Detti & Contraddetti: Antonio de Curtis contro Totò
La verità è che, secondo me, un attore deve separare nettamente la sua vita personale da quella artistica. Il pubblico vedendoci sul palcoscenico e sullo schermo, si fa di noi un'immagine che non ha nulla a che vedere con quella privata. L'uno, e l'altra non devono essere confuse.
(«Stampa Sera», 23-24 febbraio 1962)
Se mi è simpatico Totò? Mi ha reso celebre, mi ha fatto guadagnare qualche soldo: alle volte mi è simpatico, alle volte mi è antipatico, come tutte le altre persone. Dipende dall’umore del momento. Ho visto pochissimi suoi film. Fanno solo ridere, ed lo sono anche un tipo sentimentale.
(Maurizio Cherici, «Oggi», anno XX, n.38, 17 settembre 1964)
Signora cara, se lei vuole farsi quattro risate, acquisti un biglietto per la Compagnia Chiari o Dapporto. Ne raccontano di sfiziosissime. No, no, non Totò, per carità, non fanno parte del suo repertorio. Eppoi temo stia commettendo uno sbaglio di persona. Permette? Sono Antonio de Curtis.
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
Grazie a Dio, ritorno a lui che non sono più il poveraccio di una volta. Per farmi riconoscere e per farmi scusare dopo questi sette anni di abbandono è bastato che gli dicessi: «Senti, Totò, alla fine di novembre ritorniamo davanti al pubblico che si vede e che si sente respirare, da vicino»
("Ho nostalgia del pubblico «vivo»", Fabrizio Sarazani, «La Settimana Incom Illustrata», anno IX, n.43, 27 ottobre 1956)
Non credo che dopo la morte avrò mai un monumento e neanche un monumentino. Io lo farei alla mia bombetta che ha tanto contribuito al mio successo. Come la pietra filosofale che rendeva invisibile chi la possedeva, anche la mia bombetta è capace di compiere un incantesimo: trasformare Antonio de Curtis in Totò. Vi pare poco?
Io devo tutto a Totò e se non lo avessi incontrato un giorno per la strada e non l'avessi riconosciuto come il solo amico della mia vita, Dio solo sa quale sarebbe stato il mio destino. Cugino di Pulcinella, nipote di Arlecchino? Io non l'ho mai saputo, e ne hanno scritte tante a proposito di lui. Certo è un buffone serissimo, il quale come tutti i buffoni che si rispettano maschera la ragione da follia e la follia da ragione. Ne abbiamo passate insieme di tutti i colori. Mi disse, incontrandomi per la prima volta, di non perdere tempo, che avevo proprio la faccia che serviva a lui, e che se lo avessi accompagnato saremmo andati a morire di fame insieme. Io fui, insomma, il primo spettatore di Totò, come dire di me stesso. «Vedrai che il pubblico alla fine ci vorrà bene, perché gli faremo patire un sacco di piacere.» Disse proprio il verbo «patire», quel buffone, ignorantissimo di filosofia come tutte le maschere, ma armatissimo di esperienze preziose, cioè a dire ricco di guai, di beffe subite, di appetito arretrato, esperienze che servono alla legge del contrasto comico. In fondo, senza la miseria e le disgrazie, non esisterebbe Pulcinella. Diceva infatti Petrolini al suo pubblico: «Vi pare una bella cosa ridermi in faccia? Vi rido in faccia io, a voialtri?». Dopo un brivido di dubbio, il pubblico scoppiava in applausi. E lui, il viso scemo e tonto, proseguiva: «Chi vuol ridere vada fuori!». Tutto quello che so fare me lo ha insegnato Totò, che sapeva l'arte di guardare da vicino la verità della strada. Questo impareggiabile buffone ha uno sguardo come l'obiettivo di una macchina fotografica.
("Ho nostalgia del pubblico «vivo»", Fabrizio Sarazani, «La Settimana Incom Illustrata», anno IX, n.43, 27 ottobre 1956)
Beh, sì, bisogna proprio convenirne, Antonio de Curtis è il magnaccia di Totò. Lo tratta come un fetente e lo costringe alla fatica, ma certo se non fosse per quel povero pupazzo il principe avrebbe l’acqua perenne nella pipa e si e no si permetterebbe il lusso di un panino.
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
Forza Totò, che se nessuno fa il tifo per te ci sarò sempre io ad applaudirti. Non si dovrà mai dire che un napoletano neghi il suo appoggio a un altro napoletano e che il principe de Curtis abbandoni nell'ora del periglio quel Totò che gli dà da vivere e da mangiare.
(Antonio de Curtis, 1954)
Dovrei, ora, aggiungere qualcosa a proposito della mia vita privata, ma è un argomento che non desidero toccare. Dicono che sono troppo riservato, ma credo che un attore - quando esce da un palcoscenico o da un teatro di posa - debba appartenere soltanto a se stesso. Vedendomi in palcoscenico o sullo schermo, la gente è portata a immaginarmi molto diverso da come sono nella realtà di tutti i giorni: un uomo semplice, credetemi, che concede ben poco a se stesso per divertire gli altri. E poco importa se qualche volta gli «altri» non capiscono.
Ne volete un esempio? Abitavo in una bella casa di viale Parioli dove, tra gli inquilini, c'erano anche un cardinale e un ambasciatore. Ogni volta che m'incontrava, il portiere mi salutava con tanto di «eccellenza» facendomi profondissimi inchini. Poi, una sera, si fece coraggio. «So che lei» mi disse «è un attore molto applaudito. Mi piacerebbe sentirla una volta.» Gli procurai due posti per quella sera stessa. Il giorno dopo, incontrandomi, non soltanto non mi salutò, ma mi rise in faccia. Da allora, non fui più per lui una persona rispettabile, ma «un saltimbanco».
(«La Settimana Incom Illustrata», a.XIX, n. 18, 1 maggio 1966)
All'Altezza Imperiale ci tengo... insomma un po’, e poi mi spetta: quello che è mio è mio. Alle volte mi imbarazza. Abitavo prima ai Parioli, in un condominio molto elegante dove erano tutti alti funzionari e pezzi grossi dell’esercito. Il portiere si informò subito quale era il mio grado di nobiltà: dissi che ero principe e il vecchio signore gallonato fu felice. Ogni mattino, come mi vedeva spuntare dall’ascensore, correva a spalancarmi la porta e con un inchino, tutto compunto, mormorava: "Buongiorno Eccellenza”. Passò una settimana e successe che lo informarono che facevo l’attore. Il vecchio portiere da anni non andava al cinema: era rimasto al muto, ma la sera stessa si recò a vedere una storia comica di cui ero il protagonista. Quando scoperse che facevo sberleffi, dicevo parolacce e mi mostravo con i calzoni rattoppati e la finanziera a pezzi, restò pietrificato. Da allora, con mio grande sollievo, non mi aprì più la porta e non mi chiamò più Eccellenza, ma con una certa freddezza si limitò ad augurarmi il buongiorno.
(Maurizio Cherici, «Oggi», anno XX, n.38, 17 settembre 1964)
Sapevo che, prima o poi, avrebbero scoperto Totò. Intendiamoci, io non sono per il "mito di Totò", perciò non gradisco molto l'aggettivo "grande" accanto al mio nome, ma una giusta valutazione mi piace.
Io mi sento comico sullo schermo, sulla scena, ma nella vita sono triste, sono un funerale di prima classe.
In privato non rido mai. Perché non ho più vent'anni; perché quando faccio le scale mi viene il fiatone; e poi lei quando è in casa fa sempre lo spiritoso? Vede, la risata non mi piace, la risata fa rumore e a me il rumore disturba. Però non è nemmeno esatto dire che sono triste: sono tranquillo, silenzioso, privo di ansia, come è giusto che sia alla mia età. Quando chiacchiero, ascolto storie divertenti, mi limito a sorridere un po' per educazione, un po' per non assomigliare troppo a Totò. Il personaggio non mi ha preso la mano.
Resto il principe Antonio de Curtis, un distinto gentiluomo. Tra Totò e Antonio de Curtis c'è differenza, eccome! Totò è un villano: quando parla agita le mani, fa gestacci, strizza l'occhio. Ha mai notato come veste? In maniera assolutamente ridicola, devo dire: abiti troppo larghi oppure giacche strettissime, come usavano nei café-chantant dell'altra Napoli, quella col pennacchio sul Vesuvio, che lei non ha visto. Il principe de Curtis è un signore compassato, non troppo loquace, riservatissimo. Il suo sarto ha l'ordine di vestirlo di scuro, disdegnando l'eccentricità della moda, con un taglio classico che lo rende elegante senza essere vistoso. Totò è burino, anche nella scelta delle donne. Gli piacciono formose, cariche di lustrini: va matto per le ballerine d'avanspettacolo. Il principe de Curtis ama invece creature di classe, sofisticate e un po' evanescenti. Totò beve male. Preferisce la birra al vino, e quando sceglie il vino, per carità, non ne parliamo...! La colpa alle volte è anche degli sceneggiatori: però che schifezze manda giù! Il principe de Curtis beve pochissimo, ma le sue scelte sono attente, di gusto: un po' di bordeaux durante i pasti, due dita di champagne alla sera. Un bourbon come aperitivo (sì, mi piacciono le cose forti!) e un cognac spagnolo, Cardinal Mendoza, alla fine del pasto.
Totò non viaggia quasi mai, se naturalmente non consideriamo viaggi piccoli tragitti in corriera o su accelerati asmatici e tremolanti che lo portano dal paese in città. E anche in questi atomi di movimento trova il modo dì meravigliarsi di tutto. Una sola volta è finito in vagone letto, ma non è riuscito a chiudere occhio. Per fare i ricchi bisogna essere allenati, signore mio! Anche se non lo confessa, Totò vorrebbe salire in aeroplano, che gli mette, è vero, una paura d'inferno, ma soddisfa la sua vanità di contadino. Come è lontano dal principe de Curtis! Tutti i mesi il principe va a Parigi. A cosa fare, chiederà? Così, a Parigi, per prendere un caffè, in un certo caffè, e andare a teatro. Va in treno, naturalmente. Il principe non sopporta la velocità. È rimasto all'antica: subisce il fascino dei treni in maniera struggente. Ah, la «Valigia delle Indie». La bella e misteriosa sconosciuta incontrata sull'Orient Express! Cos'è questa mania di fare in fretta. Il principe non si rende conto come in quattro ore si possa andare a New York. Gli fa rabbia che ci vogliano solo quattro ore e non quaranta giorni, come una volta, quando l'America era veramente l'America, un mito, una favola, e non qualcosa a portata di mano che si può raggiungere in un baleno, nel tempo di un pranzo e di un caffè.
Totò ama naturalmente le compagnie numerose, le battute grasse, le risate a gola piena. Nella casa del principe c'è invece un'atmosfera composta, di chiacchiere civili, di risate fra amici. La confusione non è gradita. Chi alza la voce non viene più invitato. Amico mio, sulle corone non scherziamo: sono cose serie, il sangue non è acqua, e il passato, se c'è ed è glorioso, è una preziosa eredità che non si può gettare alle ortiche. Un titolo vale più del denaro. I titoli non si comprano. Li danno i sovrani, e i sovrani sono quegli esseri straordinari che tutti sappiamo.
(Maurizio Chierici, «Oggi», anno XXII, n.2, 13 gennaio 1966)
I titoli non sì comprano, li danno i sovrani. Vi sono due specie dì titoli; quelli nativi, ì quali vengono da famiglie che hanno regnato, e quelli dativi, i quali vengono dati dal re a qualcuno che ha fatto qualcosa. Il mio è nativo, e ce l'ho dal giorno in cui venni al mondo: come mìo padre, mio nonno, mìo bisnonno, mio trisnonno, su su fino al 362 avanti Cristo. Questo mio anello è lo stemma. No, sull'automobile non tengo lo stemma, non diciamo fesserie. Come vede, sullo stemma sono incise la data, 362 avanti Cristo, l'araba fenice che guarda il sole nascente sotto le colonne d'Èrcole, la mezzaluna con tre stelle che sarebbe l'Oriente. Mi hanno detto che ho il volto bizantino. Ricorda quelli di certi mosaici a Ravenna. Vengo da Bisanzio, per forza. Sono Altezza Imperiale, sono principe, e anche molte altre cose: conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, ufficiale della Corona d'Italia, cavaliere della Gran Croce dell'Ordine di Sant'Agata e San Marino, marchese di Terziveri, questo però non lo uso. Dik, il mio cane lupo, era invece barone. Peppe, il mio cane attuale, è visconte. Visconte di Lavandù. Gennaro, il mio pappagallo, è cavaliere. Li ho investiti io. Caligola non fece senatore il suo cavallo? I titoli mi importano e come, non deve credere. Quel tanto che basta a onorare gli avi, la famiglia che ha avuto questa roba. Sarebbe come dire che il pronipote di Marconi non ci tiene a essere pronipote di Marconi. Ci tiene. Ma il mio più bel titolo resta Totò. Con l'Altezza Imperiale io non ci ho fatto nemmeno un uovo al tegamino. Con Totò ci mangio dall'età di vent'anni. Mi spiego?
Totò sono sempre io, ma io sono anche un signore decaduto che per vivere deve fare strane cose: saltare, dipingersi la faccia, indossare buffi costumi. Amo il lavoro come una droga, ma resta sempre un lavoro: dietro queste tende, fra questi cari, vecchi, amati oggetti mi sento felice e quieto, di nuovo un signore. Come posso in simili momenti adorare l’altro me stesso, il burattino?
(Maurizio Chierici, «Oggi», anno XXII, n.2, 13 gennaio 1966)
In tante famiglie c'è chi nasce gobbo, storto, io sono nato comico.
Franca è molto più giovane di me, e io non avrei sopportato i soliti maligni commenti del prossimo. L’attore Totò deve far ridere, ma l’uomo Totò, anzi il principe de Curtis, mai. Il principe de Curtis, lo sappiamo, è una persona seria.
Sono un signore napoletano, abbastanza triste, che sogna di essere Totò.
Qualsiasi vestito mi metta, dentro c'è sempre Totò. Anche l'abito che uso sul palcoscenico deriva, in fondo, dall'autoesame di come vestivo nel periodo corrispondente all'inizio della mia vita teatrale.
Il mio corredo era composto di un solo abito per la scena che andava sempre più logorandosi, senza una sia pur remota possibilità di sostituzione.
Ebbi, da qui, l'idea di creare un «costume» che accentuasse la mia reale situazione vestiaria. Una logora bombetta, un tight troppo largo, una camicia lisa col colletto basso, una stringa di scarpa per cravatta, un paio di pantaloni «a saltafossi», comuni scarpe nere basse, un paio di calze colorate. Così nacque l'abito di Totò.
Totò, il più grande attore del nostro tempo...Del nostro tempo! Queste restrizioni non sono garbate, sinceramente...
Ringrazio quanti hanno parlato bene di me, anche se qualcuno l'ha fatto con ritardo. L'importante è che io abbia avuto la possibilità di sentire anche le lodi con le mie orecchie
Totò non mi piace neanche un po’. Anzitutto non mi piace come uomo: fisicamente. Signorina mia... ma l’ha visto, lei, quant’ è brutto? La faccia, signorina mia... ma l’ha vista? Tutta torta, tutta asimmetrica. La parte di sinistra, passi: è una faccia lunga, una faccia triste. Ma la parte di destra, Gesù! Maria! che roba è? Buffa, dice lei. Senza dignità, dico io. Ah, come odio quella parte destra, quel mento! Dunque: anzitutto Totò non mi piace fisicamente. Poi non mi piace come personaggio... Perché, dice lei. Perché... non lo so: mi sta antipatico. Io quando mi vedo, o meglio quando mi vedevo al cinematografo, il che capitava assai raramente perché ho sempre detestato guardarmi allo specchio o sullo schermo, io mi guardavo e pensavo: Gesù, quanto è antipatico, quello. E poi Totò non mi piace come attore, come recita. Perché?, dice lei. Perché non lo so, perché non mi fa ridere. E badi che i film umoristici a me piacciono, divertono. Mi diverte Alberto Sordi, mi diverte Ugo Tognazzi, mi divertiva Charlot. Ma questo Totò, parola d’onore, non mi diverte per niente.
(«Totò, il principe metafisico», Oriana Fallaci, L'Europeo n.17, 27 aprile 1963)
Tra me come sono nella vita reale e Totò, come appare in palcoscenico, c'è una differenza abissale. Io odio la mia maschera che uso solo per servire il pubblico. Però nello stesso tempo sento che è una parte della mia anima. Non ho mai pensato nemmeno per un attimo di fare a meno di Totò. Mi è antipatico, è vero, ma gli sono anche grato non una ma cento volte. Prima di tutto perchè mi ha dato il successo e poi perchè, pur essendo in antitesi con Antonio de Curtis, mi aiuta a essere veramente me stesso.
La parrucca per un comico è come un cappello e va intonata al personaggio. L'espressione di un attore comincia dalla fronte che è essenziale per caratterizzare una fisionomia: siamo sinceri, quella di un cretino è completamente diversa da quella di un genio.
I film umoristici a me piacciono, divertono. Mi diverte Sordi, mi diverte Tognazzi, mi divertiva Charlot. Ma questo Totò, parola mia d'onore, non mi diverte per niente.
La mia faccia non ha altra tristezza che quella di un mento allungato, di un naso torto e della vita, che non è triste ma nemmeno allegra.
Hanno scritto di me che sono «la più autentica eredità delle atellane e della commedia dell'arte», che sono «un tragico della risçlta», etcetera etcetera. Non.sta a me giudicare. Non ho inventato il taschino dietro la schiena come Rascel, o il ricciolo sulla fronte come Macario. Quei panni che mi cascavano addosso come se fossi stato un manichino e che mi sono serviti come «costume», altro non erano che la continuazione dell'unico abito di scena, sempre più logoro, che portavo nei primi anni di teatro.
Qualche tempo dopo il pugno al viso, apparvero i primi danni. Ammesso che si possa definire danno. Comunque, mi ritrovai con la faccia che ho. A quell'epoca, la chirurgia plastica era quasi sconosciuta, immaginiamoci poi tra gente come la mia, che tanti mezzi materiali che culturali per aggiornarsi sulle novità della scienza non li aveva davvero. Altrimenti, poveracci, mi avrebbero anche sottoposto all'operazione. Non erano come certe famiglie di mia attuale conoscenza nel cinema che, con un figlio enfant prodige e monorchide a cui l'anomalia garantisce un prolungato aspetto infantile, sapendo perfettamente il danno che questa rappresenta, evitano di fargliela correggere dal chirurgo nel timore che un regolare sviluppo blocchi la pioggia di scrittura. No, macchè, erano gente di cuore, se solo avessero saputo, si sarebbero venduti la camicia per restituirmi un volto regolare. Ma grazie al cielo non lo fecero, altrimenti sarei rimasto un povero Dio come loro, e magari non avrei nemmeno potuto essere un de Curtis. E poi, tanto, senza una lira in tasca, che vita avrebbe fatto un principe e Marchese? Si, certo, Totò, nel suo aspetto fisico, è nato allora, mi è minore di 12 anni. No, per carità, non era una maschera. Somigliava a un ragazzino furbo, precoce, smanioso di esperienze, che si guarda distorto nel fondo di un cucchiaio.
Io credo che Totò sia nato là, nel cortile di quel collegio, figlio clandestino di un incidente col precettore.
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
La maschera di Totò, ebbene, io la disprezzo. Mi è utile, certo mi è utile. Ma la maschera è al servizio del pubblico, Totò in effetti è un servitore del pubblico. E questo a me non può far piacere, è ovvio. Però non vuol dire; io a Totò sono affezionato, è parte di me stesso. Non ho mai pensato, neppure minimamente, di sopprimere la mia maschera.
Una volta ho sognato Totò che sognava di essere Antonio de Curtis. Appena sveglio, però, ho dovuto prendere atto con stupore di essere Antonio de Curtis che aveva sognato di essere Totò.
La comicità si avvale spesso di accessori, indispensabili per creare un personaggio. Charlot aveva i baffetti, il bastoncino di bambù e i calzoni sformati. Per me è molto importante la bombetta. Perchè ho scelto questo tipo di cappello? Perchè sotto la bombetta ci poteva stare solo la faccia di Totò. D'altronde non sono io a comandare la mia faccia, ma la mia faccia a comandare me.
Qualche tempo dopo il pugno al viso, apparvero i primi danni. Ammesso che si possa definire danno. Comunque, mi ritrovai con la faccia che ho. A quell'epoca, la chirurgia plastica era quasi sconosciuta, immaginiamoci poi tra gente come la mia, che tanti mezzi materiali che culturali per aggiornarsi sulle novità della scienza non li aveva davvero. Altrimenti, poveracci, mi avrebbero anche sottoposto all'operazione. Non erano come certe famiglie di mia attuale conoscenza nel cinema che, con un figlio enfant prodige e monorchide a cui l'anomalia garantisce un prolungato aspetto infantile, sapendo perfettamente il danno che questa rappresenta, evitano di fargliela correggere dal chirurgo nel timore che un regolare sviluppo blocchi la pioggia di scrittura. No, macchè, erano gente di cuore, se solo avessero saputo, si sarebbero venduti la camicia per restituirmi un volto regolare. Ma grazie al cielo non lo fecero, altrimenti sarei rimasto un povero Dio come loro, e magari non avrei nemmeno potuto essere un de Curtis. E poi, tanto, senza una lira in tasca, che vita avrebbe fatto un principe e Marchese? Si, certo, Totò, nel suo aspetto fisico, è nato allora, mi è minore di 12 anni. No, per carità, non era una maschera. Somigliava a un ragazzino furbo, precoce, smanioso di esperienze, che si guarda distorto nel fondo di un cucchiaio.
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
Prima nacque Antonio de Curtis e solo in un secondo momento vide la luce Totò. Accadde in palcoscenico, nel periodo in cui facevo la commedia dell’arte per guadagnarmi, stentatamente, da vivere. Avevo una vecchia bombetta polverosa e una sera, preso dall’ispirazione, me la misi in testa. Ebbene, la gente incominciò a sganasciarsi dalle risate. Quel villano che era in scena, sguaiato, pronto a strizzare l’occhio e a muoversi come un burattino piaceva al pubblico. Lo chiamai Totò, il diminutivo di Antonio, che a Napoli è Totonno.
E che c'entra Totò tra queste mura? Mica siamo in un camerino, no? Totò è il frutto del mio lavoro di specializzato. C'è chi diventa chirurgo, manovale, amministratore delegato. E mica si appendono in casa loro le scartoffie di una diagnosi o di un contratto e le fotografie che li ritraggono all'opera... Io, guarda caso, sono diventato attore, e qui abito come Antonio de Curtis, privato cittadino, che poi esce e va a faticare, e al posto di una tuta, un camice o di un doppiopetto grigio, indossa la sguaiataggine di Totò.
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
Io non amo Totò, come Totò uomo gli voglio bene... ma Totò non mi piace. Sembra una sciocchezza, eppure è la verità. Sarà per modestia, non falsa modestia, perchè non è il caso... io sono proprio modesto.
Tra Totò e Antonio de Curtis c'è differenza, eccome! Totò è un villano: quando parla agita le mani, fa gestacci, strizza l'occhio. Ha mai notato come veste? In maniera assolutamente ridicola, devo dire: abiti troppo larghi, oppure giacche strettissime, come usavano nei cafés chantants dell'altra Napoli, quella col pennacchio sul Vesuvio, che lei non ha visto. Il Principe de Curtis è un signore compassato, non troppo loquace, riservatissimo. Il suo sarto ha l'ordine di vestirlo di scuro, disdegnando l'eccentricità della moda, come un taglio classico che lo rende elegante senza essere vistoso. Totò è burino, anche nella scelta delle donne. Gli piacciono formose, cariche di lustrini: va matto per le ballerine d'avanspettacolo. Il Principe de Curtis ama invece creature di classe sofisticata e un po' evanescenti. Totò beve male, preferisce la birra al vino, per carità, non ne parliamo!...
E poi chi se ne importa se immaginano che li diverta e invece si scocciano perchè non incontrano Totò. Dopotutto io sono io, con tutti i difettacci miei e il cervello che mi ha dato il Padreterno. Mica ci vado perché mi pagano per fare il buffone. E allora ho il diritto di essere me stesso!
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
Un personaggio aggressivo, bugiardo, cocciuto e ipocrita: questo è Totò. Ecco in che cosa consiste la sua comicità da trent'anni. Quando recito ho una mia forma di civetteria, sono perfido e insinuante come una mosca cavallina. Molte volte il mio partner non ne può più di avermi accanto, non vede l'ora che la scena finisca per andarsi a riposare. Ma io continuo a non dargli pace: gli sto addosso, lo circondo da ogni lato, lo tocco e lo ritocco. [...] Nella scena del wagon-lit Castellani finiva per arrabbiarsi sul serio. Qualche sera avevo l'impressione che stesse per picchiarmi. Angariavo in ogni modo il povero Castellani, gli impedivo di dormire, gli gettavo la valigia dalla finestra, gli ripetevo una dopo l'altra le mie solite frasi di disturbo: "Sono un uomo di mondo; lei non sa chi sono io; quando c'è la salute; tampoco; a prescindere; enziandìo; comunque; appunto, dico... La stessa cosa poi è capitata con Peppino De Fiilippo nella Banda degli onesti. Giunsi fino a chiudergli la mano sinistra in una porta. Era furibondo..."
(Riflessione di Totò raccolta da Nello Ajello, dal libro "Totò", di Goffredo Fofi, Ed. La nuova sinistra - Samonà e Savelli, 1972)
In un salotto dove era ospite, una signora, rivolgendosi a lui, disse: «Quant'è diverso da come è in scena. Qui mette quasi soggezione» - ed egli - «Signora, quello che avrà visto in scena era Totò. Io sono il Principe de Curtis»
Avrei preferito lavorare al tempo del cinema muto perché tutto quello che ho da dire mi vien detto meglio con la faccia che con la parola. A questa faccia ne hanno attribuite di tutti i colori. Una volta hanno scritto perfino che c'è dietro «il tragico quotidiano dell'alienazione». Guardatemi bene: voi ce lo vedete? Io, no. La mia faccia non ha altra tristezza che quella di un mento allungato, di un naso storto, e della vita, che non è triste, ma nemmeno allegra. È quello che è: un miscuglio di tristezza e di allegria, cioè un grottesco. Ma io sono contento di starci, nella vita, e me la difendo come posso, cercando di soffrire solo dalla gola in su e mai dalla gola in giù, per non affaticare le coronarie. Io le difendo, le mie coronarie, e voglio guadagnarmene la gratitudine. Ogni sera, prima di andare a letto, le interrogo: «Siete contente, coronarie di Totò? Vi tratta o non vi tratta con tutti i riguardi?»
(Riflessione di Totò raccolta da Indro Montanelli, dal libro "Totò", di Goffredo Fofi, Ed. La nuova sinistra - Samonà e Savelli, 1972)