Collaboratori e autori: Daniele Palmesi, Franca Faldini, Goffredo Fofi, Giancarlo Governi, Ennio Bìspuri - Vita di Totò

GUSTAVO DE MARCO, L'ISPIRATORE DI TOTÒ

Gustavo De Marco


[...] Così c’erano sempre per me applausi a non finire. Ma che erano, quelli destinati a me, in confronto agli applausi che riscuoteva Gustavo De Marco? Io lo conobbi a Roma, all'Acquario. Ero uno del pubblico e mi piacque tanto che divenni un suo tifoso, cominciai ad imitarlo. Ho cominciato la carriera proprio imitando quel comico. Perciò non ho frequentato nessuna accademia, nessuna scuola mi ha avuto come discepolo. D’altra parte sarei stato un cattivo scolaro: ho sempre amato crearmi le «mosse» da me. [...] Lo so che dico due cose che sembrano contrarie fra loro. Ma ai capocomici io dovevo presentarmi con qualcosa che già in partenza piacesse al pubblico. E il pubblico allora amava De Marco: col ripetere o imitare un suo numero, il successo era assicurato.. Aggiungo questo, perché qualcuno non possa dire che io non sapevo fare qualcosa di personale: quale giovane attore non imita, nei primi suoi anni di attività, questo o quell’altro suo collega che più gli piace? tutto consiste nel non restare ancorati all’imitazione. Ed io volli e seppi uscire dalla imitazione di De Marco e costruire un «tipo» di comico che col passare del tempo divenne solo mio e che servì al pubblico per identificarmi. Non è vero, perciò, come hanno scritto alcuni critici, che io fino al ’40 ho ricalcato Gustavo De Marco, facendo la marionetta disarticolata. Nel ’25, quando ero il «numero uno» alla Sala Umberto, già le macchiette erano «mie», nel senso che rivestivo con la mia comicità i fatti che vedevo andando per strada.

Antonio de Curtis


Ma chi era questo Gustavo De Marco, questo comico che Totò, fin dall’adolescenza, aveva come modello e come ispiratore? Sulla scia dei cento e cento uomini di gomma, uomini di legno, uomini di ferro, uomini serpenti, uomini coccodrilli, uomini leoni e così via calati a Napoli da tutta Europa sul finire dell’Ottocento, in coincidenza con gli splendori del «Salone Margherita» e degli altri caffè-concerto, nella città partenopea avevano continuato a prosperare fantasisti indigeni dalle più svariate risorse e dai più strani atteggiamenti. Uno di questi, sicuramente il più celebre fra quelli di estrazione locale, era appunto Gustavo De Marco, detto l’uomo di caucciù.

Figlio d’arte per eccellenza, il De Marco era nato, esattamente nel pomeriggio del 24 novembre 1883, in un camerino di quel «Teatro San Ferdinando» che aveva visto i plebei trionfi di don Federico Stella. Si rappresentava, quel giorno, il drammone «I due sergenti» in cui, fra gli altri, l’attore Rodolfo De Marco sosteneva il ruolo di Gustavo, aspirante amoroso, e in cui sua moglie Letizia Crispo interpretava la parte dell’attrice giovane. La signora Letizia, incinta di nove mesi, nel momento in cui si alzò il sipario, lanciò, colta dalle doglie del parto, un altissimo urlo e andò a gettarsi a terra nel camerino, mentre il suo posto sul palcoscenico veniva preso da una ragazza di utilité. Fra il primo e il secondo atto di «I due sergenti», vide la luce un bimbo al quale il padre, in riferimento al personaggio che stava interpretando, impose il nome di Gustavo.

Poco più che ragazzino, Gustavo De Marco esordì alla «Fenice», quindi si specializzò in dizioni di macchiette e in caratterizzazioni di marionette disarticolate, formando anche, successivamente, compagnia con Salvatore Catterò, Giovanni Mongelluzzo e Marchetiello. Le macchiette «Paraguay» e «Il bel Ciccillo» erano i suoi cavalli di battaglia; inoltre su frenetiche musiche pronunciava incomprensibili e lunghissimi scioglilingua che gli fornivano il pretesto per prodursi in salterelli, contorsioni degli arri e movimenti del collo. Il pubblico, di ciò che lui diceva, non capiva nulla, ma si divertiva moltissimo assistendo a quelle esercitazioni clownistiche.

Per quel che riguarda la musica, poi, Gustavo De Marco aveva operato, in un’epoca in cui il jazz ancora non era comparso in Italia, una vera e propria rivoluzione, dando la preminenza, fra i vari strumenti che componevano l’orchestra, alla batteria. Ritto sul palcoscenico, De Marco si rivolgeva al direttore d’orchestra; gli diceva: «dammi un colpo», e al ritmo del tamburo compiva un imprevedibile movimento; «dammi un altro colpo», e via un’altra azione.

Totò aveva sì e no quattordici anni quando, al teatro «Trianon», assistette per la prima volta a uno spettacolo di Gustavo De Marco. Ne rimase letteralmente entusiasmato. Volle recarsi dietro il palcoscenico e andò a stringere la mano al comico.

«Scusate, maestro», gli chiese, «come avete imparato a fare quei movimenti frenetici col corpo?».

«Da solo», rispose De Marco. «Ho un grande specchio, a casa. Per ore ed ore me ne sto davanti ad esso e controllo i miei movimenti. Tutto qui».

Da quel giorno Totò prese l’abitudine, nella grande stanza di sua madre in via Santa Maria Antesaecula, di trascorrere intere giornate davanti allo specchio fino a riuscire ad imitare, quasi alla perfezione, i gesti di Gustavo De Marco. Si procurò poi i versi di «Paraguay», di «Il bel Ciccillo» e delle altre macchiette del repertorio di colui che aveva eletto a suo maestro, e li mandò a memoria. Le festicciuole «periodiche» delle famiglie della piccola borghesia di via Foria furono, come abbiamo visto, le sue prime palestre di collaudo.

L’approdo di Totò ai vari teatrini della ferrovia, non scompose affatto Gustavo De Marco. L’uomo di caucciù vantava allora non solo a Napoli ma in tutta Italia un gran numero di imitatori i quali, come del resto Totò, si erano perfino appropriati il suo repertorio; e quegli imitatori, anzi, solleticavano la sua vanità. «Dicano e facciano quel che vogliono. Il vero Gustavo De Marco sono io», rideva.

Gustavo De Marco incominciò a impensierirsi e a seriamente preoccuparsi dopo che Totò riscosse il suo formidabile successo napoletano all’«Eden». Se finora aveva sempre guardato con occhio distaccato i suoi epigoni, stavolta andò su tutte le furie.

«Il vero Totò sono io», tuonò Gustavo De Marco, capovolgendo il suo antico slogan, e minacciò rappresaglie e ritorsioni.

Una sera, infine, spinto dalla curiosità più che dalle insistenze di amici comuni, volle recarsi ad ascoltare il suo imitatore. Rimase esterrefatto. Pronunciate da Totò, le strofette «Paraguay» e «Il bel Ciccillo» assumevano un diverso sapore, come pure le contorsioni e i salterelli, eseguiti da Totò avevano un carattere totalmente nuovo.

Lealmente, Gustavo De Marco volle andare a complimentarsi col giovane.

«Bravo», gli disse. «Sono davvero contento che i miei insegnamenti abbiano dato questi frutti».

Fu quello, un modo di passargli idealmente uno scettro: nelle mani di Totò funzionò a meraviglia, molto meglio che non in quelle di colui che, prima, l’aveva impugnato. E del resto Totò, da parte sua, conservò sempre una grande ammirazione per Gustavo De Marco continuando a considerarlo il suo maestro e il suo ispiratore. «A De Marco», diceva Totò per modestia, «gli è stato di nocumento la perfetta perpendicolarità del suo naso; se avesse disposto anche lui di una narice traviata, avrebbe avuto fortuna quanto me».

Vittorio Paliotti


1910 Gustavo De Marco 001 L


Gustavo De Marco, figlio dell'attore Rodolfo, era nato a Napoli il 24 novembre 1883 in un camerino del teatro San Ferdinando durante l'intervallo de I due sergenti, un fumettone francese di A. Maillard e B. Daubigny, che sarà in seguito rielaborato e adattato alla storia italiana da Collodi junior. Il padre gli aveva imposto il nome Gustavo proprio perché, nel dramma rappresentato quella sera, interpretava il ruolo di Gustavo, mentre la madre, Letizia Crispo, attrice giovane, aveva cominciato a sentire le doglie e a gridare non appena era stato sollevato il sipario sulla scena. Il destino di Gustavo De Marco era stato così segnato sin dal giorno della sua nascita. Spintovi dal padre, aveva cominciato a recitare a nove anni al teatro Fenice e, dopo aver costituito una sua compagnia con i macchiettisti Giovanni Mongelluzzo, Marchetiello e Salvatore Catterò, divenne ben presto uno specialista in macchiette caratterizzate da incomprensibili giochi di parole e da una mimica sincopata, scandita da contorsioni ed equilibrismi del corpo e accompagnata, con un'intuizione molto moderna, dalla musica di una batteria. Si rivolgeva al direttore d'orchestra e gli diceva «dammi un colpo». Il batterista batteva alcuni colpi di tamburo secchi e De Marco eseguiva un movimento. Poi diceva ancora «dammi un altro colpo» ed eseguiva un altro movimento e così via.

Sulla base di questo schema elementare, che creava tuttavia nel pubblico una grande attesa e una forte tensione emotiva, De Marco era riuscito a mettere a flutto la grande lezione di Fregoli, accentuando gradualmente gli aspetti contorsionistici, espressi con crescente velocità di trasformazione e meritandosi poi l'appellativo di “comico zumpo” o “comico caucciù", allo stesso modo in cui il Totò degli esordi veniva chiamato, come vedremo, "l'uomo di gomma".

Un'altra grande abilità di Gustavo De Marco consisteva nell'imitazione perfetta delle marionette dell'Opera dei Pupi del teatro Petrella, che sarà, ancora una volta, una specialità ricorrente di Totò, soprattutto in alcune farse, prima fra tutte Totò a colori.

Conosciamo pochissimo di De Marco. Sappiamo che dopo una lunga tournée in America Latina sposò la soubrette Cleo Miranda e nel 1923 si ritirò per sempre dalle scene, rimanendo a Napoli fino alla fine della sua vita, il 9 gennaio 1942. Nella recitazione di De Marco si sedimentava e si coagulava una tradizione napoletana secolare, che passava per lo Sciosciammocca di Scarpetta, il Pulcinella di Petito e Fiorillo, per la commedia dell'arte e per le farse buffonesche di Anseimo Tartaglia, così dense di equivoci esagerati, di allusioni volgari, di diuturne lotte tra servi e padroni, di amori ancillari, di sberleffi e di astuzie, radicate nel teatro plautino, nelle atellane latine, nei fescennini, negli spettacoli comici della Campania Felix e di Pompei, che il varietà napoletano del '900 aveva conglobato e rielaborato attraverso una metabolizzazione recitativa non estranea a quegli antichi presupposti, riadattati però, con un linguaggio più moderno, alle esigenze di un mondo politicamente ed eticamente più complesso.

Tanto irresistibile era il successo di Mongelluzzo sulle scene del Caffè Turco che era uso del tram numero 18, che passava da piazza Plebiscito, di fermarsi a furor di popolo per un quaro d'ora o una mezz'ora per per permettere ai passeggeri, secondo un codice di vita esclusivamente napoletano, di andare a gustare per un momento le esibizioni di Mongelluzzo.

Ennio Bìspuri


Gustavo De Marco (Napoli, 1883 – Napoli, 1944) è stato un comico e attore teatrale italiano del teatro di varietà e del café chantant dei primi due decenni del novecento. Fu il primo grande, vero ispiratore di Totò. Nato da due attori Rodolfo De Marco e Letizia Crispo, fu concepito, da quanto si racconta, nei camerini del Teatro San Ferdinando. Poco più che ragazzino esordì alla Fenice, raccogliendo ampi successi come macchiettista. Può essere considerato come il comico più famoso della scena napoletana del periodo, anche grazie al fenomeno delle periodiche, con una comicità legata ad una particolare mimica del corpo, all'arte dei doppi sensi e ad alcune macchiette (come "il bel Ciccillo") poi rese famosissime nei decenni a venire dai suoi epigoni, su tutti Totò e Nino Taranto. Ricordiamo anche l'invenzione dell'"uomo-marionetta" (all'epoca detto "comico-zumpo"), che lo portò a diventare famoso in tutta Italia come "l'uomo di gomma", anche questa poi riproposta con grande successo da Totò. Fu celebre anche per il suo duetto "con il tamburo". Rivolgendosi all'orchestra, diceva: "dammi un colpo", al suono del tamburo roteava una parte del corpo; poi ne chiedeva un secondo, cui seguiva un altro imprevedibile movimento.

Sotto la guida grandi maestri come Giovanni Mongelluzzo e Marchetiello apprende l'arte di imitare e di muoversi al ritmo della grancassa. Dal celebre Leopoldo Fregoli, di cui è allievo, trae spunto per i cambi d'abito veloci e il suo stile sciolto e dinoccolato quasi contorsionistico. Accentuando queste due caratteristiche continuò il repertorio di Mongelluzzo che già si esibiva nella celebre macchietta intitolata il Bel Cicillo.



Lo sketch interpretato da De Marco "Il bel Ciccillo", riproposto da Totò nel film "Yvonne la nuit" nel 1949.


Totò assistette ad uno di questi spettacoli all'età di quattordici anni, rimanendone entusiasta. Quel corpo disarticolato, quella mimica grotesca, gli erano entrati dentro. Dopo lo spettacolo conversò a lungo con l'uomo chiedendo il segreto di tanta bravura. "Mi esercito ogni giorno per ore davanti allo specchio", fu la lapidaria risposta del grande fantasista. A Totò la ricetta piacque a tal punto che la sera stessa cominciò le prove nella camera da letto di casa sua.


«Il Café-Chantant», 12 gennaio 1920


In particolare Totò esordì proprio imitando, ancora giovanissimo, il repertorio di De Marco che si esibiva, all'epoca, al Teatro Jovinelli di Roma, per poi ampliarne ulteriormente la carica comica negli anni a venire. La fortuna e la sfortuna della grande capacità clownesca di De Marco risiedono entrambe nel suo rapporto con Totò: se da un lato questi ne ha riproposto l'intero repertorio consegnandolo all'immaginario collettivo, dall'altro ne ha finito per offuscare la memoria, oggi legata più alle leggende che alle cronache dell'epoca.



Il mio primo incontro con lui [Totò] risale nientemeno che al 1918 o ’19. [...] Fui attratto da un manifesto che diceva così: Questa sera (a caratteri grandi) il comm. Gustavo De Marco (e sotto, a caratteri piccolissimi) imitato da Totò. [...] Gustavo De Marco, macchiettista, contorsionista, trasformista e « Marionetta vivente ». Questa ultima qualità gli proveniva dal fatto che sapeva imitare alla perfezione i movimenti dei « pupi ». [...] Ad un certo punto pareva che si snodasse nelle ossa e nelle membra, fino ad assumere atteggiamenti « marionettistici », così paradossali da suscitare nel pubblico i più clamorosi consensi. Ad un determinato momento della sua esibizione, quando il ritmo si faceva più frenetico che mai, qualcuno dalla platea o dal loggione, gli gridava: « Asso ‘e spade... » (asso di spade). Bene, De Marco si fermava di colpo in tutta la persona assumendo improvvisamente, per quanto possibile, la figura geometrica della carta « asso di spade » che fa parte del « mazzo » di carte da gioco napoletane. Progressivamente, poi, si metteva a girare su se stesso fino a raggiungere un ritmo vertiginoso, tanto da sembrare una trottola.

Peppino De Filippo

Conobbi Totò quando cominciava a lavorare nei varietà periferici di Napoli, piccoli teatrini sgangherati. [...] Faceva l’imitazione di un artista che si chiamava Gustavo De Marco [...]. Ricordo ancora dei manifesti per le strade col suo nome scritto grande, anzi grandissimo, e sotto, tra parentesi e in lettere piccolissime: ‘imitato da Totò’. Il fatto è che la stella di De Marco era ormai in declino e sulla sua scia sorgeva invece questo guaglione.

Peppino De Filippo


Il suo modo caratteristico di recitare consisteva in vivaci macchiette presentate secondo la moda del tempo. Ma, dove eccelleva e trascinava il pubblico al delirio, era nei finali delle sue macchiette. essi erano costituiti da danze sincronizzate da gesti del corpo e da mosse e smorfie del viso al ritmo di piatti e grancassa, con una perfezione tale da eccitare l’invidia e l’ammirazione di un acrobata di professione.


Figliuolo di Rodolfo De Marco, uno dei più vibranti attori della nostra scena dialettale, onde il ricordo é ancor vivo nell'animo mio, e di Letizia Crispo, che io ebbi ad interprete preziosissima, Gustavo - De Marco ha nel sangue la febbre dell'arte. Buon seme non mente; ed il ragazzo che, or sono quindici anni, recitava sulle scene del caratteristico popolare teatro San Ferdinando, oggi è uno dei più acclamati comici del Varieté Italiano. Io, l'altra sera, volli recarmi al teatro Nuovo, per rivedere Gustavo De Marco, e riportai un senso di commozione vivissima quando, nel comico del teatro di Varietà, vidi rivivere il forte attore della scena di prosa dialettale. Nel Malandrino di Ferdinando Russo, io, attraverso la squisita interpretazione di Gustavo De Marco, vidi, sentii rivivere Rodolfo De Marco, net gesto, nella voce, nello sguardo, negli atteggiamenti.... E pensai che è questo il grande retaggio che gli attori lasciano ai loro figliuoli: l'arte, febbre divoratrice del sangue, e fiaccola viva dello spirito, che le amarezze non spengono e che i dolore ravvivano. Gustavo De Marco è sopratutto un buon attore, e, se la sua arte talvolta è fatta di transazione, è da attribuirsi al gusto dei nostri pubblici che si inteneriscono più agli esercizi ginnastici che alle manifestazioni più dignitose e più nobili dell'arte....

Pure,in questo nuovo genere, che da qualche anno invade il cafè chantant, genere che io non amo né incoraggio, quanta grazia, quanto brio, quanta comicità trasfonde Gustavo De Marco; temperamento sensibile di artista che a ben altri cimenti potrebbe provarsi e che su più spaziosa ribalta vorrei potere ammirare.

E' destino del mio paese questo !... Le migliori energie vanno disperse e la lotta per la vita sottrae alle buone battaglie l soldati su cui potrebbe farsi affidamento.

Amico mio, se questa è la tua via percorrila ancora con fortuna e che l'arte ed il galantomìsmo di Rodolfo De Marco siano la tua corazza e fa tua luce. lo non so che applaudirti!

Libero Bovio, settembre 1909


Se la versione di De Marco non fu mai documentata cinematograficamente, la versione di Totò fu invece registrata, molti anni più tardi e in versione ridotta, nel film Yvonne la nuit (regia di Giuseppe Amato, 1949).

1916: Totò ancora diciottenne viene definito "degno emulo di Gustavo De Marco" (Cafè Chantant», a. XX, n.9, 11 maggio 1916)

1922. Viene annunciato quel numero di Totò, imitatore di De Marco di cui abbiamo già riferito e l’anno successivo, in modo ancora più esplicito, si legge l’annuncio di una serata romana:

Salone Elena: Gustavo De Marco, pardon; la imitazione particolare eseguita da certo Totò, e, dicono, esageratissima [...] A terminare il varietà ci apre la stabilè Compagnia De Marco [«nfrù»] sempre eclatante, sempre applauditissima.

La definizione di “imitatore” sparisce presto da manifesti e recensioni, non perché il pubblico nel frattempo si dimentichi dell’originale ma perché il numero, la macchietta, l’esibizione inizialmente ispirata a Gustavo De Marco sarà talmente personalizzata dal suo discepolo da divenire una creazione autonoma.


Io, prima di tutto, sono comico parodista da circa dieci anni, e cioè fin da tempo avanti che Petrolini ritornasse dalla sua prima tournée americana; a meno che i miei salti, i miei sischi, i miei... rumorosi annessi e connessi nell’eseguire una macchietta il pubblico e gli intelligenti non debbano chiamarli imitazione. E se al nome di parodista volli prendere quello di eccentrico (questo pure non l’ho registrato ancora) fu perché le mie acrobazie mi parvero più eccentricità che parodie e perché (non voglio sputare un paradosso) ritenevo già che tutta la nostra opera di artisti varietisti era una vera... parodia della vita e dell’arte. Quindi ... con buona pace dei colleghi sobillatori se il collega (anch’io sono maestà e ne ho tutelato il diritto in America) Petrolini ha indirizzata la sua lettera contro i petrolineggiatori ovvero i parodisti, certamente non lo aveva con me. E se alcuni titoli di mia interpretazione possono far credere per tale, eccomi a dare... le prove del contrario. Io eseguo fin dal 1911 un Otello vendutomi da Mimi Albin, regolarmente registrato, e presentato al colto pubblico dei più importanti Varietà italiani, riproducendo la scena della morte di Desdemona e termina con la tarantella d’ ’e vase. Prego sapermi dire se l’altro Otello è padre o figlio del mio o ... spirito santo di... chiaroveggenza! [...] Che dovrei poi dire della Traviata? Che della Messalina, con la quale fin dall’anno 1910 io trescavo, con un certo successo, coi sempre nuovi desideri del pubblico senza però tradire, con i miei zompi, la loro fede di nascita e istigare l’esclusività d’interpretazione tra le colleghe della Subburra o dei Boulevards parisiens? [...] Ma lasciamo le satire (questa non l’ho registrata) e ritorniamo a noi come si conviene a Re, Imperatori e Padreterni alleati od intesi come meglio si vuole, e da artisti della vecchia guardia e cioè di quella che divenne generale dopo aver mangiato alla... gavetta e che, appunto alla comicità di maestri come Maldacea e Villani prese la sua via diritta nell’arte, dividendosi quando, per le mutate condizioni del gusto del pubblico occorse costituirsi un io. Io che è la prova della differenza fra me e Petrolini poiché mentre questi prendeva la Via Parodia (veramente lui dice resta Parodia ...ti è piaciata?) il sottoscritto infilava Via dello Zompo per raggiungere: il primo il regno della risa ed il secondo l’impero... dei cieli [...]

Gustavo De Marco


Forse per una deviazione o bizzarria dell’atavismo, dal matrimonio di Letizia Crispo con Rodolfo De Marco ne uscì un macchiettista di varietà, ma un “tipo” originale: eccentrico, meccanico e sincopato; in altri termini americano. Se non che, lui lo era qui, quando laggiù non lo erano: infatti, col suo “numero”, fu il primo ad introdurre nei caffè-concerto di New York, dell’Argentina e del Brasile il pupazzetto spezzettato del jazz e lo importò nelle terre che dovevano poi mettere al mondo musica negra e suonatori acrobati. Certo di questo non vogliamo incolpare Gustavo De Marco; e diciamo che la sua è una divertente creazione, affine, se analogia si vuol trovare ad ogni costo, ad alcuni disegni di Caran d’Ache, ed è un po’ come il Pinocchio frenetico del Novecento.

Ad essere sinceri, anche diversi comici del moderno varietà derivano dal De Marco; il più noto fra tutti, che più ebbe fortuna, e trovate nell'ampliare il “tipo” di altre ingegnosità elettrizzanti, resta ancora Totò. Gustavo, però, esordi come piccolo attore alla Fenice. Poi, quel che spesso abbiamo visto accadere ai suoi colleghi, accadde anche a lui. Tempo fa, nei teatri minori, dopo la commediola, seguivano alcuni numeri canzonettistici; e quella volta alla Fenice mancò il noto macchiettista Ciccillo Mazzola, tanto simpatico al pubblico della Napoli d’altri tempi.

“Come si fa? Come non si fa?”
“Gustà, tu saie paricchi mmacchiette: vuo’ asci a carità stasera?”
Gustavo spiritò i suoi occhietti di topo, affilò ancora di più il naso e il mento pronunziato, allungò il collo secco e di già non breve, e disse:
“Eh”.

E mi disse anche che fece un fanatismo (parola all’ordine del giorno, nell’ambiente). Poi aggiunse, a complemento delle informazioni, che nell’estate del 1909, sulla loggetta d’uno stabilimento di bagni a Sorrento, egli pensava: “Ma come! Petrolini, Maldacea, Viviani, Cuttica sono cosi personali, e solamente io devo restare ancora nella tradizione?!... No, ce sta poco ’a fa: aggia ammentà nu genere pur'i... Debbo creare un tipo. I’ m’aggia metter’ ’e case e de puteca... E cosi mi piazzai innanzi ad uno specchio matina e ssera... e a bòtt’ ’e e sbattere ’e piere, nterra, ’e smorfie e sturzellamiente... Cicci, sa’ che ssaccio? 'Aggio fatto ’a bòtta. Oggi sono un maestro.”

Francesco Cangiullo


Le “periodiche” erano dei trattenimenti che si tenevano nelle famiglie di Napoli, alla domenica. Si ricevevano gli amici, i parenti, e allora si chiamava un’orchestrina con qualche macchiettista; cosi che si ballava, si cantava e si facevano macchiette. Io partecipavo con i miei amici e ricordo che le domande per avermi non mancavano mai, perché si era sparsa la voce che io facevo “ridere assai”. Cosi c’erano sempre applausi a non finire. Ma che erano quelli destinati a me in confronto agli applausi che riscuoteva Gustavo De Marco? Io lo conobbi a Roma, all’Acquario. Ero uno del pubblico, e mi piacque tanto che divenni un suo tifoso, cominciai ad imitarlo. Perciò non ho frequentato nessuna accademia, nessuna scuola mi ha avuto come discepolo.

D'altra parte sarei stato un cattivo scolaro: ho sempre amato crearmi le “mosse” da me. Lo so che dico due cose che sembrano contrarie fra loro. Ma ai capocomici io dovevo presentarmi con qualcosa che già in partenza piacesse al pubblico, e il pubblico allora amava De Marco; col ripetere o imitare il suo numero il successo era già assicurato. Aggiungo questo perché qualcuno non possa dire che io non sapevo fare qualcosa di personale: quale giovane attore non imita nei suoi primi anni di attività questo o quell’altro suo collega che più gli piace? Tutto consiste nel non restare ancorati all’imitazione. E io volli e seppi uscire dall’imitazione di De Marco e costruire un “tipo” di comico che col passare del tempo divenne solo mio, e che servi al pubblico per identificarmi. Non è vero, perciò, come hanno scritto alcuni critici, che io fino al '40 ricalcavo Gustavo De Marco, facendo la “marionetta disarticolata”. Nel '25, quando ero il “numero uno” alla Sala Umberto, già le macchiette erano “mie”, nel senso che rivestivo con la mia comicità i fatti che vedevo per strada.

Totò


Riferimenti e bibliografie:

  • "Totò, principe del sorriso", Vittorio Paliotti - Fausto Fiorentino Ed., 1977
  • "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
  • "Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fori) - Feltrinelli, 1977
  • "Vita di Totò" Giancarlo Governi, (Supplemento al numero di Gennaio 1992 di Totò Cine & Tv) Milano, Nuova Fonit Cetra.
  • "Demarcheide", Gustavo De Marco in "Il Cafè Chantant", 1914 a.XVIII, 26 luglio 1914
  • "Totò" (Orio Caldiron) - Gremese , 1983
  • Ettore Mo, In tandem con Peppino, “Corriere della Sera”, 15 aprile 1977
  • Francesco Cangiullo in "Le novelle del varietà", Richter & c., Napoli, 1938
  • Angelo L. Lucano, "Serio discorso d'un attore comico", «Rivista del Cinematografo», n.1, 1 gennaio 1966
  • "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980
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