I fiaschi dell'uomo di gomma

Totò

1959 08 16 Sorrisi e Canzoni TV intro

Totò nei ricordi di chi gli ha vissuto vicino - La vita del celebre comico scomparso 5 anni fa, dall’infanzia alla morte • Lo chiamavano «l’uomo di gomma», a Napoli, agli inizi della carriera, ma lo fischiavano sempre, tanto che Totò, per disperazione, andò a tentare la fortuna a Roma • Una delle più famose chanteuse degli anni Venti si tolse la vita per lui • Una «scoppiettante» vita sentimentale, poi il grande amore per l’attrice Franca Faldini • Tutte le mattine regalava diecimila lire ai poveri


Dal libro Totò il principe del sorriso (Fiorentino Editore), che è costato due anni di lavoro e di ricerche al nostro collaboratore Vittorio Paliotti, abbiamo tratto alcuni tra i brani che ci sono parsi più significativi. È stata, ovviamente, una scelta difficile, per la grande abbondanza di notizie, di fatti e di circostanze inedite sulla vita del grande comico Antonio De Curtis. in arte Totò. che sono raccolti nel libro. Ma anche con tante mutilazioni., l'avventura umana del «principe del sorriso», quale risulta dal breve scorcio che presentiamo, è piena di significati e ci offre una dimensione nuova del personaggio Totò. È merito di Paliotti che. oltre ad essere un biografo attento e informatissimo, ha lavorato anche con grande «impegno sentimentale», senza mai cadere, però, nella «retorica dei sentimenti». Eccovi qui di seguito i brani del libro.


L’infanzia nel vicolo

È sicuramente sospesa nel tempo, via Santa Maria Antesaecula; appartiene alla Napoli d’oggi ma anche a una Napoli remota e, salvo qualche dettaglio nell abbigliamento (blue-jeans anziché pantaloni corti), i bambini che vi scorrazzano sono identici a quelli di cinquanta e di cento anni fa. Investigare sul loro conto equivale a indagare sull’infanzia di Totò. Fu qui, al secondo piano di un palazzotto contraddistinto dal numero 109, che. alle ore 7,30 antimeridiane del 15 febbraio 1808. Totò nacque.

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Come su quella degli dei dell’Olimpo, sulla nascita di Totò sono fiorite molte leggende; fu detto e scritto perfino che avesse visto la luce non a Napoli ma ad Avezzano, in Abruzzo. Ma la realtà, che in seguito lui stesso non nasconderà mai, pur non sbandierandola. è che venne registrato all’anagrafe come Antonio Clemente, mentre l’identità del padre veniva taciuta. Solo nel 1921 la signora Anna Clemente sposò il principe Giuseppe De Curtis il quale, successivamente, riconobbe Antonio dichiarandolo suo figlio naturale.

Il padre di Totò, don Peppino De Curtis, uomo dalla corporatura bassa e tarchiata (’nu vuttazziello, una piccola botte, lo descrive la gente), vantava nobili ascendenze, tutte in seguito recuperate, ma in pratica finanziava una sartoria; «sartoria ambulante».

A scuola, Totò era talmente poco diligente che quando ebbe ultimata la quarta, anziché essere promosso in quinta, venne retrocesso in terza; ed è tutto dire. Completate le elementari passò al ginnasio «Cimini» di via San Giovanni a Carbonara. Si verificò qui un evento che doveva ripercuotersi per tutta la sua vita.

Un giorno un precettore che stava scherzando a fare la boxe con gli alunni lo colpì involontariamente al naso; Totò ebbe un’emorragia, non solo, ma la parte sinistra del naso gli rimase atrofizzata e nello sviluppo si delineò un dislivello di un centimetro fra i due lati del volto. Quella che allora parve una disgrazia doveva invece contribuire a fissare la maschera del futuro comico.

Protetto da un berretto di carta ricavato da un giornale
opportunamente ripiegato, ecco Totò, a quattordici anni, ritto su alte scale a piuoli, con la spatola che spalma stucchi su pareti di salotti, col pennello che dà il bianchetto ai muri di cucine, con la pennellessa che incolla parati alle fiancate di corridoi. Non importa se la paga di mastro Alfonso è esigua, quel che conta è lavorare, come gli ha insegnato papà. Certo, se solo volesse, il salario Totò potrebbe anche arrotondarlo con le regalie che gli offrono i clienti, ma questo «pare brutto», non starebbe bene; Totò le mance le rifiuta, sente sangue blu scorrergli nelle vene.

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La vocazione

A sera, dopo aver rimesso a nuovo quarti e quartini, verande e ballatoi, Totò andava a Intrattenersi sotto l’arco di Porta San Gennaro, sulla grande strada di Foria.

Si raccontavano barzellette, su quel balcone pianoterra di Foria, si organizzavano beffe ai passanti, si arrotolavano residui di tabacco in pezzetti di carta per ricavarne approssimative sigarette da aspirare a turno, e se dal fondo di qualche tasca spuntava un soldarello si entrava in una vicina pizzeria per acquistare una «margherita» e divorarne ciascuno lin sottilissimo spicchio.

Talvolta, poi, se si aveva proprio fortuna, passava qualche ragazzo bene introdotto nelle famiglie della zona e dava la grande notizia; «C'è una periodica! Siamo tutti invitati!» Venivano denominate «periodiche» certe piccole riunioni familiari, a scadenza per lo più settimanale, in cui alla presenza di mamma, papà, zie e zìi, i più giovani cantavano e dicevano versi. Divieto assoluto per il ballo; il ballo, per carità, veniva considerato come qualcosa di poco morale.

Fu frequentando quelle periodiche che Totò s’innamorò di una sua coetanea bruna (Vincenzella: più del nome di battesimo non ci è pervenuto) la quale si esibiva in languide melodie freneticamente applaudite, e fu per gareggiare con lei che s’improvvisò, in quei salotti, comico-contorsionista. Aveva molta fortuna a Napoli, a quell’epoca, il fantasista Gustavo De Marco. Quando si decise a imitarlo, il giovanissimo Totò venne subissato da un coro di battimani, sicché, anche quando gli fu passata la cotta per Vincenzella, gli rimase la fama di emulo di Gustavo De Marco. E ora erano in molti a Napoli a contenderselo, per animare le periodiche.

Il passaggio dai poveri salotti di Foria ai fatiscenti teatrini in legno della zona della ferrovia fu, si può dire, automatico.

Nel 1922, ormai aveva ventiquattro anni, Totò, vittima di un incidente professionale addirittura clamoroso, decise di abbandonare Napoli. L’episodio è lucidamente ricordato apprezzato a Napoli, quell’Enrico Demma che fu tra i pilastri del «Partenope»; «Nel 1922 Totò, il cantante Ferdinando Rubino, la chanteuse Ester Clary e lo, andammo a fare uno spettacolo al teatro "Della Valle” di Aversa. Totò, quando venne il suo turno, incominciò a declamare le solite macchiette di Gustavo De Marco. Fu tutto un uragano incessante di fischi. L’attore dovette letteralmente fuggire dal teatro, "Demma, non posso più rimanere a Napoli. Andrò via. Andrò a Roma”, mi disse quella sera stessa».

Ebbe inizio dunque, nel 1922, l’avventura romana di Totò. Un’avventura, bisogna tuttavia precisare, molto meno terribile di quanto non si possa supporre dal momento che il giovanotto, nella capitale, fu presto raggiunto dal padre e dalla madre, finalmente sposi. In una modesta casa di via Villafranca, i De Curtis riservarono al figlio una brandina nella stanza di soggiorno.

A quell’epoca Totò, al quale la madre più che mai contraria al teatro continuava a rifiutare sussidi, era talmente povero che, per nascondere le sdruciture ai pantaloni, privi perfino dei fondelli, indossava, anche d’estate, un lungo cappotto. «Che volete? Per mia natura sono freddoloso», scherzava con gli amici.

Compì anche un mezzo tentativo di suicidio, in quel periodo, e lo salvò per un puro miracolo sua madre, la quale, rinvenutolo in stato di semlincoscienza sul letto, fu lesta a liberargli naso e bocca dall’ovatta imbevuta di etere e a immergergli il capo nella vasca della cucina, affinché rinvenisse.

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La «sciantosa»

Alta, bruna, occhi verdi e fianchi sottilissimi, Liliana Castagnola andava già per i trentacinque anni quando, ai primi dì dicembre del 1929, arrivò a Napoli scritturata, in qualità di «vedette internazionale», dal «Teatro Santa Lucia». Non vi fu moglie di patrizio o di milionario che non temette, a causa di lei, di diventare improvvisamente vedova o, nella migliore delle ipotesi, di vedere frantumato il patrimonio di famiglia. L’attrice era considerata infatti, e giustamente, una insaziabile divoratrice di uomini.

La donna che aveva avuto ai suoi piedi industriali e nobili, una volta arrivata a Napoli, anziché abbindolare qualcuno dei milionari di cui pure abbondava la città, si innamorò perdutamente di Totò, un giovane che per quanto ormai fosse un comico ben remunerato dall’impresario del «Teatro Nuovo» non poteva certamente dirsi ricco e che, malgrado si fregiasse dei titoli di marchese e di principe, apparteneva a una nobiltà ancora controversa.

L’amore tra Totò e Liliana durò circa un anno, poi, il 3 marzo 1930, la rottura.

Una volta sola nella stanza della «Pensione degli Artisti», la donna, dopo aver inutilmente tentato di telefonare al «Teatro Nuovo», prese penna e carta e scrisse: «Antonio, potrai scrivere a mia sorella Gina per tutta la roba che lascio in questa pensione. Meglio che se la goda Gina anziché chi mai mi ha voluto bene. Perché non sei voluto venire a salutarmi per l’ultima volta? Scortese, omaccio! Mi hai fatta infelice o felice? Non so. In questo momento mi trema la mano... Ah, se mi fossi vicino! Mi salveresti, è vero? Antonio, sono calma come non mai. Grazie del sorriso che hai saputo dare alla mia vita grigia e disgraziata. Non guarderò più nessuno... Te lo avevo giurato e mantengo. Stasera, rientrando, un gattac-cio nero mi è passato dinanzi. E ora, mentre scrivo, un altro gatto nero, giù nella strada, miagola in continuazione. Che stupida coincidenza, è vero?... Liliana tua».

Subito dopo, distesasi sul letto, ingerì l’intero contenuto del tubetto del sonnifero. Venne trovata così, senza vita ma sorridente, l’indomani mattina, dalla cameriera della pensione.

Totò volle che Liliana fosse inumata nella tomba dei De Curtis, a Napoli, dove tuttora riposa accanto alle spoglie di lui. E in onore della chanteuse suicida battezzerà Liliana la figlia che, qualche anno dopo, nascerà dal suo primo matrimonio.

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Il matrimonio

Nel 1931, trentatreenne, Totò conobbe a Firenze, mentre si trovava appunto in tournée, una ragazza bionda e dolce. Si chiamava Diana Rogliani Serena di Santa Croce, aveva sedici anni e, napoletanissima di famiglia e di educazione, si trovava momentaneamente nella città toscana, ospite alcuni parenti; una sera Diana era andata in teatro per ascoltare Totò, suo comico preferito, e gli si era fatta presentare. Si rividero a Napoli e si innamorarono subito l’uno dell’altra.

Derogando a quelle che erano le sue abitudini, Totò volle andare subito a parlare col padre della ragazza, un generale dell'esercito dal portamento austero e quasi regale, proprietario anche di alcuni bar a Gaeta. Il colloquio fu alquanto burrascoso.

«Signor generale, ho l’onore di chiedere la mano di vostra figlia Diana», disse Totò, facendo del suo meglio per infondere a quella frase un tono di compunta ufficialità.

Ma il solo risultato fu quello di far sganasciare dalle risate il generale: aveva in mente ben altri partiti, lui, per Diana.

«Totò, ma vi rendete conto? Voi siete un comico. La mia famiglia, Invece... Io ho un fratello monsignore».

«Signor generale, se è per questo sappiate che la mia famiglia non ha niente da invidiare alla vostra. Io sono principe, marchese, duca...».

Non furono certo i titoli nobiliari enumerati a convincere i genitori di Diana a dare il consenso alle nozze, che ebbero luogo, appunto, nella primavera del 1932 a Roma col solo rito civile successivamente confermato da quello religioso, bensì le insistenze della ragazza che si dichiarò innamoratissima dell’attore.

La coppia, in attesa di tempi migliori, andò ad abitare in un alberghetto romano di via della Vite e fu proprio per la mancanza di una vera fissa dimora che incominciarono a delinearsi i primi litigi. Diana, principalmente, aveva paura di partorire in una camera d'albergo e supplicava Totò di portarla in una clinica; ma lui, fedele a certe antiche usanze napoletane, si oppose fermamente a questa soluzione.

Liliana nacque nel 1934, sana e robusta. Totò era al colmo della felicità e per festeggiare l’evento, racimolando certi risparmi, acquistò, di seconda mano, un’automobile «Balilla» a bordo della quale scarrozzava per Roma la neonata in fasce.

Più ancora che il continuo girovagare per ntalia. fu la tendenza di Totò a guardare con troppa insistenza le donne, e specie le ballerine, che minò il matrimonio. Nel 1937 i due coniugi erano già in rotta e la bambina, che aveva appena tre anni, venne rinchiusa in un asilo-nido. Per amore di Liliana, alcuni mesi dopo Totò e Diana si rappacificarono. ma ormai la frattura fra loro era in pieno atto. Si separarono nel 1940. In seguito ottennero l’annullamento del matrimonio.

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Silvana Pampanini

Il 1951 fu un anno molto difficile per Totò. Se gli allori cinematografici continuavano a essere rigogliosi (si ricordano, di quell'anno, 47 morto che parla, Sette ore di guai, Totò terzo uomo), non altrettanto tranquilla era la sua vita interiore. Malgrado la sua ferma opposizione, la figlia Liliana si sposò, in quell’anno, col produttore Gianni Buffardi; Totò fu facile profeta sui risultati di quel matrimonio dal momento che, in epoca successiva, Liliana si separò dal marito per poi sposare il commerciante Sergio Anticoli; adesso, comunque, a Totò rimaneva la realtà triste di una casa vuota. Per ore e ore lui si aggirava, tutto solo. nell’appartamento di via Bruno Buozzi.

Volle tentare di spezzare quella solitudine avanzando, con molta timidezza e, com’era nel suo costume, con assidui invii di cestini di fiori, una proposta di matrimonio a Silvana Pampanini.

«Principe, sono onorata e sono lusingata della vostra offerta. Ma vi rendete conto della differenza di età che passa fra noi? Io, principe De Curtis, vi voglio bene come a un padre», fu la risposta, cortese ma ferma, della «maggiorata fisica».

Totò ne soffrì moltissimo. Del resto aveva sempre avuto il vezzo di nascondersi gli anni e, anzi, ogni qualvolta veniva pubblicata la voce «De Curtis» su un annuario o su un’enciclopedia, lui con un mozzicone di sigaretta si prendeva la briga di bruciacchiare, su quante più copie possibile, il rigo contenente la data di nascita.

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L’amore più grande

Solo. Con tutta la sua immensa popolarità, Totò era solo. Di amici veri ne aveva pochi, né era il tipo, lui, che per ammazzare una serata andasse a seppellirsi nel buio di un night.

«Ah, come vorrei avere una bella guagliona, vicino a me!», diceva.

Non che gliene mancassero, di belle guaglione. Il portalettere, ogni mattina, gli consegnava pacchi di missive di ammiratrici le quali, senza perifrasi, si dichiaravano pronte a fare qualsiasi cosa per lui; altre venivano a picchiare fin sull'uscio di casa e molte volte lui, se sì accorgeva che erano brave ragazze solo un po’ infatuate, cercava addirittura di farle ragionare e le mandava via. Per bella guagliona Totò intendeva una donna che gli volesse bene e della quale lui, a sua volta, fosse innamorato.

Nel 1952, l’anno in cui interpretò fra l’altro Dov'è la libertà di Roberto Rosselllni, Totò e i re di Roma di Steno e Monicelli e Totò a colori di Steno, fu attratto da una immagine femminile apparsa su un giornale: la foto di Franca Faldini.

Franca Faldini, a quell’epoca, aveva vent’anni; era cioè pressappoco coetanea di Liliana ed era più giovane di Silvana Pampanini. Appartenente a una famiglia della buona borghesia. Franca, qualche anno prima, attratta dal miraggio del cinema, aveva voluto tentare la fortuna a Hollywood. In America non aveva esitato a concorrere al titolo di «Miss torta di formaggio», una qualifica ambitissima che veniva conferita alle più belle attrici esordienti e della quale già, negli anni precedenti, sì erano fregiate Marlene Dietrich e Rita Hayworth; con i voti plebiscitari delle truppe combattenti in Corea e delle truppe di occupazione in Germania, Franca ce l’aveva fatta, ed eccola da un giorno all’altro acclamatissima in tutti e quarantotto gli Stati Uniti. Notata da Errol Flynn, Franca Faldini aveva interpretato un piccolo ma convincente ruolo in un film accanto a Dean Martin, l’eroe dei giovanissimi, e aveva poi ottenuto un contratto per sette anni dalla «Paramount». Già interpellata per il ruolo di protagonista femminile di un film con Mario Lanza, aveva improvvisamente fatto ritorno a casa, vinta dalla nostalgia dell’Italia.

Vedere Franca Faldini in effige sul giornale e innamorarsene fu, per Totò, un tutt’uno. Roba da fanciullini, da sedicenni. Chi se non un sedicenne sì innamora di una donna la cui immagine è su un giornale? Ma Totò, di dentro, era un fanciullino, appunto; un candido, anzi.

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Il figlio

Il 12 ottobre del 1954, Fianca, in una clinica di Roma, diede alla luce un bimbo. Massenzio. Totò aveva atteso trepidando, con ansia crescente. quell’evento, e adesso era felice. Finalmente un figlio maschio, uno che avrebbe dato continuità non solo al suoi titoli nobiliari ma soprattutto al suo cognome, quel cognome che lui, nell’adolescenza, quando ne era privo e si chiamava Antonio Clemente, aveva tanto desiderato. Purtroppo nella stessa giornata in cui era venuto alla luce il bimbo mori, mentre Franca, colpita da albuminosa gravidica, si salvò per miracolo. Massenzio fu sepolto a Napoli, nella cappella gentilizia dei De Curtis.

Per giorni e giorni, per settimane, Totò rimase immobile in casa. Non voleva vedere nessuno, non voleva parlare con nessuno. «Cosa ci campo a fare?», rispondeva agli amici i quali, premurosamente, cercavano di farlo uscire da quel letargo.

Poi si accorse che. proprio accanto a lui, esisteva un motivo valido per continuare ad andare avanti: Franca. Pallida, smagrita per la malattia. Franca fu il tramite fra Totò e il suo lavoro. Cosa c’è da interpretare, adesso? Totò cerca casa, II medico dei pazzi, I tre ladri. II principe De Curtis affronta Totò, lo scuote: vai a lavorare, fallo per Franca.

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Il male agli occhi

Anno 1957: «cede» l’occhio destro di Totò. Per il comico, che fin dal lontano 1939 aveva subito una forte menomazione all’occhio sinistro inutilmente sottoposto a due interventi, è la disperazione.

«Franca, sono spacciato. Non ti rimane altro che regalarmi un bastone bianco», disse alla Faldini, in uno scherzo amaro.

«Calma Totò, calma; vedrai che i medici ti rimetteranno in sesto».

«I medici? Quando mai i medici hanno ridato la salute al prossimo? Franca, qua può salvarmi solo santa Lucia, la protettrice della vista», disse.

Per interi mesi Totò rimase al buio, nella casa di viale Bruno Buozzi, accudito da Franca, che amorevolmente gli leggeva i giornali e scriveva l versi che lui dettava.

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La morte

Alle ventuno, l’attore consumò una minestrina di semolino tiepida e una mela ben cotta. Subito dopo disse: «Eppure non mi sento bene. Non mi fido».

Tremando e sudando sì alzò e si avviò verso il corridoio. Fu lì, nel corridoio, che Franca e la cameriera lo trovarono, pallidissimo, appoggiato in piedi a uno stipite, accanto al telefono. Lo accompagnarono nella sua stanza e lui volle distendersi sul letto da solo, senza l’aiuto di alcuno.

«Ho un formicolio al braccio sinistro», mormorò.

Franca capì subito. Braccio sinistro, formicolio: infarto.

Accorsero, telefonicamente avvertiti, la figlia Liliana, che abitava in via Vigna Clara, il cugino-segretario Eduardo Clemente, il medico curante dottor Cusumano e il cardiologo professor Guidottì. Gli furono somministrati dei cardiotonici ma le condizioni non accennarono a migliorare.

«Chi è che mi ha sparato questa fucilata nel cuore?», chiese Totò.

Il cuore: era la prima volta che pronunciava quella parola, aveva capito anche lui. Quella fucilata la sentiva anche Franca, ora, nel petto, ma lei doveva fingere disinvoltura perché lui, Totò, non sì avvilisse maggiormente; e Franca, sforzandosi, riuscì a dominarsi. Si abbandonò alle lacrime, Franca, soltanto quando fu portata una bombola d’ossigeno; il cicaleccio del televisore, lasciato acceso, coprì i suoi gemiti. Piangeva anche Liliana, ora, e piangeva la cameriera, e piangeva Carlo, l’autista. Eduardo Clemente, il cugino-segretario, pur soffrendo immensamente, riuscì a contenere la propria commozione e non si staccò un attimo dal capezzale di Totò, caduto in una specie di torpore.

Alle due di notte Totò si risvegliò. In un rantolo, disse al cardiologo: «Professò, vi prego, lasciatemi morire, fatelo per la stima che vi porto. Il dolore mi dilania, professò. Meglio la morte».

Subito dopo perse di nuovo conoscenza. Alle tre e mezzo si risvegliò e dalla sua bocca uscì un fiotto di sangue. Franca non riuscì a reprimere un urlo.

«Zitta, Franca, non è sangue, è tabacco», mentì Eduardo Clemente, per calmarla.

Ma ecco che Totò rotea gli occhi. Gli è rimasta, dentro, ancora una briciola di vigore dell’antica marionetta, quella marionetta superba e incomparabile che sa esprimere qualsiasi sentimento con la sola mimica. Quante volte Totò, In piena era di film sonoro, ha supplicato i produttori di lasciargli interpretare un film muto? Ma i produttori mai hanno voluto accontentarlo. Guardi ora almeno Franca di cosa è capace di dire e di fare, lui, col solo movimento degli occhi. Ma anche Franca ora sa spiegarsi con la mimica. Totò ha trasmesso anche a lei un’estrema irripetibile lezione, lo spirito meraviglioso della marionetta. Stanno parlando, si stanno dicendo milioni di cose.

Poi la marionetta ritorna al sonoro.

«Eduà», dice al cugino. «Eduà, mi raccomando. Quella promessa: portami a Napoli». Ma le ultime parole, ore tre e venticinque del 15 aprile 1907, vanno a Franca, e sono in dialetto napoletano.

«T’aggio voluto assai bene. Franca. Proprio assai».

Vittorio Paliotti, «Oggi», anno XXVIII, n.49, 7 dicembre 1972


Oggi
Vittorio Paliotti, «Oggi», anno XXVIII, n.49, 7 dicembre 1972