Andreotti Giulio

Giulio Andreotti

(Roma, 14 gennaio 1919 – morto a Roma, 6 maggio 2013) a 96 anni abbondanti; terzogenito di Filippo e Rosa Falasca, aveva una sorella ed un fratello. Ha avuto quattro figli da Livia Danese regolarmente sposata nel 1945. Laureato in giurisprudenza, esponente fedele all'unico Partito Politico del quale è stato tesserato e portavoce: la Democrazia Cristiana.

Famoso, più che per il difetto fisico della cifoscoliosi, per un suo piacevole senso dell'umorismo, che, per quanto stemperato dal moralismo tipico dei cattolici, sapeva farsi talvolta mordace.

Fin da studente alle scuole superiori, ancor prima che matricola universitaria, era attratto dal mondo dello Spettacolo e partecipava agli eventi ufficiali politici ed istituzionali: presente, ad esempio, alla ufficiale inaugurazione di Cinecittà.

Non ha mai rinunciato al suo attivismo soprattutto letterario Redattore di periodici e quotidiani del suo partito d'appartenenza; nel 1955, oltre che scriverci regolarmente, fonda e dirige il periodico romano "CONCRETEZZA".

Scrittore di libri fin dal 1945. Nel 1942, in piena guerra mondiale, era Presidente della Federazione Universitaria Cattolici Italiani. Nel 1946, a soli 27 anni, come esponente dei cattolici, è stato membro dell'Assemblea Costituente. Eletto Deputato nel 1946 (oppure 1948).

Dal 31 maggio 1947 al 28 luglio 1953, ininterrottamente durante ben 5 Governi, ha ricoperto il ruolo di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nei servizi dello Spettacolo e dello Sport: interessato agli Artisti in genere, quando poteva e voleva, presenziava ai funerali, come ad esempio martedì 6 marzo 1951 a quello per l'attrice comica Dina Galli.

Fu nell'arco di questo lasso di tempo che, Antonio de Curtis fu curioso di conoscerlo; non è chiaro se avvenne in un camerino del Nuovo di Milano nel periodo 1949-1950, nel corso della tappa di "Bada che ti mangio" o se al Valle di Roma alla prima di "C'era una volta il mondo". Si sa che il cordiale botta e risposta fra le due personalità, tanto sensibili ed accomodanti, concordò in una condivisa risata finale: a causarla Totò De Curtis che, su per giù, si espresse così:


Se lei, Eccellenza, ha capito tutto delle battute maliziose della scena del wagon-lit, mi perdoni, ma vuol dire che era uno sporcaccione già prima.


Nell'Annuario del Cinema italiano 1950-1951 è così attribuito: Onorevole, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Presidente Commissione Consultiva Ufficio Centrale della Cinematografia e Presidente Comitato Tecnico d'Appello, 2° grado, alla Direzione Generale dello Spettacolo.

Al periodo di tale incarico politico (1947-1953) risale, inoltre, oltre a qualche consiglio di censure per supposte offese alla Religione di Stato (all'epoca la Cattolica ancora lo era), il suo tanto discusso articolo contro il neorealismo, ed UMBERTO D in particolare, pubblicato dal periodico di parte "LIBERTAS" N° 7 del 28 febbraio 1952 con il titolo "Piaghe sociali e necessità di redenzione"; al contrario, invece, pare abbia addirittura difeso altre pellicole contro l'eccessivo bigottismo del collega Scelba (famoso per le censure contro le libere opinioni diverse dal credo DC).

Dal 29 luglio 1953 Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con incarico di Segretario del Consiglio dei Ministri e Coordinatore delle attività legislative.

Nel gennaio 1954 è per la prima volta Ministro (Ministero degli Interni), quale membro del Governo Fanfani; è così stato Ministro ininterrottamente fino al 1968, membro di Governi differenti, con incarichi diversi: Difesa, Industria e Commercio, Finanze, Tesoro; non a caso, in una battuta dialogata nel film satirico "GLI ONOREVOLI", si diceva: "Non c'è rosa senza spine, non c'è Governo senza Andreotti".

Franca Faldini ha confidato che, nel suo gergo scherzoso, Antonio De Curtis aveva soprannominato Giulio Andreotti: "aspirante sagrestano".

Come ironia del destino, quasi giocando sulle parodie e le satire, capita che l'Onorevole Andreotti Giulio e l'artista de Curtis Antonio in arte Totò, si incontrino di nuovo ma stavolta senza curiosi testimoni, guarda caso, proprio su un treno con le cabine letto; era precisamente la tratta Nizza-Roma, quindi, per entrambi, un rientro a casa. Era estate, non prima del possibile 1956, non dopo il probabile 1958. Le cabine erano vicine e l'uomo de Curtis intendeva chiedere aiuto o consiglio al comprensivo Ministro, per un suo problema; era il periodo in cui gli Artisti iniziavano ad essere tartassati e, in qualche caso, appunto, sopravvalutati dal fisco (come alludeva Totò) a causa della legge Vanoni.
Nell'impossibilità etica e democratica di fare eccezioni nè raccomandazioni, e Antonio de Curtis, generoso e dalle mani bucate, certo non pretendeva affatto questo, ma forse almeno una rivalutazione. L'aiuto si concretizzò nell'unico consiglio concreto: chiedere dilazione e rateizzazione.


Quella faccia non mi è nuova: il Principe Totò

di Giulio Andreotti

Doveva essere nell’estate del 1957 (forse un anno prima o uno dopo). Il treno letti Nizza-Roma aveva da non molto passato il confine ed io me ne stavo placidamente a leggere il libro giallo serale quando bussarono alla porta della mia cabina. Non eravamo ancora in tempi di terrorismo, di scorte e di necessarie cautele; aprii quindi senza alcuna precauzione e mi trovai dinanzi Totò, accompagnato da Franca Faldini. “Ho saputo che Lei era qui e non potevo non venire ad augurarLe la buona notte.”

Passato l’attimo di sorpresa, mi scusai con la Faldini per essere in tenuta da camera (Totò, invece, reduce da una crociera in Costa Azzurra, indossava una elegante divisa da autorevole yachtman) e ringraziai il Principe col quale ci addentrammo in una gradevolissima conversazione. Non voleva davvero profittare del ministro delle Finanze in vacanza per porre alcuni suoi urgenti problemi, ma avrebbe avuto grande gioia se lo avessi potuto vedere in ufficio per illustrarmeli: “Nella vita ognuno ama di essere sopravvalutato, ma io lo sono ‘solo dal fisco’”.

Dopo una serie di schioppettanti battute come questa, Totò con un moderato inchino prese congedo nell’intesa di vederci al ministero il lunedì successivo a mezzogiorno.

Lo avevo conosciuto di persona a Milano nel 1950 presentatomi da Remigio Paone al Teatro Nuovo; anzi dovrei dire “presentatogli” perché il Principe mi aveva fatto sapere che gradiva ricevermi nel suo camerino. In quella prima occasione lo trovai dignitosissimo, con una sorta di ostentata sufficienza sul modesto sottosegretario di Stato. Era un personaggio completamente diverso da quello che pochi minuti prima ci aveva mandato in visibilio con il gran finale dello spettacolo in cui, elmetto e piume di bersagliere, percorreva più volte a velocità crescente la passerella, scandendo il verso dantesco, leggermente adattato: “Ohi Pi - ohi Pi - Pi - Ohi Pisa, vituperio delle genti”.

Il successo di Totò era tanto più impressionante perché affidato a tre o quattro semplici ingredienti: l’incedere meccanico, quasi da burattino; l’insistente ripetizione delle battute, di un repertorio volutamente limitato, ed anche di espressioni divertenti sue tipiche (“Ma mi faccia il piacere” ad esempio); l’accentuata inflessione napoletana; uno strabuzzamento inimitabile degli occhi.

Erano forse le nostre generazioni facili al riso? Può darsi, ma a giudicare dall’apprezzamento che i giovani tuttora mostrano ai suoi film, teletrasmessi spesso sia dalle reti pubbliche che private, si ha la conferma del grande valore artistico di Totò, la cui “vis comica” è destinata a non tramontare proprio perché basata su caratteristiche semplici e naturali.

Sembra che Antonio De Curtis fosse seriamente impegnato e convinto nel difendere le sue prerogative principesche. Si sarebbe detto che l’applauso e l’affetto delle folle erano da lui vissuti come un surrogato dell’ossequio spettantegli quale erede del Sacro Romano Impero.

Parlammo una volta degli aspetti morali della comicità nel cinema ed ascoltai da lui una distinzione interessante: vanno evitate le “immagini” oscene perché eccitano passioni e suscitano squilibri (specie nei ragazzi), mentre sul “parlato” si può largheggiare perché ognuno lo recepisce in proporzione al suo personale grado di malizia. Esemplificava dicendo che la famosa scenetta della difficile convivenza con il deputato nella cabina-letto (non c’entra il Nizza-Roma, attenzione!) nella quale vi erano molte allusioni piuttosto pesanti, divertiva egualmente quanti comprendevano tutti i doppi sensi e chi invece rideva soltanto per le valige gettate una ad una dal finestrino e per la saliva schizzata negli onorevoli occhi del compagno di viaggio quando Totò alzava la voce per imporsi. “Se lei ha capito tutto, mi perdoni Eccellenza, era uno sporcaccione da prima”.

In verità, Totò volgare non era. Anche la frase: “Questa faccia non mi è nuova” riferita alla zona umana delle ultime vertebre era detta in modo da richiamare l’attenzione più sull’udito che sul video. Almeno a me sembrava così e glielo dissi, provocando questa divertente risposta: “Non mi spingerei mai alle arditezze di un Canova”. [...]

Giulio Andreotti, "Visti da vicino", Rizzoli 1985


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1955 Giulio Andreotti f1Giulio Andreotti, nato a Roma nel 1919, entrò nel giornalismo a soli quindici anni, come direttore di un giornale cattolico. E' laureato in giurisprudenza. Il suo ingresso nella vita politica risale al 1944, come collaboratore di De Gasperi. Fa sottosegretario alla Presidenza, poi ministro dell’ Interno nel Gabinetto Fanfani ed attualmente è ministro delle Finanze.

Domanda. - Supponiamo signor ministro che, ad un passaggio di frontiera, lei venga a trovarsi sprovvisto di documenti. Non riconosciuto ed invitato, come si suol dire da noi, a "qualificarsi”, come risponderebbe?

R. - Direi semplicemente di essere in posizione difettosa, in modo da poter sperimentare personalmente quel che accade ad un cittadino non deputato.

D. - Mi vuol dire una frase che pronuncerebbe in un comizio a Roma e non a Milano?

R. - «E’ ora di finirla con il considerare non produttiva la spesa per il personale dello Stato». In termini più tenui lo direi però anche a Milano.

D. - Costretto ad abbandonare la vita politica, a quale attività si dedicherebbe?

R. - Al giornalismo, e se non mi fosse possibile per ragioni politiche, alla cultura dei fiori o all’antiquariato.

D. - Se da fonte assolutamente attendibile le venisse comunicato che Mussolini è vivente, quale sarebbe la sua prima e più spontanea reazione?

R. - Penserei alla gioia dei suoi familiari.

D. - Qual è, secondo lei, il colmo dell’infelicità, per un uomo?

R. - Il non poter aiutare un caso di nascosta sofferenza che si conosca.

D. - Preferisce i vinti o i vincitori della vita?

R. - Caso per caso.

D. - Qual è l’azione politica che maggiormente rimpiange di avere compiuto?

R. - Non mi giudichi presuntuoso se non trovo materia per rispondere.

D. - Qual è la virtù che preferisce nell’uomo?

R. La lealtà.

D. - Quali colpe, errori e debolezze umane suscitano in lei maggiore indulgenza?

R. - Quasi tutte, per un desiderio di reciprocità...

D. - Se venisse, in seguito a un rivolgimento politico, condannato a morte, quale sarebbe il suo ultimo desiderio?

R. - La domanda non è allegra: comunque credo che il desiderio sarebbe quello di un ulteriore rivolgimento sia pure per me postumo che ripristinasse il regime democratico.

D. - Se le fosse concesso un atto di potenza assoluta, che cosa farebbe?

R. - Probabilmente qualche sciocchezza.

D. - Ritiene che per un giornalista sia più grave falsare la verità dei fatti oppure la loro interpretazione?

R. - Il falso è comunque deplorevole, e nella nobile professione nostra una mancanza ancora più grave che altrove.

D. - Del tempo ormai lontano della guerra, conservo, vivissimo, il ricordo di una conversazione avuta con un cittadino di un Paese neutrale. Secondo il mio interlocutore, la guerra aveva messo in evidenza la caratteristica fondamentale dei vari popoli che vi si, erano impegnati: la ferocia dei tedeschi, la tenacia degli inglesi, la decisione degli americani, la leggerezza dei francesi, il fatalismo dei russi. Non volle dirmi quale caratteristica nostra avesse messo in evidenza. Vuol suggerirmela lei, ora?

R. - Lo spirito di salutare ”arrangiamento

D. - Se dovesse venir giudicato per un reato di diritto comune, alla giustizia di quale Paese desidererebbe affidarsi?

R. - Il giudice naturale di un cittadino è quello del proprio Paese.

D. - Se, accidentalmente, venisse a trovarsi in uno scompartimento ferroviario faccia a faccia con l’ex-re, Umberto di Savoia, come si comporterebbe? Avvierebbe lei per primo il discorso? Se si, per quale via?

R. - Avrei per il re Umberto il deferente ossequio che merita. Gli parlerei di cose non politiche italiane.

D. - La stessa domanda le rivolgo, sostituendo ad Umberto di Savoia, un .capo responsabile della Russia sovietica.

R. - Difficoltà linguistiche a parte, cercherei di capire come si possono giustificare certi atti di particolare gravità, come ad esempio la permanenza in carcere in Russia degli ex-governanti democratici della Polonia.

D. - Qual è, secondo lei, la più grave perdita subita dalla Europa, dalla fine della guerra in poi?

R. - De Gasperi, e dico questo non solo per ragioni affettive. L’Europa ha perduto con De Gasperi una insostituibile forza spirituale.

D. - Che cosa pensa dei suoi nemici?

R. - Mi considererò invecchiato il giorno che non riconoscerò nelle critiche dei miei avversari la possibilità di essere in qualche cosa nel giusto.

D. - Qual è, secondo lei, il segreto del successo nella vita, per un uomo?

R. - La più rigorosa dirittura di carattere.

D. - Tale risposta si appropria anche al suo caso?

R. - Con riserva.

D. - In una enciclopedia russa, Sua Santità viene indicato così: « maggiore azionista delle fabbriche italiane Ansaldo ». Come commenta questa definizione?

R. - Con un giudizio assai poco lusinghiero per la serietà dell'Enciclopedia sovietica.

D. - Vuol citarmi un caso della sua carriera politica in cui, messo neH’altemativa tra legalità e giustizia, abbia optato per quest’ultima e si sia comportato di conseguenza?

R. - C’è il segreto professionale. Ma la distinzione è capziosa. Le norme legali possono modificarsi, ma fino a che esistono tutti debbono rispettarle. Se no abbiamo la baldoria e il caos.

D. - Essendo libero di scegliere: trascorrere una serata in compagnia di un compagno di partito insopportabilmente noioso e di un avversario di conversazione brillante e piacevole, quale sarebbe la sua decisione? In altre parole esistono dei confini entro cui la simpatia individuale ha la meglio sulla dovuta solidarietà di partito? Se sì, vuole indicarmeli?

R. - La politica non è una cortina di ferro. E chi per trascorrere una serata di svago ragiona in chiave politica dimostra di essere un insopportabile noioso.

D. - E’ diffusa opinione che l’Italia non sia un "Paese come gli altri", almeno nel senso in cui lo si dice della Francia, Inghilterra, ecc. Che cosa c’è di vero in questa opinione, e, in caso affermativo, in che cosa consiste questa differenza?

R. - Ognuno conosce bene il proprio Paese. A Roma c’è un proverbio grazioso che dice: c La moglie degli altri è sempre più bella ». Applichi questo proverbio su scala intemazionale.

D. - Altra opinione diffusa, in particolar modo negli ambienti artistici, è che la censura in Italia abbia infirmato le più belle possibilità a nobili ingegni, o comunque che, senza la censura (mi riferisco in particolare modo al cinema) soggettisti registi ecc. avrebbero dato prova in misura più completa delle loro reali possibilità. Vuole fornirmi un argomento per controbattere questa tesi?

R. - Non è vero. Molti addebitano i propri insuccessi a fattori esterni. Durante U fascismo vi erano artisti che dicevano sottovoce: « se potessi scrivere » o dipingere, o comporre. E’ caduto il fascismo e questi signori possono scrivere, dipingere e comporre; ebbene, sono passati più di dieci anni e quasi nessuno è venuto alla ribalta. Ora, non voglio dire che la censura sia infallibile; ma si sono create molte leggende sul suo funzionamento.

D. - Qual è (psicologicamente) la più importante istituzione del nostro Paese?

R. - Il Quirinale.

D. - Quale epigrafe vorrebbe sulla sua tomba?

R. - Interessa chi sopravvivrà. Per me è indifferente.

D. - Morendo, quali beni (terreni) rimpiangerebbe maggiormente?

R. - Per ora non ho di questi problemi,

D. - Sopporta facilmente uno scacco, un insuccesso? E’ indotto ad assumersene intera la responsabilità o a farne partecipi coloro che la circondano?

R. - No, mi irrito con facilità anche se il mio aspetto esterno non dia spesso a vederlo.

D. - Per quale categoria di individui sente di essere più spietato?

R. - Attualmente per i contrabbandieri e gli evasori fiscali.

D. - Lei viene designato come il comandante di un aereo destinato a sganciare un’ "atomica" sulla popolazione di una città nemica, in servizio comandato e per una causa in cui lei crede. Eseguirà l’ordine?

R - Gli ordini si eseguono.

D. - L'incondizionata devozione di un suo simile, che reazione le provoca?

R - Mi rallegra, naturalmente non se è detta, ma applicata.

D. - La prospettiva di dover abbandonare, illico et immediate, tutto quanto ha costruito fin qui: posizione, affetti, ecc. la spaventa, la seduce o la lascia indifferente?

R. - Spesso penso di lasciare la vita politica, ma temo che sia una civetteria.

D. - Nei giochi infantili, quale parte le piaceva riservare per sè?

R. - Quelle meno faticose e di un certo imperio.

D. - Una ultima domanda: vuol dirmi quale differenza passa tra la carità dei cristiani e la pietà degli egoisti?

R. - Sono due categorie cosi eterogenee che non vedo come raffrontarle.

Supponendo che gli impegni della sua carica non concedessero al ministro Andreotti molto tempo da dedicare a un gioco come lo sono queste domande, ho fatto una eccezione per lui, gli ho cioè sottoposto un numero maggiore di domande rispetto al solito, per dargli modo di tralasciare quelle che non gli suggerivano una risposta immediata. L’on. Andreotti invece ha risposto a tutte, sicchè sono stato, per ragioni di uniformità costretto a sopprimerne qualcuna. Riferisco questo particolare perchè ha un suo significato. Non quello che, come ministro delle Finanze, Andreotti sia poco occupato, ma piuttosto che il tipo di domande che gli ho rivolto lo hanno sollecitato e arriverei a dire, perfino, divertito. Chi ha seguito fin qui questa rubrica ha avuto ampiamente modo di constatare come varie siano state le reazioni delle persone interrogate sul piano della maggiore o minore confidenza. Ora, le risposte di Andreotti hanno questo di particolare, un continuo alternarsi fra la sincerità e la circospezione, fra l’uomo-uomo e la persona che ad un certo momento avverte il limite oltre il quale non può lasciai si andare, in virtù della sua posizione. Paragonerei l’insieme di queste domande-risposte ad un assalto di fioretto. Prendiamo una delle domande più scottanti: quella su un improvvisa resurrezione di Mussolini. La risposta di Andreotti è: «Penserei alla gioia dei suoi familiari». Per cotinuare l’immagine della schermaglia, mi sento in dovere di chiedere se era possibile ”parare il colpo" e restituirlo con altrettante abilità.

Enrico Roda, «Epoca», 1955


1972 06 18 Epoca Andreotti intro

Due anni fa gli fecero lo sgambetto mentre sembrava certa la sua nomina a Presidente del Consiglio; oggi anche i suoi avversari ammettono: “È troppo bravo e, se questa volta ce la fa, non se ne va più”.

Già due anni fa Giulio Andreotti avrebbe dovuto essere Presidente del Consiglio. Luglio 1970. Era la prima volta che puntava su Palazzo Chigi dopo ventisette anni di milizia governativa, come ministro e come sottosegretario. Ma i socialdemocratici, quella volta, gli fecero la guerriglia. Dissero che il suo era un programma troppo vago, che non regolava fino al millesimo i rapporti tra i quattro partiti del centrosinistra. In realtà non volevano l'uomo, e il tentativo di Andreotti fallì. Lui raccolse le sue carte, con un sospiro, e si ritirò senza polemiche. Nessuno l’ha mai visto irritato.

Presidente del Consiglio in piena regola Andreotti poteva esserlo quattro mesi fa. Il centro-sinistra era morto e sepolto. Non si poteva fare altro che un monocolore democristiano che traghettasse l'Italia al di là di nuove elezioni; ma tutti votarono egualmente contro il monocolore, meno i democristiani e i liberali. Andreotti si trovò a presiedere un governo che non aveva la fiducia del Parlamento; un governuccio precario, da niente. Lui però si mise al lavoro come se dovesse restare a Palazzo Chigi dieci anni. Nessuno l'ha mai visto prendere le cose alla leggera.

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Oggi Andreotti sta facendo un altro passo avanti nella sua faticosa e contestata carriera. Si sta trasformando in un vero Presidente del Consiglio nella più sconquassata delle situazioni politiche. Maggioranza di centro col PLI, o di centrosinistra coi PSI? Sciolto questo nodo Andreotti sarà finalmente a capo di un governo con la patente. Timorosi di restarne fuori, i suoi avversari lo lodano per le stesse ragioni per cui due anni fa lo criticavano: ha un programma talmente vago, dicono, che tutti ci si possono specchiare. «Si capisce», fa lui, che nel frattempo non ha cambiato parere, «guai a quelle unioni che nascono dopo l'accertamento pignolo, da parte dei coniugi, dei rispettivi difetti, delle manie di ciascuno, delle abitudini non condivise. Sono destinate al fallimento». È sempre tranquillo, sempre vagamente stupefatto dietro due lenti che gli fanno gli occhi grandissimi. Nessuno l’ha mai visto perdere la pazienza: sa aspettare.

«Parlando all'indomani della formazione del secondo governo Bonomi in un comizio giovanile al teatro “Arena Italia” in Roma, io dissi»... Queste sono le prime parole del pi imo libro pubblicato da Giulio Andreotti nel luglio del 1945. Non aveva che ventisei anni e già dimostrava una tendenza curiosa: gli piaceva riprendere il filo dei discorsi interrotti. tendenza molto pericolosa perché costringe a restare coerenti. Nel mondo politico italiano, e specialmente democristiano, è normale, piuttosto, dire oggi il contrario di quel che si diceva ieri. Chi può citare serenamente i propri discorsi passati è guardato come un cattivo collega che vuol mettere in imbarazzo gli altri («Andreotti è una volpe. Non si sa mai a che gioco gioca»). Invece, da quel suo libretto del 1945 si vede che Andreotti ha sempre detto le stesse cose, e cioè: con l’utopia non si governa, e la politica è l’arte del possibile. Così predicando, e giocando a restare fermo nella stessa idea, ha rischiato più volte di rimanere isolato.

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Andreotti, strano, ha pochissimi «amici», politicamente e democristianamente parlando. Gli è realmente vicino soltanto Giovanni Leone, per una singolare affinità di pensiero e di gusti (hanno una passione in comune, le icone greco-ortodosse; ora Andreotti ha smesso di comprarne, dice che costano troppo; è un parsimonioso). Perché pochi amici? Per una certa sua innata difficoltà a far lega e comunella. Nelle manovre di partito e di corrente non ha mai brillato; gli sono più congeniali l’aula e i corridoi di Montecitorio. Non sarebbe però esatto sostenere il contrario, e cioè che abbia molti nemici. La verità sta nel mezzo: ha avuto una faticosa e contestata carriera perché molti temperamenti, nella DC, erano incompatibili con il suo. La vita politica di Andreotti, ad esempio, si è svolta sotto il segno dell'incompatibilità con Amintore Fanfani. Ma lo scontro è stato sempre così soffice ed elegante che il grande pubblico non se ne è mai accorto.

Fanfani è un condottiero istintivo, un trascinatore, un organizzatore. Andreotti un raffinato scacchista della politica, un uomo di governo più che di partito, un intellettuale. Fanfani è un rivoluzionario cristiano, un mistico, un crociato col vento divino alle spalle; Andreotti è un conservatore brillante, un amministratore pignolo, un aristotelico che non sa andare avanti se prima non studia bene le cause e gli effetti. La settimana scorsa Fanfani gli ha piantato una freccia nella schiena sostenendo che non lui, ma Forlani doveva fare il nuovo governo. Andreotti si è tolta la freccia con due dita, sorridendo, ed ha continuato per la sua strada.

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Era solo l’ultimo episodio di un contrasto che va avanti dal 1953, quando Fanfani e Andreotti si trovarono l’uno di fronte all’altro: e in mezzo, da raccogliere, c’era l’eredità politica del vecchio De Gasperi.

Quell’anno le elezioni, per la DC, erano andate male. Viceversa si era molto rafforzata la destra. La DC doveva scegliere: se continuare una politica di centro, che sarebbe fatalmente sfociata nel centrosinistra, o tener conto dei tre milioni e mezzo di voti che erano finiti a destra. Andreotti era di quest’ultimo avviso. «La lotta anticomunista», disse, «dev’essere l’alto preminente, se non esclusivo del partito democristiano, e per condurla con successo non si possono escludere alleanze d’ordine tattico, ovunque possano trovarsi». Fanfani invece, che si stava imponendo nel partito, già guardava verso i socialisti. Nel luglio 1954, al Congresso democristiano di Napoli, ci fu lo scontro: vinse Fanfani. Andreotti era stato il più fedele collaboratore di De Gasperi per dodici anni. L'aveva incontrato nel '42, casualmente, nella biblioteca vaticana (De Gasperi era rifugiato in Vaticano). Quell’incontro -una specie di folgorazione - aveva segnato il suo destino. Era entrato con De Gasperi, appena ventisettenne, all'Assemblea costituente, e poi, appena ventinovenne, si era visto nominare Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Aveva servito il grand’uomo con fedeltà e ammirato rispetto. Ma al momento decisivo lo stesso De Gasperi, declinante, umiliato, e già prossimo alla morte, aveva dimostrato di credere di più in Fanfani e nel suo frenetico attivismo. E Fanfani divenne segretario del partito. Anzi, padrone.

Andreotti si ritrovò all'opposizione. Ammirava le qualità di Fanfani, ma giudicava audaci le sue iniziative e troppo sbrigativi i suoi metodi: e poi vi era. appunto, incompatibilità di carattere, oltre a una notevole differenza di età. Il toscano e il romano sembravano francamente antitetici: l’uno dirompente, beffardo, sicuro di sé al punto da sottovalutare un po’ gli altri, e quindi ingenuo; l’altro ragionatore, possibilista, ironico, certamente più astuto. Si sono combattuti e condizionati a vicenda per ventanni; ma senza dare scandalo. E, come si conviene a due politici di classe, sempre «a fin di bene».

Se Fanfani non è diventato Presidente della Repubblica deve ringraziare in qualche misura Andreotti. E se Andreotti ha dovuto talvolta segnare il passo, deve ringraziare Fanfani. Il contrasto più scoppiettante si ebbe nel 1964, durante la battaglia per il Quirinale che poi fu vinta da Saragat. È un episodio che dà la misura delle qualità strategiche di Fanfani, ma anche dell’abilità manovriera di Andreotti nella sua sede preferita, che è il Parlamento. Il candidato ufficiale della DC era Leone. Ma Fanfani, ben deciso a giocare la sua partita, cominciò un’azione di disturbo. Voleva dimostrare che, mentre Leone non riusciva a raggiungere il quorum o addirittura perdeva voti, sul proprio nome confluivano consensi con progressione aritmetica, regolare, scrutinio dopo scrutinio: 18, 53, 71... Se fosse arrivato a quota 150, su di lui si sarebbero rovesciati i voti dei socialisti, dei comunisti e dei missini, ansiosi di battere il candidato ufficiale della DC. E il gioco sarebbe riuscito.

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Non esistono documenti in proposito. Ma tutti dicevano che Fanfani, potendo disporre di 130 voti amici, li stesse spendendo à poco a poco, per dare l'impressione che la sua avanzata fosse lenta ma inarrestabile. 18, 53, 71... Al quarto scrutinio Fanfani si ritrovò con 117 voti, anziché con 90-95 come prevedeva. Troppi. Chi aveva votato inaspettatamente per lui? Chi cercava di metterlo in imbarazzo? Narrano le cronache che Fanfani, a questo punto, gettò nella battaglia quasi tutte le sue riserve. Però guadagnò soltanto cinque voti, salendo, al quinto scrutinio, a quota 122. Altra sorpresa. Chi aveva cessato di votare per lui? Quale mano ritirava il regalo dello scrutinio precedente? Ad ogni modo il guaio era fatto. L’avanzata di Fanfani aveva perso la progressione aritmetica. Il «tetto» era stato raggiunto troppo presto. Difatti Fanfani continuò: 129, 132, 132, 129... E poi fu costretto a ritirarsi.

Non c’è alcuna prova che la diabolica contromossa sia stata ideata, come qualcuno afferma, da Andreotti. Ma è possibile. Anzi, verosimile. Nell'autunno 1968, invece, fu Andreotti a dover subire una terribile rappresaglia all’interno della DC. Erano i giorni duri della contestazione globale, dell’offensiva sindacale, della «strategia della attenzione» verso i comunisti, dei discorsi sul «nuovo patto costituzionale» e sulla «nuova maggioranza» che avrebbe dovuto spingere il Paese verso una seconda svolta a sinistra in direzione del PCI. Per tornare al governo i socialisti ponevano alla Democrazia Cristiana condizioni durissime: e innanzi tutto che fosse ridotta al silenzio la sua destra.

«Bisogna individuare la destra», proclamò il fanfaniano Gian Aldo Arnaud. «La destra non è Scelba, la destra è Andreotti, la destra è Colombo». proclamavano di rincalzo De Mita e Donat-Cattin. Andreotti a quell’epoca faceva parte della corrente «dorotea», cioè della maggioranza del partito. Ma improvvisamente divenne un lebbroso. Capitato un giovedì sera ad una riunione della corrente dorotea, avvertì la sensazione dell’ospite sgradito. Poco dopo, il suo luogotenente Evangelisti si sentì supplicare al telefono: «Dovresti dire a Giulio di non venire più alle nostre riunioni... tu devi capirci...». Andreotti, educatamente, non si fece più vedere. Non passò molto tempo, e la corrente «dorotea» si spaccò. Andreotti e Colombo si ritrovarono fuori, insieme a un certo numero di seguaci.

L'Italia sbalordì quando seppe che, per la prima volta in ventidue anni, Giulio Andreotti non avrebbe fatto parte di un governo della Repubblica. Ma queste erano le condizioni poste dai socialisti e non soltanto dai socialisti. Con l'aria che tirava, poteva considerarsi giubilato per sempre. Andreotti ebbe, come contentino, la presidenza del gruppo parlamentare democristiano alla Camera. Incautamente, i suoi avversari l'avevano chiamato a giocare sul suo terreno preferito, il Parlamento.

Come capti dei deputati DC, il mancato delfino di De Gasperi fece meraviglie. Il centrosinistra stava morendo lentamente, strangolato dalle sue insanabili contraddizioni, dalla nuova scissione tra i socialisti, dalla crisi economica che già si andava profilando. I deputati, ancora sepolti dai debiti contratti durante la campagna elettorale del '68, vivevano nel terrore di un prematuro scioglimento delle Camere. Basisti o fanfaniani, dorotei o morotei, tremavano verga a verga. Tanto più che i socialdemocratici tuonavano, e non si capiva bene che cosa avesse in mente Saragat. Andreotti, che pure da nuove elezioni non avrebbe avuto niente da temere, essendo assoluto signore del Lazio, promise ai deputati che avrebbe fatto il possibile per evitare la sciagura. E fu galantuomo. Nel suo ufficio di via della Missione, parlò con tutti, trattò con tutti, ricevette senza falsi pudori tutti quanti, comunisti compresi. E quando il governo di centrosinistra - da cui era stato espulso - voleva presentare alla Camera una legge, solo Andreotti era in grado di dire se sarebbe stata approvata oppure no.

1972 06 18 Epoca Andreotti f5

Se la legislatura è sopravvissuta fino al 1972 lo si deve in buona parte all’oscuro lavoro di compromesso svolto da lui. I deputati impararono ad adorarlo. E nel dicembre del 1971, per la elezione del nuovo Presidente della Repubblica, furono quasi compatti ai suoi ordini. Quasi : perché invece del candidato ufficiale DC, che era Fanfani, riuscì Youisider, Giovanni Leone, lo sconfitto del 1964. «È la nemesi storica», mormorarono sorridendo i democristiani dopo l’ultimo scrutinio, alla vigilia di Natale, mentre ripartivano verso casa con il panettone e la bottiglia di champagne nella valigia.

Parve ineluttabile e fatale che dallo sgangheramento del centrosinistra dovesse uscire fuori un governo Andreotti. L'uomo si era acquistato infiniti meriti presso il suo e presso gli altri partiti. In fondo era il meno compromesso con l'ancien regime.

E il più allineato col venticello di destra che si era messo a soffiare, e con lo spirito di rivalsa che i democristiani nutrono adesso nei confronti del PSI. Il buon esito delle elezioni non ha fatto che rafforzare la sua linea. Al salvatore della baracca si può serenamente perdonare tutto: la ritrovata posizione di ministro a vita, le cinque tonnellate del suo archivio personale, la schiera imponente di galoppini che gli «controllano» il Lazio, gli inchini un po' troppo profondi davanti ai prelati che contano, la collezione di campanelli artistici che tiene a casa, la sua passione per la canasta ed il tressette, e perfino i badi e le interviste imprudenti dell'onorevole Evangelisti, che continua a seguirlo ovunque vada, implacabile come l’ombra di Banquo.

Adesso è alle prese con i capricci sempre più fiochi dei socialisti, con l’attesa impaziente dei liberali, con le premure vigili del senatore Fanfani, con lo scalpitare di La Malfa e di Tanassi, con la minacciosa offerta di voti che gli giunge sottobanco da parte missina. con l’economia che vola sempre più basso, con l’ordine pubblico, con la nausea generale del Paese che non vuol più sentire parlare di politica e ne ha abbastanza. È ottimista e sicuro di farcela. E se ce la fa, dicono certuni, non se ne va più.

«È troppo bravo», mormorava l’altro giorno uno di quelli che gli hanno sempre tirato le pietre, «e noi siamo stati abbastanza asini da lasciarlo sedere su quella dannata poltrona, davanti alla scrivania di Giolitti, accanto alla bandiera.»

Pietro Zullino, «Epoca», anno XXIII, n.1133, 18 giugno 1972


La ridicola severità della censura negli Anni 50 emerge da una ricerca comparata su film di Totò, spettacoli a teatro, sketch per la tv, poesie e foto. La ricerca scientifica è stata eseguita su materiale noto e meno noto e su inedite note di censura che offrono un quadro vivacissimo delle difficoltà in cui si muoveva l'artista. Ad esempio «Totò-travet», che prende in giro l'impiegato che ruba, per mandare le figlie in vacanza e trovar loro marito, viene aspramente criticato perché il censore individua «rischio grave» nel modello di un capo dipartimento dello Stato che si fa corrompere. Le repliche, gli accomodamenti e ogni ipocrisia della censura sono così descritti variamente sulla base degli incartamenti di produzione: spicca un viaggio all'inferno di Totò il cui finale realistico (che adombra le disavventure di un disoccupato nell'Italia del boom) è modificato in «sogno», su disposizione di un appunto di censura, firmato Andreotti.

«La Stampa», 19 gennaio 1996


L'attore disse al ministro delle Finanze: «Nella vita ognuno ama essere sopravvalutato ma io lo sono soltanto dal Fisco»

«L'umiltà è una virtù stupenda» scrisse tanto tempo fu Andreotti in un suo inedito "Schema di Dottrina Civica" ma non quando si esercita nelle dichiarazione dei redditi». Anche quarant'anni orsono gli artisti di grido cercavano di non pagare le tasse: e anche allora i ministri delle Finanze si davano da fare per convincerli ad aprire i cordoni della borsa. L'unica differenza è che tutto avveniva nella massima discrezione, magari in una cabina della Wagon-lit, comunque senza feste e senza televisioni.

Uno di questi artisti renitenti era Totò. Il ministro delle Finanze era appunto Andreotti, l'anno poteva essere il 1957. Di sicuro il loro incontro avvenne in un vagone letto, d'estate sulla tratta Nizza-Roma. Quando sentì bussare Andreotti era già in cabina, in pigiama e giacca da camera. Aprì e si trovò di fronte il Principe Totò, in elegante tenuta da yacht man, accompagnato da Franca Faldinì, che volevano augurargli la buona notte.

Un po' si conoscevano. L'attore fu come al solito signorile, cortese e simpatico, ma probabilmente era mosso da una questione che andava un po' oltre la gentilezza. Disse che non avrebbe mai voluto approfittare del ministro in vacanza, o ancora di più in quella inconsueta situazione (un po' come Pavarotti con D'Alema durante la cena coreana del marzo scorso) per porre certi suoi urgenti problemi, ma che avrebbe gradito incontrarlo in ufficio per illustrarglieli. Si lasciò comunque sfuggire una battuta piuttosto eloquente; «Nella vita ognuno ama di essere sopravvalutato, ma io lo sono solo dal Fisco». Andreotti fissò un appuntamento per il lunedì seguente.

Ora, quell'incontro si tira appresso un che di leggendario e cinematografico: nel vagone letto è infatti ambientato uno doi più celebri e spassosi siparietti di Totò, che non a caso ha come spalla un politico, il quale a sua volta ha la sventura di chiamarsi Trombetta. Nel film questo onorevole Trombetta è costretto a dividere la carrozza con Totò, musicista incompreso, autonominatosi «il cigno di Caianiello». I due vengono subito a diverbio. A un certo punto Trombetta, arrogante, si rivela: «Io sono un onorevole!», grida «un o-no-ro-vo-le!». Ed è qui che Totò se lo guarda con aria scettica, aggiustandosi la bombetta che ha in testa. «Un onorevole?» chiede con una smorfia di disgustosa incredulità. «Si!» tuona quell'altro, sempre più altezzoso. «Ma mi facci il favore!» ribatte Totò con surreale potenza. Fine.

Secondo una leggenda cinematografica questa scena sarebbe una vendetta di Totò contro Andreotti, che proprio per via delle tasse gli avrebbe ispirato la figura spregevole dell'onorevole Trombetta. Ma il film è del 1952, mentre Andreotti arriva alle Finanze tre anni dopo.

Nella realtà, il lunedì seguente Totò fu ricevuto al ministero. Come Pavarotti si lamentò per l'esosità del fisco e come Pavarotti provò a chiedere sconti. Come Pavarotti, probabilmente che ha addirittura uno sorta di agenzia per le iniziative di charity il Principe de Curtis rivendicò la quantità di denaro da lui utilizzato per fare beneficienza. Come Pavarotti fece presente l'ingiustizia per un troppo lungo intervallo fra la produzione del reddito e gli accertamenti. Come Povarotti, infine, tirò in ballo altri migliori sistemi fiscali, in primis quello americano. Il ministro Andreotti che ha rivelato il tutto in Visti da vicino, seconda serie e di recente pure in un'intervista al Mattino - lo stette a sentire senza troppo contraddirlo. Ma alla fine, come a Pavarotti, consigliò una rateizzazione della somma. Che Totò scucì, sia pure lontano dai riflettori.

Filippo Ceccarelli, «La Stampa», 28 luglio 2000



Nella vita ognuno ama essere sopravvalutato, ma io lo sono solo dal Fisco.


A fine gennaio 1967 a Firenze, ritirando il suo secondo Nastro d'Argento, Antonio de Curtis in arte Totò, ringrazia pubblicamente l'onorevole Giulio Andreotti.

Nel 1972, alla fine, Giulio Andreotti è Primo Ministro per la prima volta; Senatore a vita dal 1991-1992, mercoledì 14 gennaio 2009 ha festeggiato il 90° compleanno in Senato.

Andreotti incluse il profilo, col titolo "il principe Totò", a partire dalla terza ristampa (1986) del suo interessante best-seller "VISTI DA VICINO" (foto in galleria)


Ho trovato notizia di un omonimo, Giulio Andreotti, appunto, precedente a codesto uomo politico, attivo nel campo teatrale, che, all'epoca della fine della prima guerra mondiale, era capocomico.


Riferimenti e bibliografie:

  • Simone Riberto, alias Tenente Colombo
  • Giulio Andreotti, "Visti da vicino", Rizzoli 1985
  • Gli incontri qui descritti, con dovuto confronto sinottico, sono tratti tanto dai ricordi descritti da Franca Faldini, che da quelli dell'opposta campana secondo quanto pubblicato

Collegamenti esterni

  • Giulio Andreotti, su Openpolis, Associazione Openpolis
  • Giulio Andreotti, su storia.camera.it, Camera dei deputati
  • Giulio Andreotti (2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9), su senato.it, Senato della Repubblica
  • Giulio Andreotti, su Internet Movie Database, IMDb.com
  • Giulio Andreotti, su Find a Grave
  • Bibliografia italiana di Giulio Andreotti (2), su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com
  • Giulio Andreotti, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc
  • GiulioAndreotti.org - Sito web ufficiale giulioandreotti.org
  • Scheda della sua attività parlamentare sul Portale Storico della Camera dei deputati, su storia.camera.it.
  • Giulio Andreotti, su Camera.it - Assemblea Costituente, Parlamento italiano.
  • Gli atti del processo Andreotti, su clarence.supereva.com.
  • Gli atti del processo Andreotti usati come materiale didattico per gli studenti di legge, su pa.itd.cnr.it.
  • Testo della sentenza del processo di Palermo, su diritto.net.
  • La sentenza Andreotti-Badalamenti della Corte di assise di appello di Perugia, 13-02-2003, su magistraturademocratica.it.
  • Il processo Andreotti secondo Marco Travaglio, su youtube.com.
  • Intervista a Gian Carlo Caselli sul caso Andreotti, su youtube.com.
  • Almerighi diffamato: Andreotti condannato in appello, su antimafiaduemila.com.
  • Centro Studi Politici e Sociali Franco Maria Malfatti, su centrostudimalfatti.org.