Totò e il cinema

1954 L oro di Napoli


Filmografia di Totò. Dagli esordi al 1949

Filmografia di Totò. Dal 1950 al 1959

I ladri (1959)

I ladri Secondo quanto sostiene la polizia scientifica, si può scoprire il colpevole attraverso un capello. Può darsi.…

Filmografia di Totò. Gli anni 60

Noi duri (1960)

Noi duri Lei con disinvoltura faccia il segnetto sulla valigia. Noi adesso piano piano, io e il mio cameriere, ci…


Al pari di Arlecchino e Pulcinella, la maschera di Totò si é conquistata di diritto un posto d'onore nel patrimonio culturale italiano. Antonio De Curtis, si accosta al teatro intorno al 1912: dopo le prime esperienze semiclandestine, tra "periodiche" e farse "improvvisate", intorno al 1925-26 approda, scritturato da Don Poppe Jovinelli, al Teatro di Varietà. Sono gli ultimi anni del caffé-chantant in Italia; da lì a poco un altro genere spettacolare prenderà il sopravvento, un genere che darà a Totò la fama e la fortuna che merita: la grande Rivista. Il passo successivo nella carriera dell'artista, l'unico forse capace di accrescerne ancora il successo, sarà il cinema, a cui il comico si accosta nel 1937.

E’ naturalmente il cinema che offre la testimonianza più concreta della sua maschera. Egli vi riprodusse, infatti, la macchietta teatrale nata nel Varietà e sviluppata poi nella Rivista e nell'Avanspettacolo. Tranne rarissimi incontri con registi d'eccezione - Rossellini e Pasolini, in particolare - il set offre a Totò lo spazio ideale per il prosieguo del suo percorso teatrale, un'occasione di amplificare e al tempo stesso "immortalare" le fattezze della sua maschera.

Non é forse azzardato affermare che, nonostante il gran numero di interpretazioni filmiche, Totò non recitò mai per il cinema: uno spettatore accorto, ancora oggi, non può fare a meno di riscontrarlo. Il suo teatro é sempre lì, in trasparenza, nelle improvvisazioni, nelle tecniche della sua recitazione, nella sua mimica: si affaccia come uno spettro in ogni sua esperienza filmica, quasi a reclamarne segretamente il merito. Ed il cinema, ben lungi dal rivendicare una propria autonomia, dal tentare di piegare la "superbia" di questa natura teatrale, ha risolto con l'appropriarsene, con sfruttarla a proprio vantaggio.

D'altronde come poteva essere altrimenti? La ripetizione della "maschera teatrale", particolarmente evidente nella prima produzione, si portava dietro inevitabilmente gli "sketch" e le "gag", di un repertorio divenuto nel tempo ricchissimo. L'intero mondo del palcoscenico venne inghiottito dal set: il cinema, conquistandosi le prestazioni di Totò, si arricchì d'un sol colpo dell'ingente patrimonio che il comico aveva faticosamente accumulato negli anni. Un patrimonio che, naturalmente, non "seppe spendere", o meglio, che decise di "spendere a suo modo". Un "modo" semplice e di sicuro ritorno economico: facendone mostra ad ogni occasione.

Ecco dunque che il teatro diviene "parte integrante" di molti dei film di Totò, tanto da comparire in alcuni come luogo fisico vero e proprio: si pensi a Il ratto delle Sabine (1945, per la regia di Mario Bonnard), che racconta le disavventure di una scassata compagnia di guitti in una cittadina di provincia, oppure a I pompieri di Viggiù (1949, regia di Mario Mattioli), interamente girato dietro le quinte di una rivista; o ancora a Yvonne la Nuit (1949, regia di Giuseppe Amato) dove Totò, nei panni di Nino, il fantasista amico di Yvonne, ripropone al pubblico la sua vecchia macchietta del Bel Ciccillo.

Gli sketch del comico napoletano, forti dei continui successi di pubblico, arrivano persino ad influenzare le trame delle sceneggiature, fino a costituirsi come "perni" attorno ai quali ruotano gli stessi film. Il teatro diviene così, per il cinema, l'occasione per "citare" quel mondo dal quale Totò proveniva e al quale doveva tutto il suo successo; un'esca irresistibile per le migliaia di persone che lo avevano già applaudito dal vivo.

E’ l'inizio di un trionfo commerciale forse senza precedenti.

La particolarità della figura di Totò rende tutto questo, in un certo senso, inevitabile: una maschera così ricca, creata da un attore in anni e anni di carriera, resta legata indissolubilmente al proprio passato, alle proprie radici; trascina con sé, in qualsiasi nuova esperienza, l'universo che l'ha generata. In questo senso, può solo evolversi o sclerotizzarsi: mai cambiare natura. Antonio De Curtis, in fondo, lo aveva intuito: non si può "smettere" Totò, né tantomeno piegarlo all'interpretazione di un "personaggio". Non si può farlo recitare in un modo sensibilmente diverso. C'é un intero mondo che s'inscrive indelebilmente sulla maschera, e finisce per costituirne la sua stessa essenza. Un mondo di cui lei si fa enigmatica icona.

E oggi Totò é ancora un mistero: nella sua grottesca fisionomia risplendono segni arcaici, echi di lontane, mitiche eredità. Gli antichi demoni medievali, filtrati dalla Commedia dell'Arte e dal folclore, rivendicano una discendenza diretta con l'artista napoletano. Pulcinella emerge con forza dalla sua maschera: nelle sue bizzarre trovate, nella sua mimica, gallinacea e marionettistica ad un tempo, nei suoi continui attentati al linguaggio comune. Si pensi al risveglio del personaggio del vagabondo, che egli interpreta in Fermo con le mani (1937, regia di Gero Zambuto) il suo primo film: egli si alza dal letto già completamente vestito, e per sciogliere le articolazioni, intorpidite dal sonno, inizia come una gallina, a sbattere le braccia come fossero ali. O ancora l'uso che egli fa di alcuni oggetti, capovolgendone il senso comune, attraverso un "gioco del rovescio" tipico di Pulcinella: la bacchetta del direttore d'orchestra che diventa, di volta in volta, cero o sciabola; oppure la scopa che da semplice strumento di pulizia, si arricchisce di significazioni apotropaiche, legate ai riti di purificazione dalla sterilità, dagli spiriti maligni, dalla morte.

Poi ancora il "mamo" della grande tradizione napoletana, "il tipo del figlio di mamma, piccolo borghese un po' tonto, con manie signorinesche ed un eloquio da scilinguato": la parentela con questo ruolo rimanda agli inizi della carriera di De Curtis, quand'egli lo interpretava nelle farse di Pulcinella; successivamente, come é noto, egli vi si cimenta ancora, incarnando il personaggio di Felice Sciosciammocca nei film, per la regia di Mario Mattioli, tratti dalle commedie di Scarpetta, Un Turco Napoletano (1953), Miseria e Nobiltà (1954) e Il medico dei pazzi (1954).

Infine Chaplin-Charlot, in marsina e bombetta, sebbene quest'ultimo non sia altro che un segno fugace, una patina superficiale che ricopre una maschera che ha già un preciso carattere: l'imitazione di Charlot, in quegli anni all'apice del successo mondiale, era, infatti, un obbligo per ogni comico italiano in procinto di iniziare una carriera cinematografica - si pensi ai primi film di Macario, dove l'attore interpreta un vagabondo di chiara ispirazione chapliniana - da cui neppure Totò riuscì ad esimersi. Ma De Curtis convisse pacificamente col comico d’oltreoceano: Chaplin lo accompagnò per anni, nascosto, rispettoso, fino a sparire completamente, lasciando solo, quasi a ricordo della sua presenza, quella bombetta e quella marsina, rese celebri da lui, ma divenuti ormai nell'immaginario collettivo italiano il costume di Totò.

Alla metà degli anni Sessanta Totò era a tutti gli effetti divenuto un "prodotto di consumo", i film che lo avevano visto protagonista erano per lo più scadenti e avevano contribuito notevolmente al processo di decadenza della sua maschera. Tutta la sua eredità, la sua forza espressiva era rimasta sepolta nella ripetizione di quei modelli che piacevano al pubblico, di tutti quei cliché che registi e sceneggiatori continuavano a riproporgli. Pasolini intuisce prima di altri tutto questo, coglie l’insofferenza di Totò, vede in lui l'icona mercificata nazional popolare" per eccellenza. Partorisce qualcosa di simile all'idea che Andy Wharol aveva di Marylin Monroe.

Giovanni Guerrieri


Fermo con le mani, il mio primo film, è del 1937. Poi dal 1950 ho fatto soltanto cinematografo. Però ci sono dei motivi. Allora il teatro cominciava un po’ a zoppicare, e poi viaggi e debutti che mi stancavano, mentre invece il cinematografo era più comodo, andavo a lavorare come un impiegato la mattina, la sera ritornavo a casa e mi piaceva; e anche l'aspetto finanziario era più favorevole. Dei miei film ne salvo una decina al massimo, il resto è tutto da buttar via. Io sono attaccato a Guardie e ladri, a Yvonne la Nuit, Napoli milionaria, L'oro di Napoli con lo sketch del pazzariello, questi sono dei bei film. E in Totò cerca moglie c’era uno sketch che mi riuscì molto bene. Poi Siamo uomini o caporali?, Totò, Peppino e la malafemmina... E più tardi La mandragola e Uccellacci e uccellini.

Embè, e vabbè, quando c'è la salute ... C'agg' a fa' mo'? [il primo provino di Totò]

Il mio incontro con il cinema avvenne in un ristorante. Due signori e una signora mi guardavano ridendo da un altro tavolo. Stavo per alzarmi e litigare quando seppi che uno di quei signori era Gustavo Lombardo.

Gli inizi miei del cinema a differenza di quelli del teatro furono leggermente scabrosi. Fui chiamato alla Cines di Pittaluga ed esegui il regolare «provino». Soltanto, un regista ebbe la brillante idea di dirmi che sarebbe stato bene che, con la faccia che Iddio mi aveva data, facessi tutto il possibile per imitare... Buster Keaton. Presi cappello in senso proprio ed in senso figurato, dichiarando che mi sentivo soltanto di fare... il Totò. Così ripresi il mio fardello di Pellegrino e tornai al mio varietà, formando la compagnia di riviste che agisce ormai da cinque anni.

Non mi faccio capace che la gente, per vedere un mio film, esca di casa, lasci le comode poltrone, calzi un paio di scarpe, magari pure strette, e paghi il biglietto. Ci penso spesso e mi commuovo. Umilmente ringrazio il mio pubblico, con la promessa che cercherò di fare sempre meglio.

La sceneggiatura: voi mettete solo frizzi e lazzi. Al resto penso io.

Se fossi regista vorrei far imparare le parti a memoria, come si usa in teatro. E pretenderei che il film fosse recitato come una commedia. Anticiperei il lavoro tutto nella fase delle prove. Quando lo spettacolo fosse stato messo a punto in ogni dettaglio, comincerei a girare. Sul canovaccio io ricamo, improvvisandole giorno per giorno, le mie battute. Sul palcoscenico questo è reso più facile dalla presenza stimolante del pubblico e dopo un certo rodaggio si impara quale è l'intonazione che ha maggior effetto, quale dev'essere la durata di una pausa. In cinema tutto avviene a freddo, non c'è la possibilità di verificare la validità di una frase. Con il mio sistema, il giorno che mi decidessi a fare il regista, l'attore, prova e riprova, riuscirebbe a mettere a fuoco la comicità improvvisata.

Faccio tanti film in cui sono costretto a inventarmi tutto; il mattino arrivo sul set e trovo che non c'è niente, debbo creare i lazzi, le battute, tutto da zero.

Molti miei film vengono proiettati nell' America del Sud, in Portogallo, in Egitto, in Svizzera e ora, anche in Francia. L'America del Nord, purtroppo, costituisce un circuito chiuso. Un po' di pazienza: chi va piano, va sano e va lontano.

La macchina da presa nei miei primi film io l'ignoravo. Recitavo come se fossi stato in scena. Certo, lo so, ero meno cinematografico di oggi, ero più teatrale. Ma non mi emozionavo durante le riprese. Mi impressiona il microfono: mi mette a disagio, mi viene la pelle d'oca, insomma mi fa paura.

Nel cinema la cosa scocciante sono i riflettori. Perché i riflettori, vedete, i riflettori incocciano, e io, io ho i capelli neri e lucidi e allora è un disastro. Poi l'attesa è snervante: quando si fa del cinema sembra che l'attesa - e il bello è che non si sa che cosa si attenda - rappresenti la parte più importante e necessaria del lavoro.

Io sono entusiasta del cinematografo, purtroppo non cosÌ dei miei film. Allora, secondo me, dei ritocchi andrebbero fatti all' organizzazione per guadagnare temmpo e col tempo tante altre belle cose. Vedete, in fondo, il mio grande amore è ancora il teatro. Mi dovete credere, le più grandi soddisfazioni è stato il teatro a darmele e sapete perché? Perché il teatro è molto ma molto più difficile del cinematografo e quassù, su queste tavole, giochetti e finzioni non se ne possono fare.

Sono commosso, veramente sono lusingato e, come si dice a Napoli, questo premio che mi viene tra 'o capo e 'o cuollo cioè fra la testa e il collo, mi ha un po' commosso Sono veramente riconoscente alla critica cinematografica che me lo ha assegnato e a tutta la gente che è intervenuta. [Dopo aver ricevuto il «Nastro d'argento» per il migliore attore in Guardie e ladri]

Dei miei quarantadue film, sono rimasto soddisfatto di pochissimi. Giustamente la critica è stata spesso dura con me; se per l'avvenire sbaglierò, reciterò il mea culpa... ma spero proprio che questo non accada. Ho «chiuso» molto bene con la rivista e intendo fare altrettanto con il cinematografo. Non voglio più fare film «vietati ai minori di sedici anni», çome non voglio più interpretare soggetti scadenti e di pessima lega ... Quando ho potuto, mi sono rifiutato di lavorare in film non di mio gusto. In questi ultimi tempi ho rifiutato diversi contratti: mi sono state fatte offerte per film come Totò e la balia, Totò-calcio, Pane, burro e marmellata... Ma, lo ripeto, non ho più nessuna intenzione di continuare la mia carriera cinematografica interpretando lavori dove non mi è offerta la minima possibilità artistica. Cercherò di profondere tutte le mie energie nella nuova produzione con la speranza di finire il mio capitolo cinematografico in bellezza.

Ottantaquattresimo film... purtroppo. Perché sono pochi ottantaquattro film. lo voglio arrivare per lo meno a duecento, duecentocinquanta... adesso vediamo.

Avrei potuto fare qualcosa di molto meglio di quello che ho fatto e invece, vede, ho fallito per aver fatto film troppo dozzinali, mentre credo di avere una vis comica non dico unica, ma rara. lo con la faccia posso esprimere tutto, invece ho trascurato questo e mi sono buttato a fare dei filmetti dozzinali che non mi hanno permesso di poter diventare internazionale. E ho fatto male. Un po' per pigrizia, un po' per i produttori italiani, i quali vogliono andare a colpo sicuro, perché quando il film incassava poco, cinquecento milioni, loro guadagnavano sempre perché rientravano bene nei costi. Quindi siccome i miei film andavano, loro giocavano sul sicuro. Poi un'altra cosa: noi non abbiamo i mezzi che hanno gli americani, i quali fanno i film comici con i mezzi meccanici. Noi no, il nostro cinema comico, siccome è povero, è basato sulle battute, sulle parole, sulle situazioni che non possono aver successo all' estero perché nella traduzione i significato si perde. E siccome il film deve durare un'ora e mezza, e si deve chiacchierare sempre, a un certo momento non si sa più cosa fare. Viceversa mi ricordo i simpaticissimi Stanlio e GIlio, che andavano a finire con i piedi nella pece, l'aeroplano cadeva quando uno era sopra e l'altro sotto, il somaro suonava il pianoforte, insomma tutte queste cose che in Italia non si fanno, perché da noi è tutto parole, parole, parole, con sceneggiatori da tre soldi i quali credono che sia sufficiente buttar giù delle pagine.

I produttori pare che abbiano trovato la formula per far quattrini: mettiamo Totò e tutto andrà bene. Per chi fa l'attore comico in Italia si cerca di sfruttare la situazione del momento, perché questo è il carattere della nostra comicità, il lazzo gratuito, lo spirito da fare sugli altri, su una situazione criticabile... Proprio perché la nostra comicità è di «attualità», giro film legati al tempo con un filo sottilissimo: basta poi la forza di qualche anno che passa e questo filo si spezza, e il fatto vissuto comicamente perde la sua carica di divertimento.

Sono vittima di una situazione poco simpatica. Produttori senza scrupoli, soggetti decadenti, sceneggiatori improvvisati hanno creato il Totò dalla risposta facile. Quando ho voluto lamentarmene, c'è sempre stata una levata di scudi contro di me. Senta, lasciamo perdere, perché voglio restare amico con tutti ... Ma come si può dire che non avevo la buona volontà di fare dei buoni film? Ero il produttore, il regista? Quando Age e Scarpelli hanno scritto Guardie e ladri sono stato ben contento di interpretarlo. La critica dapprima non fu favorevole neanche a quello, e poi dovette cambiare parere.

Adesso il pubblico è molto più facile. Una volta si sudava sangue sui palcoscenici per strappare un applauso. Oggi mi sembra invece che ci siamo abituati a una certa mediocrità. Quel che è successo in fin dei conti anche in altri campi dello spettacolo. A molti cantanti attuali vent'anni fa non gli avrebbero neppure lasciato aprire la bocca, li avrebbero arrestati. Questa facilità, questa mediocrità non sono colpa del pubblico. Siamo noi che l'abbiamo provocata. Prendiamo il mio caso. È stato il successo troppo facile a rovinarmi. Sono stati i produttori che hanno incassato un sacco di soldi con i miei film. Non ho mai avuto grandi attrici al mio fianco o buoni soggetti, per anni. Facevano delle porcherie e guadagnavano milioni, quindi non hanno mai pensato a fare meglio. Mi hanno detto che potevo diventare uno Charlot italiano. Li ringrazio, ma di Charlot ce n'è uno solo. È vero però che io sono un mimo nato, lavoro con la faccia senza trucco. Avrei potuto andare per il mondo con la mia faccia, far ridere tanta gente, com'è accaduto con L'oro di Napoli di De Sica o con Napoli milionaria di Eduardo. Mi hanno ridotto invece al ruolo di attore regionale: copioni creati soltanto per l'Italia, film che non costavano una lira. Sono stato male amministrato, il mio patrimonio di attore mi sembra che sia stato sciupato. Questo è il mio rimpianto.

Giravo quei film pensando che il mio successo sarebbe durato poco: un anno, due, tre. Se nonché la cosa è andata avanti parecchio, nonostante tutto, e io sono rimasto così, con il desiderio di aver voluto fare qualcosa di più impegnativo sul piano artistico.

Spesso mi sono sentito dire che dovrei fare l'attore drammatico, ma io non sono d'accordo. Rappresento la vita, che è un mistero di comicità e tragedia, e quindi non capisco perché dovrei convertirmi da un genere all'altro. La vita non si sceglie, si accetta.

Non mi sono provato mai a fare il regista, e non mi proverei mai. Fare il regista è tutta un'altra cosa. Si può essere un grande regista e un modesto attore. Abbiamo tanti esempi, il più grandioso è quello di Tulli che come attore era un cane, ma era un grande metteur en scène. Non ci ho mai pensato. E poi c'era un altro motivo: io sono un pigro, sono un uomo pigro, e invece il regista deve alzarsi la mattina presto prima degli altri, poi gli altri vanno a casa a divertirsi o a riposarsi e invece lui deve studiarsi il copione, le inquadrature ... Però per il cinema ho scritto qualche sketch, qualche cosa ... Ho scritto qualche film, ma non porta il mio nome, perché l'ho sempre ritenuto controproducente. E poi molto spesso il nostro pubblico è cattivo, crede che uno voglia darsi delle arie ... Tutti i co .. miei scrivono qualche cosa da sé e sono i migliori autori. Anch'io ho fatto qualcosa, senza che il mio nome figuri, ad esempio Totò Peppino e la ... malafemmina, Siamo uomini o caporali? e altri ancora...

Recitare, lavorare è la mia vita. E quando recito sono paziente: appena terminata una scena corro dal regista per sapere se sono stato bravo. Lo so che non ho fatto dei bei film; alcuni sono addirittura bruttissimi. Ma sono un attore, uno strumento in mano a un regista.

La colpa, soprattutto, è mia. Perché io sono stato un indolente... A me mi davano il copione, io non lo leggevo nemmeno, andavo a lavorare così... e quindi sono stato sfruttato un po' commercialmente, ma, ripeto, la colpa è mia.

Alcuni produttori poi sfruttavano il filone di successo. Per esempio, dopo "Divorzio all'italiana", c'è stato "Matrimonio all'italiana", "Ménage all' italiana", "La zia all' italiana", "Il battesimo all'italiana" e tante altre cose. Poi è venuto 007,008,009,010, doppio zero. Quell'altro film, "Un pugno di dollari", "Un dollaro falso", "Due dollari e mezzo", "Tre dollari e 75 centesimi", fino a stancare il pubblico e, magari, rovinare il povero attore, meschino... Non vado mai al cinema: primo perché lo faccio, e secondo perché ci vedo ormai così poco che, per distinguere le immagini sullo schermo, dovrei mettere una sedia proprio sotto al telone.

Chiudo in fallimento, caro amico. Avrei potuto diventare un attore internazionale... Credo di avere una vis comica naturale... Ma non ho fatto niente... Sono un uomo sconfitto...

Sono ormai all'età in cui si tirano le somme e non ho fatto nulla. Sarei potuto diventare un grande attore e invece su cento e più film che ho girato, ve ne sono di degni non più di cinque. Ma anche se fossi diventato un grande attore, cosa sarebbe cambiato? Noi attori siamo solo venditori di chiacchiere. Un falegname vale certo più di noi: almeno il tavolino che fabbrica resta nel tempo, dopo di lui.


Riferimenti e bibliografie:

  • "La tragedia del comico", Giovanni Guerrieri e Tiziana Paladini, Luca Torre editore, Napoli, 2003
  • "Quisquiglie e Pinzellacchere" (Goffredo Fofi) - Savelli Editori, 1976
  • "Tutto Totò" (Ruggero Guarini) - Gremese, 1991
  • "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
  • "I film di Totò, 1930-1945: l'estro funambolo e l'ameno spettro" (Alberto Anile), Le Mani-Microart'S, 1997
  • "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998
  • Che cosa ne dice lo psicologo - AMIAMO IN LUI L’UOMO TUTTO LIBERO - Pier Angelo Morlotti, 1971
  • "Siamo uomini e caporali - Psicologia della disobbedienza" (Salvatore Cianciabella), Franco Angeli, 2014
  • "Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fofi) - Feltrinelli, 1977
  • "Totò si nasce e io, modestamente, lo nacqui" (Marco Giusti) - Mondadori, 2000