Calindri Ernesto
(Certaldo, 5 febbraio 1909 – Milano, 9 giugno 1999) è stato un attore italiano di teatro, cinema e televisione. È annoverato fra i grandi, indimenticabili attori del teatro italiano
Biografia
Figlio d'arte (entrambi i genitori erano attori), e pur avendo iniziato a studiare ingegneria, fa il suo esordio non ancora ventenne quasi per caso nel 1928-29 nella compagnia di Luigi Carini, mettendosi subito in luce grazie alla figura slanciata ed alla impeccabile dizione, che gli conferiscono una rilevante presenza sulla scena. Nell'estate del 1937 viene chiamato da Renato Simoni a Venezia per sostenere la parte di Florindo ne Il bugiardo di Carlo Goldoni e da quel momento ha inizio la sua brillante carriera, in ruoli di primo piano e in un repertorio quanto mai vario, accanto a nomi importanti come quelli di Sergio Tofano, Luigi Cimara, Antonio Gandusio, Emma Gramatica, Laura Adani e Evi Maltagliati. Nel 1939 sposa l'attrice Roberta Mari, apparsa spesso in scena con lui. È padre dell'attore e doppiatore Gabriele Calindri.
Ernesto Calindri approda al cinema nel 1935 con una parte nel film La sposa dei re di Duilio Coletti. Per lo più ottiene parti di comprimario nei tipici film dell'epoca cosiddetta dei telefoni bianchi. Forse la sua interpretazione più degna di nota di questo periodo è nel film I bambini ci guardano, diretto nel 1943 da Vittorio De Sica.
Nel dopoguerra Calindri continua a calcare le scene, riscuotendo consensi sempre più ampi grazie all'innata eleganza, all'ironia ed a quel suo fare sorridente e argutamente salottiero che ne fanno l'interprete ideale della commedia borghese leggera. Fa compagnia teatrale insieme a Laura Adani, Tino Carraro e al giovane Vittorio Gassman e nel 1945 per la regia di Luchino Visconti interpreta lavori di Schiller, Achard e Cocteau. nel 1950 crea la sua prima vera compagnia che comprende, fra gli altri, anche Lia Zoppelli, Valeria Valeri, Lauretta Masiero, Franco Volpi e Alberto Lionello,
Spesso recita in compagnia della moglie, l'attrice Roberta Mari.
Il nuovo mezzo televisivo consente ad Ernesto Calindri di raggiungere il grande pubblico, che si affeziona ben presto al suo personaggio. Vi esordisce nel 1958 apparendo sul piccolo schermo ne La spada di Damocle, commedia diretta da Vittorio Cottafavi e tratta dall'originale testo teatrale di Alfredo Testoni, seguiranno altre parti in originali televisivi tra cui Sole d'autunno, diretto da Giacomo Colli nel 1963, e sceneggiati quali Paura per Janet tratto da un racconto di Francis Durbridge e diretto da Daniele D'Anza. Si mette inoltre in luce come presentatore nel programma di intrattenimento Il signore delle 21, andato in onda nel maggio del 1962.
Sempre del 1962 è la sua interpretazione cinematografica più conosciuta, nel film Tototruffa '62 dove nella parte del Commissario Malvasia è la nemesi della coppia di ingegnosi truffatori composta da Totò e Nino Taranto.
La pubblicità all'amaro Cynar, anadata in onda sui canali RAI negli anni 60
Con il diffondersi del cinema e della televisione, il numero degli spettatori a teatro in Italia calò drasticamente. Come a molti valenti attori prima di lui, ad Ernesto Calindri venne proposto di interpretare dei brevi filmati pubblicitari che andavano in onda nel popolare programma Carosello. Dapprima fu la volta della China Martini, per la quale interpretò delle scenette assieme all'amico e collega Franco Volpi nei panni di due ufficiali dell'Ottocento che commentavano gli avvenimenti e le novità finendo sempre col dire Düra minga!, cioè "non dura" in dialetto milanese. In seguito nel 1966 ebbe inizio la serie di filmati pubblicitari per il Cynar, noto aperitivo a base di carciofo, che legò indissolubilmente il nome di Calindri al liquore fino al 1984, rendendo lo slogan: "contro il logorìo della vita moderna" un'espressione ancora oggi di uso corrente. Famosissima, nel relativo spot pubblicitario del Cynar, l'inquadratura di Calindri intento a sorseggiare un bicchierino di liquore ed a leggere un giornale tranquillamente seduto davanti a un tavolino sistemato proprio al centro di una strada di città intensamente trafficata.
Negli anni anni settanta ed ottanta, pur essendo ormai popolarissimo come personaggio televisivo, Ernesto Calindri non smette di calcare le tavole del palcoscenico. Alla sua attività di infaticabile interprete, il cui repertorio spazia da Feydeau a Rattigan, da Ionesco a Pirandello, alterna quella di insegnante di teatro che dal 1975 esercita per un decennio presso l'Accademia dei Filodrammatici di Milano. Interpreta inoltre un generale in pensione nello spettacolo televisivo Villa arzilla. Nell'estate del 1990 il produttore Natale Barbone lo chiama per interpretare con Lauretta Masiero lo spettacolo "Casina" di Tito Maccio Plauto, per la regia di Mario Morini
L'avanzare dell'età non sembra intaccare minimamente l'energia e la brillantezza di Calindri che anzi, ad ottant'anni suonati, sorprende tutti interpretando in teatro la commedia musicale Gigi di Colette, dove si esibisce addirittura come cantante e ballerino.
Muore quietamente nel sonno all'Istituto dei Tumori di Milano la sera del 9 giugno 1999 il giorno dopo la scomparsa di Corrado, poche ore dopo aver terminato di cenare con gli attori della sua compagnia teatrale con la quale, alla bella età di 90 anni, aveva da poco tempo iniziato a rappresentare Il borghese gentiluomo di Molière. In suo nome è stata creata una Fondazione che organizza un concorso per giovani autori europei di teatro. Inoltre la sua città natale di Certaldo ha intitolato a suo nome un premio teatrale.
Il Sindaco di Certaldo, Rosalba Spini, ha voluto ed ottenuto che Ernesto Calindri riposasse nel suo paese natale, e nel 2000 fu tumulato nel Cimitero Comunale
Galleria fotografica e stampa dell'epoca
Non si fa una scoperta quando si afferma che da noi il tipo d’interprete per la commedia musicale, come la intendono gli americani, non esiste; non esiste quel tipo d’attore, che, a metà fra il ballerino, il mimo e il comico, riesce tuttavia, in ognuna di queste sue specializzazioni, ad essere - come dire - autonomo, volta a volta ballerino, mimo e attore di prosa, sempre su un livello professionistico. I comici della rivista che sappiano validamente interpretare un personaggio da commedia, plausibile, logico, inserito in una trama, si contano sulle dita di una mano; e quando pure riescano a recitare da attori di prosa, ecco che' mancano loro le altre corde dell'arco; non sanno cantare, per esempio, non sanno ballare. Mancano insomma, da noi, i Fred Astaire, mancano, le Ginger Rogers e i Gene Kelly; tipi che il cinema ha preso, sfruttandone la grande popolarità e trasformandoli addirittura, a poco a poco, in interpreti drammatici. Che sia questo uno dei motivi per cui la commedia musicale moderna, che fa furore in America, stenta tanto ad attecchire sui nostri palcoscenici? Da noi si ricorre, come si è fatto quest’anno, agli attori di prosa qualificati, ad Andreina Pagnani, per esempio, e ad Ernesto Calindri, i nomi su cui si è puntato, insieme con quelli dell’italo-americano Robert Alda e di Lauretta Masiero, per «La Padrona di Raggio di Luna», l’ultima produzione di Garinei e Giovannini.
Che cosa accade, allora? Che la recitazione di questi attori risulta di un intero rigo musicale al di sotto del livello sonoro su cui, come su una corda, è teso uno spettacolo del genere. É chiaro che Andreina Pagnani, quest’attrice teneramente melodica, contrappuntata, fastosamente crepuscolare, recita, nei due tempi de «La padrona di Raggio di Luna», in chiave d’ironia, prendendo garbatamente in giro l’immagine di se stessa, per esempio, in «Cheri». Ma credete che il grosso pubblico della rivista sia in grado di accorgersi di questa intelligente, elegante trasposizione?
Se ne accorgono i patiti della prosa, i soliti quattro gatti. Il pubblico scatta, ride ed applaude quando Andreina si concede al ballo del Be-Bop, cioè quando accetta di canzonarsi in modo palese, con assai meno finezza ma stabilendo con la platea un rapporto immediato, quasi per una strizzatina d'occhio. E come può, il grosso pubblico della rivista, centellinare col gusto che le si addice La comicità dinoccolata e controllata di Ernesto Calindri, di questo attore che non improvvisa, che sta ai testi, che ha bisogno della battuta gelida e precisa? Anche lui piace quando balla il «Charleston» e per la verità se la cava bene, ma il meglio della sua comicità, nel fragore di uno spettacolo musicale, va inevitabilmente perduto. Il più a proprio agio, ed è naturale che sia così, è Robert Alda, il ragazzone italo- americano dalla faccia gioviale, la voce spiegata e vibrante e il sorriso fresco che, chi sa perché, ci ricorda quell'altro italo-americano che fu campione mondiale dei pesi medi, Jack La Motta, il «Toro del Bronx». Lui, nell’atmosfera della commedia musicale, ci si trova come a casa sua, come se andasse passeggiando, spalle larghe e ondulanti e garofano all'occhiello, per Brooklyn. Lauretta Masiero è vivace e graziosa e i due anni che ha trascorso in prosa, si avverte subito, le hanno giovato.
Quanto alla favola, ideata da Garinei e Giovannini sullo spunto di un fatto realmente accaduto in quell’ambiente di schiavi milionari che è, in Italia, il mondo della palla rotonda, diremo che è ben costruita e ha momenti assai divertenti. C’è forse qualche lungaggine nel primo tempo ma nel secondo tutto fila liscio e col giusto ritmo; non c’è bisogno, però, di citare Feydeau, i cui allegri meccanismi sono di tutt’altro genere. Bisogna ricordare piuttosto le musiche di Kramer, il Charley Ballet, le scene di Coltellacci; e Maria Pia Casilio, che è una goccia d’acqua fresca; e, come è noto, a una goccia d'acqua fresca non si chiede, appunto, che d’essere fresca.
Roberto De Monticelli, «Epoca», anno VII, n.279, 5 febbraio 1956
Canto, ballo, prosa ma non rivista
Ponendo due attori come Andreina Pagnani ed Ernesto Calindri al centro del loro ultimo pittoresco spettacolo, “La padrona di Raggio di Luna”, Garinei e Giovannini si sono definitivamente orientati verso la commedia musicale.
All'estero, e particolarmente in America e Inghilterra, la commedia musicale a grande spettacolo, ben diversa dalla francese comédie melée de couplets alla Labiche o dai pasticcetti in prosa Intercalati alla tedesca da un valzerino orecchiabile o da un fox-trott alla moda, ha da un pezzo una sua vita floridissima. Basti ricordare quello Show Boat che da venticinque anni in qua è stato entusiasticamente « ripreso » o dal teatro o dal cinema almeno quattro o cinque volte. Garinei e Giovannini, convinti che la rivista tradizionale aveva ormai i giorni contati e persuasi, dopo i loro viaggi americani, della bontà delle formule di Broadway, hanno voluto tentare anche da noi questi schemi teatrali oscillanti tra l’operetta e la féerie d’un tempo. Hanno cominciato con Giove in doppio petto, per Dapporto, han seguitato con La Granduchessa e i camerieri per Wanda Osiris, Billi e Riva e ora si sono lanciati in pieno nel nuovo «genere» con La padrona di Raggio di Luna.
In questo loro ultimo lavoro i due giocondi autori, quasi per sganciarsi completamente dalle vecchie formule della rivista, si sono addirittura serviti di interpreti che con la rivista vera e propria nulla avevano a che fare, puntando audacemente sull’abilità e sulle simpatie personali di Andreina Pagnani e di Ernesto Calindri, entrambi apprezzatissimi attori di prosa. Accanto a loro hanno posto un homo novus, almeno per noi, vale a dire Robert Alda, un italo-americano che proviene dritto dritto proprio dalle shows di Broadway. Finalmente, quasi a servire da amabile trait d'union tra l’uno e l'altro genere, ci hanno messo Lauretta Masiero, die era riuscita a guizzare fuori dalle file delle « donnine di Macario » per entrare, assai bene accolta, sui palcoscenici di prosa. Ne è risultato uno spettacolo sorprendente e pittoresco ma sempre divertente. Forse i botanici lo definirebbero un ibrido. Ma è un nome col quale si designano le infioriscenze più rare, dai colori e dalle forme più preziose.
«Epoca», anno VII, n.286, 25 marzo 1956
Le amarezze di Calindri nascono dal "dura minga"
“Possibile”, dice il bravo attore, “che, dopo trent'anni di carriera, il grosso pubblico mi conosca soprattutto per i cortometraggi pubblicitari alla televisione?”
Ernesto Calindri non è certo il tipo che chiude gli occhi se vede una bella donna; anzi, per quel che ne sappiamo, li spalanca addirittura. Ma è sposato da ventitré anni con la stessa moglie, battendo un record nel mondo dello spettacolo dove gli amori coniugali (e non) resistono quanto le buone intenzioni in politica. Nessuno, del resto, gli ha mai attribuito stravaganze o avventure eccezionali. Gli piace viaggiare, ma confessa candidamente che niente al mondo vale la calda confusione della vita in famiglia, le comodità della propria casa, il conforto della solita poltrona, con un paio di pantofole ai piedi. In America lo chiamerebbero "a man in a gray flannel suit" un uomo in flanella grigia, cioè un borghese qualsiasi. Infatti, come tutti i tipi comuni, ama parlare del proprio lavoro, gli piace guidare l'automobile, va volentieri al cinema per vedere film distensivi di cowboys, s’arrabbia quando gli arriva la cartella delle tasse. Ha perfino un innocente hobby: i trenini elettrici. Finché la nascita del quarto figlio non l'ha obbligato a sgombrare la stanza dei bambini, l’aveva interamente occupata con una ferrovia in miniatura. Cosi, appena aveva una serata libera; convocava gli amici (tutti seriosi professionisti) e, berretto da capostazione in testa, paletta in mano, fischietto fra i denti, si divertiva ad azionare scambi e convogli.
RICCHI DI AMBIZIONI
Questo, dunque, è Ernesto Calindri nella vita privata: un signore che da' trentun anni calca con onore le scene, ma ha mantenuto immutate le proprie abitudini borghesi. Alto, magro, distinto come un baronetto inglese, con una incipiente calvizie, un sorriso garbato e malizioso sulle labbra, i grigi occhi Ironici, l’aria seria e perbene, potrebbe essere scambiato con facilità per un dirigente di azienda, un avvocato, un banchiere. Anche qui nel suo camerino del Sant'Erasmo di Milano, fra tende gialle, parrucche, cerone, elmi criniti e scudi di latta, non si fatica a Immaginarlo con un irreprensibile doppiopetto grigio dietro una scrivania. Glielo diciamo, e un lieve rossore gli colora le orecchie ,e gli zigomi. «Faccio questo mestiere perché mi piace», spiega con semplicità chiudendosi intorno al collo l’accappatoio color canarino che indossa sopra il costume di scena. «Ma sono attore . soltanto sul palcoscenico: detesto esibire la mia professione. Forse è questione di mentalità, di educazione. Mi è comunque servito per avere una vita familiare abbastanza serena; dico "abbastanza’', perché con quattro figli non si può pretendere che manchino le preoccupazioni».
Calindri si accende una sigaretta con aria pensosa. «Il merito maggiore di questa serenità, certamente», prosegue, «va a mia moglie. Ci siamo conosciuti nel '38 lavorando insieme nella compagnia Gandusio. In pochi mesi ci siamo innamorati, fidanzati, sposati. Eravamo giovani: lei ventidue anni, io ventinove. Non avevamo un soldo: tutti i nostri risparmi erano serviti ad acquistare le vere nunziali. In compenso eravamo ricchi di ambizioni artistiche. Eppure, fin dal primo giorno di vita coniugale, mia moglie ha rinunciato spontaneamente, senza rimpianti, a tutti i sogni di successo. Si è preoccupata di fare la moglie e basta. Ha continuato a recitare fino a poco tempo fa, ma solo per essermi vicina in questo mondo dove le tentazioni sono tante.. E, se Dio vuole, il nostro matrimonio non ha conosciuto burrasche serie».
Certo non è comodo per un attore restare coerente a una regola di riservatezza. Infatti Calindri ha lottato più di tanti suoi col leghi per farsi una strada. Non solo. Dopo esser stato protagonista di un centinaio almeno di lavori teatrali, si è accorto con una punta di disappunto di esser conosciuto dal grosso pubblico soprattutto per una serie di cortometraggi pubblicitari che ha interpretato per la televisione: i dialoghetti del ''dura minga”, che già trent’anni fa esatti (nella rivista Za-Bum Le lucciole della città) fecero la fortuna di De Sica e Umberto Melnati.
«I primi tempi», confessa Calindri, «mi divertiva sentire i ragazzini che mi indicavano definendomi "quello del dura minga alla televisione”. Poi mi sono accorto che anche gli adulti mi riconoscevano in strada, nei ristoranti; nei negozi, per quegli sketches. Mi ha fatto un effetto terribile. Questa popolarità a buon mercato è demoralizzante per un attore come me, che ha passato notti intere a studiare i copioni, fumando decine di sigarette, bevendo litri di caffè per combattere il sonno. Certo i miei colleghi (pochi ormai) che non si sono ancora lasciati allettare dalla pubblicità televisiva, possono chiedermi perché abbia accettato di interpretare quel cortometraggi. Semplice: certi assegni farebbero capitolare chiunque, figuriamoci un padre di famiglia».
L’attore dà un tono scherzoso alle sue parole, ma non riesce a nascondere l’amarezza di sapere che molti ignorano la sua lunga attività teatrale.
L'attore, che è nato il 5 febbraio 1909 a Certaldo, entrò in arte a diciotto anni rinunciando agli studi di ingegneria. In questi giorni Calindri sta curando la regia di "L’affare Eschilo”, un lavoro di Brocchieri che andrà in scena al Sant’Erasmo.
TREDICESIMO FURFANTE
Per anni eppure, aveva giudicato addirittura "poco dignitosa” la professione dell’attore. «I Calindri», spiega, «erano per tradizione tutti ingegneri. Mio padre era la pecora nera della famiglia. Da ragazzo passava ore a raccontare favole coi burattini. Poi, quando già frequentava il secondo anno della facoltà di ingegneria, scappò con una compagnia di attori. Fu uno scandalo enorme In casa. Mio nonno era quasi impazzito dal dispiacere. Si consolò quando nacqui io. Perché non venissero i grilli anche a me" decise di allevarmi lui stesso. Praticamente stavo col miei genitori soltanto di estate. Avevo assorbito le idee del nonno al punto che vedere mio padre sporcarsi la faccia di cerone, truccarsi gli occhi, indossare una sera la tonaca da prete, un’altra il manto da imperatore, mi pareva assurdo e poco serio».
Fu il destino (come dice Calindri) a fargli cambiare idea. Stava per iscriversi all'università (facoltà d’ingegneria, s’intende) quando suo padre si ammalò; il nonno ormai, era troppo vecchio per mantenerlo agli studi. Cosi fu costretto a guadagnarsi da vivere e a rinunciare al sogno di costruire ponti e scuole. Accettò il primo lavoro che gli fu offerto: divenne "generico” per quindici lire al giorno. Lo interessava così poco quel mestiere, che restava in teatro appena il tempo di fare la sua apparizione , sul palcoscenico. Ci volle una risata scrosciante del pubblico a spazzar via, in una ventata, tutti i suoi pregiudizi. «Mi avevano offerto una parte minuscola ne L'artiglio di Bernstein», racconta ancora Calindri. «Dovevo recitare due battute che mi parvero spiritose; decisi di dirle con una certa Intonazione. Alla prima battuta si sentì per la platea del Lirico, qualche risata divertita. Alla seconda, esplose nella sala un boato di risa irrefrenabile».
Comprese allora che anche la professione dell’attore può dare delle soddisfazioni ed ha una sua nobiltà (non è forse nobile riuscire a far dimenticare alla gente i propri guai?). Ma Calindri è troppo timido, educato, onesto, per far carriera a gomitate; e anche nel mondo dello spettacolo bisogna darne molte, per farsi strada. Così per otto anni ancora seguitò a coprire ruoli di generico. Ora che si era innamorato della professione, però, quella mancanza di soddisfazioni lo demoralizzava. Si paragonava a compagni più fortunati e disinvolti, e masticava amaro. Più di una volta pensò di abbandonare il palcoscenico. Poi la fortuna gli porse una mano. La compagnia Galli, che lo aveva scritturato agli inizi del 1938, aveva messo in scena Il tredicesimo furfante di Guglielmo Giannini. Fosse l’influenza del titolo della commedia o altro, un attore della compagnia si rivelò un furfante davvero: i carabinieri arrivarono ad arrestarlo dietro le quinte del Teatro della Pergola, a Firenze. Calindri fu chiamato a sostituirlo nel ruolo rimasto libero. Ovviamente ce la mise tutta per far bella figura. Lo stesso Renato Simoni lo notò, dedicandogli alcune righe di elogio sul Corriere della sera. Poche settimane dopo gli offrì addirittura la parte di Fiorindo nel Bugiardo di Goldoni, che avrebbe messo in scena, in uno spettacolo all'aperto, con un "cast” formidabile di attori, in campo San Trovaso a Venezia.
«Quando la ruota della fortuna sf decide a girare, lo fa sul serio», prosegue sorridendo Calindri. «Ricordo ancora come mi arrivò la proposta. Avevo appena salito i tre gradini che, al teatro Odeon di Milano, portano ai camerini, quando il portiere mi consegnò una lettera. L’aprii distrattamente: "Carissimo, le offro la parte di Fiorindo nel Bugiardo a ottanta lire giornaliere". Non vidi altro: la vista mi si appannò. Pensai: "Mi hanno dato la lettera di un altro. Non dovrebbero fare certi errori". Non avevo il coraggio di leggere l'indirizzo sulla busta. Poi, lentamente, col cuore in gola, lo guardai: c’era il mio nome davvero. Da quel momento tutte le nubi scomparvero. La mia vita si colorò di colpo delle più rosee speranze.
Milano. La famiglia Calindri è composta da Martha di diciannove anni, il piccolo Gabriele; Marco di sedici anni; Gilberto di ventun anni; la moglie di Calindri, Ivy. Ernesto e Ivy si sposarono nel 1938 dopo una "tournée" che avevano fatto insieme con la compagnia Gandusio (Ivy Calindri ha seguitato a recitare fino a due anni fa, col nome d’arte di Roberta Mari). Dei quattro figli, Gilberto ha debuttato nei mesi scorsi al teatro milanese Sant'Erasmo in ”Il marescalco" dell'Aretino.
UNA MOLLA ECCITANTE
«La sera della "prima" ebbi il più lungo e cordiale applauso della mia carriera: non esagero. Guardavo inebetito i duchi di Windsor in prima fila, tutte quelle facce di gente famosa che mi sorridevano, e il cuore mi lievitava nel petto per la riconoscenza e la gioia. Più tardi vennero in molti a congratularsi nel camerino. Ricordo il duca d’Aosta, così alto e cordiale, e Sergio Tofano che, battendomi una mano sulla spalla, mi annunciò di volermi in compagnia. Ero stordito, non riuscivo più a pensare. C’era un ricevimento in casa del conte Volpi di Misurata, ma non fui in grado di andarci. Avevo bisogno di star solo. Salii su una gondola e per ore mi feci portare in giro, con gli occhi fissi sulle stelle e la gola chiusa per la felicità».
Dopo fu un’ascesa senza soste, Tofano scritturò Calindri, come aveva promesso a Venezia. Ma a Calindri non piaceva fare l’attore giovane, il bel ragazzo sempre innamorato' e ardente. «Avevo ventotto anni», racconta, «e mi era capitato di sussurrare parole dolci a qualche ragazza. Ma in scena era un’altra cosa. "Ogni goccia del mio sangue ti desidera” mi pareva una frase apprezzabile solo se poteva far ridere il pubblico. Simili battute cretine erano il mio tormento. E poi non mi sentivo bello affatto. Mi guardavo nello specchio e vedevo una faccia lunga, priva di quegli occhioni e delle trentadue perle di denti, previsti nel copione. Così cambiai ruolo, creando personaggi veri, possibilmente brillanti. Mi piace divertire il pubblico. Lo trovo eccitante. Chi non abbia provato, non può capirlo. È quella molla che spingeva Gandusio da vecchio, sebbene non avesse affatto bisogno di soldi, a salire su un treno anche d’inverno, magari con la neve, per andare a guadagnarsi l’applauso in qualche piccola città».
Negli occhi di Calindri passa un lampo malizioso. «Queste emozioni, però, mi fanno piacere soltanto su un palcoscenico», conclude.
«Nella vita privata non amo sentirmi i riflettori puntati addosso. Conduco un’esistenza normale, ho le mie piccole gioie, i miei dispiaceri, le mie soddisfazioni: come tutti. Forse soltanto in una cosa mantengo, anche fuori della scena, l’atteggiamento tipico in un attore: nel governare la mia vita con un’ombra di incoscienza, giorno per giorno, senza soffermarmi troppo a pensare al domani. Che è poi il segreto del dura minga, per guadagnarsi in questo mondo una porzione di ottimismo e di serenità».
Neera Ferreri, «Oggi», 9 marzo 1961
«Il Musichiere», 5 maggio 1961 - Ernesto Calindri
Un missionario in casa Calindri
Il figlio dell’attore ha preso il nome di Fra’ Massimiliano per ricordare un frate polacco ucciso dai nazisti durante la guerra
Rezzato, novembre
Il posto di fra’ Massimiliano, nel refettorio, è nell’angolo accanto alla finestra. Lì fuori c’è la campagna, ammorbidita da tutti rossi dell’autunno, con le cime degli alberi che sembrano teneri arlecchini e la strada dei laghi che si perde sul fondo. La tavola è lunga, nuda, con un ciclamino bianco nel mezzo. I portatovaglioli dei novizi hanno le iniziali dei nomi ricamate di rosso, come in collegio.
I frati mangiano in silenzio, uno di loro legge preghiere, ad alta voce. «Potessi vedere mio figlio — dice Ivy Calindri. — Forse avrà fame, avrà freddo, con quei piedi nudi». Ogni mattino, fra’ Massimiliano si alza alle cinque, dopo mezz’ora è in chiesa, a pregare, suona le campane, lavora nell’orto, poi prega, di nuovo, fino a sera. La sua cella è al primo piano del convento: un letto di ferro, un minuscolo tavolo, un inginocchiatoio con la Madonnina fosforescente che gli ha regalato sua madre, prima di partire. Accanto alle celle, in un porticato, sono distesi ad asciugare i sai bagnati dei padri e sembrano spaventapasseri pronti per il tempo del grano.
Il monastero è in collina, domina, a pochi chilometri dalla città, la pianura bresciana zeppa di vigne e di canali stretti fra file di gelsi e di pioppi: i frati vi abitano dal 1500, ma già prima del 1000 vi sorgeva un’Abbazia benedettina. Gilberto Calindri, il figlio dell’attore, è qui, novizio francescano. E’ partito pochi giorni fa dalla sua casa di Milano, con una valigetta riempita da sua madre, quasi dovesse andare al distretto per la visita di leva. E la sua stanza, nella vecchia casa, è rimasta come era. I libri sono bene ordinati negli scaffali, sopra una sedia c’è anche un paio di pantaloni stirati di fresco, come se il "signorino” dovesse rientrare fra poco e cambiarsi d’abito per uscire con gli amici.
Era un qualunque ragazzo borghese, figlio di un attore importante. Suo padre l’avrebbe voluto ingegnere, ma a Gilberto non piacevano i numeri: non si capiva che cosa desiderasse per il suo avvenire. «E’ sempre stato un ragazzo strano — dice sua madre. — Era distaccato dal mondo, da tutto», dicono i suoi amici Carlo e Piero. Non gli garbavano le compagnie rumorose, i divertimenti usati. Non sapeva neppure ballare. Preferiva stare in casa, solo, passava le giornate ad ascoltare Bach, Monteverdi, Palestrina, leggeva, scriveva poesie, dipingeva quadri semplici, paesaggi un po’ grezzi ma con il gusto del colore, alberi e campagna, Cristi inchiodati, legnosi e drammatici. «Forse diventerà un artista questo ragazzo lungo, dallo sguardo limpido, dalla faccia pulita», pensava chi lo conosceva.
Gilberto Calmeli nacque a Livorno nel 1939. Per un po’ di anni seguì i suoi, su e giù per la penisola, da un teatro all’altro. Poi i Calindri misero casa a Milano dove il ragazzo frequentò la Scuola Media e si iscrisse ai corsi del Liceo Scientifico. La famiglia, intanto, si era fatta numerosa: era arrivata Marta che ora ha vent’anni, Marco che ne ha sedici e il piccolo Gabriele, così simile al primogenito, che ha soltanto diciannove mesi.
Gilberto era il più silenzioso: gli piaceva stare con gli altri, ascoltarli ridere, parlare — l’amore alla musica, alla letteratura non gli impediva di occuparsi di Massignan e di Suarez — ma aveva sempre un’aria di una lontananza quasi astrale, di una gravità serena che metteva un po’ in soggezione chi lo avvicinava. La storia della sua vocazione: «Ora sono tranquilla — dice sua madre. Ho pianto tanto, innumerevoli notti. Forse non ho neppure più lacrime. Ma Gilberto non farà del male a nessuno, nella sua vita, farà del bene».
Era accaduto qualcosa dentro di lui. Lo capì subito sua madre e si struggeva. Gilberto aveva abbandonato il liceo scientifico, in soli due anni aveva preso il diploma di ragioniere, poi aveva cominciato a far l’attore, come suo padre. Recitò in piccole parti al teatro S. Erasmo: fece il soldato greco, con una parrucca bionda in testa e le gambe nude, nella ''Campana delle tentazioni” di Mosca e le ragazze della compagnia si innamorarono di lui. «E’ così bello suo figlio», dicevano alla madre. Poi divenne un gentiluomo in frac in una commedia di Beonio Brocchieri. Ma non gli piaceva il teatro, confessò una volta agli amici che andavano a trovarlo in camerino. «E’ solo finzione, trucco. La verità è lontana. Non mi piace poi il modo di vivere di questa gente».
Accadde tutto nell’ultima primavera. In febbraio Gilberto aveva fatto la Cresima. All’età giusta non c’era stato il tempo di trovare un vescovo, fra una tournée e l’altra. Ed ora, dopo la cerimonia, Gilberto pareva ancor più silenzioso, trasognato. Aveva preso ad andare alla prima messa, ogni mattina, al convento di S. Angelo dei francescani milanesi, a pochi passi dalla sua casa e leggeva a ogni ora del giorno il Vangelo e le vite dei santi.
Una notte — erano le tre — sua madre lo trovò inginocchiato sul pavimento della sua camera. Pregava, era così assorto che non l’aveva neppure sentita entrare. «Gilberto», disse soltanto. Il giovane, quella volta, parlò a lungo, si aprì con sua madre. Voleva diventare frate missionario, aveva deciso. Sua madre mentre parlava, lo accarezzava lungamente, come da bambino.
«Lo porteremo a Ostia, si distrae, chi sa», pensò Ivy Calindri subito dopo. Gilberto cominciò così la sua ultima lunga estate di ragazzo. Sua madre lo condusse con sè a Parigi, ma il giovane non la lasciò mai sola. Non lo turbava il fascino misterioso e segreto di quella città: usciva dall’albergo soltanto per recarsi al Louvre, ai concerti.
Sulla spiaggia accadde la stessa cosa: «Eravamo la favola di tutti», sorride ora sua madre. I ragazzi Calindri passarono le loro giornate di vacanza attorno alla mamma seduta sotto l’ombrellone: Gilberto levava il capo dai suoi libri solo per giocare con il piccolo Gabriele che lo chiamava ”Gì”, rideva, gli gettava la sabbia sul viso. Gilberto parlò a lungo anche con suo padre. Sono così difficili i rapporti fra i genitori e i figli, si sono fatti così profondi i conflitti fra le generazioni: da una parte un padre brillante, che ama tutto della vita e teme la cruda vecchiaia, dall’altra un giovane che rinuncia alla vita, alle cose del móndo per dedicarsi solo agli umili.
Non era la decisione di un ragazzo, quella di Gilberto. La aveva maturata nel silenzio di lunghi giorni, di lunghissime notti quella formula detta ora con voce limpida, non recitata, nella piccola chiesa del convento di Rezzato: «Chiedo per amore di Dio di entrare nell’ordine Serafico onde fare penitenza per amore di Cristo». Si chiamerà fra’ Massimiliano ed anche questa sua scelta merita rispetto: padre Massimiliano Kolbe è un umile frate polacco trucidato dai nazisti, in un campo di concentramento, durante l’ultima guerra.
Solo il suo fratellino Gabriele che continua a chiamarlo ”G씄 senza solennità ogni mattina si arrampica sopra una sedia e bacia la foto di Gilberto attaccata muro nella camera dei genitori. Sua madre, invece, gli accomoda il letto ogni mattina. Tra qualche anno fra’ Massimiliano potrà stare a casa sette giorni. Occorre che tutto sia pronto.
Corrado Stajano, «Tempo», anno XXIII, n.44, 4 novembre 1961
«Radiocorriere TV», 1962 - Ernesto Calindri
Calindri e la Villi insieme sul lago dorato
Ernesto Calindri, toscano, "figlio d'arte", è uno di quegli attori che hanno sempre avuto dalla loro parte la simpatia del pubblico. Quest’anno festeggia i sessantanni di palcoscenico e, per l’occasione, ha scelto di portare alla ribalta una commedia che sembra fatta apposta per la sua misura d’uomo, e cioè Sul lago dorato dell’americano Ernest Thompson, storia di due anziani coniugi che trascorrono insieme quella che potrebbe anche essere, soprattutto per lui, ormai ottantenne, la loro ultima vacanza.
Lui si chiama Norman, è un professore in pensione, ha un caratterino bizzarro e ombroso che gli serve a nascondere una interiore fragilità. Lei si chiama Ethel, ha qualche anno in meno del marito, ma sembra ancora più giovane per il suo carattere pimpante ed estroverso. Tutto sommato, una coppia bene assortita che non ha nessuno "scheletro" da nascondere nel classico armadio, ammenoché non si voglia scambiare per tale il cruccio dell'uomo per la mancanza di un erede maschio a cui trasmettere la propria "filosofia della vita”. La moglie, infatti, gli ha dato solo una femmina, Chelsea, con la quale ha sempre avuto un rapporto difficile.
E che succede in riva al "lago dorato”, un luogo che sembra alludere a una specie di paradiso perduto? Niente di eccezionale. Per l'ottantesimo compleanno di Norman, ospite ormai inattesa, arriva la figlia ribelle portandosi appresso il suo nuovo compagno, Billy, e il figlio di quest'ultimo, l'adolescente Billy junior. Motivo vero della visita? Chelsea e Billy, entrambi divorziati, hanno progettato un viaggio in Europa, dove intendono sposarsi, e non vogliono avere tra i piedi un testimone incomodo come potrebbe rivelarsi il ragazzo.
Naturalmente, Norman accetta di ospitare il nipotino acquisito. Altrettanto naturalmente, dopo qualche piccola "baruffa" iniziale, i due buttano all’aria la reciproca diffidenza, diventano amiconi per la pelle e passano buona parte del loro tempo a pescare sul lago. Così, quando Chelsea toma dall'Europa per ripigliarsi il figliastro, trova nella casa del padre un'atmosfera quasi idilliaca, della quale ovviamente beneficia anche lei. E poi? Be’, tanto per "scaldare” l’atmosfera, proprio quando sta per chiudere "bottega" e tornare in città, Norman si accascia per un colpo al cuore. Ma non è niente di grave e tutto si risolve in un gran spavento. Così il sipario si può chiudere con un ammiccante arrivederci all’anno prossimo, alla prossima vacanza.
Commedia furba e sorniona, ma accattivante proprio in virtù della sua "dichiarata” banalità, Sul lago dorato venne lanciata a Broadway esattamente dieci anni fa e divenne un successo mondiale nella versione cinematografica che ne fu tratta quasi subito, protagonisti Henry Fonda, Katharine Hepburn e Jane Fonda nella parte di Chelsea, la figlia ribelle. E’ a questa versione che, in un certo senso, strizza l’occhio lo spettacolo che è andato in scena a Milano, al Teatro San Babila, dove ha aperto felicemente la stagione 1988-1989.
Ernesto Calindri, ormai prossimo a festeggiare gli ottant’anni (è nato nel 1909), è un Norman delizioso nella sua spontaneità e nella sua naturalezza. A vederlo recitare, si ha la curiosa impressione che egli trasferisca sul palcoscenico i "vezzi” che gli sono propri nella vita reale. Accanto a lui, Olga Villi fa valere la sua limpida classe di sempre. Con simili "mostri”, il successo della commedia, che non era mai stata data in Italia, era garantito in partenza. E infatti si è puntualmente verificato, nonostante l’approssimativa regia di Luigi Squarzina.
Un’ultima osservazione: ma erano proprio necessari l’accentuato turpiloquio messo in bocca al ragazzo Billy Junior e la gestualità "americanese” che caratterizzano la sua disperante entrata in scena?
Giuseppe Grieco, «Gente», anno XXXII, n.42, 20 ottobre 1988
E' morto Calindri, il "grande vecchio" del teatro
Dalle commedie brillanti a Pirandello. Ma la popolarità arriva con gli sketch di Carosello Ernesto Calindri è morto martedì a Milano all’età di 90 anni per un cancro. Da giorni era ricoverato all’Istituto dei Tumori ma le prime avvisaglie del male si erano avute a febbraio, a Pescara, mentre recitava «Il borghese gentiluomo». Sospese le recite, era stato ricoverato e poi era tornato a casa, progettando di recitare ancora in autunno. I funerali si terranno sabato alle ore 9 nella chiesa milanese di San Babila.
Chi era Calindri? Il garbo, la leggerezza, l’ironia di un fine teatrante di voce ferma e dizione perfetta, abituato da sempre ad auscultare dal palcoscenico i battiti del cuore del pubblico. Forte di 70 anni di carriera (nato toscano a Certal-do nel 1909, vissuto milanese e devoto), era diventato l’emblema di un modo di essere e di far spettacolo. Raccontava che avrebbe voluto fare l’ingegnere come il nonno. Ma i genitori erano teatranti: era scritto. Debuttò nel ’29 e a 18 anni fu scritturato da Ruggeri in «L’artiglio» di Ber-nstein. Una sera, avendo detto la sua battuta con inedita ironia e avendo sentito la platea corrispondergli in una risata, si rese conto di quale strumento aveva in mano.
Inizia qui la sua gloriosa carriera. Fatta di teatro digestivo, boulevardier, ma anche di esperienze particolari, per esempio quando recitò con Visconti nel ’46 la burrascosa «Via del tabacco» di Caldwell. Migliaia e migliaia di debutti, di camerini, di ammiratori, di pasti consumati o saltati sempre con allegria. Dopo molti camerieri alti e distinti, fu Simoni a offrirgli la prima occasione, Florindo nel «Bugiardo» goldoniano, a Venezia nel ’37. Un successo che festeggiò con un giro in gondola. Recita da allora al fianco e in sintonia con i mattatori di allora, con Cimara-Adani-Gassman (’44), con la Merlini, Picasso, Pilotto, Ninchi, la Galli, la Borboni, Tofano, Gandusio, la Maltagliati: un’ideale, fantastica compagnia di giro, quando ancora non comandava il Regista e Umberto di Savoia faceva le dediche «con stima e simpatia». Era l’epoca in cui si cambiava repertorio tutte le sere e l’attore doveva portare in dote un guardaroba, per tutte le evenienze teatrali.
A 41 anni, nel ’50, diventa capocomico di una «ditta» che restò celebre per il repertorio brillante, offrendo la battuta a colleghi come la Volonghi, Volpi, Valeria Valeri, la Zoppelli, la Solari e i giovani Lionello e Masiero, tutti coinvolti in «grandi successi d’ilarità» come «Tredici a tavola». Intanto Calindri prende parte anche alla nascita degli Stabili, a Milano e a Genova. Dice la 90enne Eva Magni: «Calindri era un magro, brutto giovanotto, un uomo discreto e poi un bellissimo vecchio». Con la pubblicità Calindri ha la sua doppia, grande occasione: con Volpi nel Carosello della China Martini e poi in quello leggendario del signor Cynar, dal ’67 in poi, per 18 anni, contro il logorio della vita moderna. «Quando entro nei bar e vengo riconosciuto non è certo per quel che faccio o ho fatto in teatro ma è per la pubblicità», ripeteva lui, consapevole.
Diresse il teatro San Babila di Milano, dal ’69 al 75, con Fantasie) Piccoli. Un repertorio differenziato, con Feydeau, Rattigan, Ionesco e Moliérè, di cui sarà poi, con la regìa di Crivelli, un curioso «Borghese gentiluomo». Infine «Pensaci Giacomino» di Pirandello. Riconosciute da tutti le sue qualità di uomo e attore: la misura, la disponibilità, l’ironia, la civiltà della «parola teatrale». Tra i successi degli ultimi anni, «Sul lago dorato» e «Indovina chi viene a cena?», ma anche Balzac e altri spettacoli allestiti spesso con la collaborazione dei figli. Insegnò all’Accademia dei Filodrammatici, nella «sua» Milano, dove coltivò anche gli affetti casalinghi: l’adorata moglie Roberta Mari, 4 figli e 4 nipoti. Tra i colpi di testa andati a buon fine, il musical calcistico «La padrona di raggio di Luna», «Gigi» di Colette. Il suo fu un happy end di popolarità, acclamato da tutti come un fenomeno vivente, coltivando solo lo snobismo di qualche dolorino. «Sono un innamorato della vita dall’età della ragione, una persona senza interessi è già vecchia», ripeteva. Solo il cinema, nonostante qualche comparsata, non aveva sentito bisogno di lui. «Il segreto» diceva con civetteria «è semplice: bisogna vivere con un pizzico di leggerezza e d’ottimismo: come un eterno sessantacinquenne».
Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 9 giugno 1999
Il talento sotto lo smoking
Il prodigioso «finale di partita» di Calindri (lo ricordiamo tutti, a 87 anni suonati, saltellare con l’agilità di un giovane mimo in un musical ispirato a Colette) ha finito da ultimo col sovrapporsi, quasi nascondendola, alla sua lunga storia d’artista. Era come se, una volta diventato il più vecchio dei grandi vecchi della scena italiana, Calindri fosse stato in qualche misura spossessato o, chissà, alleggerito del proprio passato.
Un passato ce l’aveva, invece: è molto più ricco, più sfaccettato — e, almeno potenzialmente, molto più complesso — di quanto non risulti dalle etichette sotto le quali lo si trova tuttora registrato (si consulti, per riprova, una qualsiasi enciclopedia dello spettacolo) nel repertorio dei luoghi comuni critici: attore brillante, attore. gentleman, attore nato con lo smoking... Tutto vero; ma basta ricordarlo in una delle edizioni del pimndelliano «Pensaci, Giacomino!» delle quali, nel corso degli anni è stato protagonista per sapere con certezza clic le sue risorse di interprete erano anche altre, che dietro o sotto l’arguta, impeccabile, calibratissima scioltezza mondana dei suoi gesti e della sua voce potevano vibrare, all’occorrenza, corde assai più gravi e dolenti.
E si può forse rimpiangere che alla fine — da quando si era trasformato. appunto, nel Grande Vecchio per antonomasia, aveva dunque acquistato, almeno sulla carta, il privilegio di una sorta di impunità dalle soffocanti leggi del mercato — Calindri non abbia avuto il guizzo di coraggio o di follia necessario a regalarci, che ne so? un suo Strindberg, un suo Cechcrv, un suo Shakespeare... Ma parlare di ciò che avrebbe potuto darci e solo in parte ci ha dato (forse anche, chissà, per un eccesso di scrupolo, di modestia, per quella tendenza a non evadere dal proprio «ruolo» che in certi caratteri si accompagna al senso del dovere e del decoro) è soprattutto un modo per ringraziarlo del molto che ci ha dato e che fa di lui un esempio difficilmente uguagliarle di professionalità messa al servizio dell’arte o, se si preferisce, di talento artistico eroicamente adibito alle regole del «mestiere».
Lauretta Masiero: un solo rimpianto, non mi ha mai detto "brava"
Spumeggiante soubrette anni Cinquanta, festeggiò con lui il primo contratto come attrice di prosa, nella compagnia Calindri-Zoppelli-Volpi-Masiero: «Si trattava dell'"Importanza di chiamarsi Ernesto" di Wilde, guarda caso — ricorda con la consueta vivacità Lauretta Masiero, 71 anni —. L’ho sempre considerato un attore modernissimo, allora come adesso: per quello che sceglieva da interpretare, per come si comportava in scena, sciolto, brillante, conosceva i tempi e le pause del teatro leggero, importantissimi e oggi purtroppo sconosciuti alle giovani promesse che si bruciano
subito. Il fatto è che non esistono più le compagnie di complesso, e non si recitano più dodici commedie in nove mesi. Troppo faticoso. E invece per noi era bellissimo, con Lia Zoppelli ricordavamo debutti e cambi di vestiti».
E invece Calindri stava studiando ancora, pronto ad affrontare con «Sul lago dorato» una nuova stagione ... «Giusto, invidiabile. In un certo senso è morto in scena. Rimpiango solo una cosa: non ho mai saputo che cosa pensasse di me, non mi ha mai detto "brava". Stava un po’ sulle sue, insomma. Come uomo non sarebbe stato il mio tipo, anche perché la moglie era gelo-
sissima. Mai gli avrei confidato, ad esempio, il mio terrore nel dover usare il telefono in scena quando recitavo con lui in 'Tredici a tavola", una commedia di Sauvajon in cui la padrona di casa deve escludere o aggiungere un commensale: da allora mi è rimasto l’incubo della cornetta teatrale. Ernesto era un po’ freddo, quasi burbero, molto inglese, un Rex Harrison all’italiana, direi. Forse per questo non è mai stato gigione, mai pagliaccio pur. nella battuta o nel gesto che suscita il riso. E’ riuscito ad avere una sua misura perfetta».
Claudia Provvedini, «Corriere della Sera», 9 giugno 1999
MASSIMO D’ALEMA: «GRANDE ESEMPIO DI DIVULGATORE»
Il presidente del Consiglio: «Calindri ha contribuito alla diffusione di testi italiani e stranieri, oggi diventati classici, si è imposto anche attraverso la televisione rendendo accessibile agli italiani meraviglie altrimenti irraggiungibili».
LILIANA FELDMAN: SULLE SCENE ERA ANCHE CATTIVO
Liliana Feldman, partner da undici anni: «Era severo, persino cattivo, se in scena qualcosa non andava, ma dolce in privato». E Giulia Lazzarini: «Dovevamo fare i Mèmoires con Strehler. Ernesto se ne è andato quasi in scena come l’amato Molière».
TURI FERRO: «IL PRIMO A DIVERTIRSI ERA LUI»
«Il nostro mestiere misterioso, per lui era divertimento. Gran signore, sempre. A cena dopo Io spettacolo, si alzava a salutare il collega ospite di un altro teatro, baciava la mano alla dama, un 'bravo' senza smancerie perché ne era incapace, e se ne tornava al suo tavolo».
VITTORIO GASSMAN: UN GENTILUOMO DI STAMPO ANTICO
«Erano gli ultimi anni di guerra, ebbi il mio primo nome in ditta, la Adani-Calindri-Carraro-Gassman. Una persona gentile, un bravo attore, un vero gentiluomo d’antico stampo. Ha vissuto bene nella vita e sul palco. Gli auguro buon soggiorno lassù».
SERGIO ESCOBAR «PRESTO UN OMAGGIO DAL PICCOLO»
Il sovrintendente del teatro milanese: «Allestiremo una manifestazione in suo onore. Era l’immagine della felicità del proprio mestiere. Fino all’ultimo è rimasto legato al palcoscenico. Attore di poliedricità intemazionale».
«Corriere della Sera», 9 giugno 1999
Ernesto Calindri, borghese e gentiluomo
Il suo segreto era la gioia di vivere - Tra i suoi registi Luchino Visconti Costa e Squarzina
Ernesto Calindri non fu un Grande Attore nel senso camaleontico del termine, bensì un artista che avendo trovato molto prèsto una propria cifra le rimase fedele. Interprete, si diceva anche, talvolta riduttivamente, «inglese specializzato nel porgere battute brillanti che sarebbero suonate meglio nell'originale di Oscar Wilde o Bernard Shaw: ma ce ne fossero state della sua misura, della sua delicatezza, della sua serena imperturbabilità. Potè sembrare scontata trovata della Cynar, di affidagli uno dei primi testimontelevisivi, forse a tutt'oggi quello di maggior success qualcuno deplorò che un interprete serio, avvezzo a misurarsi coi classici, si rassegnasse a imporsi (e, oggi, a sopravvivere nella memoria del pubblico più vasto) come colui che raccomandava l'aperitivo a base di carciofo. Anche lì peraltro Calindri diede una lezione di classe. Il divertito equilibrio, l'ironia appena percettibile con cui sorseggiava tranquillo la lenitiva bevanda in mezzo al traffico, o contemplava estatico colture della pianta che le dava il sapore, esibivano la stessa eleganza e lo stesso intelligente distacco brechtiano con cui dal palcoscenico il decano della sua professione faceva ascoltare Molière.
Prima ancora dell'attore elegante e amatissimo, Ernesto Calindri è stato un uomo innamorato della vita. Era tanto forte il suo innamoramento, tanto dichiarato e incarnato, da rendere difficile credere che questo soave patriarca del teatro italiano sia morto l'altra notte a Milano, all'Istituto dei Tumori. Il 5 febbraio Calindri aveva festeggiato i novant'anni nel modo che preferiva: recitando. Ma aveva mai fatto altro? Avrebbe voluto. Gli sarebbe piaciuto diventare ingegnere assecondando la dinastia dei Calindri, famiglia umbra che aveva nel proprio stemma un compasso. Ma suo padre Manlio spezzò la tradizione, e non senza scandalo. Per amore di un'attrice (Egloghe Pelletti) si fece attore. E quando Ernesto, nato a Certaldo nel 1909, era già abbastanza grande per capire quanto fosse grama, provvisoria e persino ridicola la vita dell'attore, non ebbe dùbbi: sarebbe stato ingegnere anche lui.
Il suo destino però era un altro. Alla morte del padre, le condizioni della famiglia non erano floride; e lui fu costretto a lavorare. Era allampanato, fragile, flessibile. Si presentò a Luigi Carini. Il più colebre interprete italiano del «Matrimonio di Figaro» di Beaumarchais lo squadrò e gli disse: «Ma si. Alto e distinto come sei, puoi fare il cameriere». Cominciò così, per necessità e senza entusiasmo, una carriera durata settant'anni. Gli esordi furono diffìcili, anni di porticine con avarissime battute, al fianco di attori grandi che quasi non si accorgevano di lui: Memo 1 Sonassi, Dina Galli, Ruggero Ruggeri. Calindri meditava ai piantar tutto. Ma una sera, quando era in compagnia con Dina Galli, un attore venne arrestato. La ori m attrice andò da lui e gli disse: «Vi sentite di sostituirò...». La commedia in prova era «Il tredicesimo furfante» di Guglielmo Giannini. Calindri imparò furiosamente la parte e al debutto milanese il temutissimo critico del «Corriere» Renato Simoni gli dedicò sette righe di elogi. Fu la svolta. Simoni, che come regista fu anche un pioniere nella riscoperta di Goldoni, lo chiamò nel '37 per interpretare Florindo nel «Bugiardo». La commedia sarebbe andata in scena a Venezia. Per Calindri fu il primo, vero successo. Quella sera, dopo gli applausi, si fece dare un anticipo dall'amministratore della compagnia, affittò una gondola e, come in un'ipnosi, navigò per canali, senza meta, semplicemente beato. La vita cambiò e cambiò la carriera. Calindri sembrava nato per la commedia e per il vaudeville.
Sergio Tofano, che egli considerò sempre il suo maestro, gli diede un consiglio prezioso: se prevedi che le tue battute suscitino 35 risate, non cercare le trentaseiesima, accontentati di 34. Applicò quell'invito alla sobrietà anche al dramma, che affrontò per la prima volta nel '45, quando Luchino Visconti lo chiamò per interpretare «La via del tabacco» di Erskine Caldwell; nel '54 arrivò la grande interpretazione di «E' mezzanotte dottor Schweitzer!» con la re- S'a di Luigi Squarzina; nel '72 fu volta dell'amatissimo Molière: Orazio Costa gli offrì «L'avaro» e fu uno spettacolo memorabile. Da allora Calindri ha fatto di tutto: il cinema (con risultati per lo più modesti), la televisione degli sceneggiati e del teatro in diretta, la pubblicità che lo avrebbe segnato in modo incancellabile e per la quale ha sempre manifestato gratitudine. Ha diretto un teatro (il San Babila di Milano, con Fantasio Piccoli), per anni ha insegnato all'accademia dei Filodrammatici di Milano, la più antica scuola teatrale d'Italia. Lavorava con entusiasmo, ma cominciava a rattristarsi per la burocrazia che si era insinuata nel teatro, per la mancanza di rigore dei giovani attori. Sapeva di incarnare una specie in via di estinzione, quella degli attori che creano con disciplina.
Gli fece molto piacere ricevere nel '91 il premio Simoni. Un piacere ancora più grande provò quando i suoi tre figli, festeggiandolo per gli 85 anni, gli regalarono una commedia, «La grande paura», che essi scrissero a sei mani e che egli portò in scena. Apparentemente Cai i miri non aveva più l'età per le grandi imprese; tuttavia osò l'impossibile interpretando «Mercadet l'affarista» di Balzac e ritornando all'amato Molière col «Il borghese gentiluomo». Nel frattempo aveva fatto una cosa inaspettata: sulle orme di Maurice Chevalier, e quasi a novant'anni, aveva accettato di cantare e ballare nel musical «Gigi». Aveva un segreto Calindri? Se c'era, lui lo individuava nella gioia di vivere, che faceva scintillare nello sguardo azzurro. Era felice per essere vissuto così a lungo e perché la vita, nonostante le fatiche e i lutti, era stata generosa con lui. Aveva visto i miracoli della scienza, era stupefatto dal cambiamento del mondo e continuava a cercare il futuro: l'anno prossimo avrebbe ripreso «Sul lago dorato» di Ernest Thompson, che aveva interpretato noli 88 diretto da Squarzina. A più lunga scadenza, avrebbe voluto vedere sconfitta la terribile malattia che gli aveva portato via la moglie Ivy e la figlia. Ma questa stessa malattia ha colpito anche lui, si è vendicata rapidamente e crudelmente, quasi tendendogli un'imboscata.
Osvaldo Guerrieri, «La Stampa», 10 giugno 1999
La fama col Cynar. Con lui gli italiani scoprirono il logorio della vita moderna
C'erano le avventure del tenente Sheridan di Ubaldo Lay nella pubblicità dell'aperitivo Biancosarti. E Carlo Dapporto che invitava Giorgia Moli a lavarsi i denti con la Pasta del Capitano. E Nicola Arigliano che dopo un pasto pesante risolveva la questione con il digestivo Antonetto. Ma soprattutto, ad accendere le fantasie notturne dei bambini che negli Anni Sessanta andavano a dormire dopo Carosello, c'era lui, Ernesto Calindri, seduto al tavolino in mezzo a una strada che allora pareva spaventosamente trafficata, intento a gustare l'amaro Cynar, quello a base di carciofo, sicuro antidoto «contro il logorio della vita moderna». Ancora oggi, per sette italiani su dieci, secondo un'indagine realizzata dall'agenzia' Klaus Davi, il nome di Calindri, nonostante la lunghissima carriera in teatro, rimanda soprattutto a quello spot che tra l'altro venne trasmesso per diciotto anni consecutivi senza cambiare mai. Ancora oggi, per la generazione del Carosello, quello slogan, «il logorio della vita moderna», riassume meglio di qualunque altra definizione il progressivo incasinarsi della vita quotidiana.
Nell'Italia che si lasciava definitivamente alle spalle la civiltà contadina e cominciava a intuire quel «logorio» che si sarebbe poi chiamato stress, Calindri rappresentava un simbolo e un modello. Una specie di Lele Martini di «Un medico in famiglia», antelitteram. La gente fermava per strada il signor Cynar, come lui stesso avrebbe ricordalo molti anni più tardi, e gli chiedeva ' di poterlo toccare. «Abbracciatemi pure», rispondeva lui, che già aveva potuto apprezzare i molteplici vantaggi della pubblicità con un altra fortunatissima campagna e un altro fortunatissimo slogan: «Fin dal tempo dei garibaldini, China Martini». «La reclame mi ha dato una fama che, con tutta la più buona volontà, un attore di teatro come me non avrebbe mai potuto raggiungere», ammetteva con serena rassegnazione. Ormai anziano Calindri ricordava con trepidazione quelle piccole avventure in mezzo al traffico delle prime Seicento: «Alle mie spalle partivano sessanta automobili che poi dovevano girare a destra o a sinistra e uscire di campo. "Più vicini, sfioratelo!" urlava il regista». Aveva provato qualche volta paura, confidò. Tanto da risolversi a stipulare due assicurazioni, una contro gli infortuni e una sulla vita, in favore della moglie, nel malaugurato caso che qualche autista si fosse rivelato inesperto. Erano, in fondo, le prime precauzioni che, al nuovo italiano, imponeva il logorio della vita moderna.
Stefania Miretti, «La Stampa», 10 giugno 1999
Maria Grazia Gegori, Michele Anselmi, «L'Unità», 10 giugno 1999
Renzo Sanson, Roberto Canziani, «Il Piccolo di Trieste», 10 giugno 1999
Filmografia
Cinema
Freccia d'oro, regia di Piero Ballerini, Corrado D'Errico (1935)
La sposa del re, regia di Duilio Coletti (1938)
Finisce sempre così, regia di Enrico Susini (1939)
La forza bruta, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1941)
I bambini ci guardano, regia di Vittorio De Sica (1943)
La primadonna, regia di Ivo Perilli (1943)
T'amerò sempre, regia di Mario Camerini (1943)
Scadenza trenta giorni, regia di Luigi Giacosi (1944)
Incontro con Laura, regia di Carlo Alberto Felice (1945)
Una lettera all'alba, regia di Giorgio Bianchi (1948)
Al diavolo la celebrità, regia di Mario Monicelli, Steno (1949)
Ho sognato il paradiso, regia di Giorgio Pastina (1949)
Canzoni per le strade, regia di Mario Landi (1950)
Buon viaggio, pover'uomo, regia di Giorgio Pàstina (1951)
La presidentessa, regia di Pietro Germi (1952)
L'ultimo amante, regia di Mario Mattoli (1955)
Il momento più bello, regia di Luciano Emmer (1957)
Policarpo, ufficiale di scrittura, regia di Mario Soldati (1958)
Rascel marine, regia di Guido Leoni (1958)
Le olimpiadi dei mariti, regia di Giorgio Bianchi (1960)
La ragazza di mille mesi, regia di Steno (1961)
Mariti a congresso, regia di Luigi Filippo D'Amico (1961)
Totòtruffa 62, regia di Camillo Mastrocinque (1961)
Canzoni di ieri, canzoni di oggi, canzoni di domani, regia di Domenico Paolella (1962)
L'assassino si chiama Pompeo, regia di Marino Girolami (1962)
La smania addosso, regia di Marcello Andrei (1962)
La tigre dei sette mari, regia di Luigi Capuano (1962)
Le massaggiatrici, regia di Lucio Fulci (1962)
Venere imperiale, regia di Jean Delannoy (1962)
Divorzio alla siciliana, regia di Enzo Di Gianni (1963)
I due sergenti del generale Custer, regia di Giorgio Simonelli (1965)
Un ufficiale non si arrende mai nemmeno di fronte all'evidenza, firmato Colonnello Buttiglione, regia di Mino Guerrini (1973)
Ladri di saponette, regia di Maurizio Nichetti (1989)
Prosa radiofonica EIAR
Il bugiardo di Carlo Goldoni, regia di Renato Simoni, trasmessa il 25 luglio 1937.
Prosa televisiva RAI
Il cadetto di Winslow di Terence Rattigan, regia di Franco Enriquez, trasmessa il 6 giugno 1954.
Questi ragazzi di Gherardo Gherardi, regia di Claudio Fino, trasmessa il 29 giugno 1956.
Giochi di prestigio, regia di Alberto Gagliardelli, trasmessa nel 1956.
La commedia del buon cuore, di Ferenc Molnar, con Isa Pola, Carlo Delfini, Mario Colli, Ernesto Calindri, Mercedes Brignone, Enzo Tarascio, Germana Monteverdi, regia di Tatiana Pavlova, trasmessa il 19 luglio 1957.
Si arrende a Bach, regia di Enrico Colosimo trasmessa il 6 settembre 1961.
I burosauri, di Silvano Ambrogi.
Discografia
Album
Dante - La divina commedia - Paradiso (Nuova Accademia Del Disco, BLI 2005, LP) con Giorgio Albertazzi, Tino Carraro, Anna Proclemer, Ottavio Fanfani
Onorificenze
Grande ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica italiana
«Di iniziativa del Presidente della Repubblica»
— 16 febbraio 1993[2]
Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiana
— 27 dicembre 1991[3]
Note
- ^ Storia Radiotv Ernesto Calindri
- ^ Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.
- ^ Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.
Riferimenti e bibliografie:
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- Roberto De Monticelli, «Epoca», anno VII, n.279, 5 febbraio 1956
- «Epoca», anno VII, n.286, 25 marzo 1956
- Neera Ferreri, «Oggi», 9 marzo 1961
- «Il Musichiere», 5 maggio 1961
- Corrado Stajano, «Tempo», anno XXIII, n.44, 4 novembre 1961
- «Radiocorriere TV», 1962
- Giuseppe Grieco, «Gente», anno XXXII, n.42, 20 ottobre 1988
- Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 9 giugno 1999
- Claudia Provvedini, «Corriere della Sera», 9 giugno 1999
- Osvaldo Guerrieri, «La Stampa», 10 giugno 1999
- Stefania Miretti, «La Stampa», 10 giugno 1999
- Maria Grazia Gegori, Michele Anselmi, «L'Unità», 10 giugno 1999
- Renzo Sanson, Roberto Canziani, «Il Piccolo di Trieste», 10 giugno 1999