca Nazionale di Napoli, Deposito: Lucchesi-Palli.
  • Max Vajro, E. A. Mario, a cura del comitato per le celebrazioni del centenario della nascita di E.A. Mario, promosso dal Ministero delle Poste e Telecomunicazioni. 1984.
  • Bruna Catalano Gaeta, E. A. Mario (Leggenda e Storia) di, Napoli, Liguori Editore, 1989.
  • Salvatore Palomba, La Canzone Napoletana, Napoli, L'ancora del Mediterraneo, 2001.
  • Ottavio Nicolardi, Funtane e funtanelle – E.A. Mario, Napoli, Morano Editore, 1984.
  • Maurizio Becker, La canzone napoletana, Firenze, Octavo Edizioni, 1999.
  • Aldo De Gioia, Frammenti di Napoli, Napoli, RCE Edizioni s.r.l., 2000.
  • Giovanni Capurro, Carduccianelle, Istituto Grafico Editoriale Italiano.
  • Celebri canzoni napoletane ed italiane di E.A. Mario, Napoli, Edizioni Bideri, 1984.
  • Vittorio Paliotti, Storia della canzone napoletana, Roma, Newton & Compton, 2004.
  • "Il Cafè-Chantant", (Mario Mangini), Ed. Ludovico Greco, Napoli 1967
  • E. A. Mario, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana
  • (EN) E. A. Mario, su Open Library, Internet Archive
  • E. A. Mario, su Discografia nazionale della canzone italiana, Istituto centrale per i beni sonori ed audiovisivi
  • (EN) E. A. Mario, su MusicBrainz, MetaBrainz Foundation
  • "Tempo di Maggio: Teatro popolare del '900 a Napoli" (Nino Masiello), Tullio Pironti Editore, Napoli, 1994