Detti & Contraddetti: chi è il principe Antonio de Curtis?
Chi è Totò?
Caratteristiche fisiche e psicologiche
Ha una fisionomia incredibile se non fosse vera. Occhi folli e maligni, ma anche "disillusi” e animalescamente inteneriti, la linea della bocca distorta in una smorfia umiliata o ghignante, che segue l’assurda e mobilissima sporgenza della bazza, sua inconfondibile sigla. Il collo è snodabile e allungabile, le articolazioni interamente slogate in meccanismi dinamici assurdi, ma che si indovinano derivati da forzate dormite in luoghi duri e scomodissimi, come panchine e angoli di strada. Le mani vorticano in continuazione in offensive palpate, in osceni sberleffi, in inarrestabili mulinelli che suppliscono eloquentemente al suo farfugliato e improvvisato modo di esprimersi, fra dialettale e analfabetico. Il suo abbigliamento è costituito da pezzi composti, raccolti da stracciaroli e burattinai: ma a suo modo tiene al decoro dell’abito, anche se questo non riesce a ricoprirlo interamente, lasciandogli scoperte le caviglie impazzite, abituate a lunghe passeggiate e fughe precipitose. Lussurioso e affamato, non ha quasi mai potuto permettersi pasti consistenti e puttane, arrangiandosi così alla meglio, e scatenandosi quando riesce a conquistarsi un piatto di spaghetti fumanti o una serva prosperosa ("cosa serve la serva se non serve?”). Totalmente amorale, apolitico (perfettamente manovrabile dalla Destra nazionale ma anche da gruppuscoli subproletaristici, in nessun caso dai partiti "democratici”, per il suo inveterato antiparlamentarismo).
Condizione sociale e cultura
Sottoproletario, anzi, più precisamente, preproletario. Figlio di NN (il suo unico palpito di solidarietà di classe lo prova quando trova un altro illegittimo, specie se di sesso femminile). Ha provato forse orfanotrofi, carovane di girovaghi, ospizi fetidi, concependo un odio feroce per i "benefattori" spesso mascherato da esageratissimo ossequio. Non legge, non vede la televisione: conosce qualche film, perché si è infilato di straforo in localetti di periferia, magari facendosi assumere come gelataio, per poter schiacciare un pisolino in pace. Ma si incanta di fronte alle canzonette napoletane, piange alle storie d'appendice, ha riso moltissimo a qualche film di Orson Welles. Parla napoletano, impastandolo con le parole e le frasi che gli paiono più rilevanti “quisquiglie”, “pinzillac-chere”, "a prescindere”, "parli come bada!” pronunciate da persone ragguardevoli (grandi aristocratici feudali, verso i quali nutre un’ammirazione incantata, attori del piccolo varietà, caporali, avvocaticchi imbroglioni, onorevoli, gagà di passaggio per Capri, burocrati sottogovernativi): particolarmente disinvolti i suoi congiuntivi, preziosissime le q. Usa doppi sensi pesantissimi, spesso evocanti il membro virile. Le sue esperienze estetiche sono il teatro all’aperto dei burattini, Pulcinella, i pupi, le bande di strada e i pazzarielli. Ama forsennatamente i fuochi artificiali. Ha una fede religiosa più animistica e superstiziosa che cattolicamente ortodossa. Vive in abitazioni fatiscenti, in baracche, o nelle case degli altri dove si intrufola volentieri con i pretesti più fantasiosi. Non ha frequentato scuole continuativamente, la sua scuola è l’arte della sopravvivenza. Conosce Napoli, i suoi dintorni, essendosi spinto fino a Capri in cerca di gonzi, Cuneo, dove ha fatto il militare (quasi sempre consegnato, di ramazza). L’idea della morte gli è familiare, ci scherza, diabolicamente macabro, come sulla fame atavica.
Osservazioni
La figura di Totò nella storia del costume italiano è ormai ben definita, fino al libretto curato dal Fofi, che fa piazza pulita di alcuni luoghi comuni "neorealistici” e di malintesa difesa di privilegi estetici crociano-razzistici. La sua carica eversiva, la sua genialità interpretativa, la sua natura fantastica e burattinesca sono ormai dati di fatto incontrovertibili. Ma qui - senza inutili ripetizioni - varrà la pena di insistere sul Totò attore di rivista: si raccomanda allora un suo confronto con gli altri "grandi" comici del genere per notare il distacco da questi, tutti di estrazione e ispirazione piccolo borghese. Totò si inseriva nella rivista all’italiana, come elemento di disturbo, recuperato al massimo, e pericolosamente, nel rientro della fine degli anni cinquanta, come puro pittoresco. Si capisce come - istintivamente magari - Totò preferisse fare cinema, e il cinema plebeo e “volgare”, attraverso cui poteva trovare, sia pure indirettamente un pubblico complice e disteso, non curioso e “solo” divertito. Ma non si è ribadito abbastanza, e va sostenuto con forza, che il vero Totò, anche cinematografico, è quello della rivista (la rivista galdieriana, pre-garineigiovan-ninica), grazie alla libertà totale che la struttura aperta dello spettacolo di rivista lasciava a Totò, alla possibilità di scatenargli l’estro più aggressivo e oscenamente liberatorio (leggendarie le sue arrampicate sul sipario, i suoi gesti immensamente postribolari, le sue scorregge al pubblico delle prime file). “Ma la platea era con lui - scrive Vittorio Viviani - e diventava frenetica quando Totò, al finale, si metteva a fare il pupazzo, attraversava e riattraversava il palcoscenico al ritmo della fanfara dei bersaglieri, bersagliere e fanfara lui stesso, dirigeva l’orchestra con strepitosa furia o svagato puntiglio, e intimava la chiusura del sipario dopo aver imitato con gli occhi, con le mani, con tutto il corpo l’esplodere di fuochi pirotecnici in un oscuro cielo immaginario." La forza fisica dell’attore era un dato in più, essenziale e del tutto liberato (o quasi, mentre nei film la necessità di una storia, di un personaggio da far evolvere limitava di molto la carica d’urto). Anche l’accostamento di Totò al quadro “lussuoso” della rivista sortiva un effetto di contrasto prezioso. “In mezzo a tante donne belle Totò sembrava, con indosso la sua redingote color vecchio ombrello, veramente il pantin, il burattino" - annota in una sua recensione Orio Vergani - sottolineando proprio questo elemento di contrasto iperbolico su cui era costruito genialmente, anche suo malgrado, il Totò della rivista.
La verità è che, secondo me, un attore deve separare nettamente la. sua vita personale da quella artistica. Il pubblico vedendoci sul palcoscenico e sullo schermo, si fa di noi un'immagine che non ha nulla a che vedere con quella privata. L'uno, e l'altra non devono essere confuse.
(«Stampa Sera», 23-24 febbraio 1962)
La servitù va a dormire alle 11. Franca, mia moglie, resta con me fino alle 2: mi parla, mi legge i giornali perché come lei sa io son mezzo cieco... Poi anche lei va a dormire e io resto solo. Giro per la casa, sto seduto, penso, io penso molto, mi affaccio alla finestra, vado in cucina a controllare che il gas sia chiuso, che le valvole della luce elettrica siano a posto, spengo le cicche perché ho sempre paura dell’incendio, vuoto i portacenere perché non sopporto l’odore delle cicche... E poi, siccome ho una radio che prende tutte le stazioni e in più la radio marina, mi metto lì e mi sento tutti i discorsi che si fanno le navi, i telegrammi dei pescherecci, «Partito da Gibilterra, caricato 6 quintali di banane», e ci trovo l’ alba. Ridicolo, eh? Una scena da uomo ridicolo.
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Oriana Fallaci, L'Europeo n.17, 27 aprile 1963)
Niente paura: non sono diventato cieco. Ho avuto, è vero, una ricaduta del male che mi aveva già colpito una volta, e la mia vista si è indebolita al punto che oggi riesco a distinguere poco più che delle ombre. E una situazione estremamente sgradevole, e occorre molta pazienza per sopportarla. Ma fortunatamente si tratta di una cosa passeggera: fra un mese o due le mie condizioni miglioreranno.
(Intervista, Io sono sempre Totò e tornerò presto a farvi ridere, “Oggi”, n. 32, 6 agosto 1959)
Non si può ridere della storia. Ecco il mio stemma. Risale al 362 avanti Cristo: c’è l’araba fenice che guarda il sole nascente sotto le colonne d’Ercole; questa è la mezzaluna con tre stelle che rappresenta l’Oriente. Ho fatto una fatica a farmi riconoscere unico discendente di questa favolosa stirpe...
(Maurizio Chierici, «Oggi», anno XXII, n.2, 13 gennaio 1966)
La causa civile contro Marziano II di Lavarello
Io non ci tengo a queste cose. Io non vado in giro a dire che sono di origine imperiale, che sono l’erede e il successore vivente delle varie dinastie bizantine, dall’Imperatore Costantino il Grande in poi, e che ho diritto al titolo di principe e di Altezza Imperiale. Ma "lui" mi ha ‘sfrocoliato’ e io mi sono rivolto alla magistratura.
(Gli “esposti”contro Totò archiviati dalla magistratura, “Corriere della Sera”, 20 settembre 1951)
Non amo la confusione, quando non lavoro scrivo qualche poesia. Una raccolta è già stata pubblicata; oppure compongo qualche canzonetta, non di quelle che "vanno” oggi: io sono abbarbicato al bel canto.
(Intervista di Maurizio Liverani, «Tempo», anno XXVII, n.39, 29 settembre 1965)
Macché "altezza": non diciamo fesserie. Io sono uno che lavora e tanto, sa. Se sono felice? Lo ero, e un po’ lo sono ancora. Ho una moglie adorabile. Trentadue anni meno di me, eppure riusciamo ad andare d'accordo come ragazzini. In principio ero preoccupato. Sono un animale notturno: dormo di giorno e sto alzato di notte. Mi piace passeggiare nelle strade vuote, fermarmi a parlare coi vagabondi, raccogliere i cani sperduti. Ne ho trecento in un recinto fuori città. Si sarebbe abituata a questa strana vita domestica, lontana dai locali alla moda, dalle compagnie che danno prestigio? Si è abituata. Alla sera stiamo in casa. il più delle volte da soli. Le detto poesie, oppure suono il pianoforte. Franca mi legge libri e giornali. Cosa vuole, non sono tanto colto. Da giovane non ho potuto studiare perché ero povero, poi perché dovevo lavorare ed ora che un po’ di spazio vuoto ce l’ho, non ci vedo quasi più. Non lo scriva, però, questo: alla gente non farà piacere sapere che sono un po’ ignorante. Vede, quella parte d’infelicità che accompagna la mia vita, la devo proprio agli occhi. La mia vista è stata rovinata dal flash di un fotografo: si stanca subito e le persone diventano ombre. Solo quando recito riesco a muovermi con scioltezza: gliel’ho detto prima, il lavoro è la mia droga.
(Maurizio Chierici, «Oggi», anno XXII, n.2, 13 gennaio 1966)
Dovevo fare l'ufficiale di marina ma la disciplina a me non m’andava, perché io sono indisciplinato. Sono scappato di casa. Amoreggiavo con una ballerina, una canzonettista dell’epoca, e andai in teatro.
(Totò intervistato da Luigi Silori nella trasmissione Rai "L’approdo", 1965.)
In questo, io sono come Zacconi. Ho il suo stesso vezzo. Credo che mi si possa perdonare. Gli anni sono quelli che sono, amen. Zacconi, sulla spiaggia di Viareggio, una volta che gli domandai l'età, mi rispose che aveva ottantadue anni. Invece ne aveva ottantaquattro. Se ne calava due, pensi un po’.
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Silvio Bertoldi, Oggi n.48, 1 dicembre 1966)
A proposito di commozione, io non sono un sentimentale. I miei simili mi interessano per quanto essi non appaiono. Una bolla di sapone diventata di vetro — e io ci metto dentro un pesciolino rosso preso nel vuoto — mi commuove veramente. A ogni modo ho la coscienza tranquilla, poiché anche le bolle di sapone sono creature di Dio.
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Cesare Zavattini, Scenario n.9, settembre 1940)
Nato a Napoli in via Santa Maria Antesaecula, avevo trascorso la mia adolescenza più sulle strade del popolare rione Sanità che sui banchi di scuola. Come abbia fatto a prendere la licenza elementare e ad iscrivermi al ginnasio, soltanto mia madre potrebbe dirlo. Scelsero il collegio Cimino, nel palazzo dei principi di Santobuono, ma io per la scuola non ero tagliato proprio. Le mie avventure di ginnasiale finirono assai presto, e ingloriosamente.
(Totò: ho il complesso dei fratelli siamesi, “La Settimana Incom”, n. 38, 22 settembre 1960.)
Soltanto allora ebbi i quattrini per ristabilire la verità sulla mia condizione. Bisognava affrontare spese, compiere ricerche. Occorrevano soldi e finalmente li avevo. Tutta la documentazione era sempre stata a casa mia, nei cassetti di mio padre. Solo che, prima, mi occupavo di problemi più urgenti, il pane e il companatico. Adesso, era venuto il momento. [...] Apra a pagina 204. Ha aperto? Mi scusi se non lo faccio io, ci vedo poco ormai. Anzi, perché le luci sono così basse? Non si può accendere di più? (Ma le luci sono tutte accese, nessuno ha il coraggio di dirglielo). Ha trovato la pagina? Ecco, guardi il mio nome, il mio casato, legga.
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Silvio Bertoldi, Oggi n.48, 1 dicembre 1966)
Io sono un uomo d’ordine e amo i partiti dell’ordine. Indovinate voi per chi voterò?
Però, a pensarci, una preferenza ce l'ho. I fagioli. Sarà volgare finché vuole, ma i fagioli sono i fagioli...
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Silvio Bertoldi, Oggi n.48, 1 dicembre 1966)
Religioso?! Religiosissimo! Vado a messa, mi comunico, e ci credo. Pensi che volevo fare il prete, da giovane... Ho studiato, da prete. E le dico di più: se i frati potessero avere le donne, mi farei subito frate, e sarei un ottimo frate. Non bevo, non bestemmio, non sono geloso, i dolci non li mangio mai, non conosco le carte... Infatti abbandonai l’idea di diventar prete proprio quando scappai con una canzonettista, a vent’anni. Ma che ci vuol fare: io, quell’affare della castità, non lo capisco. Lo trovo così disumano, innaturale. Il cielo, tuttavia, guai a chi me lo tocca.
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Oriana Fallaci, L'Europeo n.17, 27 aprile 1963)
(Dopo la visita del giovane Ninetto Davoli a casa, in occasione del film "Uccellacci e uccellini")
Porca miseria, i jeans zozzi mi fanno schifo. Mica dico che uno debba mettersi in frac ma almeno, se proprio l’esterofilia gli impone di portarli, che siano di bucato! Io, ai miei esordi, in giro con un regista e in visita a un attore non ci sarei andato cosi. Stracciato si, perché non potevo permettermi di meglio, però pulito e decoroso. Mannaggia, quando di corredo avevo solo due camicie, andavano e venivano dalla lavandaia, in orario come treni su un binario.
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
(Dopo la malattia agli occhi, per scorgerti a malapena in viso, doveva dirigerti lo sguardo sulla cintola)
Beh, sempre meglio che niente è. Eppoi sai che ti dico? Evito di amareggiarmi con tanti brutti spettacoli; la mia faccia che invecchia nello specchio, le schifezze sui giornali. Posso immaginare il mondo a modo mio. Ecco, mi mancano i colori del Creato e degli occhi tuoi perché quel poco che intravedo è come dietro un vetro appannato. Pazienza! Comunque, per ampiezza di raggio visivo, mi paragonarono a Gennaro il pappagallo che, senza girare gli occhi, vede anche dietro. Almeno, se dovessi ridurmi un cieco col piattino, la carità di sguincio, posso contarmela da solo.
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
(I regali: dare gli piaceva più che ricevere)
Prima di tutto c’è il gusto della sorpresa, e comunque, chi ha decretato che un dono va fatto in una determinata circostanza? La sola idea di pensarlo come un obbligo, con la persona che si aspetta di riceverlo perché è la ricorrenza X o la festività Y, già mi tocca i nervi... Oltretutto, se a me fa piacere di farti fare Natale, che so, il 7 luglio o il 9 settembre, vuoi proibirmelo? Eppoi, le feste o gli anniversari sono tristi, vuoi perché ti rammentano quelli che non ci sono più, vuoi perché invecchi e devi fingere di non badarci affogando la malinconia tra i brindisi e gli auguri!
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
(Lugano. Scendeva di macchina, un gruppo di italiani lo avevano riconosciuto. Orgoglioso, ribattè subito che non voleva essere aiutato, sarebbe andato solo ad acquistare quanto gli occorreva. E si avviò disinvolto come se ci vedesse. Ma non ci vedeva e, inciampando sullo scalino del marciapiede, cadde. Un incidente da nulla. Si rialzò subito, tornò in macchina e ordinò di mettere in moto.)
Che vergogna! Adesso avranno ragione di dire che sono un povero cieco. E io non voglio ridurmi un essere che suscita pietà!
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
Qualcuno ha scritto che io sono un’ameba. Giusto se si pensa che il fluttuare della forma sia il desiderio di essere sempre diverso. Vista l’impossibilità di identificarsi stabilmente subentra l’ansiosa ricerca della cosa o dell’essere che più ci somiglia. O una marionetta o un uccello. Mettete un po’ insieme queste due metamorfosi!
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Cesare Zavattini, Scenario n.9, settembre 1940)
Leggo poco. Ma ho sempre il rimorso di leggere poco. Spero che equivalga all’avere letto un poco di più.
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Cesare Zavattini, Scenario n.9, settembre 1940)
Io le giuro sulla tomba di mia madre, l’ unica cosa cara che ho al mondo, che sono sincero: non recito. Sto per confessarmi, anzi, come non ho mai fatto con nessuno. Io sono un misantropo, un timido, pensi che quando entro in un ristorante abbasso gli occhi perché mi vergogno che la gente mi guardi, e non ho mai amato rivelare chi sono. Stavolta ci provo, però deve credermi: sennò tanto vale andarci a bere un caffè. Signorina, io recito solo nei miei brutti film.
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Oriana Fallaci, L'Europeo n.17, 27 aprile 1963)
(Leggendo i suoi quotidiani, di tendenze contrarie)
...almeno cosi c'è il caso che, tra le pezze a colori con cui ciascuno vuole confonderti in versione diversa, mi facciano un po' meno fesso. È come quando chiami dei medici a consulto per un malato grave. Ognuno deve sproloquiarci sopra alla maniera sua giusto per dare la zappa sui piedi ai colleghi, e chi se ne frega se intanto, tra una dissertazione e l’altra, il paziente magari muore.
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
Ad accrescere l’allegria di quel periodo mi feci anche una nomea che contribuì parecchio ad urtarmi il già teso sistema nervoso. Il sottobosco artistico, allora come oggi, viveva di inciuci. Gli attori disoccupati, e io con loro, si riunivano attorno a un tavolino di caffè e, ordinando una unica consumazione, trascorrevano la giornata sana a sbranare i colleghi momentaneamente assenti.
Un giorno, seduto assieme agli altri, avevo adocchiato una ragazza nuova dell’ambiente. Aveva occhi scuri e bistrati, capelli lisci annodati sulla nuca, e vestiva in modo eccentrico. Qualcuno, nel presentarla come una vedettina calabrese che si faceva passare per indiana ed eseguiva un numero esotico, aggiunse sottovoce che era un pizzico cocotte. Attaccammo a chiacchierare, feci un po’ il nacchenella, finimmo nella pensione dove alloggiava, in camera sua. C’erano veli accatastati su una sedia, ceste, valigie e bastoncini fumosi di incenso. Già pregustavo le Mille e una notte. Discinta, nella penombra, mi pareva di tenere tra le braccia Mata Hari. Le chiome le si erano sciolte sulle spalle, l’approccio era più che avviato, quando ad un tratto si levò di scatto e disse, "Un momento, debbo prima nutrire Bimbo." "Ma che sei madre?," domandai io. Non rispose. Sorrise misteriosamente, si accostò a una cesta, ne sollevò il coperchio e, sotto il mio sguardo orripilato, cavò fuori un pitone grasso e lungo che subito le si attorcigliò attorno al collo. "Bimbo è il mio partner nel numero orientale," annunciò per tutta spiegazione, facendosi sfiorare le labbra dalla sua lingua biforcuta. Per un attimo lo schifo mi paralizzò nel letto, poi zompai su come se mi avesse bruciato un tizzone ardente e, senza concludere nulla e nemmeno augurarle buonasera, imboccai la porta e terminai di vestirmi in corridoio.
Naturalmente la calabroindiana, nel dubbio che la presenza di Bimbo nella stanza sua si risapesse in giro e le rovinasse la piazza maschile, pensò bene di mettere le mani avanti e cosi, adottando una tattica comune a molta gente di ambo i sessi che va in bianco, sparse la voce di una pseudoimpotenza che mi aveva spinto a darmela a gambe per evitare una brutta figura. Dio sa le ironiche spese che ne feci io! Per giorni e giorni gli amici mi diedero la morte. Si avvicinavano con aria preoccupata, mi battevano una pacca sulla spalle e sussurravano, "Neh, Totò, ma ti sei fatto visitare da un medico? Mica è normale all’età tua! Su, su, e non fare quella faccia, ci sono dei rimedi, puoi guarire..." E giù a ridacchiare.
Insomma, vuoi per quella diceria fessa, vuoi per l’inedia del tempo gettato via mentre smaniavo dalla voglia di fare, se le cose non fossero cambiate alla svelta mi sarei rimediato un autentico esaurimento nervoso. Ma a mali estremi estremi rimedi e fu cosi che mi decisi a spedire a farsi fottere il teatro dialettale e a prendere il toro per le corna. Tanto, che guaio ulteriore poteva capitarmi? Come massimo avrei ottenuto una ennesima risposta negativa.
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
«Ma come? Hai fatto barone il tuo cane e cavaliere il tuo pappagallo?» mi disse un giorno Lucy D'Albert, la più «completa» tra le soubrette che hanno lavorato al mio fianco. «E con questo?» le risposi. «A prescindere dal fatto che Caligola fece senatore il suo cavallo, si tratta di cariche onorifiche che hanno valore soltanto entro il perimetro della mia abitazione. E poi, credimi, sia l'uno che l'altro se lo maritavano proprio.»
(Non ballava, diceva che non sapeva ballare e si sarebbe sentito ridicolo)
...a passeggiare in su, in giù e in tondo come se tra le braccia, invece di una donna, tenessi un manichino. E poi, guarda là, a sculettare in quel modo mi sembrano tutti ruffiani un po’ recchioni che ostentano una puttana!
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
A un dato momento, era come se tutti fossero sempre stati amici cari, mi avessero tenuto come la luce degli occhi loro. Antonio qui, Totò là, grandi abbracci e, prima di chiedere qualcosa, il solito ritornello, "Ti ricordi quando noi due..." E io magari non me ne ricordavo affatto, non potevo ricordarmene, perché spesso si e no che li conoscevo e quella volta non era mai esistita. Mah! L’unico vantaggio della miseria è che ti fa capire chi davvero ti vuole bene!
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
Beh, come uomo cerco di essere buono. Lo dico da me, ma è così, anche la vita che faccio lo dice. Non esco, sono casa e lavoro, lavoro e casa. Un po' come un frate in borghese.
Alla vigilia della partenza, il Colonnello ci radunò per un discorso stringato durante il quale, sottolineando la disciplina ferrea a cui avremmo dovuto attenerci, lasciò intravedere l’opportunità di certe cautele da adottare nel fraternizzamento con i marocchini perché questi, ed era cosa risaputa, non si differenziavano da noi solo per il turbante, avevano anche gusti e tendenze un po’ particolari. Quindi paternamente suggeriva di portarci sempre appresso un coltello, a scanso di imbarazzanti equivoci. La prospettiva della Francia già mi suonava poco, cominciai ad arzigogolare sulla particolarità di questi gusti e tendenze, mi acchiappò una paura blu, non chiusi occhio tutta notte. Cosi, il giorno dopo, quando la tradotta si fermò alla stazione di Alessandria, mi feci prendere da un attacco epilettico. Schiumavo dalla bocca, mi dibattevo, roteavo gli occhi. Simulai talmente bene che venni ricoverato d’urgenza all’ospedale militare dove rimasi a lungo in osservazione. E che ero scemo io? Transeat per morto, ma mica volevo finire marocchinato.
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
Quand’ero soldato, nella prima guerra mondiale, mandarono il mio reggimento sul fronte francese e ci dettero a tutti un coltello. In treno chiesi al sergente: «Sergente, permette, a che serve u’ curtiello?». E lui: «Ai marocchini, soldato. Devi sempre portarlo con te perché là ci stanno i marocchini i quali fanno certi servizi». Gesù! Mi prese tanta paura che mi sentii male. Aspirai lo zolfo di tutti i fiammiferi del reggimento e mi sentii male. Così svenni e mi feci ricoverare in ospedale. Signorina mia... io la penso così. Forse son rimasto all’antica, ma la penso così.
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Oriana Fallaci, L'Europeo n.17, 27 aprile 1963)
Ognuno ha la sua croce. Anch'io ho qualche croce. Le tengo nascoste e la gente non lo sa... La felicità non esiste, in nessun modo. Nessuno è felicissimo. Il pubblico vede l'attore superficialmente. Non sa cosa sta dentro all'attore.
Adopero spesso le parole surreale e metafisico. Qualche amico mi ha messo in guardia, sono un po’ troppo adoperate e vaghe. Io non arrossisco nel dirle, per me vogliono dire fantastico come lo avrei detto a dieci anni. Credo che i cartoni animati siano surreali e metafìsici nel mio senso un po' ingenuo: per questo vorrei essere come Maximum, il protagonista di un cartone animato. Anche perché vorrei parlare pochissimo. Ridere, esclamare; io rido in due modi, e proprio da cartone animato. Questa mia preferenza dovrebbe far capire l’urgenza di una regia che doni al palcoscenico dimensioni sbalorditive.
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Cesare Zavattini, Scenario n.9, settembre 1940)
A proposito di commozione, io non sono un sentimentale. I miei simili mi interessano per quanto essi non appaiono. Una bolla di sapone diventata di vetro - e io ci metto dentro un pesciolino rosso preso nel vuoto - mi commuove veramente. Ad ogni modo ho la coscienza tranquilla, poiché anche le bolle di sapone sono creature di Dio. Il 1940 è un anno capitale per la mia vita artistica: ho cominciato a capire di essere pigro. Sono le prime occasioni che cerco di descrivermi. Una volta dicevo: io beffo la vita, Definizione barocca e adatta a troppa gente. Ora mi sono accorto che io amo la vita: il desiderio di comunicare con tutte le cose. Sarò meno pigro nel concepire lo spettacolo: che è la vita fermata con la fatica nei momenti a noi congeniali.
La mia faccia per prima cosa è il mento, poi è il naso, poi io.
Il mio autista è napoletano, comunista, monarchico e devoto a San Gennaro.
Umberto sarebbe stato un grande re, il più grande. Ha pagato le colpe di suo padre. Lui avrebbe fatto benissimo, fu un gran signore, un uomo di mondo. [...] Io, a Umberto, questo avrei voluto dirgli: "Maestà, quest’inchiostro, invece di usarlo per le dediche, lo tenga per firmare le cambiali"
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Silvio Bertoldi, Oggi n.48, 1 dicembre 1966)
Ma via! Le pare giusto andare da Roma a Napoli in un’ora e mezzo? Pensi che bellezza quando ci si metteva ben sette ore, una notte intera col vagone letto! La luna, la luna! Signorina mia, in quella gente io non vedo nemmeno il coraggio. Ad andar sulla luna con l’aeroplano, quale coraggio mi ci vuole? Forse posso difendermi dall’ aeroplano? Farci a cazzotti? Sarebbe come dire che mi difendo dal 13, dal 17, dal gatto nero, dalla coppia di monache, dalla gobba, dalla civetta, dal sale che cade, dall’olio che si versa, dallo specchio che si rompe, dal viola... Non so se ha capito che son superstizioso.
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Oriana Fallaci, L'Europeo n.17, 27 aprile 1963)
Bisogna aiutare gli animali, difenderli dagli uomini che sono tanto cattivi. Quando non c'è una guerra o una rivoluzione, per sfogare gli istinti più bassi se la prendono con le bestie. Io invece non sono capace nemmeno di ammazzare una mosca o una zanzara, anche se mi infastidiscono. La vita è sacra e nessuno ha il diritto di privarne un altro a suo capriccio.
Per me la televisione non esiste, è una diavoleria, come l'aereo: non mi fido.
Perché poi la televisione? Perché mi sono arreso a un genere di spettacolo che ho sempre guardato con sospetto e che mi ha visto sempre di passaggio? Ogni volta dicevo di no perché quel rettangolino luminoso che ci fa entrare nelle case di tutti è un coltello a doppio taglio: può dare, quando va bene, un'immediata popolarità, ma può anche tagliare le gambe. E a me, scusatemi, chi me lo fa fare di correre questo rischio? Avessi ancora venti o trent’anni, e dovessi cercarmi un mio pubblico sarebbe un’altra cosa.
(Totò, "La Settimana Incom Illustrata", a.XIX, n. 18, 1 maggio 1966)
Io mi ricordo quando giovinotto non conoscevo ancora 'a mille lire. Quando io ho cominciato a lavorare la nobiltà era finita da un pezzo e in famiglia erano finiti pure i soldi, non c'erano vestiti. I miei volevano che andassi in Marina, io invece cominciai a frequentare il teatro. Eravamo una chiorma di amici, cioè un gruppo compatto, tutti principianti pieni di speranze, tutti uomini che poi si sono piazzati, io, Eduardo e Peppino De Filippo, Armando Fragna e Cesarino Bixio, l'autore di Come piange Pierrot, che allora faceva i testi delle canzoni cantate dalla Mignonette. Facevamo le «recite staccate» nei teatrini di Aversa, Torre del Greco, Castellammare. La «recita staccata» era una specie di week-end teatrale, due rappresentazioni, sabato e domenica: chi faceva la prosa, chi il varietà, chi suonava in orchestra. Eravamo una chiorma...
(Riflessione di Totò raccolta da Nello Ajello, dal libro "Totò", di Goffredo Fofi, Ed. La nuova sinistra - Samonà e Savelli, 1972)
Mi innamorai di una canzonettista, sa quelle cose da giovanotto, e scappai di casa appresso a questa e mi buttai nel teatro anch'io. La famiglia... peste e vituperio! Mia madre no, però... poi, piano piano...
Io penso sempre, sono un pensatore, penso il giorno, la notte, sempre, e penso che in fondo non siamo nessuno.
Quando io ero ragazzo mica c’erano i divertimenti di oggi. La gioventù faceva quattro salti per carnevale o si riuniva per le periodiche, e sempre con la partecipazione al gran completo della famiglia. Ecco, le nostre riunioni si chiamavano cosi, periodiche. C’erano genitori, nonni, zie, bambini, ragazze da marito, giovanotti, seduti a ginocchia unite o stivaletti incrociati sulle sedie disposte a semicerchio attorno al pianoforte a centellinare con il mignolo scostato un bicchierino di rosolio e a vuotare la guantiera colma di sfogliatelle. Poi, chi voleva, sorgeva in piedi, accennava un inchino e si esibiva. Zi’ ’Ngiulina aveva la mania di cantare. Nessuno glielo chiedeva mai, anzi ne paventavamo la scocciatura, ma lei imperterrita si raschiava la gola, abbozzava un sorriso bofonchiando che proprio oggi era giù di voce, quindi attaccava, una mano sul cuore, l’occhio ispirato, e non la smetteva più di trapanarti i timpani... Al termine del pezzo tutti educatamente la applaudivano, e cosi si credeva davvero non so quale cantante lirica mancata. Io imitavo De Marco, e gli amici ridevano, dicevano che parevo proprio lui. No, non avevamo tante fisime, ci divertivamo con poco!
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
A volte fingo di ignorare l'imbroglio di cui sono vittima, per quieto vivere, per carità cristiana, oppure per disgusto. E così i ruoli s'invertono e il furbo divento io. Si può dire che faccio il fesso per non essere fatto fesso. Ma il vero fesso è chi crede di avermi fatto fesso.
Sono un plebeo aristocratico o un aristocratico plebeo: fate voi.
Sono abituato all'ingratitudine e l'accetto con divertimento. Una volta, con l'intervento del mio avvocato, feci scarcerare un ladro di polli che aveva rubato, raccontò, per curare la figlia ammalata. Mi riuscì simpatico e rimasi della stessa opinione quando, appena uscito di prigione, rubò la borsa dell'avvocato. Ci feci sopra una gran risata. E i ladri di polli potranno sempre contare su di me.
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Oriana Fallaci, L'Europeo n.17, 27 aprile 1963)
Secondo me, è un diritto e un dovere portare ii titolo di principe quando costituisce un patrimonio di famiglia e appartiene alla storia.
Udite, udite. In America è possibile detrarre dalla dichiarazione dei redditi i soldi spesi in beneficenza. La qual cosa non mi piace assolutamente. Se per aiutare il prossimo rinunci a qualcosa, fai veramente del bene. Altrimenti che bene è?
Io sono un uomo all'antica. Io appartengo al secolo scorso, anzi, che dico?, al secolo delle crociate. Il mondo moderno, il mondo d'oggi, per me non c'è, non esiste. Non lo vedo, non mi piace. Detesto tutto di esso: la fretta, il frastuono, l'ossessione, la volgarità, l'arrivismo, la frenesia, le brutte maniere, la mancanza di rispetto per le tradizioni, le stupide scoperte. Per questo vivo per conto mio, in un mondo mio, da isolato. Un mondo perbene. Lavoro, torno a casa, e mi chiudo qui dentro. Non esco mai, non vado mai in nessun posto. Sono pessimista, solitario, alieno dalla mondanità, odio i rumori, mi piace parlare poco. A tavola, al massimo in sei. Amici veri, uno solo, e completamente fuori dall'ambiente del cinema e del teatro, il conte Paolo Gaetani. Ma cos'è quest'affare dei capelloni? dei Piper, dello yé-yé? Cos'è questa roba dei balli moderni, delle minigonne, del toccarsi le cosce ballando? Cosa sono queste schifezze? Ma dove andiamo a finire? Ma quale protesta e protesta? Quelli sono degli scostumati. Quella è una gioventù di scimuniti pericolosi.
A me piace la gente perbene, seria. La gente perbene non si mette in maschera. Quali problemi? Le donne, il divorzio? Tutti al loro posto. Niente divorzio. Niente libertà sessuale, niente uguaglianza dei sessi e altre schifezze. In casa, l'uomo è l'uomo e la moglie fa la moglie. Se no, mi dice lei dove andiamo a finire? Io sono pronto ad accettare la discussione, le opinioni della donna, la parità dei diritti. Ma il capo di casa sono io. È ora di finirla con le mogli che prendono il nome del marito, si fanno mantenere e vogliono comandare loro. Non amo viaggiare, non sono mai stato in America, non sono mai stato in Inghilterra, non sono mai stato in Germania. Non sono, credo, mai stato in nessun posto, tranne in Francia. La Francia mi piace, è un paese libero. Là, per esempio, sfottono De Gaulle e nessuno dice niente. Se l'immagina da noi? Saremmo tutti in galera.
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Silvio Bertoldi, Oggi n.48, 1 dicembre 1966)
Effettivamente io non sono un parlatore. Io quando mi devo esprimere, mi esprimo a mosse, con la mimica, da buon napoletano.
Tengo molto al mio titolo nobiliare perché è una cosa che appartiene soltanto a me. Le onorificenze cinematografiche, invece, sono di chi va a ritirarle. In Italia gli attori vengono premiati esclusivamente se assicurano di andare a ritirare il premio, dando così un impulso pubblicitario alla manifestazione. Una volta mi venne comunicato che avrei ricevuto la «Grolla d'oro». Per impegni di lavoro non riuscii a partecipare alla premiazione e così la Grolla se la prese un altro attore al posto mio.
Napoletanissimo. Sono orgoglioso e mi vanto di essere napoletano. È una bella città. Il popolo napoletano ha cuore, ha sentimento e poesia.
13 giugno. Sant'Antonio. Con tanti giorni che ci stanno in un mese proprio quello mi doveva capitare.
Quest'alta Italia è una rovina! Tu guarda se è giusto patire tanto freddo. A Napoli è tutta un'altra cosa.
So la storia dei miei avi tutta a memoria. E pensare, poi, che non ci tengo! Ma che volete? Non mi piace essere sfrocoliato.
Lo so, parlo a rebus, racconto una storia che sembra scritta da Pirandello. Ma questa è la mia storia.
Nacqui così. In un mese triste, novembre. In un luogo triste, lo sapete: ci fu un terremoto che squassò tutto. Pure la mia faccia sembra terremotata. Forse per questo io sono triste. Pessimista. Pes-si-mi-stis-si-mo.
Io ho solo quattro paure. Andare in ascensore al quinto piano, mangiare i funghi, le ostriche e andare in aeroplano. Ché io, come aeroplani, sono rimasto ai progetti di Leonardo da Vinci.
Io discendo dagli imperatori Focas, gli imperatori di Bisanzio, greci in origine, poi passati a Costantinopoli. Per via reale... discendono fino a me.
Resto un napoletano con tutti i pregi e i difetti del napoletano. Vivo ormai da molto tempo a Roma, ma non mi sento romanizzato nelle abitudini. Ogni quindici-venti giorni torno a Napoli per un brevissimo soggiorno; non posso stare più a lungo lontano dalla mia città; la gente di là mi dà il calore della vita. E ogni volta mi commuovo come un bambino.
In Via Santa Maria Antesaecula, le pareti delle nostre scale erano il gazzettino degli inquilini. Fatti, misfatti, amori, tradimenti, tutto finiva in cronaca là sopra a erudizione del casamento. Sentivo mammà che ne parlava con la nonna, sottovoce se non ero nella stanza, e non vedevo l'ora di imparare a leggere per decifrarmeli da solo.
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
Io non capisco come fa certa gente a passare la notte nei night-club, in mezzo a un chiasso infernale. Che noia, che tristezza! Quando, raramente, sono entrato in uno di quei locali mi è venuto quasi da piangere. Tutti fingevano di essere allegri, agitandosi sulla pista da ballo, ma in realtà erano pieni di guai. Li radiografai col pensiero. L'industriale era afflitto da cambiali andate in protesto, la bella donna dal timore di invecchiare, la ragazza dalle pene d'amore, l'impiegato dalle ambizioni frustrate. Al più fortunato facevano male i piedi.
La felicità per me non esiste. Ci possono essere solo momenti in cui si dimenticano le cose brutte. La felicità è un fatto di dimenticanza.
Ero talmente depresso (dopo il suicidio di Liliana Castagnola, n.d.c.) che pensai di farmi frate. Fu uno slancio autentico: sentivo il bisogno di staccarmi dalle vanità del mondo e soprattutto di espiare. Andai quindi in un convento di Assisi per chiedere informazioni al priore. Lui mi fece parecchie domande per indagare sulla serietà delle mie intenzioni e alla fine stavamo quasi per metterci d'accordo sull'inizio del noviziato. Nel bel mezzo della conversazione, però, pur essendo attratto dalla quiete conventuale, cominciai a pensare preoccupato al voto di castità. Potevo rinunciare a tutto, ma al sesso no: sarebbe stato un sacrificio troppo grosso. Mi rivolsi allora al frate chiedendogli con cautela: «Padre, sia sincero, mi sarà possibile avere ogni tanto una donna? Non dico tutti i giorni, ma almeno a Natale, a Pasqua e nelle altre feste comandate?». Non l'avessi mai detto. Il priore replicò con un rifiuto indignato, mentre io mi dicevo che sarei stato pazzo a prendere i voti, perdendo così il più grande piacere della vita. Al senso di pace che avevo provato entrando nel monastero, subentrò la voglia di scappare. Salutai in fretta e furia il buon priore e da quel momento fui certo che il mio vero mestiere era quello dell'attore.
Mi ha cresciuto la nonna materna. Povera vecchia, non sapeva neppure parlare l'italiano. "Totò, sciusciate 'o moccio al naso", mormorava. "Mangia. bene mio". Al contrario mammà, quando c'era, sosteneva che "mazza e panelle fanno 'e figli belle", e così bastava un niente e volavano ceffoni. Era molto nervosa, un perenne squilibrio tra dolcezza e severità. La nonna invece, mi prendeva sulle ginocchia e mi diceva: "Adesso primma fai 'o murbillo, 'a tosse cunvursa, 'o tifo, eppoi cresci e capisci!"
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
Le mie preferenze vanno al Sant'Antonio di Padova, quello con il giglio. Ogni anno faccio il mio viaggetto a Padova, vado a toccare il piede del santo.
Volete sapere come si svolge la mia giornata? Quando non lavoro mi alzo tardi, verso le dieci; mangio leggero, verso l’una e mezzo. Poi, dalle tre in poi faccio una passeggiata cardinalizia fino a Ostia, facendomi trasportare in macchina dall’autista. Quattro o cinque ore di passeggiata, sempre da solo. Quando vado a Napoli, due o tre volte all’anno, convoco un vecchio amico che vive a Torre del Greco, il conte Paolo Gaetani, e passeggiamo a volte insieme di notte per i Quartieri: soprattutto la Sanità, dove sono nato.
(Riflessione di Totò raccolta da Nello Ajello, dal libro "Totò", di Goffredo Fofi, Ed. La nuova sinistra - Samonà e Savelli, 1972)
Sono nato cinico e malinconico come se sapessi già tutto della vita. Mi commuovo per un nonnulla: se assisto a un film sentimentale, se leggo un fatto di cronaca patetico. Alle volte provo vergogna di questa mia debolezza.
Umberto sarebbe stato un grande re, il più grande. Ha pagato le colpe di suo padre. Lui avrebbe fatto benissimo. È un gran signore, un uomo di mondo. Mi ha dedicato una sua foto. Io, a Umberto, avrei voluto dirgli: «Maestà, quest'inchiostro, invece di usarlo per le dediche, lo tenga per le cambiali».
Io non rido, sorrido. E, anche quello, raramente. Sorrido a lei, per esempio, perché è una donna: non si può mica parlare a una donna con il musone. Però vede: non è esatto nemmeno dire che io sia triste: son calmo, privo di ansia. Io l’ansia non la conosco. Deve influire, in questo, il mio residuo di sangue orientale, bizantino. Non so... starei ore e ore fermo a guardare il cielo, la luna. Io amo la luna, assai più del sole. Amo la notte, le strade vuote, morte, la campagna buia, con le ombre, i fruscii, le rane che fanno qua qua, l’eleganza tetra della notte. È bella la notte: bella quanto il giorno è volgare. Il giorno... che schifo! Le automobili, gli spazzini, i camion, la luce, la gente... che schifo! Io amo tutto ciò che è scuro, tranquillo, senza rumore. La risata fa rumore. Come il giorno.
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Oriana Fallaci, L'Europeo n.17, 27 aprile 1963)
Capri non è l'isola che si crede, l'isola della perdizione, e se io non ci potessi andare due mesi ogni anno soffrirei molto.
Io Salgari non l'ho mai letto. Sono forse l'unico bambino. .. cioè quando ero bambino non l'ho letto... Vede, io sono poco amante della lettura. Riconosco che ho fatto molto male... perché nella vita bisogna leggere. Pinocchio l'ho letto, anche altre novelline. Sono stato sempre un pigro.
Bisogna aiutare gli animali, difenderli dagli uomini che sono tanto cattivi. Quando non c'è una guerra o una rivoluzione, per sfogare gli istinti più bassi se la prendono con le bestie. Io invece non sono capace nemmeno di ammazzare una mosca o una zanzara, anche se mi infastidiscono. La vita è sacra e nessuno ha il diritto di privarne un altro a suo capriccio.
In quella casa ci entrai con un padre, una madre, una donna che non era più mia moglie ma a cui comunque ancora mi legava un po' di affetto, e una figlia. Dopo venne anche un cane. Ne uscii nel 1951, solo, con il cane al guinzaglio, l'unico che non mi aveva abbandonato. Scomparsi padre e madre, volatilizzata la donna e sparita la figlia, appresso gli interessi loro. Di quegli anni mi restano poche fotografie sbiadite, un diario di Liliana e l'incartamento del divorzio in Ungheria, un immondizia di pagine che tengo conservate e ogni tanto leggo, anche a qualche amico, a memento di tante cose o per aprirgli occhi sul così detto bene eterno. Neh ma dove sta questo bene eterno? Nella fantasia dei preti e degli idioti innamorati? Si inceppa il meccanismo e, nero su bianco, te lo vedi trasformato in acerrimo nemico. Ma io nemici li combatto e di castigo. A modo mio. Per me, Diana, dal 1940 in poi, è stata solo la madre di mia figlia. Ne ho sempre parlato in questi termini, l'ho sempre presentata così. È anche adesso che si è separata e a volte va incontro da Liliana, siccome le donne hanno la dimenticanza facile e si credono di sfasciare un incantesimo con lo sputo, come se niente fosse, quando meglio gli fa comodo - e certe recondite intenzioni io le capisco - ogni tanto mi diverto a castigarla ancora, dandole da pensare che forse sia possibile. Lei ci crede - me ne accorgo benissimo - e io, nel mio intimo intimo, sogghigno.
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
Come sono? Innanzi tutto sono pigro, pigrissimo. Come tutti i napoletani. Lo sforzo pesa... A parte la pigrizia, io sono pessimista, non ho iniziativa. So' così. Io poi non mi credo nessuno. Mi credo un piccolo, modestissimo attore che serve il pubblico perché il pubblico va servito.
Una macchina più di un anno, un anno e mezzo non dura...
Sono talmente affezionato a Gennarino che riesco perfino a sopportare che, invece di scegliere fra le mie canzoni, abbia preferito imparare a memoria "Arrivederci Roma".
Io l'ultima dimora ce l'ho a Napoli. È sulla strada di Poggioreale, in un camposanto piccolo, isolato, il primo salendo: si chiama II Pianto. No, non è vicino al recinto degli uomini illustri, quello è nel cimitero nuovo, più su, quasi all'incrocio per Capodichino.
(Riflessione di Totò raccolta da Nello Ajello, dal libro "Totò", di Goffredo Fofi, Ed. La nuova sinistra - Samonà e Savelli, 1972)
Non viaggio in aereo, perché ho paura; e «per mare», come disse Pulcinella, «non ci sono taverne». Così, eccomi qua.
Io rido per quello che mi fa il ministro Vanoni, ma di rabbia, perché segue gli attori fin dai primi passi, e appena questi si sono affermati e hanno cominciato finanziariamente a respirare, li tassa e li tartassa con percentuale altissima, non rendendosi conto di quanti sacrifici e di quanta bolletta abbia fatto un attore prima di affermarsi. Che risate!...
Preferisco la notte al giorno perché è silenziosa. Quando tutti dormono io cammino per la casa, svuoto i posaceneri, osservo gli oggetti che mi sono cari, oppure ascolto il bollettino dei navigatori alla radio... ma la notte mi serve soprattutto per pensare. Infatti, checché se ne dica, io sono un pensatore.
Io sono un po' ciuccio e un po' cavallo di razza. È impossibile fare tante differenze: un ricco può essere un pezzente nell'animo e un povero può essere nobile quanto un principe. E poi la fortuna va e viene e nessuno è sicuro di niente.
Non è che io ami solo i cani, ma li preferisco ai gatti per un fatto che risale alla mia infanzia. Mia madre aveva un gatto, Bianco, al quale era talmente affezionata da sostenere che fosse mio fratello. Con tutto il rispetto per i felini, l'accostamento non mi piacque. Ho invece molta simpatia per i pappagalli. Il mio si chiama Gen-narino e mi fa tanta buona compagnia. Come riconoscimento delle sue virtù, gli ho conferito persino un titolo nobiliare. Così adesso è un pappagallo visconte.
Un cane idrofobo fu seviziato e ucciso per aver morso un bambino. Tre o quattro ragazzacci gli spaccarono la testa a pietrate e poi lo gettarono nel Tevere con le zampe legate. Io piansi per quella povera bestia che andava messa in condizioni di non nuocere, ma senza quelle orribili torture. Mi consola il pensiero che nostro Signore ha certamente accolto quel cane in Paradiso. Lo tratta meglio di un angelo e magari gli ha messo pure l'aureola attorno al muso.
È da mo' che la miseria sta di casa qua (a Napoli) e la miseria è screanzata e affamata di ogni sfizio dolce... Io lo so perché me la sono sentita dentro e addosso.
Io sono maledettamente superstizioso. Quand'è martedì e venerdì, 13 o 17, può cadere il mondo, mi chiudo in casa. Mi portano una iella!
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Oriana Fallaci, L'Europeo n.17, 27 aprile 1963)
Sono superstizioso al massimo, e mi difendo come posso da tutto ciò che può portare sfortuna. Resto un napoletano con tutti i pregi e i difetti dei napoletani. Vivo ormai da molto tempo a Roma, ma non mi sento romanizzato nelle abitudini. Ogni quindici-venti giorni torno a Napoli per un brevissimo soggiorno; non posso stare più a lungo lontano dalla mia città; la gente di là mi dà il calore della vita. Ed ogni volta mi commuovo come un bambino.
(Ettore Zocaro, Un film con Fellini nelle speranze di Totò, “Il Tempo”, 30 dicembre 1963)
Lo iettatore in fondo è un povero disgraziato, un invidioso, un frustrato che rovescia sugli altri la propria insoddisfazione. Tuttavia è pericoloso e allora bisogna debellarlo. Come? La prima regola è quella di non irritarlo, di dimostrargli sempre la massima cortesia. Lui vi guarda storto? E voi rispondetegli con un sorriso. Lui vi dice una frase maligna? E voi replicate: «Amico mio, quanto sei caro. Dimmi che cosa posso fare per te». Lo so, è dura, ma la guerra è guerra e non si può andare troppo per il sottile. Un'altra preoccupazione importante è quella di ridurre al minimo i contatti col menagramo di turno: a volte anche una stretta di mano può essere pericolosa.
Viaggiare vuol dire rischiare, correre inutili pericoli. Io vado a sessanta all'ora. Mi difendo. Se viaggio, viaggio in treno. Cos'è questa fretta di arrivare, questa smania di far presto, sempre più presto? Non sono mai salito su un aereo, certo. Anzi, che dico? Per me l'aereo non c'è, non esiste, non l'hanno ancora inventato. Fossi matto! E se cade, se precipita? Dicono, ma vai a vedere l'America, vai! Sconsiderati! Parolai! Per andare in America ci vogliono quindici giorni e sa lei quante cose possono succedere in quindici giorni? Ci sono i cicloni, i maremoti, i tifoni, le trombe marine. C'è Inez. Mai sentito parlare del tifone Inez? E se, durante il viaggio, mi prende in mezzo? Perché correre rischi? Dice: ma proprio a te deve capitare? Già e se capita? Anche quelli che gli è capitato, che ci si sono trovati dentro, facevano lo stesso discorso. Invece gli è toccata.
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Silvio Bertoldi, Oggi n.48, 1 dicembre 1966)
Io sono un animale notturno. L'aria, il sole, mi stanno bene al mare, dove spaziano libri e ti ifriccicano la mente e la pelle. In città, non è proprio cosa. Che senso hanno una refola di vento tra una muraglia di case e il sole intravisto percè storci il collo in alto? Ti smagano tutto, esasperano miseria, puzza, sporcizia, maleducazione, fretta. Hai mai notato quanto è più volgare la fretta della gente nel sole? Incolla i panni addosso, scopre carni sballonzolanti, incorda i capelli e lustra i crani in bidet o a salvadanaio della Croce Rossa in piazza Colonna... E sembrano tutti i bambini sgraziati su un charleston impazzito. Senti a me, la notte è meglio assai! Quando nell'oscurità non vedi tante cose e ognuno ha il fascino di un'ombra e la cadenza dei suoi rimuginamenti più veri, tanto che arrivi quasi a captarglieli e ti sembra di capire i motivi che lo spingono a spasso. E allora ti risenti in un mondo abbastanza è un po' più umano...
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
Dapprincipio per Franca non fu facile vivere con me. Io sono un animale notturno: dormo di giorno e al tramonto mi sveglio, mangio, bevo, canto, scrivo canzoni e quando la gente lascia le strade vuote, vado a passeggio. È un vizio che mi son preso in teatro; dopo lo spettacolo si faceva mattino discutendo, arrabbiandoci. Chi era il più grande attore napoletano? Chi era il comico più bravo? Adesso di parlare tutta la notte non ho più voglia, ma m’è restato, come una struggente nostalgia, l’amore per la città buia. Franca si adattò con fatica. Aveva poco più di vent’anni ed era abituata a vedere gente, ballare, stare in compagnia. Non l’ho mai accompagnata in un night, e gli amici che frequentiamo sono persone posate, che fanno sempre discorsi seri, tanto seri da sembrare alle volte noiosi per una donna giovane e bella. - Io vedevo che soffriva, ma non mi diceva niente. Adesso siamo invece una cosa sola e anche la sua vita si è rovesciata come la mia.
(Maurizio Cherici, «Oggi», anno XX, n.38, 17 settembre 1964)
Sono stato un bambino povero con la voglia inappagata degli agi che non potevo permettermi. Non so come, ma quel bambino è rimasto sempre dentro di me, me lo porto per mano, come un piccolo amico invisibile e mi diverto a regalargli ogni ben di Dio: vestiti eleganti, dolci, profumi e oggetti raffinati.
Non so che cosa sia un aereo. Le mie cognizioni in materia di volo si sono fermate a Icaro. Sapete chi era e sapete anche che fine fece.
In questa epoca io ci vivo per sbaglio. Pensi che non sono mai salito in aereo: in materia di aeronautica, sono rimasto ai progetti di Leonardo da Vinci. Non concepisco i mezzi veloci: viaggiare svelti, a che serve? Io ho l’automobile ma tengo un autista pieno di figli: così pensa alla pelle e non corre. Andiamo pianissimo, non superiamo mai i 40 all’ora, non prendiamo mai l’autostrada. Capisce bene che a me piacerebbe avere una carrozza, un cavallo: per dargli lo zuccherino, sa, le manate sul popò... E se non lo tengo è perché non posso andare in carrozza, perché mi sfotterebbero. Cosa dice? Viaggiare? Che m’importa viaggiare? Un po’ più bianchi, un po’ più neri, un po’ più freddi, un po’ più caldi, gli uomini son tutti uguali, i caporali son tutti uguali.
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Oriana Fallaci, L'Europeo n.17, 27 aprile 1963)
Vi prego professore, lasciatemi morire per la stima che vi porto. Il dolore mi dilania, meglio la morte.
Sono uno che la pensa in un determinato modo e si comporta di conseguenza, spesso per motivi personali. Mica mi reputo un padreterno che emette giudizi e messaggi per l'umanità. E sai che valore pubblico avrebbero i pareri miei, manco fosse tornato a parlare Zarathustra.
I cani sono come bambini muti, patiscono, hanno memoria, sentimento, nostalgia, ma non possono piagnucolarti le loro sofferenze come un accattone che dicendo, Ho fame o Mi hanno fatto questo e questo, trova sempre un santo che lo aiuta. E poi sono gli unici esseri, anche se esci due minuti, ti accolgono festosi come se tornassi dall America.
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
T'aggio voluto assai bene, Franca. Proprio assai.
Come può vedere sto bene, benissimo. La salute c'è, anche se non tutta. È sempre l'occhio destro che, a dir la verità, mi rompe un poco le scatole. Ma non si tratta di una cosa grave, come quella di tre anni fa. Un velo di opacità si è formato sopra l'occhio e finché non sarà riassorbito, dovrò accontentarmi di vedere solo ombre. Anche l'occhio sinistro è debole, ma è una cosa di vecchia data. Esco di notte e raramente per evitare d'incontrare amici e conoscenti. Se mi salutano, io non voglio che pensino che non contraccambio per maleducazione, o per superbia. Il fatto è che non li vedo proprio.
Eduà, mi raccomando quella promessa: portami a Napoli...
Una volta avevo un amico: un giornalista. Veniva sempre a mangiare da me, mattina e sera, ed era proprio un amico, non un caporale. Mi chiese in prestito una macchina da scrivere e io gliela comprai. Nuova nuova. Lui disse grazie, andò a casa con la sua macchina e la inaugurò scrivendo un articolo contro di me. L’articolo più feroce che mai sia stato scritto sopra di me: il più crudele, il più cattivo. Divertente, no? Per me, sì, per Lei, un po’ meno. Anche per me. E, in questo caso, più che divertente: bello. Pensi che pena, che mancanza di dignità, se avesse inaugurato la macchina scrivendo bene di me. Infatti il giorno dopo tornò a mangiare e ci ridemmo su.
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Oriana Fallaci, L'Europeo n.17, 27 aprile 1963)
Dick, il mio cane lupo, era barone. Peppe, il mio cane attuale, è visconte. Visconte di Lavandù. Gennaro, il mio pappagallo, è cavaliere. Li ho investiti io.
Oltre all'italiano, io parlo il napoletano e, grosso modo, le lingue dell'amore.
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
Sono molto solo: non terribilmente solo. Perché io amo esser solo. Ho bisogno di essere solo: per contemplare, per pensare... A volte mi danno noia perfino le persone che amo: mia figlia, mia moglie... E, quando accade, zitto zitto, mi alzo e vado in camera mia. Sì, è difficile viver con me: questo è un rimprovero che le mie compagne mi hanno sempre rivolto, che all’ inizio mi rivolgeva anche Franca. Ora Franca vi si è assuefatta, trova questa vita normale sebbene sia giovanissima. Pensi: ha solo 32 anni... Prima invece... La capivo, sa? Capivo che le sarebbe piaciuto andare nei posti, nei night. Ma a me non piace, non è mai piaciuto. Io, quando vedo quel divertimento falso non posso fare a meno di pensare che dietro a ciascuna di quelle persone v’è un dramma: il pianista magari ha le scarpe rotte, l’industriale ha le cambiali che scadono, l’entraineuse ha il figlio ammalato... Gliel’ho detto: sono un misantropo, la base della mia vita è la casa. La casa, per me, è una fortezza, quasi una persona. Quando vi entro la saluto sempre come una persona: «Buonasera, casa». Oggi, per esempio, Franca è a Lugano e in casa son solo. Be’: ci sto benissimo. Sì, è molto difficile viver con me. Eppure, matrimoni a parte, non ha mai fatto lo scapolo.
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Oriana Fallaci, L'Europeo n.17, 27 aprile 1963)
I vecchi mi fanno pena. Più dei bambini che almeno possono illudersi di un domani diverso. Mi ricordano i miei ai quali, per quanto ho potuto, non è mancato neppure il latte di gallina. E mi ricordano che tra qualche anno anche io sarò vecchio. Deve essere brutto ritrovarsi malandati, soli, agli sgoccioli di un'esistenza per giunta grama. Vorrei che ognuno di loro potesse almeno permettersi il conforto di una stanza riscaldata, un tocco di pollo, l'aspirina, il pacchetto di Toscani, e ricevesse il buongiorno sorridente di un vicino. Mah, per farlo, qui ci vorrebbe la Banca d'Italia.
(Da "Totò, l'uomo e la maschera", di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Ed. Feltrinelli, 1977)
Sono afflitto da un gran brutto complesso, il complesso d'inferiorità. Inferiorità fisica, inferiorità intellettuale, inferiorità culturale. Per esempio: non sono un uomo colto, e questo mi pesa. Vorrei aver studiato di più, aver letto di più, aver guardato di più... Vorrei esser stato più curioso, io non sono mai stato curioso. Osservatore, si, tutti i miei personaggi nascono dall'osservazione, ma curioso mai. Ed ora che sono mezzo cieco non posso curiosare più, leggere più, studiare più...
(Intervista ad Antonio de Curtis raccolta da Oriana Fallaci, L'Europeo n.17, 27 aprile 1967)
Sono nato a Napoli un 15 febbraio, poi mi hanno cacciato tre volte dal collegio, così sono un autodidatta.
Pensate che quando viaggio mi porto nella valigia vestaglie, indumenti e scarpe femminili. Appena arrivo in albergo, appendo una vestaglia ad un attaccapanni, ben in vista e depongo le scarpe sullo scendiletto; è un mio espediente per avere l'illusione di non essere solo.
Volete sapere come si svolge la mia vita privata? Quando non lavoro mi alzo tardi, verso le dieci; mangio leggero, verso l'una e mezzo. Poi, dalle tre in poi faccio una passeggiata cardinalizia fino a Ostia, facendomi trasportare in macchina dall'autista. Quattro o cinque ore di passeggiata, sempre da solo. Quando vado a Napoli, due o tre volte l’anno, convoco un vecchio amico che vive a Torre del Greco, il conte Paolo Gaetani e passeggiamo a volte insieme, di notte, per i quartieri: soprattutto la Sanità dove sono nato.
Non sono un uomo colto e questo mi pesa. Vorrei aver studiato di più, aver letto di più ... Vorrei essere stato più curioso perché non c'è cultura senza curiosità. Io non amo curiosare, mentre sono abituato a osservare. Tutti i miei personaggi nascono dall' osservazione, non dalla cultura.