Zurlo Leopoldo

Leopoldo Zurlo bio 

Bisogna lasciare all’autore l’impressione della libertà, permettendogli di dire quanto non guasta o non peggiora l’animo dello spettatore.

Leopoldo Zurlo


Leopoldo Zurlo

(Campobasso, 3 dicembre 1875 – Roma, 17 novembre 1959) è stato un politico italiano. Fu a capo dell'Ufficio della censura fascista dal 1931 sino al 31 dicembre 1943

Biografia

Leopoldo Zurlo appartenne a una famiglia agiata dedita anche ad attività politiche: il nonno materno Leopoldo Cannavina era stato deputato nel Parlamento del Regno d'Italia dal 1861 al 1863, lo zio Vittorio Cannavina aveva ricoperto la carica di sottosegretario in un governo Giolitti.

Gli studi del giovane Zurlo si svolsero a Napoli negli ambienti culturali crociani. In questa città divenne amico di Carmine Senise futuro capo della polizia fascista: un rapporto questo anche di natura omosessuale secondo voci diffuse all'epoca, che si basavano sulla sua convivenza con Senise, sul suo ostinato celibato che non gli fu mai perdonato dal Duce che per questo motivo lo escluse dalla nomina a prefetto.[3] A 25 anni divenne funzionario nel Ministero dell'Interno, dove a 37 anni fu segretario particolare nel governo Giolitti, a 46 anni partecipò al governo Facta sino a quando, a 56 anni ricoprì la funzione di responsabile dell'Ufficio censura teatrale dove si distinse per tredici anni senza interruzioni attraversando tutta l'era fascista sino al 1943 quando si rifiutò di entrare a far parte della Repubblica di Salò. Dopo la fine della guerra e la caduta del fascismo Zurlo non fu sottoposto ad epurazione come ex-funzionario fascista e condusse appartato il resto della sua vita[4].

La censura "benevola"

C’era anche qualche brava persona, perché in Italia le brave persone si vanno a ficcare dappertutto, come se avessero il compito di generare confusione tra il bene e il male, ed evitare a qualunque associazione, milizia, ministero, un giudizio recisamente negativo.

Vitaliano Brancati, Ritorno alla censura


Fu il protagonista assoluto della censura teatrale fascista, prefetto del Regno, classe 1875, uomo di grande cultura classica, celibe. L’esatto contrario del fascista puro. Ma fu lui il censore che
dal varo della legge 599 del 6 gennaio 1931 si preoccupò di dare o non dare i necessari visti di approvazione. Un operato che, politicamente morbido, fu molto duro in chiave estetica.

Nel lungo arco di tempo dell'attività di Zurlo numerosi e noti personaggi dello spettacolo dai fratelli De Filippo a Totò, da Fellini a Vittorio De Sica, da Anton Giulio Bragaglia a Sem Benelli, da Tina Pica a Massimo Bontempelli, gli esordienti Italo Calvino e Michelangelo Antonioni, oltre che Indro Montanelli autore di commedie, ebbero a che fare con questo burocrate, ossequente alle disposizioni del regime ma nello stesso tempo convinto di una sua missione pedagogica che si esprimeva nelle note che accompagnavano i brani censurati non tanto perché offensivi della morale cattolica o del regime fascista ma perché egli vi constatava la violazione delle regole estetiche e poetiche di cui si considera maestro e insieme profeta di una nuova drammaturgia.[5]


Il Teatro è per adulti. La censura non può ispirare i suoi provvedimenti alla tema di offendere le caste orecchie puberi che si trovano nella sala. Custodire l’innocenza degli adolescenti o tutelarne la morale non sempre salda alla loro età è compito dei genitori non del censore teatrale.

Leopoldo Zurlo, 1940


Il «pagliaccio di Totò» contro il regime

Mussolini: Zurlo, ho davanti a me un mucchio d’intercettazioni, nonché «veline rosa» del Partito, le quali commentano in maniera esilarante delle battute di quel pagliaccio di Totò, in una rivista al Quattro Fontane. Poi sottolineano l’inopportunità delle battute stesse, che prendono inequivocabilmente in giro l’operato del massimo organo del regime, che quelle disposizioni ha emanato!

Zurlo: Duce, ho capito l’inopportunità delle battute stesse, ed ho sotto gli occhi l’originale del copione, al quale ho dato, personalmente, il visto, dopo averlo esaminato.

Mussolini: E allora?

Zurlo: Evidentemente si è esagerato...

Mussolini: Non ci sono dubbi sul riferimento!

Zurlo: Esatto, ma bisogna tener conto che un teatro di rivista non è certamente la direzione del PNF. La satira, quando è fatta con intelligenza e contenuta nei giusti limiti, non può e non deve considerarsi offensiva; e ciò proprio in base alle intelligenti e spregiudicate direttive impartitemi personalmente dall’E.V.

Mussolini (con evidente orgoglio): Questo è vero: sono stato proprio io a dirvi di essere, in un certo senso, di manica larga quindi...

Zurlo: Appunto, Duce. Io pensavo a quelle parole quando, dopo gli opportuni tagli, mi son deciso a concedere il visto. Poi vi assicuro che, se leggeste il copione, ridereste anche Voi...

Mussolini: Ma a Palazzo Littorio la pensano diversamente...

Zurlo: Le battute erano due, la prima diceva: «Se tornasse Galivoi...», «Galivoi?...», a cui Totò rispondeva: «Sì, il “lei” è abolito». L’altra riguardava il cambiamento della moneta rumena da lei in voi [...] (ridono)... e poi, non bisogna ignorare i commenti al provvedimento. Solo in tale maniera potevo dare la sensazione di non essere sempre con il fucile spianato.

Mussolini: E giusto.

Intercettazione telefonica tra Mussolini e Leopoldo Zurlo, capo Ufficio censura del regime.



Un funzionario dedito con orgoglio al suo impiego che assolveva con senso del dovere e sacrificio personale e che dichiarava di esaminare all'incirca 1500 testi all'anno riguardanti la produzione teatrale e radiofonica italiana, commedie, riviste,drammi, tragedie, libretti d'opera e d'operetta, canzoni, sketch pubblicitari, siparietti e scenette per l'avanspettacolo.

Con la disposizione d'animo del buon padre di famiglia Zurlo non si limitava a tagliare e sforbiciare copioni ma voleva anche convincere gli autori di doverlo fare nel loro stesso interesse incoraggiandoli, quasi come loro amico, a seguire una strada diversa, nascondendo il vero proposito che era quello di «lasciare all'autore l'impressione della libertà permettendogli di dire quanto non guasta o non peggiora l'animo dello spettatore. Divieti troppo brutali e generali si risolverebbero in mormorazioni contro il Governo.»[6]


Che Zurlo fosse veramente interessato, in nome del suo amore per il teatro, a consigliare più che a reprimere gli venne riconosciuto da alcuni autori che, per piaggeria o per convinzione, gli indirizzarono attestazioni di stima[7] Altri come Anton Giulio Bragaglia scelsero Zurlo come loro tutore rivolgendosi a lui prima ancora di mettere in scena i loro lavori.[8]


Leopoldo Zurlo (nato a Campobasso nel 1875 e morto a Roma nel 1959) era evidentemente uomo di larga cultura, sinceramente appassionato di teatro, preoccupato di non apparire troppo zelante agli occhi dei teatranti né eccessivamente morbido agli occhi dei fascisti più accesi. Ma era mosso principalmente da un’idea solidissima dello Stato che comunque andava difeso e tutelato; che fosse fascista o democratico poco importava. In più, con i fanatici del regime era già abbastanza in urto per il fatto di essere celibe e, con ogni probabilità, nascosta-mente omosessuale, quindi aveva poche, ulteriori licenze eccessive da consentirsi. Al tempo della nomina a censore teatrale, stava cercando di ottenere anticipatamente la pensione così da non correre ulteriori rischi. Quindi non nutriva alcuna ragione di esporsi troppo in prima persona a difesa di questo o quell’autore.

Molte notizie sulla sua attività di censore si desumono da un ampio libro autobiografico intitolato significativamente Memorie inutili e pubblicato da Zurlo nel 1952 nelle Edizioni dell’Ateneo. Si tratta di un libro a tratti divertente eppure sovente prolisso e capzioso: in ogni pagina il censore cerca di dimostrare quanto egli non fosse fascista. D’altro canto tutta l’Italia, non solo quella che aveva dato corpo e ragioni alla burocrazia del regime, si scoprì non fascista da un giorno all’altro. Sicché, chiusa l’ultima pagina del volume, si sarebbe tentati di credergli; ma poi le sue righe rosse, le sue battute modificate e i suoi scarni appunti sui copioni censurati impongono qualche dubbio in più.

Sta di fatto che Zurlo era un burocrate di formazione giolittiana, non aveva partecipato alla Marcia su Roma, non aderiva ai canoni ardenti e sciovinisti del fascismo. In Memorie inutili, dopo aver descritto sommariamente i suoi referenti culturali al momento della nomina, Zurlo appunta: «Se a tutto ciò si aggiunge che sono sempre stato per la libertà del pensiero; che senza riflettervi troppo ho sempre considerata la censura soprattutto uno strumento politico; che infine la mia temperatura fascista era già bassa prima del 28 ottobre ’22 quando cambiammo di felicità costituzionale, si può conchiudere che mi si offriva la bella prospettiva o di tradire il mio compito, cosa che in verità non avrei voluto, o sfidare i sarcasmi e le ironie degli autori. Il disprezzo del ridicolo sarà una incomparabile virtù civica, ma sentivo di non averne neppure l’ombra. Il bivio tutta via non mi sgomentò. Decisi di attenermi al mio solito sistema di studiare le difficoltà quando si fossero presentate e cercare di risolverle da onest'uomo. Per male che fosse andata avrei avuto la coscienza tranquilla».

Sono parole, dichiaratamente, a bassa temperatura fascista (sul frontespizio del libro compare un’affettuosa dedica a Giulio Andreotti, di fatto successore di Zurlo nella veste di censore teatrale dell’Italia di De Gasperi). E vale la pena ricordare che Zurlo fu comunque censore in prima persona: i copioni non venivano esaminati dalla commissione di esperti prevista in origine dalla legge, ma da lui solo, cui era demandata per intero le responsabilità del caso. Tutti i visti di approvazione, tutti i tagli e tutti gli appunti riportano solo ed esclusivamente la sua grafia e la sua firma. Perché Mussolini scelse un uomo del genere per un compito tanto delicato? La risposta non è semplice.

In via formale, la censura teatrale rimase appannaggio del ministero dell’Interno, ossia di Mussolini in prima persona, solo fino al gennaio 1935: dopo di quella data passò prima alle dipendenze di Galeazzo Ciano al ministero per la Stampa e propaganda poi, dal giugno 1936 in poi, di Dino Alfieri, Alessandro Pavolini e Gaetano Polverelli al ministero della Cultura popolare. Ma diciamo subito che la struttura della censura, benché fosse piuttosto scarna, prevedeva diversi passaggi operativi. Della funzione di Zurlo e dei suoi visti s’è detto. In più, su ogni questione controversa il censore, prima di prendere decisioni di sorta, chiedeva conforto (e lumi o copertura politica) più che al ministro da cui dipendeva, direttamente a Mussolini inviandogli i copioni più problematici con lunghi messaggi di spiegazione. Mussolini stesso, dunque, era colui che in ultima analisi prendeva le decisioni più difficili che pure apparivano pubblicamente come proprie di Zurlo. Inoltre, anche un testo munito di visto della censura poteva essere contestato e magari vietato al momento della prima rappresentazione o dopo una qualunque delle repliche, foss’anche l’ultima. Le Prefetture, infatti, oltre a dover vigilare sulla rispondenza tra copione e spettacolo, erano chiamate a interpretare comunque i sentimenti comuni degli spettatori. Ossia: in caso di contestazioni, proteste o addirittura denunce, la censura era chiamata in causa per la seconda volta. E, in queste circostanze, la soppressione delle scene ricusate da semplici spettatori o la cancellazione di spettacoli non apprezzati da questo o quel gerarca era certa.

Quindi il censore non lavorava senza rete, anzi: era politicamente coperto direttamente da Mussolini e - diciamo così - giuridicamente tutelato, in caso di intemperanze, dagli stessi facinorosi. Per questa ragione, insomma, il più indicato all’ufficio della censura era un funzionario solerte ma attento a mantenere rapporti cordiali con i teatranti. Infatti l’intenzione del regime era quella di uniformare l’educazione culturale degli italiani (cancellando molti profili dai loro orizzonti) ma non quella di bandire il teatro. Prima del grande boom del cinema, prima dell’esplosione popolare della radio, il teatro restava lo strumento di comunicazione e di educazione di massa più importante nell’Italia degli anni Venti (quelli in cui la legge sulla censura germinò): anzi, quando il teatro cominciò a perdere colpi in termini di mercato, Mussolini (che si dice fosse un appassionato) inventò il famoso sabato fascista (vale a dire la vacanza dagli impegni di lavoro e il conseguente invito ad assistere a manifestazioni culturali) che anche il rilancio popolare del teatro doveva comportare. Le cose non andarono come il regime sperava, ma alla fin fine gli attori restavano sempre assai amati e seguiti dal pubblico e dunque per nulla al mondo il fascismo avrebbe rinunciato al loro sostegno o almeno alla loro ‘simpatia’. Leopoldo Zurlo si presentava sia come un uomo di gusti raffinati, dalle scelte private eccentriche, sia come un grande conoscitore del repertorio classico; somigliava più ai teatranti che non ai fascisti dell’epoca: ecco perché fu scelto censore.

E, alla luce dei fatti, possiamo dire che si trattò di una scelta strategicamente perfetta, dal punto di vista del fascismo. Perché furono in realtà pochi i casi di reale, plateale intemperanza di teatranti al regime: per quel che concerne i comici, gli unici incidenti seri riguardarono l’attività del triestino Angelo Cecchelin, osteggiato, processato e incarcerato in quanto ritenuto oppositore di sinistra; e quella del vecchio capocomico Nuto Navarrini, fascista della prima ora, che, soprattutto nei mesi a cavallo fra la liberazione di Roma e la sconfitta della Repubblica sociale, fu ritenuto eccessivamente schierato a fianco dei nazisti e in seguito fu processato dalle autorità italo-americane subito dopo la Liberazione di Milano. Ma di questi casi ci occuperemo più diffusamente in seguito.

Per il momento si deve premettere che l’operato di Zurlo, ancorché politicamente morbido, fu durissimo in chiave estetica. Cioè: tutti i tentativi di espressione teatrale - segnatamente quella comica -in chiave troppo realista furono bocciati fermamente sul nascere. La censura, per esempio, tentò in tutti i modi di arginare il genio di Aldo Fabrizi che, come vedremo, in molti suoi sketch prefigurò chiaramente quella tendenza artistica neorealista che poi sarebbe esplosa nel cinema e in letteratura subito dopo la Liberazione.Viceversa Zurlo, uomo antico e solidamente giolittiano, favorì non poco il consolidamento di un teatro - anche comico -prossimo al cinema dei ‘telefoni bianchi’, un teatro lieve, confortante, per niente problematico; quanto più possibile vicino alle illusioni del popolo piuttosto che alla sua realtà. E la più grande illusione dell'epoca fu quella fascista. Come oggi drammatica-mente si sa. Perciò il teatro di quell’epoca fu, e non poteva essere altrimenti, assai intimamente fascista.

Ma bisogna premettere qualcosa anche a proposito dell’impegno politico dei comici. Che è sempre stato modesto quando non inesistente. Tranne eccezioni più stravaganti che significative, il teatro comico popolare italiano non ha mai avuto chiare coloriture politiche né la stragrande maggioranza dei comici ha mai avuto da soddisfare altro che sana, teatralissima vanità nei confronti del pubblico. Ettore Petrolini (e qui stiamo parlando di anni precedenti a quelli della censura) fu sponsor del fascismo e da Mussolini si fece sponsorizzare: ma come dirlo compiutamente fascista? Forse che il suo teatro risponde all’etereo disimpegno della cultura fascista? Forse che egli inseguiva sogni proponendosi solo di far volare nel cielo, a occhi chiusi, i suoi spettatori? Fu annesso dai futuristi, Petrolini (come chiunque abbia avuto successo dal 1909 in poi), ma Marinetti e i futuristi furono oggetto palese dei suoi sberleffi:

Marinetti è quella cosa
che facendo il futurista
ogni sera fa provvista
di carciofi e di patat

cantava Petrolini nei Maltusiani. Ancora più pesante risulta poi un suo vecchio stornello:

Pei futuristi Venezia
è la tana per i sorci,
Roma è un detrito di muffa,
e i romani sono porci!
Napoli è un covo d’insetti,
una guazza che trabocca;
e come insultan Torino
quando ci han Torino in bocca!
Rispettan solo Milano,
Como, Lecco... è un caso strano!
Onde un bel dì il futurismo
finirà a Lecco Milano!

Quando salì alla ribalta per l’ultima volta nel 1935, deluso per non essere stato nominato centurione (un’onorificenza paramilitare dell’epoca), Petrolini portava al bavero una piccola spilla che gli aveva donato Mussolini: «Il duce mi ha dato quella cosetta qui - spiegò al pubblico - e io me ne fregio». «Me ne frego» era allora, alla vigilia delle famose sanzioni, uno dei motti mussoliniani più diffusi.

Ma queste sono quasi leggende. La verità che possiamo testimoniare personalmente è che nessuno dei tanti comici dell’Avanspettacolo e della Rivista con i quali negli anni ci è capitato di parlare ha mai ammesso alcuna militanza cosciente o incosciente in favore o contro il fascismo. I comici si preoccupano di far ridere la gente: chi per passione, chi per vocazione, chi per guadagnare meglio, chi per soddisfazione personale. Questa è la loro unica, forte volontà. Al tempo del fascismo era facile far ridere sfottendo le esagerazioni dei gerarchi ed era facile ottenere i favori del pubblico puntando l’indice sui privilegi di pochi, ossequianti e zelanti funzionari del regime; sicché i comici sfottevano i gerarchi e denunciavano ingiuste carriere. Ma di qui a parlare di fronda al regime ce ne corre. La controprova verte sul fatto che, come dimostrato in molte circostanze storiche e a vari livelli, il consenso popolare al fascismo, almeno fino alla metà degli anni Trenta, era decisamente esteso (alle ultime elezioni formalmente libere, quelle del 1924, il Partito nazionale fascista ebbe circa il 65 per cento dei voti): come avrebbero potuto diventare beniamini di una popolazione fascista quei comici che si fossero dimostrati preoccupati di attaccare concretamente la stessa fascistizzazione del loro pubblico? E vero, la comicità si basa sulla cattiveria, ma la cattiveria deve sempre essere rivolta verso un oggetto terzo rispetto all’attore e al suo pubblico.

Per tutto ciò, e da questo punto di vista, il lavoro di Zurlo fu piuttosto semplice.


Fascisti, antifascisti

(su casi cronici, clamorosi o clinici)

Il fatto che esistano così tanti copioni censurati potrebbe far pensare che sia effettivamente esistita, nell’àmbito teatro comico popolare, un’ostilità al regime, se non una vera e propria opposizione. Insomma: se Zurlo tagliava e respingeva, vuol dire che egli identificava nelle battute o nelle situazioni qualcosa di avverso al fascismo? No, le cose non stanno semplicemente così. Sono davvero rarissimi i casi di censura scopertamente politica: nella quasi totalità dei casi si tratta di interventi che avevano lo scopo di adeguare i testi alla moralità professata dal regime. Si trattava prima di educare e poi di preservare il pubblico, come abbiamo detto; e sovente di ripararlo da volgarità vere o presunte. Questo, se non altro, pare costantemente il principio ispiratore del lavoro della censura.

Negli anni si è fantasticato del rapporto conflittuale che c’è (ci sarebbe) stato fra Michele Galdieri e Leopoldo Zurlo. Fantasticherie in una certa misura amplificate dalle stesse memorie del censore il quale addirittura dedicò a Galdieri un intero capitolo intitolato, guarda un po’, «Domine difende me... in proelio contra nequitas di Michele Galdieri e degli altri spiriti maligni che scrivono riviste»: sono una ventina di pagine fitte di aneddoti raccontati a mezza bocca, come da chi non abbia pratica di barzellette e preferisca sempre ritrarsi dopo aver accennato l’inizio. Una sofferenza, insomma.

Ma questa fantasticheria gode principalmente del mito di Michele Galdieri, il quale fu senza ombra di dubbio un autore prolifico e di successo ma soprattutto fu dimenticato tanto rapidamente dal pubblico da finire negli angoli leggendari della sola memoria nostalgica dei testimoni oculari del suo successo. Fino ai primi anni della guerra, Galdieri era la firma più prestigiosa della Rivista italiana, quella - lo abbiamo già annotato - che supportava di intrecci e battute tutti i maggiori comici. Ma la sua più grande invenzione, probabilmente, fu far recitare in coppia Totò e Anna Magnani, intuendo che alla comicità popolare, ormai, mancava solo un sostegno drammaturgico più completo per diventare, di fatto, la più grande tradizione teatrale italiana del Novecento. Forse Galdieri non ebbe mezzi per dare sostanza poetica alla sua intuizione, ma di certo il teatro di Eduardo De Filippo, di Viviani, poi giù fino a Dario Fo da un lato e fino a Manlio Santanelli dall’altro, sono partiti da quella intuizione: era necessario collegare la tradizione dell’attore (anche comico) alla realtà del proletariato o della piccola borghesia italiana che tale tradizione attoriale (tale comicità) avevano prodotto. L’operazione, in chiave drammatica, riuscì al cinema che per dar corpo al neorealismo - già drammaturgicamente predefnito da Aldo Fabrizi, come abbiamo visto - chiese sovente sostegno alla generazione di attori ‘proletari’ che aveva fatto la fortuna dell’Avanspettacolo e della Rivista.

E sempre al cinema riuscì sul versante borghese, grazie a una tecnica drammaturgica simile e rovesciata (legare la piccola borghesia alla tradizione dell’attore), con la grande ‘commedia all’italiana’. Non riuscì, invece, a Galdieri, anche perché quando il campo era ormai libero per sperimentare e osare artisticamente, ossia caduto il fascismo, la genialità di Pietro Garinei e Sandro Giovannini spinse la Rivista in una direzione nuova, attraente e prima impensabile: verso una nuova, grande classe sociale intermedia che subito si rispecchiò, politicamente, nel nascente partito della Democrazia cristiana. L’orizzonte di Michele Galdieri, diciamo così, era compreso nel cuore della vecchia Europa, dalla Francia all’area austroungarica; mentre Garinei e Giovannini capirono che l’Europa non sarebbe più bastata agli spettatori italiani: c’era da scoprire l’America.

Fatto sta che Galdieri fu un grande autore e che il teatro l’ha dimenticato in fretta, un po’ come nel decennio precedente (gli anni Trenta) erano stati dimenticati in fretta i precursori di Galdieri e i più grandi talenti teatrali dell’epoca, i fratelli Schwarz. Ma se nel caso di Galdieri il fascismo fu ‘incolpevole’ (in fondo gli interventi della censura contro di lui non facevano che aumentarne il prestigio e la fama), nel caso dei fratelli Schwarz, esso oppose al loro successo le leggi razziali del 1938 in seguito alla quali i due talenti austriaci di origine ebraica e giù fuggiaschi dalle persecuzioni naziste, dovettero abbandonare anche l’Italia alla volta degli Stati Uniti dove dovettero confrontarsi con un immaginario spettacolare nei confronti del quale erano del tutto impreparati. E in effetti, lì negli Stati Uniti, l’esperienza fatta sia a Vienna sia a Roma fu loro del tutto inutile.

A proposito delle leggi razziali, vale la pena sottolineare che esse ebbero un effetto importante anche in àmbito teatrale. Fin dall’autunno del 1938, quando le norme anti-ebraiche erano ancora in gestazione ma la campagna per sostenere la purezza della razza era già partita, molti protagonisti dello spettacolo italiano furono invitati a espatriare. Con l’anno successivo l’invito divenne obbligo, mentre dal 1940 fu vietata la possibilità di far lavorare ebrei in ruoli di rilievo (anche tecnici). Dell’aprile del 1942, infine, la chiusura è drammaticamente totale. Nella legge 517 del 19 aprile 1942, all’articolo 1 si legge: «E' vietato l’esercizio di qualsiasi attività nel campo dello spettacolo a italiani ed a stranieri o ad apolidi appartenenti alla razza ebraica, anche se discriminati, nonché a società rappresentate, amministrate o dirette in tutto o in parte da persone di razza ebraica». L’articolo 2 specifica il tema in chiave musicale: «Sono vietate la rappresentazione, l’esecuzione, la proiezione pubblica e la registrazione su dischi fonografici di qualsiasi opera alla quale concorrano o abbiano concorso autori od esecutori italiani, stranieri od apolidi appartenenti alla razza ebraica e alla cui esecuzione abbiano comunque partecipato elementi appartenenti alla razza ebraica». L’articolo 3 riguarda il cinema: «E vietato utilizzare in qualsiasi modo per la produzione di film, soggetti, sceneggiature, opere letterarie, drammatiche, musicali ed artistiche, e qualsiasi altro contributo, di cui siano autori persone appartenenti alla razza ebraica, nonché impiegare e utilizzare comunque nella detta produzione, o in operazioni di doppiaggio o di post-sincronizzazione, personale artistico, tecnico, amministrativo ed esecutivo appartenente alla razza ebraica». Nemmeno per le comparse c’era speranza: sia detto senza ironia.

Torniamo a Galdieri, contro il quale nessuna legge fu promulgata e con il quale Zurlo intrattenne una fitta corrispondenza venata chiaramente di stima. Galdieri era uno straordinario inventore di doppi sensi: impicci di parole che non alludevano al sesso bensì alla politica, almeno per come questa veniva compresa e capita dal pubblico popolare. Il gioco cominciava fin dai titoli: il più celebre di questi resta E se ti dice va’... tranquillo vai dove si alludeva alle fregature che si potevano prendere dando fiducia a chi «dice va’». E proprio sui titoli Zurlo litigava in modo più acceso con l’autore: per l’elenco delle contese si rimanda alla lettura delle Memorie inutili del censore. Ma a parte gli screzi, le rime tagliate, le strofe riscritte, Galdieri ottenne sempre il visto per i suoi testi. D’altro canto non ci sono documenti sufficienti a suffragare l’eventuale antifascismo dell’autore napoletano. Le battute ambigue nei confronti del regime che talvolta comparivano nei suoi testi avevano il sapore della trasgressione comica, non dell’ostilità politica. Semmai il suo fu ‘antifascismo’, esso lo fu così per ridere, per solleticare il pubblico che voleva sentirsi libero, almeno a teatro, di poter ridere di tutto. Era una gran bestia da teatro Galdieri: la più talentosa del suo tempo.

L’eventuale, nebuloso ‘antifascismo’ della comicità popolare sta altrove e riguarda una questione molto più generale. Nel Varietà, nell’Avanspettacolo e nella Rivista si parlava di fame e miserie: questi erano gli argomenti principali di tutti gli sketch. Poi si parlava di espedienti, di furbizie, di violenze subite e rese. Si parlava delle disgrazie di tutti e di questo, con molta cattiveria, si rideva. Il fascismo, dal canto suo, era impegnato a edificare un’immagine dell’Italia tranquilla e con la pancia piena, zeppa di gente per bene e contenta. Ebbene, tale proposito cozzava frontalmente con tutto quanto il teatro comico rappresentava. E qui che va ricercata la contrapposizione tra comici e fascismo: Varietà, Avanspettacolo e Rivista mettevano in scena un’Italia vera (o comunque assai verosimile) che il fascismo voleva cancellare dagli occhi di tutti a colpi di leggi e propaganda. Non a caso, gli autori teatrali più furbi (Enzo Turco e Guglielmo Inglese, per esempio) edulcoravano i conflitti sociali, li trasferivano in una sorta di limbo vuoi esotico, vuoi straniero, vuoi inverosimile e consolante: ma poi per far ridere sempre alla cattiveria dovevano far ricorso. Benché fosse una cattiveria che, sulla carta, metteva le mani avanti e si scusava subito per essersi manifestata: ci avrebbero pensato poi gli interpreti, sulla scena sera per sera, a sottolineare le cattiverie e ad attenuare le scuse.

 Nicola Fano


Leopoldo Zurlo, censore e «pedagogo»

Dal 1931 in poi il servizio di censura teatrale, ormai centralizzato, si venne ad identificare con una sola persona: il prefetto Leopoldo Zurlo. L'esigenza di uniformità negli interventi censòri e quella di tempi decisionali brevi, avevano infatti spinto il capo della polizia Arturo Bocchini a preferire l 'attività di un censore solitario a quella dell' eterogenea commissione prevista dalla legge. Furono poi le capacità professionali di Zurlo sommate alle sue qualità culturali ed umane a personalizzare ulteriormente il servizio, determinando un rapporto inusitato fino ad allora, tra il censore e gli autori, gli attori, gli esercenti, gli impresari:

Fornito com'é di competenza profonda della materia, di intuito e sensibilità politica spiccatissimi - gli riconosceva infatti nel dicembre 1943 il ministro della cultura popolare Fernando Mezzasoma -, ha saputo dare all'ufficio una sua impronta personale, contribuendo notevolmente all'opera di riforma del Teatro italiano. Lavoratore instancabile, ha dato effettivo e valido impulso ad uno dei servizi più delicati del Ministero.

(Lettera del ministro della cultura popolare F. Mezzasoma al gabinetto del Ministero dell'interno in data 31 dicembre 1 943, ACS, A1I, Cab, RSI, ctg. K 1 8, fase. «Zurlo Leopoldo».)

Memorie Inutili ZurloNato a Campobasso il 3 dicembre 1875 da una famiglia benestante e politicamente attiva Zurlo si era laureato in giurisprudenza all'Università di Napoli nel 1896; in questa città aveva rinsaldato i vincoli di una collaudata amicizia con la famiglia Senise legando si soprattutto al giovane Carmine, futuro capo della polizia alla morte di Bocchini. Era poi entrato per concorso, nel 1900, come funzionario presso il Ministero dell'interno, prendendo servizio a Vasto, nell'ambito della prefettura di Chieti. Trentenne, era stato comandato a Roma nel comparto della Sanità pubblica, interrompendo l'attività due volte: per espletare l'incarico di segretario particolare nel governo Giolitti, dal 1912 al 1914, e nei gabinetti Bonomi e Facta, dal 1921 al 1922.

Ormai in epoca fascista, era stato distaccato presso l'Ente nazionale di cooperazione appena commissariato, per «condurre a termine quel severo lavoro di revisione e di controllo sugli impiegati e sui fiduciari dell'Ente richiesto dal commissariamento. Nei primi mesi del 1931 , col grado di viceprefetto e a 56 anni d'età, era ormai sul punto di andare in pensione; non sperava più in un avanzamento di carriera, dato il lungo servizio prestato fuori del Ministero («preferivo chiudere presto la mia carriera con un collocamento a riposo anzichè non essere promosso, cosa che si sarebbe potuta attribuire a demerito»). Proprio allora gli giunse la proposta di «sovraintendere alla revisione delle opere teatrali».

Arturo Bocchini in persona, capo della polizia, si era adoperato per averlo, e presto, al vertice della censura teatrale, chiedendo all' Ufficio del personale 0 di voler esaminare con speciale benevolenza, la possibilità di destinare qui, possibilmente subito, il v. prefetto Comm. Dr. Leopoldo Zurlo; funzionario che è stato riconosciuto in possesso di speciali requisiti, capacissimo, di vasta cultura letteraria, per essere designato ad assumere la direzione dell'Ufficio di cui sopra».

Zurlo fu contentissimo di accettare l 'incarico, che lo proiettava verso la promozione ormai insperata e, nel luglio 1931 , accantonata l 'idea della pensione, prese servizio alle dipendenze di Bocchini negli uffici della direzione generale della pubblica sicurezza, al Viminale. La sua stanza era contigua a quella del fraterno amico Carmine Senise, allora vicecapo della polizia. Leopoldo Zurlo sarebbe stato censore teatrale per circa tredici anni, adottando - per quanto possibile - un criterio illuminato e ispirato dal buonsenso:

«[...] bisogna lasciare all'autore l 'impressione della libeltà permettendogli di dire quanto non guasta o non peggiora l'animo dello spettatore. Divieti troppo brutali e generali si risolverebbero in mormorazioni contro il Governo».

(«A proposito di Volumineide» appunto manoscritto di L. Zurlo per il ministro del maggio 1942, fasc. 3258 «Volumineide")

Colto, intelligente, ironico, incline allo scetticismo, laico, ma rispettoso della morale cattolica e per niente ottuso', assai competente in materia teatrale e in letteratura italiana e straniera, Zurlo era anche molto ambizioso. Fu proprio una forte attenzione alla carriera, a fargli accettare - in via primaria rispetto ad altre motivazioni - il ruolo di censore teatrale del fascismo che avrebbe comportato per lui, di estrazione culturale e politica liberale, la necessità di mediazioni continue e di qualche compromesso con il regime pur di non perdere l'incarico («è evidente che, come tutti coloro i quali hanno un impiego pubblico, mi slavo già abituando all'idea che nell'interesse nazionale avrei dovuto conservarlo»).

Egli, d'altronde, si era adeguato in modo indolore all'instaurarsi della dittatura pur senza grandi entusiasmi, né particolari convinzioni personali. Alle dipendenze del capo della polizia (prefetto a disposizione, totalmente digiuno in materia teatrale), Zurlo godette sin dall'inizio di una grande autonomia: stendeva i riassunti sui lavori da autorizzare, apponendo il proprio giudizio, e Bocchini avallava sempre: bocciature, tagli, modifiche e approvazioni. Firmava tutto, sotto il timbro «pel ministro» . Anche nel caso in cui pervenivano proteste al Ministero - da autorità varie o direttamente dal pubblico - contro i nulla osta appena concessi, Bocchini non sconfessava mai l'operato di Zurlo, ma sottoscriveva sempre, senza cambiare neppure una virgola, le puntualissime e circostanziate risposte del censore al Ministro.

Nel quadriennio 1931-1934, il punto di riferimento di Zurlo, per i casi incerti, non fu dunque Bocchini, ma il capo del governo: spesso, in questo periodo, il censore ricorse a Mussolini. La prima volta era accaduto nell'ottobre 1931, per l'opera «Faisons un révè» ... di Sacha Guitry : se il lavoro fosse appartenuto al repertorio italiano, Zurlo ne avrebbe subito modificato il testo per «non mostrare in pubblico i due amanti che dormivano «insieme abbracciati», ma trattandosi di una commedia francese - nella quale avrebbe dovuto recitare lo stesso Guitry - aveva deciso di chiedere, «prima di fare qualsiasi passo», «la debita autorizzazione » al capo del governo.

Mussolini dette il suo assenso al lavoro assecondando le valutazioni del censore: non gli sembrò opportuno infatti «apportarvi alcuna modificazione» trattandosi di un testo «francese che» sarebbe stato «recitato in Italia dallo stesso illustre autore»; raccomandò però, di non sottolineare troppo nella recitazione le scene (...) che mostra(va)no i due amanti abbracciati nello stesso letto e l'accenno alla camicia da notte che indossa(va) la Signora». Il ricorso a Mussolini da parte di Zurlo si ripetè molte volte nella fase di rodaggio dell'attività, andando progressivamente a ridursi fino a divenire eccezionale, in concomitanza con il trasferimento della censura al Sottosegretariato stampa e propaganda, guidato da Galeazzo Ciano, che diventò subito per il censore il punto di riferimento primario.

Il capo del governo continuò, però, ad essere interpellato regolarmente per i lavori incentrati sulle figure di Cesare, Napoleone, Garibaldi e dei grandi condottieri, in qualche modo assimilabili, nell' immaginario dello spettatore, alla sua persona. Le eccezioni sollevate da Mussolini su questo tipo di rappresentazioni erano di solito molte. In «Sant'Elena di Sheriff e Casalis, nel novembre 1937, non gradì che Napoleone fosse mostrato come un imperatore dal volto umano: in maniche di camicia, intento a radersi, trasandato e insonne. Per Zurlo si trattava di un buon testo, ma a Mussolini non piacque e, nell' agosto 1938, lo vietò.

Il capo del governo, inoltre, si riservò sempre di intervenire su tutte quelle questioni inerenti agli spettacoli teatrali, che avevano risonanza sui giornali, o che gli venivano riportate criticamente da membri del partito, o che erano oggetto di proteste da parte del pubblico, e per le quali chiedeva chiarimenti a Zurlo, prima di decidere in maniera definitiva su una eventuale revoca del nulla osta. Anche le intercettazioni telefoniche fornivano a Mussolini il medesimo spunto. In una di queste, nell'agosto 1937, una certa «sig.ra Maria» sosteneva di aver assistito ad una commedia scadente sotto il profilo artistico, lesiva per l'onorabilità degli italiani e troppo deferente nei confronti dei francesi. Subito il dattiloscritto dell'intercettazione era stato inviato a Zurlo «con »preghiera difar avere possibilmente in busta al gabinetto, un appunto sul lavoro in questione.

Il censore aveva ammesso senza difficoltà lo scarso pregio artistico dell'opera, ma negato che questa fosse offensiva per gli italiani ed eccessivamente ossequiosa nei riguardi dei francesi, descrivendo con puntualità tutti i personaggi di nazionalità italiana: una brava ragazza, un pregevole artista, un simpatico giovanotto, un grande industriale. «Personaggio equivoco è solo il vecchio Marini, - aveva concluso - pittore da strapazzo ( ... ). Ma ( ... ) è figura di nessuna importanza e non da esso la commedia trae il suo significato». Mussolini però non piacque e il lavoro non si recitò più.

Quando il servizio di censura teatrale passò al Sottosegretariato stampa e propaganda, nell'aprile 1935, Zurlo accettò di mantenere l' incarico. Fino ad allora, aveva revisionato complessivamente 5308 copioni, autorizzandone 4625 (l'87,13%), proibendone 468 (18,82%) e sospendendone 215 (il 4,05%), in regime di semiautonomia e senza avere problemi di sorta con Bocchini. Il prefetto, perciò, non era entusiasta alla prospettiva di un cambiamento: passare al Sottosegretariato comportava non solo lasciare Bocchini e abbandonare fisicamente i suoi uffici al Viminale, ma implicava mantenere rapporti con un capo divisione e un ispettore generale, cosa a lui sgradita, considerato l' alto grado di carriera raggiunto. La promessa di Ciano di porlo alle sue dirette dipendenze e soprattutto il timore di dispiacere ad un uomo tanto potente, avevano spinto Zurlo ad accettare.

Così Galeazzo Ciano il 4 aprile 1935, a soli tre giorni dall' istituzione dell'Ispettorato del teatro, aveva potuto chiedere al Ministero dell'interno di «disporre che il Prefetto Zurlo» passasse («unitamente al personale a lui addetto, presso [...] (il) Sottosegretariato». Ciano fu di parola e in effetti, dall'aprile 1935, nei suoi rapporti con il prefetto, non ci furono intromissioni di direttori generali o capidivisione. Il genero di Mussolini interveniva, generalmente su richiesta dello stesso censore, con competenza e autorevolezza, senza lasciarsi troppo condizionare dai pareri di Zurlo, né da quelli della Commissione artistica, che si esprimeva in seno all'Ispettorato del teatro sulla qualità dei testi da trasmettere per radio.

Il passaggio al Sottosegretariato provocò, però, per l'Ufficio censura teatrale un mutamento sostanziale, non tanto nella prassi e nelle tecniche di censura ma nell'ottica in cui la censura teatrale veniva effettuata. Sin dall'Unità d'Italia questo settore istituzionale era stato concettualmente e praticamente finalizzato a proibire, tagliare, eliminare, per salvaguardare la morale, la decenza, l'ordine pubblico, il sentimento religioso: era stato in sostanza un ufficio di polizia; da quel momento in avanti, invece, l'obiettivo primario e ufficiale per l'attività di censura divenne il dovere di contribuire in qualche modo all' elevazione artistica della produzione teatrale italiana.
Il concetto di elevazione artistica delle opere da parte di un Ufficio di censura era quanto mai ambiguo: Ciano e De Pirro da un lato e Zurlo dall' altro non avevano in mente la stessa cosa a questo proposito. I primi pensavano infatti ad una riforma del teatro su un piano prevalentemente etico-politico-propagandistico, che dovesse portare sulla scena l'immagine di un'Italia nuova e rigenerata dal fascismo, qual era al loro occhi l'Italia del tempo di Mussolini:

«Sarà necessario - aveva scritto infatti De Pirro, nel 1935, nella relazione al decreto istitutivo dell'Ispettorato del teatro, poi approvata da Ciano - che gli autori, seguendo il monito del Capo, mutino rotta e dedichino al teatro le proprie energie con una visione più elevata dei propri doveri di artisti, sia dal punto di vista morale e sociale, che da quello di una comprensione più viva ed attuale del mondo odierno italiano.»

Relazione al decreto istitutivo dell'Ispettorato del teatro (Ciano-De Pirro)

Zurlo, invece, pensava soprattutto ad una riforma sul piano etico-filosofica-letterario, che portasse a chiudere definitivamente con l'esperienza del teatro verista, giudicata - e non soltanto da lui - superata e nociva, dando forma a quello che usava definire «il teatro del nostro tempo», animato da valori vivificanti e positivi al di sopra e al di là del fascismo, col compito specifico di educare e di elevare l'animo degli spettatori. Lo spiegava con chiarezza, nel 1935, all'autore Antonio Lazzarino, motivando il veto al suo lavoro «Così la vita»:

( ... ) Il suo dramma risente dell'epoca in cui nacque. ( ... ) È tutto improntato a un verismo che il pubblico mostra di n011 gradire più. Non la consiglierei di continuare su questa strada che anche a me piace poco perchè non eleva l'animo dello spettatore e non risponde a quello che dovrebbe essere il teatro del nostro tempo. Lei è caduto nell'errore rimproverato ai naturalisti. Essi pretendevano di copiare la realtà e ne sceglievano invece gli aspetti più brutti; mentre per fO ltuna la vita non ha tanta sostenuta cattiveria né così costante banalità.

Zurlo non negava l'esistenza di «situazioni equivoche e dolorose», di «gente deforme e divorata dal 'lupus'», ma accanto a queste sussistevano - a suo giudizio - realtà confortanti e positive, che il teatro doveva recepire evitando di «diventare» soltanto «un'esposizione di miserie morali specie quando, notonizzato il male, l'autore non si cura(va) di suggerirne il rimedio».
Secondo il censore, come nella vita esistevano il marciume e la cattiveria destinati a soccombere di fronte a forze ed energie positive, o quanto meno a convivere con esse, così sulla scena il male e gli eroi negativi potevano trovare posto ed essere tollerati, solo se gestiti senza ambiguità dagli autori, nella prospettiva della condanna e della sconfitta totale o del riscatto morale, in modo che il messaggio inviato al pubblico risultasse educativo e confortante:

Il copione del dramma 'Musolino' si restituisce privo di provvedimenti - scriveva infatti Zurlo all'interessato nel 1936 - perché ( ... ) non è il caso ( ... ) di portare sulla scena un brigante tanto più che l'autore sorvola sui delitti da lui commessi mentre indugia su quanto può nel giudizio di un pubblico popolare attenuarne la colpa.

(Minuta di Zurlo alla compagnia di prosa ' L'Ecclettica' in data 18.9.1936, ibid. , b. 405, fase. 7636 «Musolino»)

C'era, dunque, una convergenza di fatto tra l'immagine edulcorata e artificiale di un'Italia nuova che la propaganda fascista intendeva promuovere anche attraverso il teatro, e la visione idealistica della vita che era propria di Leopoldo Zurlo e che il teatro doveva a suo giudizio riflettere. C'era inoltre un' innegabile concidenza tra alcuni caposaldi della cultura fascista e della cultura liberale - sulla cui base operare tagli e divieti - quali il rispetto dell'ordine costituito, delle gerarchie, dell'esercito, delle istituzioni, della famiglia. Queste affinità e convergenze permisero a Zurlo di svolgere il suo compito di censore e di «riformatore» con convinzione, senza eccessive crisi d'identità e di coscienza, e soprattutto di farlo in modo soddisfacente e proficuo per il fascismo, eliminando in sostanza dalle scene fatti, persone, valori sgraditi:

Abolisca quel titolo, - suggeriva infatti ad Antonio Lazzarino - riporti l'azione al principio del secolo fissandola chiaramente per lo spettatore, tolga gli accenni al presente e riprenderò in mano la pratica per un benevolo provvedimento. Se poi vuol mantenere l'azione al giorno d'oggi non faccia del capo delle organizzazioni sportive un gobbo, nè metta in iscena elezioni di quel genere. ( ... ) La fine ( . .. ) potrebbe essere un'altra, più confortante ed elevata. Mi perdoni queste parole aspre - concludeva - ma il mio compito ingrato mi obbliga a un' estrema sincerità, né Ella può giudicar male il mio vivo desiderio di contribuire, attraverso la censura, all'elevazione della produzione italiana.

(Minuta di Zurlo ad A. Lazzarino in data 3.1.1935)

Questo mutamento di prospettiva della censura - da un'ottica negativa di eliminazione ad una positiva di ausilio alla costruzione - comportò che accanto alle tecniche tradizionali, si aggiungesse un'altra modalità d' intervento: l'autorizzazione a fronte di una riscrittura totale del lavoro, oppure della parte centrale o del finale, secondo le istruzioni del censore a mo' di pedagogo. L'ambiguità del ruolo (censorio-pedagogica-riformatore) rivestito dall'Ufficio censura teatrale, dalla metà degli anni Trenta in avanti, si andò accentuando quando Dino Alfieri divenne ministro della cultura popolare, al punto da spingere gli autori a chiedere ufficialmente non tanto «un allargamento dei criteri che governa(va)no la censura delle opere drammatiche», quanto «una loro più esplicita chiarificazione».

Pur ammettendo che il teatro si dovesse adeguare «alla grandezza degli eventi e dei problemi morali, politici, filosofici, storici, sociali, religiosi, educativi» realizzati e proposti dal fa scismo, tuttavia gl i autori erano certi che l'eIiminazione sistematica dai testi dei «conflitti di persone, di caratteri, d'idee e di mondi diversi» , operata dalla censura, non potesse portare alla creazione di un teatro vivo e autentico». Assolvevano Zurlo; elogiavano, anzi, la sua «opera intelligente e conciliativa», ritenendolo il prezioso e abile mediatore grazie al quale le loro opere teatrali potevano comunque essere rappresentate. Però chiedevano:

una censura spiritualmente più larga la quale ( ...) possa consentire agli scrittori del teatro italiano nell'cra fascista l'emancipazione dei loro spiriti creativi da quella specie di incerta soggezione limitativa che attualmente ci fa, non di rado perplessi di fronte alla trattazione di problemi e conflitti, i quali rigorosamente esigono non solo esposizione di verità e di fedi dal regime conquistate, ma anche di errori insiti nell'umana natura e solo superabili, drammaticamente parlando, attraverso appassionate contrapposizioni di personaggi, di idee, di sentimenti e di fatti.

(Alfieri rimase sordo a tali richieste. Nel 1939 tentò addirittura di lanciare una campagna promozionale per un teatro di propaganda, incaricando De Pirro di invitare gli autori a scrivere opere a tendenza fascista, in cambio di un lauto compenso e della certezza della rappresentazione. L'iniziativa fallì totalmente per mancanza di partecipanti, spiazzati dall'aleatorietà del concetto di «opere a tendenza fascista». Alcuni si erano persino rivolti a Zurlo per avere delucidazioni, ma il censore non aveva potuto aiutarli, cfr. L. ZURLO, Memorie inutili ... cit., p. 295.)

Lo stesso De Pirro, nell'aprile 1938, di fronte a queste critiche fondate, aveva inserito in un promemoria per il ministro, tra le varie iniziative previste per l' anno successivo, l'eventuale riforma dell' «attuale sistema di censura», ma né Alfieri, né Pavolini, né Polverelli modificarono nulla in quest'ambito e Zurlo continuò, in un'ottica di sempre maggiore autonomial, la sua attività secondo i canoni consueti.

Anzi il tono pedagogico si venne ulteriormente accentuando nel tempo e spesso le modifiche proposte e imposte finivano con lo stravolgere del tutto l'intento originario degli autori. Come dimostra il suggerimento dato a Giulio Trevisani per una rivista ambientata in periodo bellico; in questa Adamo ed Eva, nudi, si recavano in un negozio per acquistare abiti con la tessera-punti, ma dovevano rinunciare a coprirsi perché i punti non bastavano alla necessità:

Volete un suggerimento? - scriveva il prefetto - Presentate due trogloditi svegliati al mondo moderno, fate in modo che scelgano male dando le precedenza a ciò che brilla invece che a quanto è utile e arrivate alle conclusioni più bizzarre. Potrete allora colpire la vanità femminile, la leggerezza maschile, l'umanità insomma coi suoi difetti fondamentali; ma non avrete criticato un provvedimento dettato dalle patriottiche necessità dell'ora.

(minuta di Zurlo a G. Trevisani in data 4.12. 1 941, ACS, MCp, DGTM, UCT, b. 649, fasc. 12342 «Dieci in condotta». Prima di consigliare la modifica complessiva della trama, il censore aveva rilevato: «Morale: i punti sono troppo scarsi per l a popolazione. Questo è un rimprovero al Govemo, mi pare, e non c'è bisogno ch'io spieghi quanto inopportuno»).

La carriera di Zurlo come censore - nell' ampia accezione descritta - terminò ufficialmente il 31 dicembre 1943 (a 68 anni), dopo il rifiuto d i aderire alla RSI («Non avendo io fatta dopo l'8 settembre alcuna adesione alla repubblica - scriveva egli stesso nel 1944 - , avendo anzi dichiarato che non avrei seguito il Ministero al Nord ed essendomi anche allontanato materialmente dall'Ufficio, fui sostituito nei predetti incarichi».)

Patrizia Ferrara


La rivista vanta un’eredità di titoli che sono diventati altrettanti punti di riferimento: Strade, Bottega 900, Marionette, che sanziona, per citarne soltanto alcuni. Gli occhi del colto censore del regime, il napoletano prefetto del Regno Leopoldo Zurlo, sempre vigili sui copioni sottoposti all’esame per l’obbligatorio visto di autorizzazione, spesso si chiudono per aiutare l’autore sotto esame a modificare qua e là il testo, per evitare le allusioni più pesanti, e quando Zurlo può, senza appiattire eccessivamente la satira.

Anche se nelle varie piazze i questori - fidarsi è bene, non fidarsi è... meglio - mandano regolarmente un funzionario a verificare l’aderenza del copione all’interpretazione dei comici e, spesso, usano metri diversi da quello dello stesso censore, in caso di “avvertite inadempienze”. Che si traducono, nel migliore dei casi, in convocazioni in ufficio per ammonimenti, quando non determinano tagli di battute o di intere scene e, come avviene spesso, non provocano il ritiro del copione e, di conseguenza, lo scioglimento della compagnia.

Un episodio che riguarda un bravo cantante, Carlo Todini in arte Leo Brandi, e il suo rapporto con la censura, viene riferito proprio dal figlio dell’artista, Alfonso.

«Mio padre era un artista di varietà, popolarissimo alla sua epoca, uno dei beniamini del pubblico napoletano, in seguito ignorato e dimenticato da certi improvvisati storici della canzone napoletana. Papà diceva: sono un artista e la politica la devo ignorare, non sono iscritto al partito e ho altri argomenti per far ridere il pubblico. Se avesse osato ricorrere alle volgarità ed ai gesti degli attuali grandi del teatro, lo avrebbero mandato al confino.

La censura era vigile e purtroppo anche Leo Brandi, in buona fede, cadde nelle sue maglie. Papà era famoso per le sue parodie ed all’epoca era in voga una canzone Addio Juna che ben presto divenne Addiune. La cosa non sfuggì al censore e un bel giorno papà fu convocato in questura, mai pensando al perché. Una volta lì fu festosamente accolto da funzionari e agenti; dopo poco fu ammesso alla presenza del questore. Mi pare fosse napoletano e si chiamasse Cella.

Il questore, sulle prime, assunse un atteggiamento severo - recitava anche lui - e poi disse: vedete. Brandi, ci risulta che voi vi esibite in una parodia della canzone Addio Juna e dite: io canto “addiune”. Sapete, di questi tempi, siamo in guerra, e queste allusioni potrebbero turbare la gente. Cerchiamo di evitare.

Dopo questo richiamo, ripresosi prontamente, mio padre rispose: signor questore, voi siete napoletano e in napoletano come direste la frase “io canto addio Juna”? Il questore, di botto: “io canto addiune”. Naturalmente, dopo l’imbarazzo del momento, finì in risate e in tanti caffè e in vogliamoci bene».


Censori all'opera

Scopo principale dell'Ufficio Unico era razionalizzare gli indirizzi della politica culturale perseguendo un maggior controllo sugli strumenti di comunicazione e di propaganda (radio, teatro, cinematografo, etc.). Zurlo sosteneva che un sistema centralizzato di censura fosse stato richiesto proprio dalle compagnie teatrali e dagli attori per evitare le lungaggini dovute a proveddimenti spesso contradditori delle varie prefetture. Le prefetture, di fatto, continuarono ed esercitare un ruolo nell'ambito della censura, sia per questioni pertinenti agli ambiti locali, sia perché avavano la prerogativa di sospendere uno spettacolo in qualsiasi momento per qualsivoglia motivo di ordine pubblico. Col tempo il sistema centralizzato si perfezionò al punto che le prefetture finirono per esercitare soprattutto una funzione di filtro rispetto alla grande quantità di richieste di autorizzazioni.

Leopoldo Zurlo, in carica come censore unico tra il 1931 a il 1943, arrivò a revisionare circa 18.000 copioni. Inizialmente la censura si occupava sia del teatro che del cinema, poi venne divisa in due sezioni: a Luigi Freddi venne affidato il settore cinematografico, mentre a Zurlo quello teatrale. L'ufficio di Zurlo si occupava del teatro di prosa, del teatro lirico (libretti d'opera), del settore filodrammatico, del teatro dialettale e regionale, del piccolo teatro cattolico (di seminario, di parrocchia, etc.), del teatro radiofonico e del teatro all'aperto. L'attività del censore era quella di passare al vaglio qualsiasi lavoro destinato ad essere rappresentato su un palcoscenico, anche i lavori patrocinati dalle organizzazioni del regime, cercando sempre di districarsi dalle influenze dirette o indirette di personaggi di rilievo, del settore politico, militare o religioso. E' chiaro che al censore giungevano segnalazioni da parte delle autorità che non poteva certamente ignorare come i rapporti segreti di polizia che pervenivano direttamente da Mussolini o i giudizi espressi dalla stampa di settore, ma da uomo colto ed esperto in materia, quale era, le sue valutazioni non potevano prescindere dalla qualità artistica dei lavori.


Teatro, manganello e acquasantiera

Se Mussolini nutrì un interesse particolare per la censura di stampa e editoria, è lecito chiedersi quale fosse il suo rapporto con la censura teatrale. Tradizionalmente, la censura sulle rappresentazioni teatrali era delegata alle prefetture delle singole città d'Italia e, durante i primi anni del regime, non vi furono modifiche rispetto alle pratiche vigenti nell’Italia liberale. Questo permetteva ai prefetti d'intervenire sia sui contenuti dell’opera sottoposta a giudizio sia sull’opportunità di una sua rappresentazione, in sintonia con gli umori e le tensioni della piazza. Ma sebbene si trattasse di una pratica secolare, non per questo era accettata di buon grado dagli impresari teatrali. Infatti, la necessità di ottenere l’autorizzazione alla messa in scena sottoponeva gli impresari, oltre a un dispendio di tempo ed energie in continue pratiche burocratiche, a possibili veti inaspettati a ridosso delle stesse rappresentazioni. La situazione venne a modificarsi nel gennaio 1931, quando Mussolini acconsenti alle richieste da parte della rappresentanza sindacale dei lavoratori del teatro e decretò la centralizzazione della censura teatrale. Visto che al ministero dell'Interno già esisteva un ufficio di censura teatrale, al viceprefetto che lo presiedeva, Leopoldo Zurlo, venne affidato il compito di passare al vaglio gli spettacoli teatrali e di varietà che sarebbero suiti rappresentati nei teatri dell’Italia fascista.

La scelta di affidare tale compito al viceprefetto Zurlo ben riflette l'intenzione di Mussolini di non servirsi di fascisti «della prima ora» per questioni di ordine pubblico. Leopoldo Zurlo era, infatti, un colto funzionario prefettizio la cui carriera ministeriale era iniziata ben prima dell’avvento del fascismo, più precisamente con il governo Giolitti del 1912-14. Disinteressato alla politica, Zurlo era rinomato per l’ironica raffinatezza della sua corrispondenza. Suo diretto superiore era il capo della polizia, Arturo Bocchini. Quest'ultimo, tuttavia, non era particolarmente interessato a questioni di censura e, consapevole dell’importanza che questa aveva per Mussolini, ne approfittava spesso per sottoporre le pratiche direttamente al Duce e chiederne un suo giudizio. Va inoltre considerato il fatto che, a partire dal 1931, il dicastero del ministero dell'Interno era passato sotto il controllo diretto del capo del governo e perciò Zurlo, Bocchini e Mussolini erano legati da una diretta linea di comando. Bocchini, come si è già accennato, incontrava il Duce ogni mattina, solitamente per una mezz’ora.

Grazie al dettagliato memoriale pubblicato da Zurlo nel secondo dopoguerra, al quale si aggiunge l’ottima conservazione dell’archivio dell’Ufficio censura teatrale, è possibile oggi ricostruire nel dettaglio il modus operandi di Leopoldo Zurlo. Né fascista, né antifascista, certo egli fu un censore intelligente e capace, ma allo stesso tempo pronto a eseguire le direttive del regime, comprese quelle relative alle leggi razziali degli ultimi anni Trenta. Dalle scrivanie dell'Ufficio censura teatrale passarono più di mille dattiloscritti all’anno, di cui buona parte erano spettacoli di varietà o programmi radiofonici di poche pagine. La percentuale dei testi rifiutati o sospesi si aggirava intorno al 10%. Tra i temi clic potevano giustificare il divieto di rappresentazione vi erano il suicidio, l’uso del dialetto (conseguenza delle direttive del 1932) e la satira sulle politiche autarchiche del regime. La «sospensione» riguardava invece quei testi che non si volevano rappresentati, ma neppure banditi ufficialmente per evitare imbarazzanti condanne di opere di sincera glorificazione del fascismo e allo stesso tempo di pessima qualità artistica.

Zurlo consultava il proprio superiore ogni volta che un testo imponeva discrezione nell’opera censoria, ovvero nei casi di contenuti latamente politici di qualche passo, oppure quando l’autore era un personaggio importante e gradito ni regime. È esempio di entrambi i casi La favola del figlio cambiato, un’opera lirica di Gian Francesco Malipiero, il cui libretto era stato composto da Luigi Pirandello. Nel novembre 1933 Zurlo scrisse una nota, velocemente passata a Mussolini, in cui faceva notare che la storia narrata nell’opera - un re e il matto del villaggio riescono a scambiarsi l’identità senza che nessuno se ne accorga — poteva essere interpretata come un invito a mancare di rispetto a ogni forma di autorità. In quel periodo Pirandello era in buoni rapporti con il regime e Mussolini gli era ancora riconoscente per il sostegno offertogli nell’estate del 1924, quando, durante il momento di massima crisi del fascismo seguito all'assassinio Matteotti, il commediografo siciliano aveva annunciato pubblicamente la sua iscrizione al Partito nazionale fascista. Si aggiunga che Pirandello godeva di fama internazionale e di certo la censura di un suo scritto avrebbe avuto risonanza sui giornali di tutto il mondo. Alla richiesta di Zurlo, Mussolini rispose laconicamente di «togliere il più forte» nel contenuto. Zurlo allora contattò Pirandello e gli propose la cancellazione di alcuni passi. Quest’ultimo accettò senza protestare e l’opera di Malipiero potè essere messa in scena e portata in tournée in varie città d’Europa. La vicenda, tuttavia, non era ancora chiusa. Qualche mese dopo fu la censura nazista a prendere l’iniziativa: una delle date del tour tedesco fu infatti cancellata perché i censori della regione dell’Assia giudicarono il contenuto del libretto potenzialmente sovversivo e contrario ai principi della nazione tedesca. Tramite il capo della polizia, Zurlo fece sì che una nota al riguardo raggiungesse Mussolini nelle settimane precedenti le tappe italiane del tour. Lapidario, Mussolini rispose: «la censura a quell’opera la farò io».E così fece.


Quelle forbici benevole dell'inquisitore del Duce

Le forbici di Mussolini a teatro hanno il profilo rotondo e l' incedere morbido d' un burocrate gentiluomo, che aveva il vezzo di siglare le sue autorizzazioni alla maniera d' un leggendario spadaccino, con la zeta di Zorro, che in questo caso stava per Zurlo. Leopoldo Zurlo. Nessun censore d' età fascista può vantare altrettanta costanza nel servizio, tredici anni spesi nel controllare meticolosamente tutta la produzione teatrale e radiofonica italiana, commedie, riviste, drammi, tragedie, libretti d' opera e d' operetta, canzoni, sketch pubblicitari, siparietti e gag per l' avanspettacolo. Diciottomila copioni, dal 1931 al 1943. Solo lui, nessun altro. Caso straordinario nella burocrazia fascista: se negli altri campi i tentacoli del Duce s' articolano in un' infinità di soggetti, sulla scena s' identificano in un' unica persona.

Cravatta a farfalla, pince-nez di montatura robusta, ironia sottile: cambiano i ministeri di riferimento - prima gli Interni, poi la Stampa e Propaganda, infine la Cultura Popolare - non Leopoldo Zurlo il Censore. Alla zeta di Zurlo erano appesi i destini dei personaggi più autorevoli del palcoscenico italiano - "un mondo interessante quanto pericoloso", si legge nelle note ministeriali dell' epoca - dai fratelli De Filippo a Totò, da Fellini a De Sica, da Bragaglia a Sem Benelli, da Tina Pica a Massimo Bontempelli. Ma anche i più giovani Italo Calvino e Michelangelo Antonioni, oltre che Indro Montanelli autore di commedie, scivolarono sotto la sua lente. Il Controllore di Regime assolse il suo compito con straordinaria abilità, sorvegliando ma senza vessare, tagliando ma senza indispettire, fedele al principio che «bisogna lasciare all' autore l' impressione della libertà, permettendogli di dire quanto non guasta o non peggiora l' animo dello spettatore». Il suo buon senso finì per conquistare gli artisti più esigenti, nel tempo inclini a rivolgersi a Zurlo come a un protettore delle arti. Ancora nel 1945 Silvio D' Amico lo ricordava «colto, sensibile, dotato d' una prodigiosa memoria, di un' infinita pazienza, e d' una mentalità tutt' altro che fascista». Nei faldoni dell' Ufficio Censura Teatrale, depositati all' Archivio Centrale dello Stato, è racchiuso un pezzo importante della storia della cultura italiana. Lettere, relazioni ministeriali, note in margine, riassunti, pareri, promemoria, sfoghi personali, correzioni e tagli, grazie ai quali un' archivista-ricercatrice attenta e rigorosa, Patrizia Ferrara, è riuscita a ricostruire la censura sulla scena tra il 1931 e il 1944, con l' inventario di tutti i testi controllati dalla "pupilla del Duce": spesso di firma celebre, alcuni poco conosciuti se non dimenticati dallo stesso autore (Censura teatrale e fascismo 1931-1944. La storia, l' archivio, l' inventario, edito dal ministero per i Beni e le attività culturali, due volumi, pagg. 1.114, euro 80, in vendita presso l' Istituto Poligrafico, da prenotare all' indirizzo e-mail: editorialeipzs.it).

Tagli e sforbiciate, quando non divieti integrali, disegnano un' Italietta provinciale e sessuofobica, che non ammette parodie di personalità evocatrici del Duce, ma neppure battute osé o storie sentimentalmente azzardate. Un paese zuppo di cattolicesimo perbenista, che dice «reggipetto» ma non «mutandine», respinge caricature bibliche come quella di Federico Fellini nel divertissement Adamo ed Eva, esclude qualsiasi disordine anche di natura sociale - vietati i quadri con sommosse popolari o scioperi proletari - e tollera appena l' irrisione di matrimonio e maternità. Un' Italia littoria ormai irregimentata, che vieta Cocteau in polemica con i francesi, impone a Leopardi il "voi" al posto del "lei", mette al bando gli autori antifascisti quali Roberto Bracco o gli americani sospettati di antitotalitarismo come Margaret Kennedy, e cancella L' Ebreo errante giudicato nel 1934 un testo «inopportuno». Eppure tra le lame del Censore qualche lavoro controcorrente riesce a passare: anche per la complicità di Zurlo, alto burocrate del fascismo di formazione liberale, di cultura insolitamente vasta e - virtù che immunizza da ubriacature ideologiche - incline allo scetticismo. Figlio d' una famiglia molisana, benestante e di radice risorgimentale, il giovane Zurlo s' era formato sul finire del secolo a Napoli, in un milieu segnato dalla personalità di Croce. è in questa città - dove si laurea a 21 anni nel 1896 - che frequenta casa Senise, legandosi a Carmine, futuro capo della polizia fascista. Un' amicizia nel tempo assai fruttuosa. Senza scosse il suo cursus honorum al servizio dello Stato: a 25 anni funzionario del ministero dell' Interno; a 37 segretario particolare nel governo Giolitti; a 56 la nomina a viceprefetto. Nel 1931, del tutto inattesa, la chiamata da parte di Arturo Bocchini, allora capo della polizia: l' incarico è «sovrintendere alla revisione delle opere teatrali». Forse è solo un caso, forse no: la stanza di Zurlo, al Viminale, è contigua a quella di Carmine Senise, vicecapo della polizia. L' antico compagno degli anni napoletani. «Non fascista né antifascista, ma fedele servitore dello Stato»: questa, più tardi, sarà la formula autoassolutoria di molti burocrati trapassati in modo indolore dallo Stato liberale a quello fascista. Senza sdegni né entusiasmi. Per tredici anni Zurlo gode di crescente autonomia, talvolta scontentando i custodi dell' ortodossia. Ma contro Zurlo può soltanto Mussolini. Accade nel 1934 con Carne bianca di Luigi Chiarelli: il Duce non apprezza che la bianca Kitty s' innamori d' un uomo di colore, per di più raffigurato come eticamente superiore. Zurlo l' aveva autorizzato «perché siamo a teatro, l' esagerazione è indispensabile». Il lavoro viene sospeso. Sicuro di sé e molto ambizioso, il Censore non esita a rivolgersi direttamente al capo del fascismo. Nel 1931 arriva a Roma Sacha Guitry, che porta in scena due amanti teneramente allacciati sullo stesso talamo. Che fare? Zurlo non se la sente di intervenire sul testo. Mussolini l' asseconda, ma raccomanda di «non sottolineare troppo nella recitazione le scene che mostrano i due amanti». L' opinione del Duce viene invocata per i lavori incentrati sulle figure di Cesare, Napoleone, Garibaldi, assimilabili nell' immaginario popolare alla sua persona. Un nervo scoperto: le eccezioni sollevate da Mussolini sono sempre innumerevoli, come quando boccia il Sant' Elena di Sheriff e Casalis solo perché Bonaparte è raffigurato in maniche di camicia. Eguale allarme per il Napoleone di Totò, in una fantasia grottesca del 1938: Zurlo suggerisce all' attore una recitazione che faccia il verso, non al personaggio, ma all' attore Charles Boyer, che l' aveva interpretato l' anno prima in Maria Walewska. Da Censore a Pedagogo: la grande svolta arriva alla metà degli anni Trenta, quando Zurlo viene trasferito al ministero della Stampa e Propaganda. Con un requisito in più: da "poliziotto" s' innalza a educatore, impegnato in una riforma del teatro italiano in linea con l' Italia littoria. Gli autori gli si rivolgono con dedizione, avidi d' un suggerimento per evitare la scure del censore. Anche Anton Giulio Bragaglia lo elegge a proprio consigliere.

Nel settembre del 1934 gli fa avere il copione di La Cortigiana dell' Aretino, segnalando a parte «i punti più grossi», che era disponibile a modificare, fermo però nel difendere lo spirito del lavoro: «Naturalmente io rinuncerò a dare La Cortigiana se la censura vorrà troppo evirarla. Non ne verrebbe infatti un servizio all' Aretino presentarlo così sguarnito delle sue forze popolaresche». Zurlo vieta il lavoro per volontà di Mussolini, ma nel 1938 inaspettatamente l' autorizza: un colpo di mano nei confronti del ministro Alfieri. Perfino con Michele Galdieri, autore amato da Totò, il Censore intrattiene rapporti cordiali. Lo considera "l' ingannevole incarnazione del diavolo", però è evidente che si diverte alle sue battute. E alle vibrate proteste di Adelchi Serena, segretario del Pnf, disgustato nel 1941 dal personaggio della "mondana", replica in modo asciutto: «Oramai la rivista è stata autorizzata, recitata, approvata dal pubblico». Ma è nel carteggio con Eduardo De Filippo che Zurlo manifesta il suo originale stile censorio, venato di lungimiranza e ipocrisia. Assai più complicati i rapporti con Sem Benelli, inviso all' ala intransigente del fascismo e agli ambienti cattolici. In sua difesa, il Controllore di Regime non esita a sfidare i fulmini di Alfieri - «Una severità eccessiva con lui suscita più scalpore della condiscendenza», l' ammonisce nell' aprile del 1937 - ma ogni sforzo risulta inutile. Per la riedizione di Caterina Sforza, nel 1941, preferisce sollecitare il parere preventivo del Vaticano. Monsignor Giovanni Montini, sostituto della segreteria di Stato del Papa, fa tagliare la battuta in cui Sisto IV «chiede alla nipote se è incinta». Molti anni più tardi, Zurlo domanderà a Montini, divenuto intanto pontefice, la ragione della censura. Incontestabile la risposta: «Un Papa sulla scena parla con un altro stile». La carriera di Zurlo si chiude il 31 dicembre del 1943. Ha 68 anni. Dopo aver servito per tredici anni Mussolini, si rifiuta di aderire a Salò. Sull' "amabile censore" - così lo definì Gerardo Jovinelli - fioriranno testimonianze lusinghiere, ma tra tutte colpisce la sapiente sintesi proposta da Vitaliano Brancati nel saggio Ritorno alla censura: «C' era anche qualche brava persona, perché in Italia le brave persone si vanno a ficcare dappertutto, come se avessero il compito di generare confusione tra il bene e il male, ed evitare a qualunque associazione, milizia, ministero, un giudizio recisamente negativo».


Dal 1931, quando l’Ufficio fu istituito con legge presso il ministero dell’Interno, è sempre Zurlo - dopo quattro anni l’Ufficio passerà nell’ambito del ministero della Stampa e Propaganda, ma non cambierà il responsabile -, gli autori napoletani di teatro popolare non possono proprio lamentarsi. Zurlo ha stabilito per loro una specie di corsia preferenziale nel protocollo per l’esame dei copioni, che fa in prima persona.

Quelli provenienti da Napoli e che si riferiscono al novanta per cento a spettacoli di riviste, sceneggiate, avanspettacolo e arte varia e per il restante dieci per cento a prosa, hanno la precedenza nell’esame. Il censore non può confessarlo ma, per esempio, quando gli arrivano i copioni di Michele Galdieri, sarebbe tentato di lasciare il lavoro programmato per passare subito a leggere l’ultima rivista del figlio del poeta.

«Nulla dispone all’ottimismo meglio del riso serio», scrive in un appunto che accompagna una sua relazione, proprio su una rivista di Galdieri. Però non può tradire il suo ufficio e consuma matite colorate, con le quali traccia vistosi freghi sulle pagine nelle quali avverte la presenza di allusioni troppo evidenti alle condizioni degli italiani sotto il regime e poi durante la guerra. Oppure quelle pagine nelle quali gli autori, per ottenere il visto... a vista, si sono talmente esibiti nell’esaltare il regime che, a non imporre moderazione alla propaganda, il censore finirebbe per fare un cattivo servizio al fascismo.


In epoca fascista l’intervento censorio è in realtà canalizzato, per volontà superiore mussoliniana, secondo un criterio di fondo: evitare di parlare di politica e di quant’altro alla politica del regime potesse direttamente richiamarsi, sia in pro che in contro, e favorire invece la mera evasione, il bel garbo dei “telefoni bianchi” o dei duetti Melnati-De Sica nella Za-Bum o delle commedie di De Benedetti.

Questo criterio non sarà dato una volta per tutte, e dei cambiamenti sono documentabili. Dapprima il regime sembra favorire una funzione di propaganda anche del teatro di rivista, in senso più nazionalistico che direttamente fascista (Trieste, le sanzioni...) ma di fronte alle trasformazioni della stessa politica fascista (soprattutto internazionali: ci sono sketch antitedeschi nel periodo dell’Anschluss, ritirati di corsa dopo la nuova alleanza) si preferisce espungere a propaganda diretta dai divertimenti del regime, riservandola alla radio e ai cinegiornali che invece da essa saranno totalmente condizionati e a essa asserviti. Il censore teatrale Leopoldo Zurlo, più “signore” napoletano che non fascista a orbace, si attiene alla decisione mussoliniana secondo la quale nelle cose frivole per definizione, come il teatro di varietà e di rivista, le cose “sacre” (il fascismo) non vanno neanche nominate, non ci vanno mischiate.

E tuttavia con la guerra c’è un terzo tempo della censura fascista, costretta ad allentare le redini e a tener conto dei disagi crescenti e della crescente lamentela, se non protesta, della popolazione. Dal ’39 tessere e bollini, oscuramento, treni o autobus di nuovo in ritardo e sovraffollati, servizi scadenti e carovita diventano in modo più o meno scoperto i temi centrali della comicità rivistaiola — trovando in alcuni autori (Galdieri, Nelli e Mangini) e attori (Totò, Taranto) una prontezza a coglierli che fornirà al pubblico occasioni di sfogo a non finire — stante infine nuovamente la regola del “buffone di corte”, della comicità permessa come scarico alle insofferenze sociali. Ma prima, negli “anni del consenso”, tutto è rosa e semmai, dietro il rosa, opera, con un bromuroso annacquamento della comicità e con il contorno di un lusso irraggiungibile, in una rimozione costante della realtà, la quale potrà esprimersi, e poco, solo in certi film di Camerini e in certe riviste degli autori citati, trovando invece nei copioni teatrali e cinematografici “ungheresi” o nei copioni scipiti delle riviste di Macario e della Wandissima i più raffinati meccanismi di sublimazione.


Le ragioni del censore

La prima rivista me la portò Michele Galdieri nell’agosto del 1931. Si presentò con un viso di adolescente sveglio e non si vedevano né le ali di pelle, né la coda. Le grinfie si, e le arrotondai qua e là. Il titolo... Nel titolo c’era quello che come le coup de Jarnac si potrebbe chiamare "Il colpo classico di Galdieri: non dire nulla e suggerire tutto". Volete qualche esempio?

In un suo copione trovai una volta questa scena: due uomini dicono male delle suocere ed ecco avanzarsi una signora un po’ matura, ma elegantissima secondo il figurino di poidomani. “Chi sparla delle suocere?” esclama. “Che cosa passata di moda! Oggi le suocere sono come me e tutti hanno cambiato idea nel giudicarle. Tutti hanno cambiato idea... (rivolta al pubblico)... non è vero che tutti avete cambiato idea?”

Era la miglior maniera per far confessare al pubblico di non essere più fascista.

Ora la prima rivista che Galdieri mi presentò era intitolata Tutto dipende da quello e Galdieri sosteneva che “quello” era il denaro, mentre evidentemente nel 1931 tutto dipendeva da Mussolini. Ma il testo era così abile da offrire buone giustificazioni anche pel censore che quel titolo avesse permesso. Vietarlo sarebbe stato dar prova di ristrettezza di spirito, e francamente non volevo che sorgesse subito e si spargesse fra gli autori la voce della mia meschinità. Lasciai correre dunque; ma ebbi lo stesso la taccia di cretino. Non potevo che riderne.

Mi stizzii molto invece quando, passata la censura nel 1935 al futuro Ministero della Cultura popolare, “Il Piccolo giornale d’Italia” e “L’Avvenire d’Italia” gettarono contro l’immoralità delle riviste alte grida di vestali violate. Volli allora esporre francamente il mio pensiero al Duce.

“Non disprezziamo la rivista,” scrissi; “la rivista è un genere teatrale precisamente come la tragedia la commedia il melodramma ecc. I suoi antenati sono illustri: Aristofane che si beffava di Socrate, di Euripide e di tutti i personaggi più grandi del suo tempo, non era a suo modo un autore di riviste? Molière nell’Impromptu de Versailles e nella Critique de l’École des femmes che cosa ha fatto se non una specie di rivista? Pantagruel, Don Chisciotte, Gii Blas, Candide, non sono forse delle riviste-libro?” (Avrei potuto citare anche la Divina Commedia, almeno per le prime due cantiche; me ne astenni perché la retorica del tempo vietava di scherzare con Dante.)

Ora di che si compone la rivista? Di tutti i generi di teatro dal vaudeville all’opera buffa, dalla commedia satirica al dramma, passando per la pantomima, le canzoni, il balletto, la feérie. Esclude la sola tragedia perché questa porta oramai sul volto l’impronta degli anni.

E su che poggia la rivista? Non c’è da esitare: sulla satira e sull’oscenità che sono da secoli le più sicure fonti del riso. Che fa la censura di fronte alla satira della rivista? Sta in guardia affinché rimanga nei limiti della scalfittura superficiale, della punzecchiatura solleticante. Non può sopprimerla però: verrebbe meno uno dei puntelli del genere. Ad ogni modo la proibirà quando saranno proibiti tutti gli spietati analizzatori del cuore umano, La Rochefoucauld, Stevenson, Vauvenargues, Leopardi ecc.

(...) Una vibrata lagnanza venne poi dal Partito perché si era permesso a Mario Mangini di intitolare la sua rivista Tutto da rifare e perché il lavoro era acre.

Allora persi le staffe; ma invece di abbandonarmi a escandescenze preferii dare una lezione e mandai al Ministro l’appunto che riporto testualmente:

“Consigli al futuro censore (a proposito della rivista Tutto da rifare di Mario Mangini). Cave canem Galdieri. È di razza. Non grida, non si avventa. Ti accarezza, ti illude, con parole di miele, con mani aperte senza macchine infernali; e quando meno te lo saresti aspettato ha morso con denti cosi aguzzi che là là non fanno neppure dolore. Ha spruzzato il profumo e vi ha mescolato il vetriolo. Ma è colpa tua se non stai in guardia; un autore di rivista non rinunzia al diritto di far dello spirito e lo spirito è il fiore dell’intelligenza.”

“Cave aliquantum canem Mangini. È bonario, ama la gaiezza ingenua e inclina a una accomodante filosofia napoletana che non si inganna nel giudicare la società ma l’accetta com’è, senza mostrare troppo i denti. Perciò non morde spesso ma abbaia volentieri e abbaiando ti rende il cattivo servizio di svegliare i cani che sembrano sonnecchiare a teatro e sono in agguato contro di te.”

“Ricordi il suggerimento di Figaro alla Stampa? Purché non tocchi l’autorità politica, il culto, le genti altolocate, gli Istituti di credito, il teatro e le persone che tengono a qualche cosa, puoi discorrere di tutto liberamente sotto la sorveglianza di un paio di censori. Aggiornato con l’aggiunta del cinematografo ti sarà ripetuto se non intero, a pezzi da questo o da quello. Vuol dire che è ottimo.”

“Tuttavia non ti consiglierei di applicarlo ciecamente. Dopo poco tempo avresti una patente di imbecillità dagli autori, e, quel ch’è peggio, anche dal Governo.”

“Attento ai titoli delle riviste! Possono celare un trabocchetto. Se Galdieri scrive per esempio C’era una volta un biglietto da mille non ti inganni quel grazioso tono fiabesco. Sai che potrebbe dire la gente? C’era una volta e adesso non c’è più; è carta straccia. Sei costretto dunque a cambiare anche a costo di far danno.”

“Se un altro titolo dice Ma quando parla lui non credere a Galdieri se spiega che lui è il cuore. Chissà quale personaggio potrà invece vedere il pubblico! Se ottieni che il titolo diventi E se ti dice va tranquillo vai l’endecasillabo sereno rende un servizio anche all’autore.”

“Non dimenticare però che il titolo è l’amo a cui abbocca lo spettatore e che l’arte, anche quella sbarazzina, e la cassetta hanno i loro diritti.” (...) “Affrontiamo piuttosto il problema
senza paura. Dei provvedimenti annonari si parla sempre ed ovunque, dal mattino alla sera, nei salotti e nelle cucine. Toccano infatti la vita quotidiana. Ciascuno ne discorre con lo stile del suo temperamento; in fondo tutti ne riconoscono e ne accettano la necessità.”

“Ma l’argomento è amaro. Trasportarne di peso, peggio ancora alimentarne l’acredine sulla scena sarebbe un imperdonabile errore, politico e artistico insieme.”

“Una recente rivista che ha messo in iscena pedestremente la vita quotidiana di una famigliuola è caduta perché ha annoiato il pubblico. Il pubblico sa bene ciò che scarseggia: di che doveva ridere?”

“La rivista di Mangini Tutto da rifare lo diverte invece. Perché? Perché Mangini l’argomento lo ha trattato con garbo, mescolandolo ad altri, senza stancare e mettendo molte cose come in margine.”

“Presenta per esempio Rabagliati che mette all’incanto il fiore all’occhiello della sua marsina, un bottone delle sue mutande ecc. e le offerte femminili fioccano aumentando sempre: un etto di olio, un chilo di pasta, due pezzi di sapone ecc. Qui la satira chi colpisce? le adoratrici di quel bravo cantante, le quali per un suo ricordo darebbero quanto c’è oggi di più prezioso al mondo.”

“ ‘Ma si dice lo stesso che l’olio è poco, che il sapone è scarso...’

“ ‘Bella novità, questo lo sanno già tutti e intanto l’autore sembra audace senza esserlo, non dice male del Governo, né peggiora le idee del pubblico. E nulla dispone meglio all’ottimismo del riso senza malizia.’”

Questo appunto non mi venne mai restituito. Il Ministro Pavolini mi disse poi di averlo inviato al Partito affinché smettessero lagnanze contro una censura che sapeva il fatto suo. E dal Partito lagnanze non vennero più. Continuarono però periodicamente da altri.

Ma colui al quale avrei potuto rivolgere con lieve variante il noto verso “tu solo, tu, mia gioia e mio tormento” fu Michele Galdieri. Delizia pel lettore, era pel censore una peste.

Nel gennaio 1936 egli presentò la rivista Marionette che sanzioni! nella quale una marionetta (l’Italia) si staccava indignata dal Teatrino del Globo per tornare in patria dove assisteva a tanti quadri di vita certo un po' ristretta a causa delle Sanzioni; ma coraggiosa, ma serena, ma indizio non dubbio di non lontana vittoria.

Nulla da ridire dal lato politico, ma mi parve che da quei quadri esulasse il riso per far posto a una pensosa malinconia. Le sorti della nostra guerra in Etiopia erano in quel momento ancora incerte, il Governo sospettoso, l’Ispettorato del teatro muoveva i primi passi tra critiche non sempre serene, la vita quotidiana riprodotta pedestremente sulla scena non ha interesse ecc. ecc. molti argomenti che qui è inutile riportare mi consigliarono insomma di negare l’autorizzazione alla recita.

Non immaginavo di provocare un disastro. Tutto infatti era pronto e il mio no rovinava un impresario e gettava sul lastrico una numerosa compagnia.

Del mio no Galdieri fu cosi' sgomento, cosi abbattuto che mi allarmai. Gli suggerii allora di ricorrere a chiunque, perfino al Duce per far controllare il mio giudizio e ottenerne la revoca. Non me ne sarei certo dispiaciuto: mi bastava evitare la responsabilità di un “nulla osta” che ritenevo immeritato. Galdieri rifiutò recisamente. Lo pregai, lo scongiurai, rimase irremovibile nel dire che non avrebbe mai presentato un ricorso contro di me. E allora gli proposi di rivedere il suo testo, di aumentarne quel sorriso che è indispensabile nelle riviste. Galdieri ebbe un lampo geniale, introdusse nel lavoro un giornalista estero, il quale correndo appresso alla marionetta italiana che ritiene impazzita assiste a quadri di vita e rimane con un palmo di naso, anzi con un naso che ad ogni delusione cresce, si allunga come quello di Pinocchio. La rivista ebbe un successo clamoroso.

Se ora dò un’occhiata alle mie rapide note sui lavori letti, non so più a dir vero se la peste fosse Galdieri per me o io per lui o i terzi per tutt’e due. Di Tutto dipende da quello ho già parlato; in seguito ho consumato un paio di forbici...

Ecco Strade. Via tutta quella critica ai gerarchi che salgono e scendono!

Ecco Il progresso si diverte. Veramente questo lavoro venne preceduto da una lettera anonima in cui si accusava l’autore di mettere in iscena il Duce e di prendere in giro l’azione fascista. Dio mio, l’innocenza e Galdieri non vanno spesso insieme, ma la rivista non era quell’orrore che veniva denunziato. Comunque: “Via la parola ‘libertà’ da quella canzonetta!” — “Via che la gente ha paura di perdere il posto!” (era vero ma non si poteva dire)! — “Via la parola ‘Padrone’ anche se indica il Progresso!” E ancora: “non parlare dei disoccupati; non dire che

dei gemelli della Lupa
l’uno poppa e l’altro no.”

Anche questo era vero ma non si poteva dire. Ai due versi furono sostituiti questi altri:

l’altro aspetta attentamente
di succhiare anch’egli un po’.

In altri dettagli non posso entrare. Sarebbero divertenti pel lettore, ma la mia prosa diverrebbe chilometrica. La canzone di ognuno, Tutte le luci, Trottole, I milioni, Si e no padroni del mondo, persino l’innocentissimo Riposo festivo, furono tutti lavori esaminati con la lente d’ingrandimento e sottoposti ad amputazioni spietate.

Per sua fortuna Galdieri ha tante risorse che i miei tagli non attenuavano i suoi successi; ma per mia disgrazia quei successi aumentavano le mormorazioni, donde la necessità per me di divenire più arcigno.

Avvenivano allora per ogni nuovo copione scene come questa che ebbe luogo a proposito di E se ti dice va tranquillo vai titolo sostituito a quello più pericoloso Ma quando parla lui. Il censore (con l’aspetto di chi vuole massacrarvi): Galdieri, questa volta avete passato il segno. Dire che “si stanno inquadrando persino i sogni” che “salgono in alto tanti campioni senza valore” ecc. ecc.! E nel quadro dei neologismi osate scrivere:

c’è ad esempio una parola
velenosa come un fungo
quella là non dura a lungo
presto o tardi sloggerà!

Galdieri (con un volto da educanda): “Ma io prima parlo di futurismo, di surrealismo; si può dunque pensare a spiritismo, se vi piace anche a comuniSmo.”

Io: “Già! Il pubblico sa proprio quando cadrà il comunismo...”

Dopo un paio di ore di discussioni e di liti si giungeva a una transazione, e la tregua durava sino alla volta prossima.

La rivista C’era una volta un biglietto da mille fu preceduta da un ricorso verbale. “State attento,” mi dissero; “Galdieri ha spinto l’audacia fino a mettere in iscena il Presepe!” Il Presepe in una rivista! quale scandalo!

Non volevo crederci. Galdieri non avrebbe commesso un errore di gusto. E infatti niente grotta, niente di sacro. Appena la satira a una Federazione che aveva fatto il suo presepe con casette novecento. La Betlemme di Galdieri era dunque costruita da architetti futuristi. Se-nonché seguiva l’immancabile pastorale:

c’è un letto al posto della paglia gialla su cui dormiva prima il bambinello e un termosifone nella stalla sostituisce il bove e l’asinelio

e continuava:

ullero ullero
è strano, ma è vero
la mangiatoia
neppure c’è più; probabilmente
la mangiatoia serve a certa gente.

Io: “Misericordia Galdieri! dove volete arrivare?”

Per spiegarsi la mia esclamazione occorre ricordare che in periodo fascista i gerarchi erano spesso accusati di rubare. “Mangiano,” si diceva.

Vero o non vero so che le frecciate del genere erano poco tollerate, e stanco di troppe lagnanze mi ero rassegnato ad attenuare sempre, se non addirittura a sopprimere. I due ultimi versi furono sostituiti con questi altri:

overamente
la mangiatoia serve a tutt’a gente.

Ed ecco quello che accadde. Le prime sere — sbaglio involontario per non dire volontario — gli attori cantarono i versi originali. Il teatro se ne cascò dagli applausi. I reclami fioccarono. Il ministro Alfieri tutt’altro che ladro mi ordinò di vietare. Gli attori obbedirono, ma il pubblico alla pastorale commentava il taglio e diceva male del governo imbavaglia-tore.

Nonostante tagli attenuazioni ecc. non mancarono anche questa volta i ricorsi. Uno grave: “Galdieri si è beffato della stretta di mano”, allora vietatissima. Era vero. Anzi Galdieri aveva ricordato anche l’ostracismo al “lei” e lo aveva fatto attuando il suo colpo classico, citando appena le due cose in un quadro satirico di certa borghesia.

Egli presentava un'attrice e un attore in costume Ottocento, entrambi incarta-pecoriti nei ricordi. Cantavano alcune strofette. Lei ricordando i rapporti tra due suoi corteggiatori diceva che:

il suo amante assai mondano
gli stringeva anche la mano

e lui lamentava

...che se prima
nel parlare era compito
nello scrivere forbito
ora, vecchio, a quel che pare
non sa manco più parlare
prima dà del lei, ma poi
ci ripensa e dà del voi
qualche volta il tu perché
eh eh eh!

Le tre interiezioni finali non erano che il balbettio di un vecchio; ma era evidente che pronunziate con malizia potevano suggerire tutto. Come proibirle?

Il ministro stesso respinse, come io desideravo, le lagnanze del Partito al quale, bisogna riconoscerlo, non di rado recalcitrava.

Leopoldo Zurlo


Note

  1. ^ In Quelle forbici benevole dell'inquisitore del DuceLa Repubblica, 2 gennaio 2005
  2. ^ Foto scattata in modo che nell'angolo sinistro in alto fosse visibile l'immagine del Duce anche se così era poco distinguibile lo stesso prefetto Zurlo
  3. ^ Secondo lettere anonime giunte a Galeazzo Ciano e la testimonianza del colonnello delle SS, Eugen Dollmann, addetto all'ambasciata tedesca e rappresentante di Hitler a Roma. (Cfr.)
  4. ^ Copernicum.it
  5. ^ Censura teatrale e fascismo (1931-1944). La storia, l'archivio, l'inventario, a cura di Patrizia Ferrara (ed. Ministero per i Beni e le Attività Culturali; 2 voll.)
  6. ^ Simonetta Fiori,Quelle forbici benevole dell'inquisitore del Duce. in Repubblica 2 gennaio 2005
  7. ^ Nel 1945 Silvio D'Amico scriveva di Zurlo come un personaggio «colto, sensibile, dotato d'una prodigiosa memoria, di un'infinita pazienza, e d'una mentalità tutt'altro che fascista».
  8. ^ Nel settembre 1934 Bragaglia inviava a Zurlo il copione de "La Cortigiana" dell'Aretino scrivendo che «Naturalmente io rinuncerò a dare La Cortigiana se la censura vorrà troppo evirarla. Non ne verrebbe infatti un servizio all'Aretino presentarlo così sguarnito delle sue forze popolaresche». Zurlo per intervento diretto di Mussolini vieterà la rappresentazione ma ripensandoci e sfidando il Minculpop nel 1938 autorizzerà la messa in scena della commedia.

Riferimenti e bibliografie:

  • Leopoldo Zurlo, Memorie inutili. La censura teatrale nel ventennio, Edizioni dell'Ateneo, Roma, 1952
  • Censura teatrale e fascismo (1931-1944). La storia, l'archivio, l'inventario, a cura di Patrizia Ferrara (ed. Ministero per i Beni e le Attività Culturali; 2 voll.
  • Nicola Fano, Tessere o non tessere. I comici e la censura fascista, Editore Liberal Libri (collana Liberallibri),1999
  • Simonetta Fiori,Quelle forbici benevole dell'inquisitore del Duce. in Repubblica 2 gennaio 2005
  • Come sfuggire alla censura? Ce lo insegna Totò
  • "Quelle forbici benevole dell'inquisitore del Duce" - Archivio Repubblica, 2 gennaio 2005
  • "Mussolini censore: Storie di letteratura, dissenso e ipocrisia" - Guido Bonsaver - Ed. Laterza
  • "Tempo di Maggio: Teatro popolare del '900 a Napoli" (Nino Masiello), Tullio Pironti Editore, Napoli, 1994
  • "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980
  • Patrizia Ferrara, «Censura teatrale e fascismo (1931-1944) - La storia, l'archivio, l'inventario», Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Direzione Generale per gli Archivi (2004)
  • U. Guspini, «L'orecchio del regime. Le intercettazioni telefoniche al tempo del fascismo», Ed. Mursia 1973 (Intercettazione telefonica tra Mussolini e Leopoldo Zurlo, capo Ufficio censura del regime.)
  • "Tessere o non tessere - I comici e la censura fascista" (Nicola Fano), Liberal Libri, Firenze 1999