Blasetti Alessandro
(Roma, 3 luglio 1900 – Roma, 1º febbraio 1987) è stato un regista, sceneggiatore, montatore e attore italiano, fra i più celebri e significativi del suo tempo, tanto da poter essere definito «padre fondatore del moderno cinema italiano». [1]
Viene considerato, insieme a Mario Camerini, il massimo regista italiano del cinema di propaganda fascista, del quale fu anche, in qualche caso, apologeta: Sole (1929), il suo film d'esordio, è un'epica esaltazione delle bonifiche del regime e piacque molto a Benito Mussolini; Vecchia guardia (1935) è un'apologia della marcia su Roma.
Nei cinque decenni della sua attività, si è misurato con successo nei generi più diversi, dall'epopea storica alla commedia sentimentale, inventandone letteralmente di nuovi (il fantasy con La corona di ferro del 1941, il film a episodi con Altri tempi - Zibaldone n. 1 del 1952, il reportage-sexy con Europa di notte del 1958), ed è stato tra i primi registi cinematografici a cimentarsi con il mezzo televisivo.
È stato un grande innovatore, ha sperimentato per primo in Italia il sonoro (Resurrectio del 1930)[2] e il colore (Caccia alla volpe nella campagna romana del 1938),[3] ha forzato i limiti di quanto fosse lecito mostrare su grande schermo, proponendo le prime nudità del cinema italiano (La corona di ferro del 1941 e La cena delle beffe del 1942), ha lanciato nuovi autori come Pietro Germi e la coppia divistica Sophia Loren-Marcello Mastroianni (Peccato che sia una canaglia del 1954), e rilanciato come attore brillante Vittorio De Sica (Altri tempi, 1951), dopo il suo successo neorealistico.
Biografia
Figlio di Cesare, professore di oboe e corno inglese all'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, e di Augusta Lulani, Alessandro Blasetti studia presso i padri somaschi al collegio Rosi di Spello, frequenta il liceo al Collegio Militare di Roma e compie gli studi universitari in legge alla Sapienza di Roma, assecondando la tradizione della famiglia materna. Sposatosi nel 1923, lavora come impiegato di banca e si laurea nel 1924, ma si dedica nel frattempo all'attività di giornalista e critico cinematografico.
A partire dal 1923 scrive per L'Impero, su cui nel 1925 inaugura la prima rubrica cinematografica su un quotidiano,[4] intitolata Lo Schermo. All'inizio del 1926 fonda con Renzo Cesana Il mondo e lo schermo, «settimanale illustrato del cinematografo», diventato dopo qualche mese Lo Schermo, di cui vengono pubblicati in tutto 22 numeri.[5] Nel marzo 1927 fonda cinematografo (con l'iniziale minuscola), pubblicato fino al luglio 1931, a cui affianca Lo Spettacolo d'Italia, pubblicato dall'ottobre 1927 al giugno 1928.[6] Su cinematografo, che raccoglie le personalità interessate alla "rinascita" del cinema italiano, fra cui intellettuali quali Anton Giulio Bragaglia e Massimo Bontempelli, il cinema viene considerato sotto tutti gli aspetti (finanziario, industriale, tecnico, politico, critico, estetico), in un progetto organico che vuole fondere teoria e prassi. In un simile contesto, per Blasetti è inevitabile il passaggio alla pratica cinematografica.
Alla fine del 1928, fonda la cooperativa Augustus, con cui produce il suo film d'esordio, Sole, sul tema della bonifica agraria, in linea con la politica ruralista del regime fascista,[7], che si rivela un insuccesso commerciale e segna il precoce fallimento di questa esperienza produttiva indipendente.[8]
Blasetti accetta quindi la chiamata da parte di Stefano Pittaluga alla rifondata Cines, benché in un recente passato avesse pesantemente criticato Pittaluga sulle pagine di cinematografo, tacciandolo di «incapacità industriale, artistica, politica e commerciale», dovendo ora riconoscere invece che il suo è l'unico progetto produttivo con le potenzialità per risollevare il cinema italiano.[8] Il primo film prodotto dalla nuova Cines, scritto e diretto da Blasetti, è il pionieristico Resurrectio (1930), il primo film sonoro italiano, anche se distribuito dopo il successivo La canzone dell'amore di Gennaro Righelli, per considerazioni di natura commerciale.[2] Si tratta di un nuovo insuccesso, ma per il regista è soprattutto l'occasione di sperimentare le possibilità del sonoro in tutte le sue forme (musica, rumori, dialoghi).
Si mette quindi al servizio di Ettore Petrolini per il film Nerone (1930), interamente incentrato sul protagonista, anche sceneggiatore, che si esibisce nelle sue maschere più popolari. Non si tratta però di puro teatro filmato, perché Blasetti, pur definendosi solo "coordinatore tecnico", fa ben sentire la sua presenza, mettendo in scena il teatro stesso, compreso il pubblico in sala, e lasciando il suo segno nella scelta delle inquadrature e nei movimenti di macchina, fra cui l'elaborato carrello iniziale, dalla realizzazione tecnicamente molto impegnativa per l'epoca.[9]
Il successivo Terra madre (1931) affronta il tema del «ritorno alla terra», proponendo una storia costruita sull'opposizione tra vita cittadina corrotta e vita rurale sana, ed è funzionale alla politica ruralista del regime, tanto da godere dell'appoggio governativo.[10] Malgrado l'accoglienza critica non positiva, il film ha un ampio successo di pubblico.[11] Di analoga impostazione fortemente populista è Palio (1931), che ripropone l'opposizione del film precedente con il contrasto tra aristocratici e popolani, un film dalla debole struttura narrativa, che si fa notare per gli aspetti figurativi e formali con cui presenta l'ambiente senese.
Scomparso Pittaluga nel 1931, la direzione generale della produzione Cines viene presa dal letterato Emilio Cecchi, con cui Blasetti instaura un rapporto molto proficuo. Durante la sua gestione dirige il cortometraggio Assisi (1932), il "meno blasettiano" dei suoi film[12] La tavola dei poveri (1932), dall'omonima opera teatrale di Raffaele Viviani, i remake di successi stranieri Il caso Haller (1933) e L'impiegata di papà (1934), puri lavori professionali girati in pochi giorni, e soprattutto quello è che quasi unanimemente considerato il suo capolavoro,[13] 1860 (1934), un'antiretorica rievocazione della spedizione dei Mille. Il film, in seguito riconosciuto tra gli antesignani del neorealismo per il tema trattato e per la scelta di attori non professionisti,[13] viene accolto favorevolmente dalla critica, snobbato dal pubblico, poco interessato al tema risorgimentale, e non molto amato dal regime, perché poco celebrativo,[14] benché, pur non essendo rozzamente propagandistico, sia sotto diversi aspetti in perfetta consonanza con la politica ufficiale fascista.[15]
Sempre nel 1934, anno fatidico per il cinema italiano,[16] per la fortunata congiuntura di molti titoli importanti e per l'istituzione della Direzione Generale della cinematografia, Blasetti raggiunge l'apice del suo impegno politico e del suo coinvolgimento con il regime fascista,[17] con due celebrazioni della fascistizzazione dell'Italia, il film Vecchia guardia e lo spettacolo teatrale 18 BL. Il primo ha molti punti in comune con il precedente 1860, compreso l'insuccesso di pubblico, malgrado l'apprezzamento da parte di Mussolini;[18] il secondo viene rappresentato un'unica volta, a Firenze.[19]
Da qui in avanti il regista intraprende un percorso di progressivo disimpegno dai grandi temi sociali[19] e di ridimensionamento della valenza politica del suo cinema. Dopo un paio di opere minori, Aldebaran (1935) e Contessa di Parma (1937), gira il film storico Ettore Fieramosca, basato sul romanzo di Massimo d'Azeglio, nel quale la ricerca della messinscena spettacolare affianca gli intenti ideologici nazionalisti e che rappresenta la transizione verso i successivi film in costume di pura evasione, Un'avventura di Salvator Rosa (1939), La corona di ferro (1941) e La cena delle beffe (1942), che raccolgono ampi consensi di critica e pubblico.
Rispetto a questi film, 4 passi fra le nuvole (1942), un fittizio idillio agreste dai toni dimessi e dal cupo pessimismo, segna una svolta radicale, che non è deliberatamente ricercata da Blasetti, il quale accetta questa regia solo dopo il fallimento di alcuni progetti in linea con le sue opere precedenti (su Francesca da Rimini, sui Vespri siciliani, dalla Figlia di Iorio di Gabriele D'Annunzio, Harlem, sull'emigrazione italiana, poi diretto da Gallone), ma riflette lo spirito dei tempi.[20] Insieme a Ossessione di Luchino Visconti e I bambini ci guardano di Vittorio De Sica, questo film costituisce non tanto un'anticipazione del neorealismo, quanto una rottura con il cinema italiano dell'ultimo decennio.[21]
L'ultima opera di Blasetti prima della Liberazione è il dramma psicologico femminile Nessuno torna indietro, dall'omonimo romanzo di Alba de Céspedes, che riunisce le maggiori attrici italiane dell'epoca. Girato nel 1943, nel pieno del conflitto (bombardamenti colpiscono Roma poco lontano dagli stabilimenti in cui sono in corso le riprese), viene distribuito solo nel 1945, senza successo.[22]
Dopo la caduta del Fascismo
Dopo l'8 settembre, Blasetti non aderisce alla Repubblica di Salò e, a guerra conclusa, prevalsa la linea dell'amnistia generale su quella dell'epurazione, può non solo riprendere il lavoro come pressoché tutti i registi più o meno compromessi col regime fascista,[23] ma anche riassumere un ruolo di primo piano all'interno del dibattito estetico, politico ed economico sul cinema italiano, presentandosi come uomo della mediazione e della collaborazione ed intervenendo soprattutto in difesa della produzione nazionale contro l'invadenza del cinema americano.[24]
Nella seconda metà degli anni quaranta collabora, tramite Salvo D'Angelo, con due case produttrici cattoliche, l'Orbis, che produce Un giorno nella vita (1945), e l'Universalia, che produce Fabiola (1949), Prima comunione (1950) e alcuni cortometraggi. Il primo film Un giorno nella vita si potrebbe definire un film pacifista, secondo le intenzioni del regista avrebbe dovuto fare riflettere sulla brutalità della guerra e sulla necessità del dialogo più che della vendetta ma probabilmente non fu capito.
Il colossal religioso Fabiola, dal romanzo Fabiola o la Chiesa delle catacombe di Nicholas Patrick Stephen Wiseman, è la prima superproduzione del dopoguerra ed ottiene un ampio successo di pubblico (miglior incasso della sua stagione),[25] ma viene bocciato dalla critica e suscita ostilità proprio nell'ambiente cattolico, per certe immagini sessualmente trasgressive. Grazie a questo film però l'intera industria cinematografica italiana viene ricostruita tanto da permettere a Cinecittà di diventare anni dopo la Hollywood sul Tevere.
Negli anni cinquanta, tornato alla Cines, Blasetti dimostra di aver ancora voglia e capacità di sperimentare, inaugurando con il dittico Altri tempi - Zibaldone n. 1 (1952) e Tempi nostri - Zibaldone n. 2 (1954) il filone del film a episodi (o racconto breve), che raggiungerà il massimo successo negli anni sessanta, quando praticamente ogni regista italiano vi si cimenterà. Contribuisce inoltre in modo sostanziale alla nascita del divismo nazionale: nell'ultimo episodio di Altri tempi, Il processo di Frine, in cui viene coniato il termine maggiorata, a indicare l'immagine di donna che si imporrà sullo schermo nel corso del decennio, costituisce la coppia Vittorio De Sica-Gina Lollobrigida, poi consacrata da Luigi Comencini in Pane, amore e fantasia (1953); nelle fortunate commedie Peccato che sia una canaglia (1954) e La fortuna di essere donna (1955) crea e lancia una coppia indimenticabile, destinata a ricomporsi ciclicamente nei successivi decenni, Sophia Loren e Marcello Mastroianni. In questi anni, precisamente nel '54, riceve una "Medaglia d'oro" - Una vita per il cinema.
Con Europa di notte (1958), documentario antologico sugli spettacoli notturni della maggiori città europee, Blasetti è precursore di un nuovo genere di grande successo popolare, il reportage sexy, tra erotismo ed esotismo, che a partire da Mondo cane (1962) prenderà anche la forma dei violenti mondo movies.
A partire dal 1962, Blasetti è fra i primi registi cinematografici italiani a cimentarsi con la televisione. Considerata la sua concezione del cinema come spettacolo destinato alla massa, è inevitabile il suo passaggio ad un mezzo di comunicazione che gli offre di rivolgersi a platee ancor più ampie. A differenza di Roberto Rossellini, si dedica quasi esclusivamente al documentario e al film di montaggio.
La sua ultima opera cinematografica Simon Bolivar è del 1969, mentre l'ultimo lavoro per la televisione Venezia: una mostra per il cinema è del 1981.
Vecchia guardia uscì nel 1934, per celebrare i dodici anni dalla Marcia su Roma: Mario Cardini, nel ruolo di Brambilla, il protagonista, aveva dodici anni sia nel film che nella vita. Si dice che il lungometraggio non piacque a Luigi Freddi, perché esaltava eccessivamente la violenza squadrista, grazie alla quale il fascismo era arrivato al potere. Il film mostrava inoltre il forte legame esistente fra fascismo e borghesia, in antitesi con l'ideale connubio Fascismo-Italia, secondo il quale si doveva mettere in evidenza il sostegno al P.N.F. di tutte le classi sociali italiane. Al contrario pare che a Mussolini il film piacque: si dice che se lo fece proiettare in visione privata e che, nel vederlo, pianse. Anche Adolf Hitler apprezzò Vecchia guardia, tanto da invitare in Germania sia Mario Cardini, il piccolo protagonista, che il regista Blasetti.
Galleria fotografica e stampa dell'epoca
Stile italiano di Alessandro Blasetti
Quasi tutti i film realizzati da Alessandro Biasetti servono un comune concetto ideale che tonde ad esaltare i pregi della nostra razza. Il regista è innanzi tutto un italiano indomita orgoglioso di appartenere a questa mirabile stirpe di eroi, di artisti, di pionieri. E questo grande popolo egli ha inteso esaltare in ogni sua opera, poco preoccupandosi del successo — inteso nel senso volgare — che ne avrebbe ricavato. C’è stato qualcuno che, con amabile gioco di parole, si è soffermato pittoricamente sui diletti, sulle impulsività. sulle esagerazioni, riscontrale nelle pellicole di Alessandro Blasetti. Ebbene, questo qualcuno non è riuscito a capire qual ora il vero scopo che l'artista s'era imposto; questo qualcuno si è lasciato sfuggire l’occasione per capire un'arte semplice seppure geniale, un'arte messa intieramente al servizio di un'idea.
In tutta la sua carriera artistica, poche volte Blasetti è caduto nella rete degli allettamenti meschini: i suoi personaggi, i suoi racconti che traggono vita dagli ambienti frivoli, lussuosi e avvelenati creati da un gusto filoebraico (gusto tanto caro ai nostri piccoli Lubilsch) sono pochissimi. E quando a questi ambienti e a questi personaggi ha dovuto ricorrere, Blasetti lo ha fatto con aperto disgusto, come se il sostare a lungo in certe situazioni equivoche gli procurasse il vomito. Si capiva già che un film così impostato, con personaggi e architetture false, sarebbe stato un aborto, un procurato aborto, anzi, tanto traspariva il disgusto dell'uomo che era costretto a ficcare le mani nelle acque pantanosa del cinematografo etile americano, di quello stile americano mortificante con tutto il falso splendore, autentico frutto di una mentalità e di un’arte degenerate.
Ricordiamo in pochi asterischi le opere cinematografiche create da Blasetti in quattordici anni di appassionata attività. Egli ha incominciato a lottare per i suoi ideali in un periodo cinematograficamente incerto, sfidando magari la derisione degli «esperti», con un film che ritorna sempre a suo decoro: «Sole». Insieme a «La grazia» — realizzato qualche anno più tardi — «Sole» fu uno dei pochissimi film italiani che si rivolgessero veramente al popolo, poiché del popolo volevano esaltare la semplicità della vita e l'incantata sanità del corpo e dello spirito. «Sole» fu definito un tentativo arrischiato ma fortunatamente riuscito. Il regista si sarà molto divertito sentendo pronunciare la sentenza illustre ; quel film era la prima pietra di un grande edificio che egli aveva in mente di costruire.
«Terra madre», realizzato nel 1930, riprende con maggiore respiro il motivo dominante di «Sole». E c’è già qualcuno che comincia a preoccuparsi dei film di Blasetti, mentre imperversano le prime commedioline sentimentali. fatte di niente, soffici e lievi. Nell'anno successivo vien fuori «Palio», altro film arrisicalo, ma nuovo e come concezione, come quadro, come personaggi. «Palio» esalta — in tempi attuali — le antiche e gloriose tradizioni delle nostre grandi città medioevali. Due anni più tardi Blasetti, si cimenta nel film storico ricavando lo spunto dalle gesta leggendarie dei garibaldini. «1860» è un film serrato e avvincente, nobilmente italiano, animalo da un autentico spirito garibaldino. Esteriormente, lo stile del regista potrà apparire disorganica: ma soffermiamoci sulla sostanza ideale dell’opera e vi riscontreremo una logica identica — come concezione sociale e razziale — a quella dei suoi primissimi film.
Un anno dopo, il regista è nuovamente sulla breccia, dominato da una idea ambiziosa Vuole fare un film dedicato alle giornate del '19 e ne affronta la realizzazione col coraggio del vecchio squadrista. «Vecchia Guardia» è risultata la più nobile esaltazione scenica dell'epopea fascista; è un lavoro denso di umanità, che esalta mirabilmente l’azione della riscossa italiana. Questo film ha reso popolare il nome di Blasetti oltre i confini d’Italia. Il popolo tedesco, che meglio di ogni altro sa comprendere lo spettacolo di propaganda — quando questa propaganda sia fatta con la mano sul cuore — ha tributalo al nostro regista il successo più caloroso. Il Fuehrer, dopo la visione del film, ha voluto conoscerne l'autore e si è compiaciuto con lui. Le poche parole che in tutta la sua carriera Blasetti si è sentito rivolgere da Mussolini e da Hitler sono valse più di ogni elogio, perché erano parole sincere, espresse da Uomini che non conoscono l’ipocrisia delle frasi convenzionali.
«Aldebaran», il film bellissimo — seppure ripudiato da Blasetti in un attimo di spregiudicatezza — , è una magnifica pagina scritta in onore del nostri eroi del mare. Ed è un film che si distacca nettamente dalle coreografiche pellicole del genere prodotte dal cinematografo americano perchè ha un’anima; è una opera schiettamente italiana che narra con un linguaggio sciolto, rapido, deciso, la grandezza della nostra gente di mare in ogni tempo; dall’ammiraglio Dandolo a Nazario Sauro.
Nel 1938, al momento in cui i rapporti italo-francesi si vanno arroventando un film di Blasetti ricorda agli italiani — attraverso la rievocazione di un fatto d'arme di alcuni secoli fa — quali profonde radici abbia l’odio francese verso di noi. «Ettore Fieramosca» assume un tono polemico adeguato alle circostanze, illuminando le figure di alcuni purissimi eroi, sfegatati italiani che hanno saputo imporre il rispetto verso il loro popolo, verso la loro Nazione, a uno straniero padrone ma non signore. «Ettore Fieramosca» è il documento di una ribellione sempre viva in un popolo che non sopporta imposizioni, che non permette oltraggi al proprio onore, specialmente quando ha da lottare contro l’avverso destino.
Senza minimamente distaccarsi dei suo concetto iniziale, con la figura «Salvator Rosa», Blasetti ha voluto concepire l'eroe popolare italiano, generoso, difensore dei deboli, pronto a incrociar la spada contro i forti; sorridente di ogni sua gesta, sorridente dinnanzi al capestro. Quanto è diverso personaggio interpretato da Gino Cervi dal tipo di bandito americano rivelatoci dal film di avventure. Il cow boy d'oltre oceano è un fuori legge generoso mancante di un ideale; le opere con le quali conquista il cuore del popolo sono ispirate unicamente dalla sfrenata passione di andar contro legge. «Salvator Rosa» è stato invece un personaggio interamente italiano, completamente eroe, artista, spadaccino, perdigiorno. nobiluomo, egli ha unicamente servito la Patria, contro i nemici di dentro e di fuori.
Quattordici anni di attività cinematografica hanno fatto di Blasetti un artista sicuro. I film da lui realizzati — molti dei quali costituiscono un titolo d'onore per la nostra cinematografia — sono più eloquenti di qualsiasi ritratto che un cronista possa tracciare. Lo stile del regista — se si è fatto più stringente — è rimasto quello del 1928 che consiste nell'esaltare il valori storici e morali della nostra razza. E in questa fedeltà alle origini consisterà il supremo orgoglio di Alessandro Blasetti.
Drag., «Film», 1 marzo 1941
Blasetti ci sembra ormai sicuramente padrone della gamma di effetti che la macchina da presa, sapientemente diretta su assiemi e particolari, può svolgere dinanzi agli occhi nostri. Insisto su questo «assiemi e particolari» in quanto è proprio della formula scenico-compositiva, per cosi dire, che Blasetti si è dimostrato specialmente padrone. E dove gli altri registi della nostra nuova cinematografia preferivano attenersi a sviluppi narrativi piuttosto modesti, circoscritti, egli affrontava, non per imposizione di produttori, ma per propria deliberazione, temi vasti e corali, ove l’azione delle masse si alternava con insolita prepotenza a quella degli attori principali. Ed è forse soltanto dietro questa indicazione di Blasetti, che altri nostri registi hanno ambito volentieri di mostrare la loro capacità in realizzare opere storiche dal pomposo clima melodrammatico.
Difatti, mentre in molta parte della nostra produzione, questo anelito al variopinto non sa concretizzarsi altro che nei meandri di una teatralissima e scenografica tradizione, in Blasetti soltanto, le masse vestite e le loro gesta e i loro atteggiamenti hanno acquistato un significato.
E quel che è ancor più rilevante, egli non ha dovuto attendere di aver percorso un lungo tirocinio, come occorre in generale nell'industria, avanti di saper uscir fuori con delle opere compiute le quali sian poi quelle che si volevano. Egli ha anzi messo a frutto il meglio del suo talento e della sua equilibrata perizia in quello che si può dire il primo dei suoi film di classe: «1860». Tanto che a voler seguire una evoluzione estetica in questo regista e ritrovare una sua progressiva epurazione, verrebbe fatto di percorrere a ritroso, anziché secondo le date, la serie dei suoi film. Oggi Blasetti ha mostrato si. e assai lodevolmente, di a-vere ancora e sempre più coraggio nell'affrontare complessità di argomenti: una perizia di coordinamento e di direzione artistica, intesa appunto come governo sovrano di un’ingente massa di uomini e di elementi, della quale si erano avuti pochi esempi anche fuori d’Italia; ma lo schema narrativo gli è divenuto irrimediabilmente pesante, tanto che da un suo film, oggi, sviluppando alcuni episodi narrativamente in altrettanti organismi autonomi. se ne potrebbero ricavare almeno altri venti.
E’ forse questo continuo sforzo di grandiosità e di complessità, alla quale tempra si valida di organizzatore si trovò subito tanto portato, che ha finito per colmargli l’orlo del vaso. Mentre in «1860» un tale sforzo, pur già evidente, era contenuto nei limiti richiesti dall'argomento, cosi che i lati più lirici. accorati della vicenda non vennero coinvolti senza alcun contrappunto o risalto in una scarica continua e quasi uniforme di effetti scenici.
Del resto si potrebbe osservare che è sempre preferibile la sovrabbondanza di vena e di intenzioni, all’assenza e alla scarsità delle medesime. E Blasetti che è piuttosto della giovane che dell’anziana generazione di registi, ha sempre tempo di abbandonare qualche colore della sua tavolozza, e ritornare a una armonia che si manifesti nel singolo quadro, scena ed episodio, si. ma ancora in tutta la struttura del film.
E di questo siamo tanto più sicuri, in quanto nell’opera di Blasetti figurano pagine, — le prime, é vero, ma figurano — che avevan raggiunto questa loro armonia.
Prima di «1860» egli ci aveva dato «Sole», uno dei più interessanti e genuini film «nativi» di quell’epoca (1928), poi «Resurrectio», «Terra madre», «Palio». Tutti ben scelti, ponderati nella loro preparazione, come è esemplare costume di questo regista. Ed è pure di quell’epoca «Assisi», un documentario dal ritmo lento e salmodiante, l’inquadratura sintetica, essenziale, illustrante le tre basiliche contigue sulla tomba del serafico umbro. Certe processioni di muti frati recanti la torcia nelle tenebre indisturbate e indisturbabili nell'interno della roccia santificata, o le mistiche staccature degli archi sullo sfondo di luminosi cieli — anche se motivi assai sovente ripresi — riuscivano a condurci in atmosfera molto intima e propizia a sentire e gustare la poesia tutta mistica che emana da Assisi e dal suo santo.
E non si deve credere che cominci e finisca lì il tributo di Blasetti all'utilizzazione e al progresso nel cinema del fattore religioso-spirituale.
Difatti, mentre talora si è pur accinto volentieri a film di indifferente o un po’ frivola ossatura morale («Contessa di Parma», il farraginoso «Aldébaran» scioccamente mondano, la pittura troppo carica di «Salvator Rosa»), basterebbe il nobile, sincero e accorato epos rivoluzionario di «Vecchia guardia», in cui si combatte e si muore per inculcare al popolo patrii ideali (e sorvoliamo su certa secondaria sconnessura di montaggio, qua e la), basterebbe qualche scena di religioso timore in una contenuta ed efficace scenografia gotica dell'«Ettore Fieramosca», e specialmente la figura potente del frate, impersonata dal povero Gianfranco Giochetti, in «1860», ove pure la tesi e l’intreccio romantico assai delicato erano tanto belle da trascinare a puri pensieri, per fare di questo regista un artista italiano anche nel senso di «latino». «1860» era la pietra angolare sulla quale avrebbe dovuto basarsi forse tutta la nostra rinascita cinematografica, ma di certo la successiva produzione e l'evoluzione sentimentale ed estetica di Blasetti. Perchè, ci domandiamo, Blasetti stesso, che pure ha saputo tener testa per altre cose alla corrente commerciale, ha declinato sensibilmente talora da questo che era il suo più vero e genuino istinto di artista? Non avrà anch'egli creduto, speriamo, che il cinema, se non addirittura l'arte in genere, han bisogno di intorbidarsi, per acquistare efficacia ed espressione? Chè anzi è proprio allorché un regista viene a compromessi con tali mezzucci di successo, che finisce la sua intemeratezza etica e perciò, a breve distanza, anche quella estetica. La sua arte si carica di fattori illegittimi, si intorbida. E’ più unico che raro che uno di tali motivi debba «per forza» esser trattato, e anche allora con molta e nobile delicatezza.
Ma noi crediamo che Blasetti abbia natura e formazione abbastanza nobili, per non capire questo prima o poi. E ci auguriamo che il successo un po' riservato del suo ultimo sforzo poetico «Corona di ferro», a Venezia, lo abbia ancor più illuminato. Volendo — come, ripetiamo, è suo altissimo merito — ricondurre tra noi veri e liberi lanci di spiritualità e di poesia, egli si era imbarcato in una rischiosissima ed anfrattuosa frivolezza di sogno, mista sempre di troppi ed eterogenei elementi. Ma soltanto un più solido principio in una fede universale positiva e veridica, in una precisa luce soprannaturale, quale egli ha pur mostrato di saper apprezzare con «Assisi» e con «1860», potrà appagare in pieno il desiderio di questo ritorno ad un'aria più chiara.
Gastone Canessa, «La Rivista del Cinematografo», novembre 1941
Caro Blasetti
Sono venuto ad teatro n. 5 a Cinecittà dove dirigevi «Quattro passi fra le nuvole»; poi ho parlato con te al telefono. Non eri il solito Blasetti, avevi qualcosa che non andava : pena, stanchezza come quando la critica scrive di te cose che credi ingiuste o dettate da malanimo. Dov'era il tuo entusiasmo solito che ti fa partire a testa bassa contro tutti gli ostacoli e ti fa perdonare, da quanti ti conoscono, ogni tua cantonata?
Non da oggi però, tu sei in questo stato d'animo, è cominciato dopo «La corona di ferro» che ti lasciò stanco dopo tanti mesi di lavoro faticoso e snervante come di solito è il tuo quando ti appassioni all'opera. Mi dicesti allo, ra che avresti voluto fare un film di riposo, per divertirti, per alleggerire lo spirito grave e carico di violenta fantasia Non facesti quel film. Ti buttasti con foga alla preparazione di una «Francesca da Rimini»; e non se ne è più parlato. Dovevi dirigere «Harlem» e anche per questo i progetti hanno preso altra piega. Infine «Quattro passi fra le nuvole». Ti assicuro che in principio ho accolto la notizia con scetticismo, non ci credevo; invece ormai l'hai quasi terminato, ma nel dirigerlo hai avuto teco un grosso bagaglio di speranze represse, di slanci dolorosi... £ tuttavia non sei di quella specie di registi che si adattano a dirigere un film comunque, senza scegliere, soltanto per tener fede a un contratto firmato. E' inammissibile che tu entri in un teatro di posa senza un minimo di interesse; e, del resto, appena l'hai iniziata, una cosa diventa tua, all'interesse unisci la fede e già in altre occasioni t'ho visto ridiventare, dopo una dubbia partenza, il Blasetti dei felici periodi di lavoro.
Stavolta, però, c'è stato qualcosa di diverso. Interesse e fede si, ma non entusiasmo, anzi quasi tristezza. Sbaglio? Può darsi; ma, vedi, tu sei stato sempre criticato per gli stivali: ti dicono che non li togli neanche per un momento, che maglione e stivali costituiscono una tua forma particolare di esibizionismo. Io so che non è cosi. Magari, insieme con te, ci ho scherzato su un po' anch'io. Invece, maglione e stivali rappresentano per te una manifestazione di impegno, formano la tua divisa di lavoro, quella che ti permette di sdraiarti per terra alla ricerca dell'inquadratura dal basso, di arrampicarti sui praticabili per le inquadrature dall'alto, di correre di qua e di là liberamente avendo ridotto l'abito a funzionale semplicità. Ebbene, questa volta non hai indossato nè maglione nè stivali, hai diretto il film in irreprensibili abiti da passeggio.
Non c'è da impressionarsi. Crisi ne abbiamo un po' tutti e credo che tu in questo momento abbia una crisi di entusiasmo. Ma ti conosco. So che poco basta per restituirti ciò che non è perduto, ti basta — per esempio — di sentire intorno l'affetto e la comprensione degli amici e dei collaboratori. Sei molto sensibile a queste cose, ti commuovi come, non lo negare, ti sei commosso giorni fa, il giorno di Sant'Alessandro. Era l'ora della colazione, avevi dato la pausa e ti avviavi al ristorante quando un custode ti consegnò un pacchetto e una lettera che apristi pensando forse a una delle solite raccomandazioni che ti pervengono per ignoti geni del cinema. Era una paginetta di scritto, a caratteri grandi, allineati senza troppo ordine sulla rigatura del foglio. Non riuscivi a staccare gli occhi e sorridevi. Lessi anch'io: «Al caro papà per il suo onomastico promettendo di essere buoni». Era firmata da Adriana Benetti, Gino Cervi, Comin, De Felice, Vich, ognuno aveva scritto con caratteri volutamente infantili e con errori, che è raffinatezza d'affetto. Intanto i «bambini» guardavano il «papà». La Benetti si era rannicchiata su una sedia tutta felice; gli uomini anche contenti ma fingendo indifferenza. Nel pacchetto c'era un accendisigari da tavolo, molto bello, per accendere le mezze sigarette con cui ti illudi di fumare di meno.
Quando uno è capace di commuoversi per queste piccole cose ha l'entusiasmo intatto dentro di se; e tornerà fuori, caro Blasetti... forse durante la lavorazione di «Quelli della montagna», iniziatasi giorni fa con la regia di Vergano e la supervisione tua per onorare il morto eroe nel nostro cinema Cino Betrone; e ancor più forte nascerà il tuo entusiasmo quando a primavera, come ho inteso dire, dirigerai «Bir-el-Gobi», gesta semplice ed eroica di giovani che sognavano la guerra. Quello è il tuo film!
Domenico Meccoli, «Tempo», n.172, 17 settembre 1942
Registi all'improvviso: Blasetti-Bragaglia
Gli stivaloni di Alessandro Blasetti ispirano con frequenza l'estro un po’ stanco degli umoristi, sostituendo vantaggiosamente i rituali « zio Giuseppe » e « zia Carolina ». Essi sono altrettanto celebri che i suoi film, e formano parte integrante di una personalità che è complessa e inconfondibile. S'immagina più facilmente un Alessandro de Stefani nella parte di Armando Ouval, che Blasatti senza stivali. Se un giorno il Nostro, per capriccio d'artista, comparisse a Cinecittà vestito come noi e voi, si griderebbe allo scandalo, quasi fosse nudo. Il fotografo ha fermato in un'istantanea il suo malumore, un suo momento di perplessità. Blasetti si è appartato dai suoi collaboratori, per riflettere comodamente. Il suo sguardo ha una malinconica fissità. Si direbbe che il noto regista pensi all'immortalità dell’anima, o alla caducità delle cose umana. Qui Blasetti è un romantico con gli stivali. E mai come in quest'occasione, le famose calzature gli saranno tanto preziose. Egli si avventura in. fatti con il pensiero nella giungla di « Nessuno torna indietro », un film che prevede la simultanea partecipazione di sette dive di gran nome. Il regista si ripromette di condurre a buon porto l'ardua impresa. Ma forse a Blasetti, questa volta, oltre agli stivali di rito, occorrerà anche la frusta del domatore.
In questi ultimi anni, la sua regìa 'si è fatta velocissima, fulminea, « Una regìa di passaggio », la definisce un suo critico senza indulgenza. Si direbbe che, dirigendo un film, egli ingaggi una gara di velocità con se stesso. Carlo contro Ludovico. E vince regolarmente Bragaglia; o, per meglio dire, vince il suo produttore, che si frega le mani, soddisfatto, e lo addita come esempio sublime di velocistiche virtù a Genina, Malasomma e Castellani. Il motto di C. L. B. è quello di una nota tintoria romana: « Presto e bene ». Alla prima parte di esso, il regista è abitualmente fedelissimo; alla seconda, un po' meno. L'anno scorso girò 10 film in 250 giorni, con una media di quasi un chilometro di pellicola ogni 24 ore. Ma gli restò ancora il tempo di essere il fratello dell'immenso Anton Giulio Bragaglia. Nel pieno del lavoro, si addormenta dove gli capita. Qui il fotografo lo ha colto men. tre russa con soavità in un canestro della biancheria. Dall’innocenza del suo sonno e dal sorriso fanciullesco che gli erra sul volto aerodinamico, s’intuisce che C. L. B. sta sognando di essere lui il soggettista e lo sceneggiatore di « Fuga a due voci ». Ancora pochi minuti, e poi il regista si sveglierà, affrettandosi a girare, tra le 18,25 e le 19.30, il secondo tempo del suo nuovo film.
«Film», 26 giugno 1943
29 domande ad Alessandro Blasetti
Alessandro Blasetti è nato a Roma nel 1900. Fondò e diresse la rivista "Cinematografo” negli anni tra il 1926 e il 1928. Fondò la Casa cinematografica "Augustus”. Ha sovente sceneggiato e scritto il soggetto delle proprie opere. Alcuni film (fra i principali): "Il caso Haller”; "Vecchia guardia”; "Aldebaran"; "Ettore Fieramosca"; "Un’avventura di Salvator Rosa”; "La corona di ferro”; "Quattro passi fra le nuvole"; "Altri tempi”; Salviamo il panorama". Vive tuttora a Roma.
Domanda - Crede che la nostra cinematografia debba ritenersi, in genere, superiore © inferiore a quella straniera? 'Se inferiore, per qual motivo?
Risposta - Inferiore quando imita caratteristiche e possibilità della cinematografia straniera; spesso . pari, non raramente superiore (Chaplin sempre escluso) quando sia spontaneamente — e cioè non si proponga di essere — italiana in senso umano e cristiano. (Ritengo film italiani in senso umano e cristiano, per esempio, "Roma città aperta", "Paisà”, "Ladri di biciclette", ”Umberto D", "La terra trema", "Le notti di Cabiria”, ecc.). .
D. - In che cosa, più particolarmente, la cinematografia italiana differisce secondo lei, da quella francese?
R. - In quello che differenzia i due popoli: pregi e difetti, ricchezza e lacune di chi ha alle sue spalle un compiuto ciclo di civiltà e di chi al contrario lo ha tanto lontano da dover ricominciare da capo; di chi ha più recenti tradizioni e di chi ha più recente giovinezza.
D. - Per quale ragione il pubblico preferisce di gran lunga il film americano?
R. - Sarebbe più esatto dire "è tornato a preferire” il film americano. Dieci anni fa (quando i precedenti successi industriali, la standardizzazione ed i bavagli del moralismo lo avevano isterilito) il film americano aveva perso la antica preferenza dei pubblici europei. Si toma a preferirlo oggi perchè ha approfiitato della lezione neorealista italiana superandoci in libertà ed in coraggio e questo proprio mentre noi di libertà e di coraggio ne abbiamo perduti ogni anno di più.
D. - Come spiega che un film come "Poveri ma belli” abbia avuto successo in una città come Milano?
R. - Perchè i milanesi non respingono i film di ambiente romano; respingono, come i romani, i film romaneschi nel senso più grossolano.
D. - Qual è, secondo lei, il film più milanese che sia stato prodotto quest’anno?
R. - "Le notti di Cabiria" che si svolge a Roma ma che essendo un capolavoro ha la prelazione di cittadinanza dovunque.
D. - Qual è il più brutto?
R. - Tanti: quelli fatti nell’intento di piacere alle superiori gerarchie o ai papaveri delle demagogie di ogni colore.
D. - Preferisce, in genere, dubitare di se stesso o dell’altrui opinione?
R. - Di me stesso quando l’altrui opinione mi è favorevole.
D. - Dovendo dirigere un film con la signorina Caglio come protagonista, quale soggetto sceglierebbe per farle fare una figura migliore di quella da lei fatta ne ”La ragazza di via Veneto”?
R. - Credo che la figura migliore la signorina Caglio la farà — prescindendo da ogni sua attitudine cinematografica — proponendosi fermamente di non fare mai più film (e interviste) con chiunque.
D. - Vuol citarmi un soggetto che, alla prova dei fatti, si sia rivelato inattuabile ed al quale, cioè, abbia dovuto rinunciare per motivi non di ordine pratico?
R. - Due bozzetti di condanna della guerra nel film "Tempi nostriuno di Corrado Alvaro, l’altro di Zavattini.
D. - Chi è, secondo lei, il più cinematografico degli scrittori italiani?
R. - Come capacità di tradurre fatti e personaggi in immagini (tra i soli contemporanei, naturalmente) era Vitaliano Brancati. Come miniera di spunti Moravia, come cordiale aderenza all’animo popolare Pratolini. Non ho parlato di Zavattini perchè più che essere uno scrittore che fa del cinema è un uomo di cinema che fa lo scrittore. E non parlo di Marotta perchè quando recentemente ho stampato tutto il bene che ne penso e tutto il male che gli ho fatto, ha detto a un comune amico che sono un mezzano: e siccome Peppe è uno scrittore che fa anche il critico, un minimo di dignità mi impone dì non insistere.
D. - Per quale ragione manca quasi totalmente in Italia, oggi, un cinema cosiddetto ”di idee”?
R. - Perchè ce ne è stato ieri uno che ce ne aveva troppe (e troppo chiare).
D. - In un mondo senza celluloide che cosa avrebbe fatto?
R. - Il cinema senza celluloide; con un’altra materia che altri avrebbe pensato ad inventare.
D. - Qual è il minimum necessario perchè di ima donna qualsiasi un bravo regista possa fare un’attrice?
R. - Di una donna qualsiasi nessun regista potrà far altro che quello che è: una donna qualsiasi e cioè il contrario di un’attrice.
D. - Che cosa intende per "crisi di soggetti” di cui, in questi ultimi tempi, si fa tanto parlare?
R. - Che la crisi del cinema, nel mondo, di niente altro consiste che di questo: crisi di soggetti (come vado ripetendo da oltre dieci anni). Crisi di idee; cioè crisi di libertà di esprimerle, crisi di coràggio nel volerle esprimere (soprattutto), crisi insomma di fantasia, di poesia, di impegno nella classe di coloro che scrivono il testo dei film — registi e sceneggiatori; — e crisi di intelligenza commerciale o di lealtà e di umanità nella classe di coloro che ne pagano o ne controllano il lavoro.
p. - Esiste un attore ovvero un’attrice con cui abbia sempre desiderato e mai potuto fare un film? Se sì, qual è?
R. - Escluso che si possa osare di pensare a Chaplin (ma dichiarandolo se no si corre il rischio di essere squalificati a vita come la istituzione dell'Oscar americano che non ha mai assegnato un premio o questo massimo artista cinematografico del mondo), fra gli uomini Ronald Colman e Herbert Marshall. Fra le donne a 17 anni Diana Karenne, a 40 Barbara Stanwych, oggi Au-drey Hepburn o Betsy Blair.
D. - Le piace l’aria dei Festival? Se sì, vuol darmene una definizione?
R. - Sufficienza, snobismo — e cioè incompetenza e cattivo gusto, — faziosità dei più alleate contro l’intelligenza e la seria preparazione di pochissimi: sgradevole, dura ma affascinante battaglia (soprattutto per chi è giovane).
D. - Qual è il più italiano dei film che siano stati prodotti dalla fine della guerra in poi?
R. - Non ce n’è uno solo. Ogni anno dal ’46 al ’52; almeno uno all’anno, malgrado tutto, ancora fino ad oggi. E tutti ugualmente italiani proprio perchè tutti diversi come sono diversi l’uno dall’altro (e diversi i risultati delle loro collaborazioni) De Sica, Rosselli-ni, Fellini, Zavattini, Castellani, Lattuada, Suso D’Amico, Germi, Brancati, Flaiano, Zampa, Giannini, Telimi, Amidei, Antonioni, Pratolini, Moravia, Visconti, ecc. ecc. (ho citato a grappolo prescindendo da qualsiasi criterio di valori).
D. - Qual è il problema che le sta più a cuore?
R. - La condanna della violenza in tutti i suoi aspetti, forme e manifestazioni: fisiche e morali. Penso e ripeto da sempre nella vita e nei film che il violento, colui che vuole imporre idee e volontà con la violenza, prima di essere un criminale è un imbecille, come insegna qualunque manualetto di storia per scuole serali.
D. - Quale ritiene essere come uomo il suo principale difetto?
R. - Troppe parole.
D. - E come artista?
R. - Troppe intenzioni.
D. - Chi fra i registi stranieri giudica più affine al suo temperamento?
R. - Queste affinità possono essere giudicate dagli altri più che da noi stessi. Noi possiamo aver sentito più vicino a noi questa o quella opera di questo o quel regista. Per quel che mi riguarda, in ordine di tempo: "Il cammino verso la vita" di Nikolai Eck, "La tragedia della miniera" di Pabst, "La grande illusione” di Renoir.
D. - Dovendo sostenere di fronte a un tribunale di critici la parte del pubblico accusatore contro Charlie Chaplin, di quale argomento penserebbe di avvalersi?
R. - Accaparratore. Ha inventato tutto il cinema lui (cancellando senza volerlo i meriti precedenti di Melies e di Linder), lasciando ai contemporanei e ai posteri soltanto le briciole.
D. - Qual è il film più documentario che lei abbia girato?
R. - Forse "1860”, forse "Vecchia Guardia", forse "Un giorno nella vita”; ma forse, più esattamente, nessuno. Un film anche quando si rifaccia a fatti e personaggi documentati non riesce ad esserne che una interpretazione di colui che sceglie ed impiega i documenti: è un documento, cioè è documentario, soltanto del suo autore.
D. - Ritiene la solitudine positiva ovvero negativa ai fini di un artista?
R. - Penso che la solitudine sia negativa nel momento di raccogliere le esperienze umane che conducono ad una opera; positiva nel momento di avvalersi di quanto si è raccolto.
D. - Esiste, secondo lei, una opinione pubblica? Se sì, quale il miglior mezzo, secondo lei, per riconoscerle?
R. - Basta un ordine di scuderia ad un certo gruppo di giornali per accendere sdegni o simpatie, assolutamente ingiusti o per lo meno inadeguati, su fatti e persone. Ma l’opinione pubblica non è quella che si diffonde in questo primo momento: è quella che si forma, inevitabilmente, poi e non soltanto sui fatti e sulle persone in oggetto ma soprattutto su coloro che li hanno presentati in un modo o nell’altro. Come si riconosce questa opinione? Dal crescere o dal calare della tiratura di questi o quei giornali; e dei voti di questo o quel partito.
D. - Chi riterrebbe più idoneo tra gli scrittori italiani a scrivere un romanzo tratto dal processo Montesi?
R. - Mario Soldati.
D. - A quale dei nostri registi affiderebbe la sua eventuale traduzione cinematografica?
R. - A Pietro Germi
D. - Chi fra i registi italiani considera artisticamente il suo contrario?
R. - Luchino Visconti, di tutti il più colto, il più raffinato, il più implacabile.
D. - Che cosa manca al cinema italiano per essere veramente nazionale?
R. - Anzitutto che ce lo lascino pensare liberamente senza sospetti, limitazioni, preoccupazioni.
Alle due domande: quale sia il suo principale difetto come uomo e come artista, Blasetti rispettivamente risponde: «Troppe parole»; «Troppe intenzioni». Resta da vedere se il giudizio contenuto in queste due affermazioni abbia da considerarsi negativo e che questi, in altre parole, debbano considerarsi, nella vita e nell’arte i due principali difetti del regista Blasetti. Che poi, a voler ben guardare si tratta di un giudizio unico, o meglio di due definizioni che sono l’una condizionata all'altra. Blasetti rimprovera a se stesso le troppe parole che restano, sul piano artistico semplici intenzioni. Ma questa accusa, ogni artista che ne abbia naturalmente coscienza finisce per sentire il dovere di porsela.
Enrico Roda, «Tempo», 1957
«L’egoismo! Intendiamoci: non l’ho scoperto io, è un difetto antico come il mondo, ma oggi è più evidente che mai, per questo nostro modo di vivere, individualistico, frenetico... Non c’è dubbio poi che è un male della nostra epoca, in cui vi sono sette o otto persone nella possibilità di provocare una catastrofe tale da distruggere in un’ora mezzo miliardo di uomini, magari spingendo un solo bottone. Al solo pensarci c’è da rabbrividire».
Parlando con l’entusiasmo di un regista alla sua prima esperienza, accompagnando ogni sua parola e ogni suo gesto con una mimica travolgente, Alessandro Blasetti, una delle figure più rappresentative e simpatiche del cinema italiano, mi parla del suo nuovo film «Io, io, io... e gli altri», che sta girando proprio ora e dovrebbe — lo dice egli stesso — chiudere in bellezza la sua carriera: 36 anni di lavoro, 35 film all’attivo.
Sono venuta a trovarlo sul set e, approfittando di un momento di pausa, ci siamo seduti al tavolo del ristorante dello stabilimento cinematografico. Davanti ad un bicchiere di bibita fresca — fa caldo e l’estate sembra finalmente arrivata — la nostra chiacchierata, iniziata con qualche esitazione, ora procede speditamente, come fra vecchi amici.
«”Io, io, io... e gli altri” — dice Blasetti — sarà una specie di conferenza con proiezioni, una raccolta di battute, di aneddoti, capaci di illustrare quello che per me è il più odioso e nefasto dei difetti umani». Non sarà nè un film ad episodi, nè un unico racconto, ma sarà probabilmente un modo insolito di raccontare, un’autentica novità, come lo sono stati a loro tempo altri film di Blasetti.
«Con questo film cedo ancora una volta alle tentazioni della mia ambizione — dice scherzoso; — cerco cioè di scoprire un nuovo sentiero alle possibilità di espressione del cinema» e lo dice con una certa modestia. Anche se poi tutto in lui è tale da darmi la sensazione che l’uomo che mi sta di fronte ha piena fiducia in se stesso, nelle sue possibilità e nelle sue idee.
«E’ un film pacifista?» chiedo ad un tratto, riferendomi al suo discorso iniziale.
«E’ soprattutto un film pacifista: l’egoismo è la causa prima dell’ingiustizia sociale, delle guerre, della solitudine, dell’incomunicabilità, della alienazione e di altri problemi dell’uomo d’oggi. Naturalmente i miei concetti sull’egoismo li espongo con una casistica presa dalla realtà, dalla mia vita e da quella dei miei amici. Non si tratta di casi clamorosi, ma di fatti minuti, quotidiani di ogni giorno. Sono i particolari dai quali si risale poi al generale».
L’egoista numero uno della pellicola è un personaggio sui quarantanni, interpretato da Walter Chiari. In un itinerario di quarantotto ore attraverso la vita di questo individuo, attraverso le sue vicende, le persone che incontra, i fatti che gli accadono intorno, scopriamo una serie di egoisti, più o meno rilevanti, come il tipo sorpreso in una chiesa mentre recita devotamente una preghiera di questo tipo: «...eppoi fai vincere la Roma, fai perdere la Lazio e fai pareggiare il Catania»; oppure colui che sullo specchio del gabinetto di un treno in corsa scrive col sapone «viva me»; e ancora un altro che si serve di un cieco per attraversare la strada in un momento di grande traffico, fingendosi caritatevole.
Il contraltare dell’egoista numero uno è Marcello Mastroianni, suo amico d’infanzia; buono, generoso, altruista, sensibile; tutto il contrario insomma di Walter Chiari. E, amara conclusione della vicenda, in un mondo di egoisti un tipo buono non può fare che una brutta fine. La vicenda vuole infatti che egli scorga un operaio cadere dall’alto di un’impalcatura: in uno slancio spontaneo di generosità gli si fa sotto, per sorreggerlo, attutirgli il colpo: l’operaio si salva e lui muore.
Quando Walter Chiari sa che il suo amico di infanzia è morto, chiede preoccupatissimo: «Morto? Ma di che?». «Disgrazia». «Ah, meno male!». Va al funerale dell’amico, ma anche davanti al corpo pietosamente composto nella bara, non prova alcun sentimento di dolore, di pena, di rimpianto; semmai prova una inconfessata soddisfazione per la propria incolumità. Ma di fronte ad un amico morto bisogna pur soffrire, perbacco! Cerca allora di far spuntare una lacrima, anche piccola, sotto le ciglia ma niente, proprio niente. Nemmeno un lieve arrossamento delle palpebre. E assiste così impassibile alla mesta cerimonia della chiusura della bara. Ma ad un tratto la sua immaginazione gli gioca un brutto scherzo: per un attimo è come se vedesse se stesso al posto dell’amico, la sua faccia fredda e inanimata al posto di quella di Mastroianni. A questo punto sì che ha una reazione: «Ma che fate? — grida ai becchini che stanno per sigillare la bara con la fiamma ossidrica —. Così, come se niente fosse, voi cancellate la vita di un uomo?». Gli operai si arrestano, interdetti, pensano che sia sconvolto dal dolore e lo fissano per un attimo. Ma l’allucinazione è passata, scomparsa, e Walter Chiari li invita, con un gesto melodrammatico, a riprendere il lavoro. «Scusatemi — dice — sono sconvolto. E’ un dolore troppo forte».
E l’ultima cosa che dirà, a proposito dell’amico è: «Quel buono, quel puro, quel candido, quel generoso, quell’entusiasta... quel grandissimo fesso». Il discorso sull’egoismo è fatto quindi con ironia ma anche con forza e drammaticità. «Chi vuol capire, capisca» sembra dire Blasetti.
L’attesa negli ambienti del cinema per questo film è assai viva. Il regista, nel corso della sua carriera, ha realizzato, fra le altre, alcune pellicole che vanno considerate dei pilastri della nostra produzione, nel senso che hanno creato degli stili o, più semplicemente, delle mode, seguiti e imitati poi da molti suoi colleghi. Per questo viene considerato un poco il padre del cinema italiano, una specie di capostipite al quale molti registi devono gratitudine per l’inesau-fibile fonte di idee che Blasetti rappresenta. Intendiamoci, non è lui a dirlo, e anzi è dispiaciuto che qualcuno gli abbia attribuito affermazioni in questo senso che potrebbero sembrare presuntuose. «Io non sono il padre di nessun cinema — dice polemico: — non mi sono mai sognato di dirlo. Lo dicono gli altri, semmai».
Eppure è proprio la storia del cinema di questi ultimi quaranta anni a suggerirci per Blasetti l’appellativo di «capostipite». Fu lui che nel lontano 1S33 realizzò uno dei primi film contro la guerra: «1860». Per Blasetti fu coniata la parola «neorealismo», a proposito di «Quattro passi fra le nuvole» realizzato nel 1942, in pieno fascismo; un film vero, con personaggi umani e popolari che non avevano nulla a che vedere con i fatui protagonisti delle commediole rosa del regime. E la coppia Loren-Mastroianni applaudita oggi in tutto il mondo non la formò lui, per la prima volta, in «Peccato che sia una canaglia»? E chi se non Blasetti ha inventato nel 1958 con «Europa di notte» un genere di spettacolo poi ripreso da tanti altri registi, ma non con lo stesso buon gusto? Siamo noi a ricordargli la sua grande versatilità: il regista, di fronte alle «prove schiaccianti», non può più negare, anzi ammette senza più reticenze: «Sì, è vero. E’ vero anche che Gina Lollobrigida ha avuto il suo primo grande successo con l’episodio "Processo a Frine” del mio film "Altri tempi”. Ammetto, anzi, con molto orgoglio, di aver imposto Mastroianni quando i produttori non credevano ancora in lui. E anche Vittorio De Sica: quando gli feci interpretare "Altri tempi" e "Peccato che sia una canaglia” si credeva che la sua vena fosse esaurita...».
Certamente oggi molti attori e molte attrici debbono a Blasetti gran parte del loro successo. E nel momento in cui lui li ha chiamati ad interpretare piccole parti nel suo «ultimo» film, sono accorsi senza farsi pregare. Ed ora eccoli lì, docili e volonterosi di assecondarlo, i divi più acclamati: Gina Lollobrigida, Walter Chiari, Marcello Mastroianni, Silvana Mangano, Alberto Sordi, Sylva Koscina, Franca Valeri, Vittorio Caprioli e altri altrettanto noti... E, forse, anche Sofia Loren.
Sarà questo l’ultimo film impegnativo? Dubito molto che un uomo come Blasetti, capace di innamorarsi di un’idea con l’entusiasmo di un debuttante, possa veramente lasciare il cinema di battaglia, per fare solo del mestiere, come egli ha detto (farò documentari, televisione, regie teatrali o film di modeste responsabilità). Più che un uomo sul punto di abdicare sembra piuttosto uno di quegli innamorati che ogni qualvolta prendono la «cotta» dicono alla loro donna: «Sei l’unica donna della mia vita». Sarei pronta a scommettere che quando «Io, io, io... e gli altri» sarà terminato in ogni sua parte (riprese, montaggio, doppiaggio) e prenderà il via sugli schermi come un bambino che si stacca dalla gonna della madre, una qualche nuova idea comincerà a frullargli in capo. Ed egli, ancora una volta, riprenderà il suo posto dietro la macchina da presa: con i suoi immancabili stivali, il suo abito da lavoro — pantaloni di velluto verde — e, quel che conta di più, con entusiasmo ed energia. Il cinema italiano ha bisogno di uomini come Blasetti capaci di dare una sterzata di timone al momento giusto. Se i Fellini, gli Antonioni, i Visconti con i loro capolavori hanno dato prestigio al nostro cinema, Blasetti ha saputo spesso tirarlo fuori dalle acque stagnanti in momenti di crisi: con i suoi film ricchi di idee, spettacolari, fantasiosi, ironici.
Maria Maffei, «Noi donne», 1965
A 87 anni, era in ospedale per una brutta caduta in casa
E' morto Alessandro Blasetti
«Stampa Sera», 2 febbraio 1987
Unanime cordoglio per la scomparsa, a 86 anni, del grande maestro protagonista per oltre mezzo secolo della nostra storia del film
Addio a Blasetti, il «papà del cinema italiano»
Da «Sole», che nel 1929 diede il via alla rinascita, alle varie tappe di una intensa carriera - Il capolavoro «1860» sull’impresa garibaldina, la controversa concessione al fascismo con «Vecchia guardia», gli imponenti affreschi in costume dal «Fieramosca» al messaggio pacifista della «Corona di ferro», l’anticipo neorealista di «Quattro passi fra le nuvole» - Nel dopoguerra, l’instancabile iniziatore di fortunati filoni, le lezioni morali contro le sopraffazioni e l’egoismo, l’attività televisiva
ROMA (Ansa) — Il regista Alessandro Blasetti è morto domenica notte a Roma. Si avviava verso gli 87 anni essendo nato il 3 luglio del 1900. Blasetti era ricoverato nel centro di rianimazione dell'ospedale San Giacomo da martedì della settimana scorsa in seguito ad una caduta in casa. Al momento del trapasso era presente la figlia Mara. I funerali si svolgeranno nella giornata di domani, mercoledì, nella Chiesa di Santa Maria del Popolo. La cerimonia funebre sarà officiata da padre Nazareno Taddei, della Compagnia di Gesù, consigliere spirituale del regista. Una camera ardente è stata allestita nella cappella dell’ospedale.
Leonardo Autera, «Corriere della Sera» 3 febbraio 1987
Riconoscimenti
Premi cinematografici
Mostra internazionale d'arte cinematografica
1941: Coppa Mussolini per il miglior film italiano - La corona di ferro
1980: Premio Pietro Bianchi
1982: Leone d'oro alla carriera
David di Donatello
1963: Targa d'Oro
1966: miglior regista - Io, io, io... e gli altri
Nastri d'argento
1946: miglior regista - Un giorno nella vita
1951: miglior regista e miglior sceneggiatura - Prima comunione
Onorificenze
Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana
— Roma, 22 luglio 1980[26]
Filmografia
Regia
Cinema
Cortometraggi
Assisi (1932)
Caccia alla volpe nella campagna romana (1938)
Napoli e le terre d'oltremare (1940)
Sulla cupola di San Pietro (1945) Falsa attribuzione
La gemma orientale dei papi (1947)
Il duomo di Milano (1947)
Castel Sant'Angelo (1947)
Ippodromi all'alba (1950)
Quelli che soffrono per voi (1951)
Miracolo a Ferrara (1953)
Lungometraggi
Sole (1929)
Resurrectio (1930)
Nerone (1930)
Terra madre (1931)
Palio (1931)
La tavola dei poveri (1932)
Il caso Haller (1933)
1860 (1934)
L'impiegata di papà (1934)
Vecchia guardia (1934)
Aldebaran (1935)
Contessa di Parma (1937)
Ettore Fieramosca (1938)
Retroscena (1939)
Un'avventura di Salvator Rosa (1939)
La corona di ferro (1941)
La cena delle beffe (1942)
4 passi fra le nuvole (1942)
Nessuno torna indietro (1943)
Un giorno nella vita (1945)
Fabiola (1949)
Prima comunione (1950)
Altri tempi - Zibaldone n. 1 (1952)
La fiammata (1952)
Tempi nostri - Zibaldone n. 2 (1954)
Peccato che sia una canaglia (1954)
La fortuna di essere donna (1955)
Amore e chiacchiere (1957)
Europa di notte (1958) - documentario
Io amo, tu ami... (1961) - documentario
Le quattro verità (1962) - episodio La lepre e la tartaruga
Liolà (1963)
Io, io, io... e gli altri (1966)
La ragazza del bersagliere (1967)
Simon Bolivar (Simón Bolívar) (1969)
Televisione
La lunga strada del ritorno (1962) - tre puntate
Gli italiani del cinema italiano (1964) - sei puntate
Napoli 1860 - La fine dei Borboni (1970) - due puntate della serie I giorni della storia
10 giugno 1940 (1970) - episodio Dov'eravate?
Anni 60: una notte in Europa (1970)
Storie dell'emigrazione (1972) - cinque puntate
I mercoledì del papa (1973)
L'arte di far ridere (1974) - cinque puntate
Racconti di fantascienza (1978) - tre puntate
L'arte di far ridere (1980)
Il mio amico Pietro Germi (1980)
Venezia: una mostra per il cinema (1981)
Teatro
18BL di Luigi Bonelli, Sandro De Feo, Gherardo Gheradi, Nicola Lisi, Raffaello Melani, Alessandro Pavolini, Corrado Sofia, Giorgio Venturini (1934)
Il tempo e la famiglia Conway di John B. Priestley (1945)
Ma non è una cosa seria di Luigi Pirandello (1945)
La foresta pietrificata di Robert E. Sherwood (1947)
La regina e gli insorti di Ugo Betti (1951)
I capricci di Marianna di Alfred de Musset (1952)
La carrozza del SS. Sacramento di Prosper Mérimée (1952)
Molecoton en almibar di Miguel Milhura (1967)
Supervisione
Quelli della montagna, regia di Aldo Vergano (1942)
Il testimone, regia di Pietro Germi (1945)
Attore
Aldebaran (1935) (apparizione di pochi secondi, unico ruolo di finzione)
Bellissima, regia di Luchino Visconti (1951) (nella parte di se stesso)
Una vita difficile, regia di Dino Risi (1961) (nella parte di se stesso)
Il mistero di Cinecittà, regia di Mario Ferrero (1977) (nella parte di se stesso)
Note
- ^ Tullio Kezich, Cent'anni fa nasceva Blasetti, regista-dittatore e maestro di tutti, in Il Corriere della Sera, 3 luglio 2000. URL consultato l'11 ottobre 2009 (archiviato dall'url originale il ).
- ^ a b Gianfranco Gori, Alessandro Blasetti. Firenze, La nuova Italia, 1984. p. 20
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., p. 62
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., p. 14
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., pp. 14-15
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., p. 15
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., p. 18
- ^ a b Gianfranco Gori, op. cit., p. 17
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., pp. 22-23
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., p. 23
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., p. 26
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., p. 32
- ^ a b Gianfranco Gori, op. cit., p. 34
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., p. 39
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., p. 42
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., p. 48
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., p. 47
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., p. 50
- ^ a b Gianfranco Gori, op. cit., p. 54
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., p. 74
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., pp. 76-77
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., p. 78
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., p. 79
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., pp. 81-82
- ^ Gianfranco Gori, op. cit., p. 84
- ^ Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.
Riferimenti e bibliografie:
- Domenico Meccoli, «Tempo», n.172, 17 settembre 1942
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- La Stampa
- La Nuova Stampa
- Stampa Sera
- Nuova Stampa Sera
- Corriere della Sera
- Corriere d'Informazione
- Film
- La Rivista del Cinematografo
- Tempo