Castellani Mario
Totò era un istintivo, un improvvisatore nato. Il copione, per lui, doveva rappresentare appena una traccia, un punto di partenza e basta. In rivista, dove io facevo il direttore artistico, lui veniva, e piuttosto svogliato, solo i primi giorni di prova, poi scompariva dalla circolazione ed era inutile cercarlo. Si rifaceva vivo quando si stava per andare in scena e allora in quattro e quattr'otto si aggiornava su quello che doveva fare. Ma la verità è che le cose migliori gli venivano spontanee solo sul palcoscenico, sotto la spinta del pubblico.
Insomma, quella di Totò era una forma di comicità tutta speciale, assolutamente unica nel suo genere e perciò irripetibile. In genere, lui lavorava di contropiede, afferrando di rimbalzo battute e situazioni che gli venivano offerte dalla sua "spalla". Se il gioco attaccava, allora si scatenava sull'onda del consenso del pubblico ed infilava tutta una serie di invenzioni di cui sul copione non c'era il benché minimo accenno.
In seguito al rinnovato interesse per la figura e per l'arte di Totò, spesso mi capita di sentirmi chiedere il testo di questo e di altri sketch diventati ormai leggendari. Ma i testi non ci sono. Non ci sono mai stati. Ecco perché l'arte, la vera arte di Totò è scomparsa con lui e i giovani che non hanno avuto la fortuna di vederlo sul palcoscenico non possono ritrovarlo come è stato veramente guardando i suoi film. Totò non è Chaplin o Buster Keaton, fenomeni tipicamente cinematografici. Totò è il teatro. Il cinema, nel migliore dei casi, lo ha dimezzato. Nel peggiore, che era poi la norma, lo ha puramente e semplicemente tradito.
Totò era convinto che della sua arte non sarebbe rimasto niente, perchè è questo il destino degli attori, e ritenne inutile affaticarsi per smentire il suo fondamentale pessimismo. Del resto, lo interessava solo il teatro vero, quello che lui inventava sera per sera davanti al suo pubblico: nel cinema e nella televisione vedeva unicamente delle macchine per far soldi, per pagarsi i suoi vizi e la sua dorata tristezza di principe venuto al mondo in un secolo sbagliato.
(Roma, 2 luglio 1906 – Roma, 26 aprile 1978), è stato un attore di teatro e di cinema, per quaranta anni circa a fianco di Totò.
Figlio d'arte, terminati gli studi all'istituto tecnico, preferisce dedicarsi al mestiere d'attore esordendo come "brillante" d'operetta nella compagnia dello zio Attilio Pietromarchi, Il passo verso il teatro di rivista è breve e partecipa così agli spettacoli dei fratelli Schwarz e a quelli della compagnia di rivista Za-Bum. Diventa poi un'apprezzata spalla in tutti i migliori spettacoli di Totò, apparendo accanto a lui non soltanto in teatro ma anche in quasi tutti i film interpretati dal celebre comico napoletano.
Nel 1928 è uno dei principali interpreti di Madama Follia e di Mille e una donna accanto a Totò e Isa Bluette, ma diventa ufficialmente la spalla di Totò dagli inizi dei primi anni quaranta ottenendo un successo personale in Quando meno te lo aspetti di Galdieri in cui recita anche Anna Magnani. Viene riconfermato per la stagione successiva per uno dei più grandi successi di rivista di quel periodo, Volumineide, sempre di Galdieri e con i medesimi attori. Nel 1944 è ancora con gli stessi attori e autore in Che ti sei messo in testa? ed è uno dei primi attori a festeggiare la liberazione di Roma e a prendere di mira attraverso la satira il caduto regime, sempre con Totò e la Magnani, in Con un palmo di naso. Attore di robusta formazione, nel dopoguerra continua ad affiancare Totò in teatro, soprattutto nella celebre rivista galdieriana C'era una volta il mondo (1947), con soubrette come Elena Giusti, Isa Barzizza e Gilda Marino.
A partire dal 1945, e fino alla fine della carriera del grande comico, Castellani sarà la perfetta spalla di Totò in una numerosa serie di pellicole: con il suo garbato spirito brillante e la sua pronta reattività, riuscirà a sostenere gli spiritosissimi dialoghi e gli imprevedibili lazzi di cui l'attore napoletano è protagonista, mantenendosi sempre un passo indietro eppure lasciando sempre trasparire il proprio efficace valore interpretativo. Tra i tanti film ricordiamo Fifa e arena (1948) di Mario Mattoli, Totò cerca moglie (1950) di Carlo Ludovico Bragaglia, Le sei mogli di Barbablù (1950), sempre di Bragaglia, Totò a colori (1952) di Steno (dove Totò e Castellani ripropongono il celebre sketch teatrale del vagone letto), Il più comico spettacolo del mondo (1953) di Mario Mattoli, Chi si ferma è perduto (1960) di Sergio Corbucci, Totò contro i quattro (1963) di Steno.
Nel 1956 torna in teatro debuttando da protagonista nella commedia di Marotta e Randone, Il malato per tutti, ottenendo un notevole successo personale e partecipando anche ad altri atti unici della stessa formazione diretta da Maner Lualdi e denominata "Compagnia delle 15 Novità". Nella stagione seguente è scritturato dalla compagnia di Peppino De Filippo con buoni consensi soprattutto per la sua prestazione ne Le metamorfosi di un suonatore ambulante (1957).
Nel 1967, poco prima della morte di Totò, Castellani gli è di nuovo a fianco in una serie televisiva, TuttoTotò diretta da Daniele D'Anza: uno spettacolo ad episodi dedicato alla carriera del grande comico, in cui vengono riproposti gli sketch migliori dei suoi spettacoli teatrali. Dopo la scomparsa del suo grande amico, Castellani comincerà pian piano a diradare i propri impegni professionali. Negli ultimi anni apparirà quasi esclusivamente in televisione, soprattutto in rappresentazioni di commedie di Peppino De Filippo.
Il mio primo incontro con Totò avvenne a Milano nel 1927, quando facevo il comico brillante in una delle due compagnie di rivista organizzate dall'impresario Achille Maresca, che aveva messo in scena due spettacoli, Madama Follia e Mille e una donna. Totò faceva allora il varietà ed era già molto popolare.
Maresca lo scritturò per sostituire Eugenio Testa, che si era ammalato. Il suo debutto avvenne a Padova, in Madama Follia, che aveva come soubrette la favolosa Isa Bluette. Ma non fu un successo, almeno all'inizio. Ci fu anzi un momento in cui tutti stringemmo i denti, prevedendo un disastro. La verità è che Totò non era pratico di recitazione. D'altro canto, il pubblico delle riviste non era abituato a vedere sulla scena certi dinoccolamenti che erano il pezzo forte di Totò attore e mimo del varietà. Insomma, i primi «numeri» passarono in un silenzio agghiacciante. Ma poi venne un pezzo musicale in cui Totò faceva la parte di un gelataio, e qui, come se lo avesse morso la tarantola, si scatenò adattando al ritmo dell'orchestra i suoi famosi passi da marionetta. Fu un trionfo. Il pubblico, dapprima sconcertato per la novità, si lasciò trascinare da quella irresistibile pantomima e alla fine manifestò la sua approvazione con un applauso delirante.
Totò, che aveva affrontato il debutto con una tremarella che non cercava nemmeno di nascondere, rientrò in camerino tutto sudato per la gran fatica, pallido, mormorando coloratissimi scongiuri nel suo dialetto partenopeo. «Che dite, eh?», disse lasciandosi cadere su una sedia. «Ce l'ho fatta?». Una breve pausa; poi, come ricordandosi all'improvviso di una cosa della massima importanza, aggiunse: «L'orchestra è stata bravissima nell'assecondarmi. Quei ragazzi meritano un premio. Pago champagne a tutti, bisogna pur festeggiare la mia vittoria, no?».
Nella vita come nell'arte, Totò era un signore, un vero principe. Ma recitava una parte anche quando faceva il generoso. Le sue mance da nababbo al ristorante sono rimaste famose, così come a Cinecittà tutti ricordano ancora i biglietti da mille che distribuiva con noncuranza ai macchinisti, al custode che gli apriva il cancello quando andava sul set per interpretare uno dei suoi cento e passa film. Questo scialo principesco apparteneva però sempre ed esclusivamente al personaggio pubblico. In privato, era un altro paio di maniche. In privato, ho visto Totò chiedere il prezzo del cinema prima di dare alla moglie i soldi per andare a vedere una pellicola.
Non è possibile spiegare Totò. Le faccio un esempio. Totò ha speso un patrimonio perché gli fossero riconosciuti i suoi titoli nobiliari di principe bizantino. Quello della nobiltà era un tasto che non si poteva toccare con lui. Guai, poi, a mettere in dubbio la sua legittima discendenza dall'imperatore Costantino.
Eppure, più di una volta, l'ho sorpreso mentre si prendeva cordialmente in giro. Di regola, questo accadeva dopo lo spettacolo, quando si liberava dei panni del comico snodabile e diventava il principe di Bisanzio. Esattamente, lo sfottò scattava in quei pochi minuti in cui non era più Totò ma non era ancora rientrato del tutto nei panni del principe. [...] Si metteva davanti allo specchio con una faccia serissima e rimaneva per un lungo istante a contemplarsi. Poi, tutto d'un colpo, faceva uno sberleffo alla propria immagine ed esclamava: «Ehi, signor principe, è inutile che si dia tante arie e snobbi il povero Totò: si ricordi che è Totò che dà da mangiare al principe, e non viceversa».
Quando cominciò la sua grande stagione cinematografica, gli accadde di firmare un impegno con la Lux per il film L'imperatore di Capri. La lavorazione era prevista in cinquanta giorni, e il compenso forfettario in sei milioni. Carlo Ponti, che era allora il direttore esecutivo della casa cinematografica, lo mandò a chiamare e gli fece la proposta di allungare il contratto a sessanta giorni e di girare due film invece di uno. Naturalmente, il compenso sarebbe stato maggiorato: dieci milioni. Totò accettò subito. Inutilmente io cercai di attirare la sua attenzione con gesti disperati, per suggerirgli di non firmare. Lui non mi diede retta, e così si impegnò anche per il secondo film, Totò cerca casa. Quando uscimmo dallo studio di Ponti, Totò mi disse: «Cosa significavano tutti quei tuoi gesti?».
«Volevo farti capire», risposi «che non ti conveniva accettare». «E perché», si meravigliò Totò. «Ma perché hai fatto un cattivo affare», replicai. «Dieci milioni per sessanta giorni di lavoro ti pare un cattivo affare? Ma dove ce l'hai la testa?», mi aggredì.
Rinunciai alla discussione, perché mi resi conto che Totò non avrebbe mai capito il mio punto di vista. Per me, i dieci milioni li avrebbe dovuti pretendere solo per il secondo film da girare con calma, in seguito. L'affare, infatti, lo fece Ponti, il quale da Totò cerca casa ricavò un guadagno di 150 milioni, cifra che gli servì per fondare la Ponti-De Laurentiis.
Totò era il re della superstizione. La sua «testa di turco» era il numero 13, che nella classica Smorfia di Tommaso Pironti, famosissima a Napoli, significa tre cose: «la morte», «Sant' Antonio di Padova» e «il principe». Totò impazziva al solo vedere un cartello col numero 13.
A questo proposito, devo raccontare l'incredibile avventura che ci capitò nell'immediato dopoguerra, quando andammo a Parigi su invito dell'impresario Remigio Paone. Dovevarho vedere il balletto delle Bluebell, di cui si diceva un gran bene, e decidere se scritturarlo o meno. Totò e io partimmo da Milano, in vagone letto. Purtroppo gli era stato riservato il letto numero 13. Per evitare un trauma a Totò, prima di salire nella vettura avvicinai il controllore e lo pregai di staccare il cartellino col numero fatale. La richiesta fu esaudita. Partimmo senza intoppi alla volta di Parigi.
Qui scendemmo in un albergo di lusso, dove Totò si era fatto riservare un appartamento principesco, con saloni enormi. «Che dobbiamo farci qui dentro?», mi stupii. Lui rise e mi mostrò il portafogli: si era portato appresso una quindicina di milioni. «li vedi questi?», mi disse. «Li spendiamo tutti. Eh, Parigi è Parigi! Ci dobbiamo divertire, crepi l'avarizia!».
Avevamo in programma di fermarci nella capitale francese quindici giorni. Per questo ce la prendemmo comoda, rimanendo in albergo a riposarci. Ma la mattina dopo, alzandosi, Totò scoprì di non sentirsi molto bene.
Uno starnuto improvviso fu il segnale d'allarme. Suonò per la cameriera, e la ragazza, osservandolo, gli disse che a Parigi c'era un po' di grippe (influenza) in giro. Quella parola straniera lo spaventò a morte. In pigiama si precipitò nella mia camera. «Sto male. Molto male», mi comunicò. Cercai di rassicurarlo, e intanto mandai a comprare un termometro. Risultò che aveva appena un paio di lineette, una sciocchezza che bastava una compressa qualunque per fargliela passare. Lui, invece, si ostinò a immaginarsi sull'orlo della tomba. «Mi dispiace tanto, ma non potremo divertirci», disse: «dobbiamo tornare subito in Italia. Voglio morire a Roma, nel mio letto». Non ci fu verso di dissuaderlo. Si fece portare i pasti in camera e non uscì dall'albergo che per trasferirsi alla stazione. Il regalo che aveva promesso alla moglie e alla figlia me lo fece acquistare nel negozio che c'era nell'hotel. Tra l'altro, non si fidava dei medici francesi. «Sono stranieri, cosa vuoi che capiscano dei miei mali?», diceva.
Uscì da quella specie di tetro letargo in cui era caduto solo quando si ritrovò sul treno che lo riportava in Patria. Qui ebbe un sorriso e mi batté una pacca sulla spalla:
«Vi eravate messi d'accordo per farmi fesso, eh?», esclamò. «Credevate che non mi fossi accorto che il mio letto portava il numero 13? lo vi ho dato corda, ma quel fetentone si è vendicato alla sua maniera. La prossima volta guardatevi bene dal fare i furbi: con la jettatura bisogna sempre venire a patti, oppure combatterla a carte scoperte». Detto questo si rilassò, e dormì saporitamente per tutto il viaggio. La nostra avventura a Parigi era durata soltanto tre giorni sprecati per niente.
Totò fece il suo ingresso nel grande teatro di rivista grazie esclusivamente al fiuto di Achille Maresca, come ho già accennato. Il passo successivo glielo fece fare l'impresario napoletano Eugenio Aulicino il quale nel 1941, in società con Epifani, formò una compagnia di rivista con Totò, il sottoscritto, Anna Magnani e otto subrettine. Con questa compagnia debuttammo al Teatro Quattro Fontane di Roma in Quando meno te lo aspetti di Michele Galdieri, cui seguì l'anno dopo Volumineide . La vera «favola» di Totò cominciò appunto con queste riviste, che secondo me rimangono le cose più belle che egli ha fatto.
Totò era un istintivo, un improvvisatore nato. Il copione, per lui, doveva rappresentare appena una traccia, un punto di partenza e basta. In rivista, dove io facevo il direttore artistico, lui veniva, e piuttosto svogliato, solo i primi giorni di prova, poi scompariva dalla circolazione ed era inutile cercarlo. Si rifaceva vivo quando si stava per andare in scena e allora in quattro e quattr' otto si aggiornava su quello che doveva fare.
Ma la verità è che le cose migliori gli venivano spontanee di farle solo sul palcoscenico, sotto la spinta del pubblico. Insomma, quella di Totò era una forma di comicità tutta speciale, assolutamente unica nel suo genere e perciò irripetibile. In genere, lui lavorava di contropiede, afferrando di rimbalzo battute e situazioni che gli venivano offerte dalla sua «spalla». Se il gioco attaccava, allora si scatenava sull'onda del consenso del pubblico ed infilava tutta una serie di invenzioni di cui sul copione non c'era il benché minimo accenno.
Uno dei suoi sketch più famosi è quello del vagone-letto, che ha fatto sbellicare dalle risate le platee di tutta Italia. Ebbene, nella rivista di Galdieri in cui era inserito, era accennata soltanto la situazione: due uomini nella cabina e una donna che chiede ospitalità per la notte.
La prima volta che lo facemmo, questo sketch durava una decina di minuti; le ultime volte siamo arrivati a tenerlo in piedi quasi un' ora, col pubblico che ci seguiva col fiato sospeso. In seguito al rinnovato interesse per la figura e per l'arte di Totò, spesso mi capita di sentirmi chiedere il testo di questo e di altri sketch diventati ormai leggendari. Ma i testi non ci sono. Non ci sono mai stati. Ecco perché l'arte, la vera arte di Totò è scomparsa con lui e i giovani che non hanno avuto la fortuna di vederlo sul palcoscenico non possono ritrovarlo come è stato veramente guardando i suoi film. Totò non è Chaplin o Buster Keaton, fenomeni tipicamente cinematografici. Totò è il teatro. Il cinema, nel migliore dei casi, lo ha dimezzato. Nel peggiore, che era poi la norma, lo ha puramente e semplicemente tradito.
Totò non ha fatto testamento. Superstizioso come era, credeva che dettare le ultime volontà gli portasse jella. Del resto, era convinto di avere un cuore fortissimo, che non lo avrebbe mai tradito. È vero che si faceva fare l'elettrocardiogramma ogni due mesi, ma si sottoponeva a questa formalità, come la chiamava, solo per scaramanzia. «Ho il cuore di un leone», mi confidava con orgoglio. «Sentilo tu come batte. Sono sicuro che terrà in piedi la mia carcassa almeno fino a cento anni». Invece, nel 1967, fu proprio il cuore che lo tradì.
Totò aveva accettato, per la prima volta, di fare dei Caroselli . Io, al solito, gli ero accanto. Preparavo gli sketch, mi occupavo della regia. Totò appariva in buona salute e, come sempre, si divertiva a prendere in giro le «schifezze» che gli toccava fare per guadagnarsi la pagnotta.
Niente, insomma, lasciava presagire l'improvvisa fine. Un giorno andai sul set, ma non lo trovai. «Ha fatto telefonare che sta poco bene», mi dissero. Conoscendo il suo carattere impressionabile, non mi preoccupai. La sera, tuttavia, telefonai a casa. Mi rispose il cugino Eduardo Clemente, che gli faceva da segretario. «Va tutto bene», mi rassicurò. «Abbiamo fatto fare le analisi: non c'è niente di grave». Gli dissi di non disturbarlo. «Verrò domenica per metterci d'accordo sullo sketch che dobbiamo girare lunedì», conclusi. Alle tre di notte il cugino mi svegliò con una telefonata drammatica: le condizioni di Totò si erano improvvisamente aggravate. Un infarto. Mezz'ora dopo Totò era già morto. Per una curiosa coincidenza, l'ultima cosa che aveva fatto nel cinema si era conclusa con la sua morte. Totò, il comico-marionetta, vi interpretava la parte di un burattino che moriva in scena e finiva buttato in un carrettino a mano.
Come amico ho il dovere di dire che questo fifone che si chiamava Totò era un uomo che la morte se la covava dentro con una specie di disperata tenerezza. Lo attestano le poesie raccolte nel suo libro 'A livella (la livellatrice, cioè la morte); lo attesta la rassegnata fierezza con cui aveva accolto la cecità. Perché Totò, negli ultimi anni, era quasi cieco, non riusciva a vedere che ombre. Se continuava a resistere sul set, era solo grazie al suo enorme mestiere e all'istinto che gli faceva fare le cose giuste al momento giusto.
Ma questo lo sanno tutti.
Ciò che la gente non sa, invece, è che Totò la cecità se la portava appresso da molto tempo prima che diventasse un fatto pubblico, in seguito alla polmonite da virus che lo colpì durante la tournée della sua ultima rivista, A prescindere , costringendolo a sospendere le recite della compagnia. Quella volta io non ero con lui perché c'era stato tra noi un disaccordo di natura artistica. Gli ritornai accanto proprio a causa del suo male, perché mi resi conto che aveva bisogno di un amico che lo capisse a volo.
La verità è che Totò era mezzo cieco già negli anni Quaranta, quando diede al teatro di rivista il meglio di se stesso. Ogni tanto, è vero, si lamentava di non vederci bene ma tutti eravamo convinti che si trattasse di malesseri passeggeri che egli ingrandiva con la fantasia. Invece la realtà era drammatica: Totò aveva completamente perduto l'occhio sinistro (per questo, sulla scena, voleva che mi mettessi sempre alla sua destra). Ne parlai allora con la figlia, ma scoprii che anche a lei il padre aveva nascosto la gravità del male. Per Totò, fu una liberazione quando si accorse che noi due sapevamo. Era come se si fosse finalmente tolto un peso dal cuore. Ce lo dimostrò il giorno in cui, scherzando, prese un paio di occhiali che adoperava in casa e ne staccò una lente, quella dell'occhio sinistro. «Tanto, questa non mi serve», disse con un sorriso. Alla figlia vennero le lacrime agli occhi. Lui le prese il mento con una mano e la costrinse a sollevare la testa, a guardarlo bene in faccia. «Di che ti preoccupi?»! la rincuorò: «è una sciocchezzuola di nessun conto. E poi», aggiunse «a me di occhi me ne basta uno». Da quel giorno, prese l'abitudine di usare regolarmente (sempre in casa, si capisce), quegli assurdi occhiali con una lente sola.
Senta un po' questo caso curioso. Un nostro «quadro» che aveva molto successo si intitolava «Il paese dei balocchi». A un certo punto Totò e io ci scambiavamo due battute: «Ah, quello li ha la testa di legno!»; «Benissimo! VuoI dire che lo faremo ministro!». La gente scoppiava a ridere e magari pensava a qualche ministro fascista che non aveva fama di essere troppo intelligente. La censura, tuttavia, non ci disse mai niente. Ma un giorno arrivarono gli alleati a Roma e ci portarono la libertà. Naturalmente, ripresentammo il quadro, e sempre con l'identico successo. Ma ci andò male con la censura democratica: infatti il quadro ci fu proibito dopo la prima rappresentazione.
Come principe di Bisanzio, considerava un suo dovere essere conservatore. Come attore comico, riteneva di avere il diritto a non professare nessuna idea. «Il comico», diceva «deve essere un uomo che esaspera e mette perciò in ridicolo le pagliacciate della vita». Fedele a questo suo principio, quando dopo la liberazione di Roma ci spingemmo verso il Nord e facemmo tappa a Firenze, lui si permise una battuta che rischiò di costargli la pelle.
Successe questo: Totò faceva la macchietta di Napoleone, e a un certo punto un attore gli domandava: «Compagno?». «No, camarade», rispondeva Totò, storpiando la parola francese in modo che suonasse quasi come l'italiano e fascista «camerata». L'altro, stupito, chiedeva: «Camarade?». E Totò: «Va be', fà come vuoi. Camarade o compagno è lo stesso». Non l'avesse mai detto! L'Italia era ancora divisa dalla linea gotica e Firenze era piena di partigiani. Uno di questi, al termine dello spettacolo si presentò davanti al camerino di Totò con la scusa di volere un autografo. Totò, affabile, venne sulla soglia, pronto a firmare. Con voce sorda, il partigiano gli domandò: «Veramente per lei camerata e compagno è la stessa cosa?». Preso alla sprovvista, Totò rispose: «Mah, non so...». Il partigiano non lo lasciò finire: con una mossa fulminea lo colpì con un pugno in piena faccia, spaccandogli le labbra. Per fortuna, c'era parecchia gente che s'intromise, impedendo così all'energumeno di continuare il massacro. Totò, spaventatissimo, corse a denunciare il fatto al commissariato. Il giorno dopo fu chiamato in Questura. «Abbiamo arrestato il suo aggressore», gli comunicò un funzionario. «Non voglio fargli del male», rispose Totò: «se mi chiede scusa, non sporgo querela». Il funzionario suonò il campanello. Arrivò un poliziotto. «Portate qui il detenuto tal dei tali», gli ordinò il funzionario. «Non posso: è appena uscito a prendere un caffè», dichiarò l'interpellato.
Totò chiese di essere protetto. La Questura gli diede due commissari con l'incarico di scortarlo, avvicendandosi, notte e giorno. Una sera Totò e io ci recammo alla radio per trasmettere uno sketch. Mentre attraversavamo un incrocio, Totò ebbe un sobbalzo e mi indicò due uomini che ci venivano incontro: uno era il commissario che doveva scortarlo e l'altro niente meno che il detenuto che era sparito per andare a prendere il caffè. I due camminavano a braccetto e conversavano allegramente.
Defilandosi dietro di me, Totò cambiò strada bruscamente e io subito lo raggiunsi. «Scappiamo!», disse trascinandosi in una corsa pazza. «Firenze è diventata una città irrespirabile, per me. Stammi sempre vicino, e appena torniamo pensa tu a chiudere col teatro. Andiamo via. Cambiamo piazza». Non ci fu verso di fargli cambiare idea. Abbandonammo Firenze alla chetichella e Totò riacquistò il suo colore naturale solo quando fummo ben lontani dalla città.
Totò non aveva bisogno della parola per far ridere la gente. Ce ne accorgemmo a Salerno, dopo lo sbarco degli alleati, quando facemmo una recita per gli ufficiali inglesi e americani. Al principio pensammo che in sala ci fossero molti «oriundi» che ci avrebbero capito facilmente. Invece, no: non c'era un solo spettatore in grado di afferrare le nostre battute. Eppure risero tutti come matti e ci fecero una festa incredibile. Totò ne approfittò per punzecchiarmi sulla mia mania, come la chiamava lui, di pretendere testi ben scritti. «Hai visto che le chiacchiere non mi servono?», disse. «È il mio personaggio che fa ridere la gente. Per questi zulù abbiamo parlato ostrogoto, ma si sono divertiti lo stesso. Avremmo potuto recitare una litania di insolenze: il risultato non sarebbe cambiato».
Totò era convinto che della sua arte non sarebbe rimasto niente, perchè è questo il destino degli attori, e ritenne inutile affaticarsi per smentire il suo fondamentale pessimismo. Del resto, lo interessava solo il teatro vero, quello che lui inventava sera per sera davanti al suo pubblico: nel cinema e nella televisione vedeva unicamente delle macchine per far soldi, per pagarsi i suoi vizi e la sua dorata tristezza di principe venuto al mondo in un secolo sbagliato.
Giuseppe Grieco, «Gente», n.32, 1973
Le grandi spalle
Riccardo Billi viene dalla paziente “gavetta” dell’avanspettacolo; Mario Riva dalla falange dei “presentatori”. Un bel giorno questi due s’incontrano, e la loro unione — che ricorda quella di certe sostanze chimiche ciascuna delle quali, per proprio conto, è abbastanza innocua, ma mescolata ad altre formano un composto esplosivo — fa deflagrare un clamoroso successo. Questo successo è La bisarca, cui seguono Alta tensione e I fanatici. Ormai la “ditta” è affermata: la sua comicità vince di prepotenza, ed è infatti una comicità prepotente. Non c’è modo di resisterle: fate conto di giocare a poker con un avversario — anzi, due — che abbia costantemente in mano quattro assi. Billi è un parodista di prima forza: la sua imitazione di Anna Magnani ha fatto epoca. Riva è, pirandellianamente, uno, nessuno e centomila: le sue battute rapidissime hanno la persistenza e la suggestività del tam-tam nella foresta: come ne sentite i primi colpi, siete già disposti ad arrendervi; sapete che la vostra resa è inevitabile. In Billi e Riva c’è tutta Roma: la corrosività del Belli, la cordialità di Pascarella, l’ironia di Trilussa. Straordinariamente divertenti, con tutta l’aria di chi sa di esserlo e fa il possibile per non darlo a vedere: un’immodestia che abbassa gli occhi e arrossisce lievemente, come una signorina di famiglia (del secolo scorso). Una cosa è certa: che la loro è una comicità tutta godibile; quando avete finito di saziarvene, vi avvedete che della lauta imbandigione non è avanzata neppure una briciola.
Forse il pubblico non si rende ben conto dell’importanza artistica d’una buona “spalla”. Ma chi abbia intima dimestichezza con la ribalta sa i prodigi di affiatamento, i miracoli di tempismo, il preciso istinto umoristico e la sicurezza di scena che occorrono per adempire utilmente ed artisticamente a questo non facile compito. Un passo di più e la buona “spalla” può diventare un buon comico. E se quel passo non viene, a volte, compiuto è forse nella tema di non trovare per se stessi una “spalla” altrettanto brava. Il nostro palcoscenico di rivista ne conta alcune che sono veri maestri del genere. E per non sapere in coscienza, a chi dare la palma del primato, adotteremo, nel ricordare le tre principali “spalle” del teatro di rivista italiano, il comodo ordine alfabetico.
Cominciamo dunque da Mario Castellani, l’ottima “spalla” di S.A.R.I. Totò. Magro, distinto, piacevole, Castellani — quando ha cominciato — si avviava brillantemente per la carriera di dicitore-danseur. Ha incontrato per via Totò e si è fermato all'insegna del buonumore. Ormai Castellani ha talmente ben compreso la comicità del suo illustre collega che — forse — potrebbero apparire entrambi sulla scena, senza un rigo di copione scritto, senza aver preso il minimo accordo, senza aver ricevuto il più vago suggerimento, e divertire ugualmente il pubblico per mezz’ora. Al contrario della “spalla” tradizionale, Castellani non finge di incollerirsi per le buffe scemenze del proprio interlocutore, ma anzi sembra sforzarsi di comprenderle, con elaborato interesse, e di fraintenderle, poi, con stupore dignitoso. La sua corretta mansuetudine, allora, serve da sprone alla balordaggine dell’altro, che si fa petulante, proterva, aggressiva. Quando Castellani vorrebbe ribellarsi, è troppo tardi: Totò si è ormai impadronito della situazione e ci gioca, ci giostra, sbatacchiandola in ogni senso al suo inimitabile modo. Tutto questo può parere semplice: ma per arrivare alla progressione esilarante della famosa scena del Vagone letto, ad esempio, ci vuole veramente dell’arte. E la parola non è troppo grossa.
Carlo Rizzo — inarrivabile “spalla” di Macario — è, in un certo senso, un figlio d’arte. Suo zio è stato celebre nel campo dell’operetta: Carlo Lombardo. Suo fratello e sua sorella sono ottimi elementi minori della rivista. Corpulento, cordiale, sicuro di sé, egli oppone alle aeree indecisioni, alle astratte timidezze, alle lunari scemenze di “Maca”, un massiccio buon senso, una solida bonomia, una robusta logica. Alla comicissima balbuzie più spirituale che materiale dell’altro, Rizzo va incontro con alluvionale facondia. È inevitabile che Macario finisca per brancolare in quel torrente di parole e si aggrappi a quella che gli passa più vicina, credendo di salvarsi; ed ecco la parola che gli sembrava cosi promettente e sicura, si sgretola nelle sue mani malferme e dalle briciole, da ogni briciola, sprizza una risata, brilla un concetto ameno, rimbalza un sorriso. E allora Rizzo lancia un’occhiata a “Maca”, tra sorpresa e divertita: sembra domandarsi che razza di individuo sia quell’ometto dalla faccia d’uovo pasquale, dalla bocca a spicchio di luna. Da quel momento lo tratta con la rassegnata pazienza che si usa per i bambini, si fa paterno, quasi materno. “Maca” se ne approfitta subito e — là — butta fragoroso, scattante, il più audace dei suoi frizzi, quello che farà veramente andare su tutte le furie il povero Rizzo. Arte, signori miei, arte anche questa, credeteci sulla parola.
Enzo Turco, forse, non era nato per fare la “spalla”. Le sue innegabili doti di comicità e di spontaneità potevano dargli diritto — come ai grandi di Spagna — di tenere il cappello in testa dinnanzi a Sua Maestà La Risata. Ma Turco è napoletano e perciò è filosofo oltre che artista. Egli deve essersi chiesto quanto formaggio gli sarebbe rimasto, visto che tanti “surice” di buona dentatura e di acuti unghioli erano vittoriosamente mossi all'attacco della forma di cacio capocomicale. E allora ha deciso di dedicarsi al lardo, lasciando parmigiano, provolone e pecorino ai sorci più grossi. Dopo tutto anche il lardo, quando lo si scelga ben stagionato e ben salato, è cibo sopraffino. Ecco dunque Turco “spalla” di Taranto. Napoletano l’uno, napoletano l’altro. Si capiscono a occhiate; meglio ancora, a sbatter di palpebra. Dal modo con cui Nino inizia una battuta, Enzo sa come dargli la ribattuta. Dal modo con cui Enzo pone un interrogativo, Nino sa come deve rispondergli. Sentirli recitare assieme è un piacere cordiale e sottile per chi sia appassionato di arte scenica; è un po’ del glorioso San Carlino che si affaccia nei loro dialoghi; è la tradizione classica che si perpetua, insaporita dal più originale modernismo. Il nasetto a patatina, il viso minuto, la fronte stretta di Turco si contrappongono amenissimamente al naso rapace, alla faccia faunesca, alla fronte mascagnana di Taranto. E Mentre Nino ama — col roteare degli occhi da rana, con le smorfie della bocca tumida — sottolineare l’umorismo di certe battute, Enzo affetta di scivolarvi su, con un gesto vago della mano curiosamente piccola e con un tipico moto del capo, uguale a quello delle foche quando acchiappano a volo il pesciolino premio della loro bravura. Chi è assiduo frequentatore della rivista, vada con la mente, per un attimo, al Turco degli sketches: Edipo turistico e II mago di Napoli. Se non è arte quella, saremmo curiosi di sapere che cosa s’intenda per arte.
Dino Falconi, Angelo Frattini
Un esaurito ha iersera testimoniato il grande favore incontrato presso il pubblico romano da Madama follia la nuovissima rivista di Ripp e Bel Ami in cui sono narrate le piacevoli avventure di «Tony» condannato ad incontrare nella sua vita un'infinità di sosia dal capostazione al gelatero spagonolo, dal napoletano all’esqumese ecc. Eugenio Testa il comico finissimo, inesauribile di trovate spiritose e di brio fa di questa parte una creazione superba e sa mantenere per circa tre ore l'ilarità più schietta. La bella Lea Dafnis si afferma sempre più per leggiadria di movenza per spigliatezza e virtuosismo canoro, come una delle migliori soubrettes ed anche lei deve seralmente bissare i più graziosi couplets e le più indovinate canzoni.
Nè va dimenticato Mario Castellani il giovane comico romano che in due anni ha fatto dei progressi enormi. Egli sostiene col Testa quasi tutto il peso dalla grandiosa rivista e si dlaimpegna con brio giovanile e con esperienza d'attore consumalo. Il pubblico chiede ogni sera il bis della parodia Collegno che canta nel «refrain» insieme agli artisti.
Oggi domenica, alle 17.30 e 21.00 due repliche di Madama Follia. Avviso a chi vuol trascorrere tre ore nel più perfetto buon umore.
«Il Messaggero», 12 giugno 1927
Continuano con grandissimo concorso di pubblico plaudente le repliche di Madama Follia la spettacolosa super rivista di Ripp e Bel Ami di cui la Compagnia Miaresca N.2 da un'esecuzione impeccabile per brioo e affiatamento.
Eugenio Testa, il comicissimo e signorile attore riscuote calorosi applausi per le sue innumerevoli interpretazioni e con lui dividono gli onori della serata la vivacissima e graziosa Lea Dafuis, l'indiavolata soubrette della Compagnia, nonché il valoroso Mario Castellani che deve bissare molta della sue macchiette.
Tra i quadri di maggior successo rammentiamo quello di «Collegno», delle «spagnuole», delle «Rose giganti», ecc.
Questa sera, alla 21.30 precise, altra replica della trionfante Madama Follia.
«Il Messaggero», 14 giugno 1927
Con la replica di Mancia competente si beneficierà questa sera all'«Italia» Mario Castellani. Il giovane attore brillante della Compagnia Testa, che il nostro pubblico circonda delia più schietta simpatia. Artista dotato di risorse e di abilità non comuni, il Castellani sa suscitare la risata più gioconda colla sua comicità signorile e garbata, e non dubitiamo che una folla di spettatori converrà questa sera a festeggiarlo simpaticamente e ad applaudirlo come si merita.
Sala elegantemente affollata ieri nera per lo spettacolo d'onore di Mario Castellani, il simpatico attor comico della Compagnia Testa, al quale il pubblico tributò le più festose e cordiali accoglienze. Il Castellani incarnò, con saporosa vis comica, il bellissimo Adone, in Mancia competente, donando alla parte bella voce, agilità di ballerino, e spassosi atteggiamenti scenici.
Fervidi battimani lo salutarono alla ribalta alla fine di ogni atto insieme alla Cabiria, alla Ferri, alla Tanzi, al Testa, e agli altri esecutori del lavoro, che questa sera ci replica.Sala elegantemente affollata ieri nera per lo spettacolo d'onore di Mario Castellani, il simpatico attor comico della Compagnia Testa, al quale il pubblico tributò le più festose e cordiali accoglienze.
Il Castellani incarnò, con saporosa vis comica, il bellissimo Adone, in Mancia competente, donando alla parte bella voce, agilità di ballerino, e spassosi atteggiamenti scenici. Fervidi battimani lo salutarono alla ribalta alla fine di ogni atto insieme alla Cabiria, alla Ferri, alla Tanzi, al Testa, e agli altri esecutori del lavoro, che questa sera ci replica.
«Il Lavoro», 30 e 31 marzo 1928
Isa Bluette ci ha presentato ieri sera uno spettacolo di cui il buon gusto raffinato e l'eleganza più signorile sono gli elementi predominante. Un succedersi di quadri sfarzosi, ricchi di signorilità e di buon gusto. Spettacolo veramente perfetto nel suo genere se si pensa poi che in soli otto giorni, Isa Bluette, che ha confermato ancora una volta le sue squisite doti di direttrice, ne ha portato l’organizzazione ottenendo dai più disparati elementi un insieme perfetto ed organico degno di sincera lode.
Isa Bluette, attrice, ha entusiasmato: il pubblico numeroso, finissimo, ha ripagato la trionfatrice della serata con i piu cordiali calorosi applausi.
Stella Tòschi, Sara Carminati, Bella Schumann, Titì O’ Ray, Olga e Vera Dossena, Chiara Ravotti, Eva Giordano, Nanette Bastien e le Bluette's girls; tutte perfette, graziosissime, deliziose. Ammirati applauditissimi i virtuosismi di Mario Castellani che ha al suo attivo buona parte del successo della serata.
Assai gustate le interpretazioni di Franco Dossena. Isa Bluette ha avuto mano felice nella scelta del repertorio e in quella più difficile dei collaboratori.
Le canzoni della Casa C. A. Bixio con musiche di Armando Fragna, C. A. Bixio, di Lazzano ecc., sono state accolte col miglior favore dal pubblico.
«L'Impero», 22 giugno 1929
Preceduta dai trionfi riportati in altri teatri d’Italia, oggi alle 17,30 e 21,30, avremo la prima rappresentazione del'ultima novità di Ripp e Bel Ami, dal titolo «Chicchiricchi» che la Compagnia Cabiria presenta con un lusso ed uno sfarzo senza pari per la messa in scena dei tre atti dei quali si compone, e per i costumi splendidi, specialmente quelli della Cabiria, confezionati dalla Casa Marta Palmer. L'attrattiva di questa Rivista è resa anche maggiore dal debutto dell’attor comico Mario Castellani, che sosterrà una delle parti principali. I prezzi sono popolarissimi. Il botteghino è aperto dalle 10.
«L'Impero», 26 maggio 1930
Un vivo e crescente successo ha arriso iersera alla nuova rivista in tre atti degli inseparabili Ripp o Bel Ami. Successo meritato perchè i quadri agili e divertenti del «polpettone» sono indovinati e ricchi di motivi piacevoli, di musichette graziose.
Cabiria cantò e danzò con brio indinvolato e fu volta a volta una «diva Nanà», una «gallina favorita», nonché una «signorina che corre», spassosa e sempre aggraziata. Il giovane e brillante Castellani fu un «Fifì» e un «gallo» comicissimo. Ci piacque assai la Marucco nelle vesti di Rosaura. Un vivo successo personale riportò il Romigioli nella indovinatissima parodia d'Al Jonson e fu calorosamente applaudito. Il Benedetto, il Greni, il Lugara, il Re e il Brillarelli nelle loro caratteristiche macchiette fecero ridere e divertirono.
«L'Impero», 28 maggio 1930
Filmografia
Il ratto delle Sabine, regia di Mario Bonnard (1945)
Abbasso la miseria!, regia di Gennaro Righelli (1945)
I due orfanelli, regia di Mario Mattoli (1947)
Fifa e arena, regia di Mario Mattoli (1948)
Totò al giro d'Italia, regia di Mario Mattoli (1948)
I pompieri di Viggiù, regia di Mario Mattoli (1949)
Totò cerca casa, regia di Steno e Mario Monicelli (1949)
Totò le Mokò, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1949)
L'imperatore di Capri, regia di Luigi Comencini (1949)
Totò cerca moglie, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1950)
Figaro qua, Figaro là, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1950)
Le sei mogli di Barbablù, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1950)
Tototarzan, regia di Mario Mattoli (1950)
Totò sceicco, regia di Mario Mattoli (1950)
47 morto che parla, regia di Carlo Ludovico Bragaglia (1950)
Totò terzo uomo, regia di Mario Mattoli (1951)
Sette ore di guai, regia di Vittorio Metz e Marcello Marchesi (1951)
La paura fa 90, regia di Giorgio Simonelli (1951)
I due sergenti, regia di Carlo Alberto Chiesa (1951)
La vendetta del corsaro, regia di Primo Zeglio (1951)
Guardie e ladri, regia di Steno e Mario Monicelli (1951)
Totò e le donne, regia di Steno e Mario Monicelli (1952)
Totò a colori, regia di Steno (1952)
Cinque poveri in automobile, regia di Mario Mattoli (1952)
Inganno, regia di Guido Brignone
Dov'è la libertà?, regia di Roberto Rossellini (1952)
L'uomo, la bestia e la virtù, regia di Steno (1953)
Un turco napoletano, regia di Mario Mattoli (1953)
Una di quelle, regia di Aldo Fabrizi (1953)
Il più comico spettacolo del mondo, regia di Mario Mattoli (1953)
Totò e Carolina, regia di Mario Monicelli (1953)
Questa è la vita, episodio La patente, regia di Luigi Zampa (1954)
Tempi nostri, episodio La macchina fotografica, regia di Alessandro Blasetti (1954)
I tre ladri, regia di Lionello De Felice (1954)
Il medico dei pazzi, regia di Mario Mattoli (1954)
Totò cerca pace, regia di Mario Mattoli (1954)
Totò all'inferno, regia di Camillo Mastrocinque (1955)
I giorni più belli, regia di Mario Mattoli (1956)
Totò, Peppino e... la malafemmina, regia di Camillo Mastrocinque (1956)
Totò, Peppino e i fuorilegge, regia di Camillo Mastrocinque (1956)
Malafemmena, regia di Armando Fizzarotti (1957)
La cambiale, regia di Camillo Mastrocinque (1959)
I baccanali di Tiberio, regia di Giorgio Simonelli (1959)
Noi duri, regia di Camillo Mastrocinque (1960)
Appuntamento a Ischia, regia di Mario Mattoli (1960)
Letto a tre piazze, regia di Steno (1960)
Chi si ferma è perduto, regia di Sergio Corbucci (1960)
Il corazziere, regia di Camillo Mastrocinque (1960)
Sua Eccellenza si fermò a mangiare, regia di Mario Mattoli (1961)
Totò, Peppino e...la dolce vita, regia di Sergio Corbucci (1961)
Tototruffa 62, regia di Camillo Mastrocinque (1961)
I due marescialli, regia di Sergio Corbucci (1961)
Il mantenuto, regia di Ugo Tognazzi (1961)
Totò diabolicus, regia di Steno (1962)
Lo smemorato di Collegno, regia di Sergio Corbucci (1962)
Totò contro i quattro, regia di Steno (1963)
Il monaco di Monza, regia di Sergio Corbucci (1963)
Le motorizzate, episodio Vigile ignoto, regia di Marino Girolami (1963)
Totò e Cleopatra, regia di Fernando Cerchio (1963)
Totò sexy, regia di Mario Amendola (1963)
Gli onorevoli, regia di Sergio Corbucci (1963)
Il comandante, regia di Paolo Heusch (1963)
Totò contro il pirata nero, regia di Fernando Cerchio (1964)
Che fine ha fatto Totò Baby?, regia di Ottavio Alessi, in realtà di Paolo Heusch (1964)
Totò d'Arabia, regia di José Antonio De La Loma, in realtà di Paolo Heusch (1964)
Gli amanti latini, episodio Amore e morte, regia di Mario Costa (1965)
I figli del leopardo, regia di Sergio Corbucci (1965)
Ringo e Gringo contro tutti, regia di Bruno Corbucci (1966)
Totò story, regia di AA. VV. (1968)
Er più - Storia d'amore e di coltello, regia di Sergio Corbucci (1971)
Totò, une anthologie, regia di Jean-Louis Comolli (1978)
Televisione
Serie Tv Tuttototò - Il latitante
Serie Tv Tuttototò - Il tuttofare
Serie Tv Tuttototò - Il grande maestro
Serie Tv Tuttototò - Don Giovannino
Serie Tv Tuttototò - La scommessa
Serie Tv Tuttototò - Totò ye ye
Serie Tv Tuttototò - Premio Nobel
Riferimenti e bibliografie:
- "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980