Si parla di Totò

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È morto Totò. Viva Totò

1967 04 16 Paese Sera 02 intro

Mario Castellani

attore

«Conobbi Totò nel 1927. Il nostro fu un « assortimento » quanto mai estroso. Lui veniva dal varietà e io dall'operetta. Totò era un comico grottesco ed io un comico di stile. Facemmo subito amicizia. Per la prima volta lavorammo insieme in una rivista della compagnia Maresca. Pur rimanendo buoni amici prendemmo ognuno la nostra strada per rincontrarci nel 1941. Da allora siamo stati sempre insieme. Debuttammo con la rivista di Galdieri «Quando meno te l'aspetti» e si può dire che per venticinque anni abbiamo praticamente vissuto insieme. Dal 1950 Totò ha lavorato essenzialmente per il cinema ma la sua vera passione era rimasta il teatro. Totò viveva veramente solo quando era sul palcoscenico.

Giorni fa mi confidò che stava scrivendo una commedia e mi mostrò il canovaccio che già aveva steso. «Con questa commedia», mi confidò Totò, «voglio dare un addio al teatro». Di amici ne aveva moltissimi, ma quelli ai quali era veramente legato da vincoli strettissimi erano il conte Gaetani, l’avv. De Simone, il conte Sarazani ed io. Di contro posso affermare che non aveva nemici. Era un tipo impressionabile: ricordo una notte passata cinque anni fa a Parigi quando ebbe una febbre improvvisa — 37.2 — e volle tornare di corsa a Roma perché, mi confidò, voleva morire in Italia. Diceva sempre di avere un cuore di atleta. La sua battuta preferita era « Lo sai che ho le pulsazioni di Bartali e Coppi?».

Da qualche tempo però il fumo gli dava dei disturbi e una volta si sentì mancare. Negli ultimi anni a causa della sua vista debole i nostri rapporti di amicizia si erano fatti per così dire ancora più stretti: egli non leggeva più ed imparava tutte le parti ascoltando me che gli leggevo i copioni».

Nino Manfredi

attore

Siamo stati noi ad avere l’ingrato compito di comunicare a Nino Manfredi l'avvenuto decesso di Totò. L'attore che si era appena alzato, ci è parso sconvolto; non ha potuto trattenere le lacrime.

«Non posso crederci — ha detto — è una notizia che mi addolora in un modo indicibile. Ho perso di recente mio padre ed ho molto sofferto: per questo evento riprovo le stesse emozioni. Totò era una persona meravigliosa. Mi voleva un gran bene. Una volta, molti anni fa, quando io non avevo nessuna fama, mi mandò un telegramma che mi sbalordì per fa nobiltà delle sue espressioni, sebbene io avessi già una stima incondizionata di lui. Ricordo episodi indimenticabili della mia amicizia con Totò. Una volta avevo un cane che ospitai a casa mia dopo essermelo trovato sempre vicino per giorni e giorni. Tenni la bestiola fino a che non trasmise una malattia a un mio figliolo. Il medico mi impose di liberarmene, ma io non volevo abbandonarlo. Totò se lo prese e lo tenne nel canile dove raccoglieva e manteneva cani randagi. Ogni volta che ci incontravamo scherzava sul cane "Manfredi”. Quando il cane morì me ne dette notizia dicendo che, per fortuna, il cane "Manfredi" più buono era rimasto in vita. Era un nobile personaggio. Totò. indipendentemente dal suo titolo nobiliare. Il titolo non conta: il titolo più appropriato per il grande attore scomparso è quello di uomo. Stavamo girando insieme il film "Il padre di famiglia" e adesso... Non reggo, non reggo... di fronte a queste cose sono come un bambino».

Sergio leone

regista

«Quando ho appreso la notizia sono rimasto sconcertato: sembrava quasi uno scherzo di pessimo gusto perchè Totò è sempr esistito, come il teatro, lo settacolo e l’arte in genere, e quindi non può morire. Totò è in noi e rimarrà sempre! Io piango l’uomo: Antoio De Curtis!»

Sofia Loren

attrice

«Sono sconvolta. Vorrei sfuggire alla routine delle comunicazioni delle dichiarazioni ufficiali. Ho perso un carissimo amico, un incomparabile ispiratore: perchè Totò rappresentava quanto di più fantasioso di più folle e nello stesso tempo di più buono c’è nella natura di un napoletano. In questo triste momento mi consola il ricordo dell'ultimo tributo che ho potuto rendere alla sua arte: l’anno scorso, al festival di Cannes, quanto la giuria gli ha consacrato uno speciale riconoscimento. Io credo che con la morte di Totò l’Italia abbia perso il suo attore più grande e più genuino.»

Alberto Moravia

scrittore

Anche Albeto Moravia è rimasto vivamente colpito dalla morte di Totò. Lo scrittore ha dichiaato:

«In occasione del suo centesimo film scrissi che Totò era uno dei nostri miglior attori comici, un attore di gande qualità, e questa qualità si riallacciava alla tradizione culturale del teatro napoletano. E sostenevo che in fondo nel corso della sua attività cinematografica aveva fatto bene a guardarsi dai film di carattere troppo impegnato, al contrario di Petrolini».

Chiediamo i Moravia: «E il film con Pasolini?». Ci risponde:

«Quello non è che un episodio nella vita di Totò. Prima di "Uccellacci e uccellini" Totó aveva fatto altri cento film, e quello che contano sono quei cento film. Insomma — soggiunge lo scrittore — Totò era uno dei nostri attori migiori, e con una tradizione culturale dietro di sé ».

Mario Monicelli

regista

«E’ una grande perdita per il cinema italiano: Totò era un attore di eccezionali qualità. Apparteneva alla generazione di attori come oggi non ne nascono più».

Cesare Zavattini

regista

Raggiunto a Reggio Emilia, dove si trova per ragioni di lavoro, Cesare Zavattini ha accolto la notizia della morte di Totò con doloroso stupore. Il regista ci ha detto:

«Totò è stato mi attore straordinario, particolarmente per me, per la sua partecipazione alla mia vita cinematografica e per essere stato il provocatore di tante mie iniziative. Ci comprendevamo benissimo, e io debbo ricordare quando lui era ancora un attore solo di varietà. Quando lavorava al "Trianon" Allora parlavo a tutti di lui: avevo una grande ammirazione per lui fin da quel momento, e con lui l'intesa fu subito straordinaria da tutti i punti di vista. Oggi posso dire che è stato veramente uno dei più grandi attorr di questo mezzo secolo. Gli mancava solo un niente essere più consapevole della sua grande arte: un'arte che veniva dalla Magna Grecia, con un senso di tradizione misteriosa e straordinaria Ora la notizia della sua morte mi giunge inattesa, e mi addolora per la grave perdita che colpisce il mondo dello spettacolo e per quanto mi legava a lui: per le cose che con lui ho fatto, e per quelle che avrei dovuto fare».

Nino Taranto

attore

«Quando sfortunatamente ci si trova di fronte a queste gravi, incolmabili perdite, si è istintivamente presi da un grande senso di panico. Panico? Ma vediamo perchè: anzitutto si pensa alla tragedia che ha travolto l’amico, poi si va indietro col tempo nel ricordo delle lotte compiute assieme per l'affermarsi del proprio lavoro. Mi ritornano così alla mente i lunghi colloqui avuti con lui, le cose dette e non dette, sempre rivelatrici di intime amarezze sempre associate a questo nostro meraviglioso lavoro; mai, caso strano, si pensa alle soddisfazioni che pure da esso ci derivano. Totò, come me, si rammaricava di vivere lontano dalla città natale ed alla quale ci sentivamo legati da passioni quasi violente. Questa condizione ci faceva credere che essa ci considerasse al pari di quei figli più fortunati che non sono bisognosi delle sue tenerezze. Questo era l’uomo, cosi come io lo conoscevo. Ora, se penso alia scomparsa dell'attore, mi atterrisce l'idea che esso porta via con sè una gran parte del teatro, una parte certamente insostituibile. Credo di aver detto tutto! L’ho amato e mi ha amato; ci stimavamo reciprocamente e ce lo siamo dimostrato in tante occasioni. lo, come attore, credo di aver perduto un punto di riferimento, un uomo che aiutava tutti ad innalzare il prestigio del nostro teatro».

Vittorio De Sica

regista

Vittorio De Sica ha appreso la notizia della morte di Totò negli studi di Boulogne Billancourt, a Parigi, dove il regista è impegnato nel «mixage» del suo ultimo film «Sette volte donna». Ha dichiarato:

«La notizia della morte del caro Totò mi ha fatto molto male. Soffro molto all'idea di non vederlo più. E’ per me un gran dolore. Totò rappresentava molto nella mia vita e nel mio passato. A parte il fatto che egli era un gronde gentiluomo, generoso e buono, penso che deve essere considerato come uno dei pia grondi attori comici d’Italia e del mondo.

«Avevamo collaborato strettamente insieme, in varie occasioni ed in particolare per "L’oro di Napoli”, del quale Totò era stato uno degli interpreti migliori e più significativi.

«Mi dispiace di non averlo potuto incontrare ultimamente per esprimergli di nuovo a viva voce tutta la mia stima come uomo e come artista. La sua morte è per me un vero dolore ».

Ugo Tognazzi

attore

«Ho fatto due film con Totò. Lavorare con lui, a parte l’artista, era una evasione gioiosa. La morte cosi improvvisa di Totò addolora e stupisce. Certi attori non si immaginano morti, ma la morte di Toto è la morte più giusta perchè nessuno ha visto di lui la maschera dolorosa, ed ha visto e ricorda solo quella gioiosa».

Carlo Levi

scrittore

«E’ stato un attore straordinario e di grandi capacità, con una maschera unica, con quel viso asimmetrico e terribilmente espressivo nella sua immobilita: un modo d'essere di per sè un personaggio che di volta in volta entrava nella singola porte, sia negli infiniti film che si reggevano unicamente sulla sua recitazione, sia in quelli in cui egli è riuscito a diventare un personaggio simbolico e a divorarsi l'ideologia».

Franca Valeri

attrice

«La notizia della morte di Totò mi colpisce molto, moltissimo. Lo consideravo un grande nel campo rarefatto della comicità e mi fa molto dolore. Il discorso su Totò sarebbe molto complesso, così all'impronta posso dire solo che era un sofista della comicità italiana tradizionale. Credo sia insostituibile».

Gina Lollobrigida

attrice

«Sono sottosopra, pièna di sorpresa e di dolore, non solo perchè la morte di Totò è una grande perdita per il mondo dello spettacolo, ma anche perchè lo ammiravo moltissimo e gli volevo bene come persona».

Sandro De Feo

«Era il più antico e il più moderno dei nostri attori comici. La sua arte di far ridere faceva pensare alle farse atellane e alla psicanalisi. Le più grandi risate che ho fatto a teatro è stato lui a farmele fare, e credo che sia il miglior elogio e il miglior pensiero che io possa rivolgergli in questo momento ».

Wanda Osiris

attrice

«Ho provato un dolore grandissimo. Il mio primo debutto nel teatro avvenne proprio con Totò in "Piccolo caffè". Già da allora ebbi modo di conoscere e apprezzare la sua bontà, la sua generosità, le sue alte qualità umane, oltre che il suo talento di grande attore. Sono veramente desolata, costernata».

Renato Rascel

attore

«E' una cosi dolorosa sorpresa che rimango ammutolito. Totò, anche alla sua età, era cosi giovane e attivo. Lui aveva preso il mio posto a una rubrica radiofonica. Il solo fatto che fosse lui a continuare la rubrica mi dava una grande gioia per la stima che avevo di lui, per l’affetto e la amicizia che ci legava. Perdiamo un grandissimo attore, un poeta della risata e del divertimento buono. Personalmente perdo un grande amico. E’ un lutto per tutti noi. Totò è stato un grande maestro del teatro e anche un maestro di vita perchè era un buon signore».

Garinei e Giovannini

Telefonando da New York per ragioni di lavoro. Garinei [...]

«[...] non traviamo altra risposta se non un paradosso e cioè la sua perenne attualità di mimo. Perchè egli, prima che attore comico, era un grande mimo; e si distingueva dai comici del suo tempo — tutti legati ad un certo costume, come ad un certo gergo umoristico — per la sua straordinaria capacità di rendere astratta, geometrica la sua vis comica. Egli aveva ridotto il comico a pochi gestì essenziali ed esemplari, come quelli di una marionetta che trova sempre la sua cadenza più spontanea e armonica, Fu Zavattini fra i primi intellettuali italiani, ad intuire la straordinaria modernità del mimo Totò, e a battersi per impiegare la sua trascinante comicità in un suo testo di umorismo astratto. Che il mimo Totò, dopo trent'anni da allora, fosse ancora vivo fra noi, doveva dimostrarcelo un altro scrittore. Pasolini, che gli affidò una parte difficile in un film diffìcile e che pur tuttavia rimane fra le cose più pateticamente riuscite di "Uccellacci e uccellini"».

Alberto Sordi

attore

Alberto Sordi quando ha saputo della morte dell’attore è rimasto silenzioso per qualche minuto, gli occhi fissi a terra. Poi con voce grave, commossa ha detto:

«Ero legato a Totò da una vera, sincera amicizia. Non vi sono aggettivi per definire Totò, Totò era il massimo che un attore comico potesse rappresentare in tutta la storia del teatro e del cinema italiano. Adesso ci ha lasciati. Totò non c'è più e non ci sarà mai più. Di Totò non ce ne saranno altri».

Anna Magnani

attrice

«Totò mi diceva sempre: "Tu sei il mio grande amore artistico** e questa frase è sempre stata per me molto importante. Dinanzi alla morte rimango sempre imbarazzata e stupefatta e non so ancora abituarmi all’idea che un essere umano possa scomparire così all'improvviso. Tutti hanno amato Totò e hanno compreso la sua umanità interiore e lo si ricorderà come una figura di eccezionale nobiltà d’animo ».

Patroni-Griffi

regista

«Una grande perdita, un vuoto incolmabile per lo spettacolo in Italia. Con la sua morte non esiste più una certa misura di attore comico. Lo avrei voluto nello spettacolo di Viviani che ho diretto per lo Stabile di Roma, come protagonista dell’atto unico "Caffè di notte e giorno": solo la sua comicità metafisica poteva risuscitare un personaggio esclusivamente comico. Quando disse che non se la sentiva ho rinunciato addirittura alla pièce».

Walter Chiari

attore

«Secondo me, non c’è aggettivo elogiativo che non si possa scomodare per Totò come artista e come uomo. E secondo me, soltanto il criterio esplicitamente venale e commerciale del cinema italiano ha impedito che Totò in Italia stabilisse un mito che poteva durare anche più a lungo di quello che stabili il primo Chaplin in America.»

Alessandro Blasetti

regista

«Totò — ha detto Alessandro Blasetti che lo ha diretto in un episodio di un suo recente film — possedeva il più grosso temperamento umoristico del palcoscenico e del cinema. Per la sua indiscutìbile sensibilità artistica è stato certamente secondo solo a Charlot. La sua scomparsa mi ha profondamente costernato. E' stato un carissimo compagno di lavoro. Lui che lavorava con onestà e passione, al di fuori di qualsiasi ambizione ».

Alberto Lattuada

regista

«Sono molto commosso per la scomparsa di un grande attore come Totò e di un uomo dalle alte qualità umane. In tempo di scetticismo, di crudeltà, di indifferenza, Totò era il simbolo insostituibile di una partecipazione totale alla vita sotto l'aspetto più profondo di un umorismo malinconico e gonfio di affetti non corrisposti.»

Federico Fellini

regista

«Vivo è il mio dolore. E' come se mi venisse a mancare una persona cara. Ricordo di avere conosciuto Totò quand'ero ragazzo. Da allora è rimasto per me come la gioia fiabesca dei Natale, come i fuochi d'artificio, come la magia dei sogni dell’infanzia animati da personaggi che nella vita non si incontrano mai. Ha avuto un destino meraviglioso realizzato in una vita che pochi artisti hanno potuto vivere, spargendo a piene mani una gioia viva e sincera che riusciva a consolare ogni mestizia ».

Camillo Mastrocinque

regista

«Povero caro Totò: la notizia l'ho avuta questa notte qui a Milano dove sono per lavoro. Ero assieme a Marcello Marchesi e siamo rimasti folgorati. Non abbiamo avuto coraggio di continuare a scrivere. Cosi ce ne siamo andati a zonzo per la città ricordando mille e mille episodi che riguardavano il caro amico scomparso. Totò... un grande attore, un grande uomo... perchè Totò era buono, un vero amico per tutti, pronto ad aiutare chi era momentaneamente in disgrazia, pronto sempre a tendere una mano. Con lui ho girato venti, forse trenta film, non ricordo. Ed ogni incontro era un diletto: Totò si sa, non teneva conto del copione; il film lo creava lui, battuta per battuta, gag dietro gag. Era un vulcano di invenzioni, recitava come usiamo dire noi ”a ruota libera”. Non aveva coraggio di assistere alle "prime", forse per una sorta di pudore. Allora gli telefonavo e lui si informava: hanno riso a quel punto? Hanno riso a quell’altro? Ecco la sua preoccupazione: era di far gioire lo spettatore, di dargli un’ora di serenità, di evasione. Lo avevo visto recentemente, avevamo in programma di fare un film sul capelloni, mi era stato sufficiente accennargli l'idea che già egli aveva inventato decine di divertenti situazioni. Era un attore nato, un grande attore. Non so dire altro ».

Carlo Bernari

scrittore

«La scomparsa di Toto segna una irreparabile frattura fra due epoche, un confine fra un prima ed un poi che la straordinaria bravura dell'attore napoletano ci aveva impedito sinora di notare. Sarà capitato anche ad altri come a me - udendo la notizia della sua morte improvvisa - di esclamare: Come? Cosi giovane? , Sì, cè da stupirsi che il grande Totò avesse soltanto 69 anni. Lo avevamo annesso ormai come un mito ai nostri ricordi di adolescenti; e lui sembrava dominarvi da tempo immemorabile. [...]»

Omaggio dello Stabile a Totò

Gli attori del «Teatro stabile di Roma» hanno dedicato ieri sera la loro interpretazione della commedia «Napoli notte e giorno» a Totò. Il regista dello spettacolo, Giuseppe Patroni Griffi, prima dell'Inizio della rappresentazione ha ricordato la eccezionale arte di Tolò invitando il pubblico del teatro Valle ad osservare un minuto di raccoglimento.


Silvio Bertoldi

Era corretto, un po’ severo, non socializzava molto, aveva il temperamento triste tipico dei comici, ed era tutto concentrato su se stesso. Ci faceva fare la passerella alla bersagliera, correndo, per sei o sette volte a recita: erano gran sudate ogni sera. Il massimo fu la rivista ”Che ti sei messo in testa?” di Galdieri, durante la guerra. Anna Magnani, quando vedeva in sala soldati tedeschi, diceva a Totò: "Guarda, qualcosa galleggia sull’acqua, stasera”, iniziando cosi una gag irresistibile, e alla fine convenivano che erano stronzi. A questo punto i nazisti, che tuttavia qualcosa capivano, s’offendevano, arrivavano sul palco, interrompevano lo show. E si ripeteva lo stesso copione: correvano a calmarli il direttore e l’autore, cercando di mettere le cose a posto, io, defilata, ridevo come una matta

Elena Giusti, (attrice), Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 4 agosto 1993


Silvio Bertoldi

Totò è importante. Totò conta. Il principe dice di lui: «Mi è simpatico, gli devo gratitudine, mi ha fatto vivere bene. E’ il mio migliore amico. Però, terminata la recita, ognuno per la propria strada. Lui finisce con lo spettacolo, resta sul tavolo del camerino insieme con il panno per togliere il trucco». L’uomo tiene a sdoppiarsi dal personaggio che lo ha reso famoso, dalla maschera; ma non è vero che lo disprezzi. Sa benissimo che il protagonista è Totò, il burattino meccanico, il dissossato pupazzo che la gente ama, lo specchio della sua vera natura. Sa che è stato Totò a soffrire la fame, a debuttare senza paga al «Salone Elena» di Roma. Sa che era Totò a chiedere, come unico compenso, i due soldi per il tram, per poter almeno tornare a casa dal teatrino romano senza far chilometri a piedi: e a sentirsi licenziare per tanta richiesta. Sa che fu Totò a conquistare il celebre impresario Jovinelli, a passare dall’«Orfeo» al «Salone Margherita», alla favolosa «Sala Umberto». Sa che i soldi per rivendicare i titoli aviti glieli ha dati lui. Ora, gli piace far mostra che si tratta di due persone diverse, di due mondi diversi. Ma è il vezzo di sentirsi un grande, inimitabile attore, e fingere di ignorare che quella grandezza inimitabile sta proprio nell’avere inventato «Totò».

Silvio Bertoldi, (giornalista), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Vittorio Caprioli bio

La rivista si intitolava ”Imputato alziamoci”!. Con Totò ci si divertiva in scena e fuori scena. Il pubblico lo seguiva ridendogli appresso proprio nel tono che dava alle battute, insomma era Totò a intonarlo, sembrava un direttore di un’orchestra di risate!

Vittorio Caprioli («Il Piccolo», 15 febbraio 1998)


Guglielmo Biraghi

Cronaca o mito che l’asimmetria del suo volto nascesse da un pugno al naso infertogli da un precettore scolastico villano, cioè di mani facili allo scherzo? Certo le vie del Signore sono infinite. Senza quel dislivello di un centimetro negli zigomi e nel mento la sua vita sarefbbe stata diversa. O diversa la sua comicità, così legata all’espressione facilmente stralunarle, alle asimmetrie già gravide di sberleffo. Cui del resto il corpo, opportunamente educato, rispondeva con snodature, disarticolazioni, dinoccolamenti. Una vera marionetta, nella quale però era infusa un’anima, e che anima: ricca di umanissimi umori pronti a traboccare nel modo più partenopeo ma anche soggetti al controllo di una mente sveglia e solerte, in un felice connubio di spontaneità quasi animalesca e d’intellettualità raffinata fino all’astratto.

Attraverso più di cento film, Totò trovò sempre il modo di farsi amare, e non solo dal pubblico, anche dalla critica, che sopportava le sciempiaggini di certe farsacce raffazzonate per i cinque minuti in cui egli poteva dar libero corso al suo estro. E a lui, a lui soltanto, alla sua incomparabile vis comica si deve il recente tornare in auge di tutta quella produzione di seconda categoria, in un vero e proprio revival di moto popolare, non indotto né imposto da nessuno. 

Guglielmo Biraghi (Critico cinematografico, giornalista e scrittore), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Pier Boselli

Cento film gli avevano reso un bel gruzzolo: non aveva certo più bisogno di tentare il toto, lui, Totò. Faceva bene a stare alla larga dalla TV. Mica si poteva pretendere che un principe entrasse, alla sera, anche nelle osterie.
Per lui la crisi del cinema non esisteva. Immagino che la sua vocazione di cinofilo fosse nata in lui quando ancora calcava i palcoscenici minori. Il teatro di avanspettacolo, si sa, abbondava di cani. Nel suo linguaggio cinematografico, talvolta forbito, ricorreva spesso l’invito «a prescindere». Prescindere da che? Dai copioni?
Nel film «Il comandante» Totò sosteneva la parte di un alto ufficiale. Ma neppure quella volta, in considerazione del ruolo, i critici gli avevano dato più di una stelletta. Totò era una girandola di trovate pirotecniche. Era un vulcano. Col pernacchio invece del pennacchio. Dicono che il riso fa buon sangue. Nel suo caso esso faceva addirittura sangue blù.

Pier Boselli (giornalista e scrittore), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Dario Fo

Anche se io non dipendo dalla cultura meridionale, l’immagine di Totò mi è rimasta. Lo considero uno dei comici più importanti per la mia formazione, come Scarpetta, come i De Filippo, come e più di Chaplin.

Dario Fo


Dario Fo

Totò è l’Arlecchino del Novecento e la sua comicità nasce dal suo senso di tragico. Recitava il sesso come Pulcinella, come un burattino. Era un uomo che amava le donne. Il suo erotismo, però, era sempre delicato. C'era un grande distacco nei confronti del sesso. Lui non toccava mai le ragazze che gli stavano introno.

Dario Fo «Il Piccolo», 15 febbraio 1998


Gianni Canova

Il famoso comico aveva forse un solo film nel suo carniere che ricordasse con piacere: «Guardie e ladri». Ma, aveva ormai oltrepassato la sessantina, sperava ancora nel miracolo che gli permettesse di affiancare a quel titolo almeno un altro film «memorabile». Giulietta Masina gli aveva detto che suo marito stava pensando a un film che avrebbe potuto essere interpretato da lui. Sperava che quel progetto di Fellini si avverasse. Ed era amareggiato dal fatto che gli attori fossero costretti ad accettare le cose che venivano loro offerte e che non erano necessariamente quelle che avrebbero potuto fare. Totò, ad esempio, avrebbe voluto impersonare tutti i personaggi umani e tristi, appunto come quello del ladruncolo in «Guardie e ladri». Come mai nessuno, o quasi, aveva capito quel lato del suo carattere? Perché tutti erano portati a giudicarlo in base ai personaggi che aveva interpretato e non in base a quello che effettivamente egli era.

Gianni Canova (giornalista), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Ettore Capriolo

Totò era un comico surreale, pochissimo interessato a misurarsi con i vizi e i difetti dei suoi contemporanei. Per far crollare dal suo piedistallo qualsiasi presuntuoso, gli bastavano del resto poche parole, ripetute come uno slogan. Si ricordi ad esempio, la celebre battuta: «Macché onorevole, ma mi faccia il piacere», al deputato invadente nello sketch del vagone letto. Era un comico interamente risolto nello scatto inatteso, nella trovata imprevedibile, nell'improvvisa travolgente invenzione. Per questo e in questo Totò è irripetibile, come ogni attore il cui primo fine non sia di costruire qualcosa, ma di deformare e di distruggere, lasciandosi alle spalle non una serie di personaggi rappresentativi della propria epoca, ma un terreno nudo come un palconscenico perché è nell’ ambito eminentemente artificioso del palcoscenico che ha inventato e fatto ridere sera per sera.
Coglieva al volo una delle tante parole udite, nel corso di uno sketch, generalmente una parola colta, rispettabile, estranea al comune linguaggio della gente comune, e subito la faceva sua passandosela e ripassandosela in bocca e continuando a ripeterla con la gioia infantile della scoperta e insieme con un atteggiamento critico che finiva per togliere alla parola stessa qualsiasi significato logico e per ridurla ad emissione vocale quasi del tutto priva di senso.

Ettore Capriolo (critico e saggista), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Mario Casalbore

Il cinema dette a Totò una notorietà più grande. Ma, in fondo, non gli dette quelle soddisfazioni alle quali la sua arte di attor comico di rara potenza, di «clown» dall’estro inconfondibile, poteva aspirare. Soprattutto, il cinema gli fece mancare quella partecipazione viva della folla che un vero attore ama sentire, svettando su un mare di teste nella penombra di un teatro. Il mormorio della folla, la deflagrazione della risata, lo scrosciar dell’applauso. Poteva, qualche sera, entrare nel buio di una sala cinematografica: e certo gli applausi, i commenti, gli davano gioia. Ma non lo eccitavano come in teatro, perché giungevano quando il suo lavoro era finito: e la risata non gli faceva da trampolino per un guizzo ed un lazzo che gli permettesse di staccare dalla gola dei suoi ammiratori un’altra risata, in un parossismo di buonumore...

Mario Casalbore (giornalista), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


— Caro Commendatore!
— Prego, Principe!
E poi rise, sorrise, smorfiò, fece qualcosa d’indefinito, tra il malizioso e l’ingenuo, l’angelico ed il folle: un gesto suo, in via Chiaia, un pomeriggio di sabato, all’uscita del Metropolitan con due splendide ragazze al braccio.
— Sempre con belle donne!
— Pubblicità, tutta pubblicità!
Alla sua battuta fecero eco i sorrisi scroscianti delle sue deliziose accompagnatrici, e ben presto in quel salotto improvvisato, ci fu un grande accorrere di gente. Cosi, Antonio De Curtis, ancora una volta inventò Totò, recitando o vivendo, alla sua maniera. Un’altra occasione per distribuire umanità e simpatia, velocemente, perché subito dopo una macchina lo portò via. Quella piazzetta, palcoscenico o platea, fu per poco tutta Napoli ed io, inconsciamente avevo organizzato uno spettacolo o per lo meno un fuori velario d’eccezione. Poi quel luogo fu restituito alla recita di sempre, questa volta con la partecipazione straordinaria di Totò!
E non ci furono applausi. Incredibile!
Totò, nei cuori e negli occhi di ognuno, con la sua mimica, il suo silenzio, le sue parole, visse e si mosse per tutti noi. Come fa un principe vero, con aristocratica umiltà. Da grandissimo attore, sul quale non calerà mai il sipario, perché la ribalta, per lui, rimarrà sempre accesa.

Pio Cocorullo (scrittore), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Giulio Cesare Castello

Maschera legnosa e burattinesca, dal volto puntuto, dalla bazza sporgente: in Totò rivivevano i succhi della Commedia dell’Arte e quelli della farsa pulcinellesca. In grazia della sua prodigiosa comunicativa e di certi suoi caratteri originali, sullo schermo come sulla scena di rivista, Totò interpretava soprattutto se stesso (a ridare a Totò indipendenza dal personaggio a lui affidato — osservò Raul Radice — bastava anche un solo avverbio, «tampoco», per esempio). La serie delle avventure di Totò consisteva in una continua tessitura di variazioni su temi limitati e spesso grossolani, riscattati a sprazzi dal portentoso estro mimico dell’interprete. Eppure esisteva un attore dalle sorprendenti risonanze, dall’umanità ora beffarda ora patetica: un Totò la cui tendenza alla stilizzazione comica non andava a detrimento di una più sottile rivelazione psicologica. Purtroppo gli spettatori sembravano preferire al Totò umano quello pupazzesco e gratuitamente volgare. Nel 1940, quando ancora il pubblico del cinema non gli aveva decretato un simile fanatico favore, Totò dichiarava a Cesare Zavattini, cercando di definire la propria arte di mimo del palcoscenico; «Adopero spesso le parole surreale metafisico. Qualche amico mi ha messo in guardia: sono un po’ troppo adoperate e vaghe. Io non arrossisco nel dirle, per me vogliono dire fantastico come lo avrei detto a dieci anni. Credo che i cartoni animati siano surreali e metafisici nel mio senso un po’ ingenuo: per questo vorrei essere come Maximum, il protagonista di un cartone animato. Anche perché vorrei parlare pochissimo. Ridere, esclamare; io rido in due modi, e proprio da cartone animato. Questa mia preferenza dovrebbe far capire l’urgenza di una regia che doni al palcoscenico dimensioni sbalorditive... Conosco l’umorismo moderno più nei settimanali che nei libri. Mi pare di essere esattamente dentro al mio secolo. Altri comici risolvono brillantemente il lato dialettico. Io tendo alle figure. Tra una battuta e la mia spada che si allunga, si allunga tenendo cosi a debita distanza l’avversario, io mi commuovo per la spada (e invidio la battuta)».

Giulio Cesare Castello (critico e saggista), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Alberto Moravia bio

Totò era un clown fabbricato senza risparmio e, si direbbe, con precisa intenzione, dalla natura. La sua faccia era tutto uno zig zag: la fronte contraddiceva al lungo naso; questo, al mento sporgente e fatto a spatola. A loro volta, gli occhi globosi e di espressione triste contrastavano con la bocca enorme e ridanciana, la natura si era sbizzarrita pure nella sua struttura muscolare, dandogli una strana capacità di allungare e ritrarre il collo, e di inarcare le reni e spostare i glutei. A questi «doni» naturali, conveniva la misura degli «sketch» da avantspettacolo per la loro brevità che permetteva appunto a Totò di «apparire» senza essere costretto a «comunicare».

Alberto Moravia («Il Piccolo», 15 febbraio 1998)


Potremmo scrivere un intero volume sul comico dal sorriso freddo, sull’uomo che ha fatto ridere con la sua mimica inconfondibile, con l’estro delle sue trovate, tre generazioni di italiani. Ma dobbiamo limitarci ad un semplice ricordo: quello dell’ultima sua visita a Napoli. Assieme ad un amico volle tornare nelle strade del quartiere che lo aveva visto ragazzo, nel Rione Sanità. Aveva ormai lo sguardo spento, ci vedeva poco, ma volle fermarsi davanti l’androne della vecchia casa dov’era nato in via Antesaecula, e recitò di getto i versi amari di una sua poesia:
Casa mia
stammo pur tanno ’o llutto tutte ’e duie
’ncore tenimmo ’na malincunia
comm' ’a ’na brutta freva ca ce struje
e lentamente ’nce farrà murì.
Veniva almeno due volte l’anno nella sua adorata città, che amava fino all’idolatria. Gli disse un giorno un bravo sacerdote che lo conosceva: «Principe, perché non riscattate la casa dove siete nato?». «Per farne che?» rispose «il museo di Totò? A Napoli ci sono due categorie di persone: quelle per bene e... le altre. Il mascalzone non esiste. A chi interesserebbe il museo Totò? Basta voltare la manopola della televisione per ammirare il rudero che sono ora io allo stato naturale».
«Ero nato bellissimo» — soleva dire, «il più bello del Rione Sanità, tutto ricci e boccoli dorati. Le amiche di mamma andavano pazze di me. In seguito diventate nonne, lasciarono questo compito alle loro figlie e nipoti». Durante la crescita si guastò: le mascelle deragliarono e nacque così la celebre maschera che faceva sbellicare dalle risa al solo guardarla.

Avevano detto che era nato povero e aveva fatto la fame nei baracconi. Non è vero. Suo padre viveva di rendita. Per trent’anni l’attore ha covato il proprio destino; nel 1950 la situazione si rovesciò. Il suo enorme successo cinematografico coincise con il riconoscimento dei diritti al trono di Bisanzio. Cadde ammalato, lo si credette morto; furono ordinati i funerali. Era sanissimo, invece. Convocò i giornalisti ed offrì loro pasticcini e bibite. In sovrappiù fornì anche quattro numeri da giocare al lotto. Tutti li giocarono. Ne venne fuori un ambo. Sulla ruota di Napoli, naturalmente. La sua vita privata fu piena di dolori. Una donna celebre si uccise per lui.

Carlo Di Nanni (critico e giornalista), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Alessandro Ferrau

Quali furono le ragioni che motivarono il successo senza precedenti e senza soluzione di continuità di Totò in un arco di tempo assai lungo e con un fardello di film assai pesante? Indubbiamente i nostri comici si trovarono favoriti dal fatto che, nel dopoguerra, non si erano più avuti comici americani capaci di agganciare il pubblico non americano. Nel caso di Totò, però, non possiamo dire che la necessità fisiologica di ridere abbia spinto gli spettatori ad accorrere ai suoi film. Totò è stato l’ultimo grande attore comico della commedia dell’arte, racchiudendo in sé l’eredità del teatro comico napoletano, che da Petito a Scarpetta ha dimostrato una sua vitalità insopprimibile; possedeva l’istinto del grande attore di razza, l’estro, la capacità di improvvisazione, associati a un grande spirito di osservazione: infatti i lazzi e i gesti di Totò riproducevano, sia pure attraverso lo specchio deformante della comicità, i sentimenti e le debolezze degli uomini: la paura, i desideri aggressivi amorosi, l’improntitudine, la falsa religiosità, eccetera. Era una galleria di temperamenti diversi che prendeva vita attraverso le maschere di Totò. Solo le sue grandi doti di attore, gli consentirono di resistere alla terribile usura che esercita l’attività cinematografica.

Alessandro Ferraù (giornalista), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Liliana sapeva bene che il padre era stato colpito da una emorragia alla retina dell’occhio sinistro e che, non appena rimessosi con la pupilla velata ed inerte, aveva ricominciato a girare l’Italia affrontando le luci della ribalta. Udendolo parlare dei suoi timori per l’occhio offeso, Liliana disse al padre: «Presto ti ripeserai, papà, e potrai curarti bene». Non pensò nemmeno a suggerire d’interrompere la tournée, per non far inquietare l’infermo. L’altra sera, quello che Totò oscuramente intuiva si è verificato. Anche l’altro occhio, il destro, quello col piccolo grumo di sangue, si è improvvisamente ammalato. I medici chiamano fenomeni del genere, «manifestazioni di simpatia» fra un organo e l’altro. La verità è che Totò, il quale sul palcoscenico già vedeva soltanto i contorni sfumati delle persone e delle cose, si è trovato repentinamente di fronte ad un velo d’ombra. Non è riuscito più a distinguere nemmeno genericamente l’ambiente che lo circondava; si è ritirato nel camerino con la figlia, brancolando per uno stretto corridoio e dicendo con voce sommessa: «Sono cieco... sono cieco!». E’ accaduto così che la trounée è stata chiusa con quindici giorni d’anticipo.

Arnaldo Geraldini (giornalista), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Virgilio Crocco

Nella «Compagnia di Riviste Totò» — erano gli anni Trenta — il secondo comico si chiamava Eduardo Passarelli. Una sera, in un piccolo ed inospitale teatro, il Passarelli ebbe degli isterismi non trovando un camerino per sé.
«Eppure sono il secondo comico» andava protestando.
«Prendi il mio» disse Totò, pronto ad appianare ogni disputa, «tu sei il primo comico».
«No» gli replicò Passarelli, «tu sei il primo».
«Prendilo, prendilo» insistè bonario Totò, «tu sei il primo comico, io sono Totò, è n’ata cosa».
A parte Totò, lui, Antonio De Curtis, non era un personaggio era anonimo e insospettabile. Quieto, grigio, parlava poco e sempre sottovoce, molto cortese e attento con tutti. Tristissimo, con un’aria rassegnata e mesta, dava tuttavia la sensazione di essere un uomo potente, di una potenza positiva, buona, rassicurante. Aveva sempre un suo rigore, una sua classe anche nelle macchiettacce quando faceva ridere ridere, ma anche piangere i macchinisti e quelli che lavoravano con lui, chissà perché, forse proprio per quell’aria che lui aveva di clown al quale erano appena morti i figli, di un clown con la faccia pitturata ma col lutto appena sotto i belletti.
Era amareggiato negli ultimi tempi. «Chiudo in fallimento» disse. «Centoquattordici film, di cui almeno cento una schifezza: adesso che qualcuno si è accorto che posso essere un grande attore, la salute e le forze non mi aiutano più».

Virgilio Crocco (giornalista), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Rodolfo Wilcock

Che fosse un così grande attore se ne accorse il pubblico prima dei critici. In Inghilterra se ne sarebbero accorti anche i critici, più restii in genere alla lettura di Croce. Totò purtroppo è inesportabile; lo fu a lungo persino nel suo Paese, se tanto ci volle perché venisse accettato dalla classe colta. La quale è colta sì nelle cose del passato, di rado nelle cose del presente. Il popolo si accorse delle sue doti, ed era un grande pregio, ma Totò non ne fu mai veramente soddisfatto; credeva il pubblico, forse con ragione, superficiale e instabile, e diceva amaramente: «Tra dieci anni sentiranno dire Totò e domanderanno: Chi era costui?». Era un uomo meravigliosamente triste. I dieci anni intanto sono passati.

Rodolfo J. Wilcock (scrittore), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Renzo Arbore

Totò fa parte del patrimonio nazionale e dobbiamo tenercelo caro, almeno quanto il Colosseo. Rappresenta un cardine della comicità mondiale, insieme a Charlie Chaplin e a Stantìo e Ollio. Io gli debbo molto perchè ho sempre saccheggiato il suo repertorio. A volte, quando sono in difficoltà, alla ricerca della battuta giusta, lo prego come se fosse un santo: “Totò, aiutami tu!”.

Renzo Arbore


Elio Gigante

Spesso mancava di autocritica. Era abitudinario. Ad esempio alla fine dello spettacolo, era capace di uscire in passerella con il frac e le pantofole, per il fastidio di mettersi le scarpe. Se lo rimproveravo, mi rispondeva bonariamente che in fondo il pubblico si divertiva. Il suo problema fondamentale era sempre quello: far divertire il pubblico.
Mi faceva rabbia anche vederlo sempre pieno di debiti, frequentare alberghi e ristoranti di terza categoria, prendere quattro soldi di paga, che in fondo era la più bassa di tutti dal momento che tutti gli spettacoli si reggevano sulle sue spalle. Mi faceva rabbia vederlo alle prese con copioni scadenti, spesso conditi di doppi sensi e di battutacce, che egli recitava sempre con la solita scusa che il pubblico si divertiva.

Un giorno ebbi una intuizione: quella di andare a «proporre» Totò a Michele Galdieri e ad Anna Magnani. Sul principio mi presero per un visionario. «Totò? quel guitto? Come le viene in mente?». Invece la coppia Totò-Magnani funzionò a meraviglia, come avevo previsto: prima di tutto perché con l’enorme carica e bravura che avevano riuscivano a risolvere sempre tutto in palcoscenico, e poi perché Totò non conosceva cosa fosse l’invidia o la gelosia. Per lui andavano bene tutti, non aveva inimicizie, rancori, strascichi. In fondo, Totò era un gran sentimentale.

Elio Gigante (impresario teatrale), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Reinventava giorno per giorno, ora per ora, i testi di Galdieri, di Nelli e Mangini. Era un attore con le antenne: pronto ad incontrare gli umori del pubblico, i più autentici e nascosti. Quello che veniva scambiato assai spesso per un limite fu per Totò una forza prodigiosa: la sua mancanza di «cultura», il suo tenersi ancorato ad un nobilissimo istrionismo, quel suo essere irriguardoso, sempre, contro l’accademismo, gli permisero, ogni volta, di non perdere un «tempo», una «battuta». A dispetto di una meccanicità riconosciutagli troppo facilmente come geniale, Totò è stato grande attore perché straordinariamente umano. Anche gli attori si dividono in attori-uomini e attori-caporali. Totò apparteneva, è chiaro, alla prima categoria. La sua ricchezza, oltre la sua natura, rarissima, di attore capace di restare nella storia del teatro, è stata quella di mantenersi uomo, legato ai sentimenti più semplici e schietti: una poesia, una canzone napoletana, valevano per lui più di qualsiasi altra cosa. Totò ha lasciato una lezione esemplare. Oggi siamo tutti disposti a non dimenticarla.

Gennaro Magliulo (regista), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Mangini Mario Mangini

L’impresario Aulicino del Teatro Nuovo chiamò Vincenzo Scala, suo parente, sua persona di fiducia e gestore del botteghino, e gli disse:
«Alla Spezia agisce la Compagnia Maresca con Totò. Prendi il treno va a La Spezia e scrittura Totò...».
«Totò?!... Ma non sarà facile».
E l’altro, con tono calmo e perentorio:
«Vicie’, va’ a La Spezia e non tornà ccà senza ’o contratto ’e Totò... He capito buono?»
«Ma... la paga?»
«Qualunque paga!»
Scala partì e dopo tre giorni al Teatro Nuovo giunse un telegramma: «Totò firmato contratto stop arrivo stasera. Vincenzo». La cosa era fatta e la Compagnia Molinari si apprestava, con l’acquisto di un comico singolare come Totò, ad affrontare una svolta eccezionale. Lo spettacolo, che andò in scena nel settembre del 1929, fu presentato in una ricca e farzosa cornice, tipo Folies Bergere ed il successo fu pieno e clamoroso.
Seguirono «I tre moschettieri», altro spettacolo dello stesso genere con Totò-Dartagnan, la fantasia«Bacco, tabacco e Venere» e, quando si credette che Totò fosse maturo e accettabile per un genere più recitato e meno fantasioso, andarono in scena nel 1930 «Santarellina», «’O balcone ’e Rusinella» di Scarpetta ed «Amore e cinema» di Carlo Mauro. L’anno teatrale si era felicemente concluso e la prova era brillantemente riuscita. E mentre si discuteva se fosse o non il caso di ripeterla nel prossimo anno, Cabiria, una delle più belle e popolari soubrettes del tempo, piombò a Napoli, scritturò Totò con una paga favolosa e in aereo se lo portò via.

Mario Mangini (autore), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


marcello marchesi2

Ricordo che un giorno, mentre sceneggiavo con Metz il film «Totò Tarzan», e «Totò le Mokò», insomma due «Totoate», insistevo con Vittorio perché vi fosse una sequenza «poetica» fra una torta in faccia e l’altra. Vittorio Metz mi afferrò per un braccio e con un ghigno satanico, attenuato dallo spessore delle sue lenti appannate, mi disse: «A Marcè Totò non ha bisogno di due poeti; ha bisogno di due complici».

Marcello Marchesi (attore e scrittore, «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Mario Mattoli 2

Realizzare un film in venticinque giorni soltanto, dal primo ciak alla proiezione privata dopo il montaggio, sonoro compreso, non è da tutti. Io ero noto per le capacità, diciamo «sportive» nelle realizzazioni, ma con «Totò sceicco» superai me stesso. E’ chiaro che la cosa mi fu possibile perché il protagonista era Totò, cioè un attore che non aveva bisogno di particolari condizioni per rendere valida una interpretazione, un attore sempre pieno di trovate, di talento puro, di inventiva. Con lui tutto diventava facile e divertente. Dire oggi queste cose, proprio quando la critica cerca di addossare ai registi la colpa della tardiva valorizzazione di Totò, potrebbe essere controproducente. Eppure io sono tutt’altro che dispiaciuto dei risultati che Totò ed io raggiungemmo insieme. Totò era un grande attore e molti oggi si rammaricano che egli abbia avuto soltanto nell’ultima parte della carriera l’opportunità di interpretare ruoli di impegno artistico. Eppure io sono convinto di una cosa: Totò ha anche potuto fare film d’impegno solo perché prima si era costruita una solida fama con pellicole di tipo «sportivo», prima maniera.

Mario Mattoli (regista), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Domenico Meccoli

Totò è stato definito l’occasione mancata del cinema italiano. Io sono d’accordo. Anzitutto, la definizione mi pare piuttosto generica. Di quale Totò s’intende parlare? Di quello d’impronta surrealistica dei primissimi film? Di quello grottesco-drammatico di altri suoi film? Oppure di quello farzesco della maggior parte delle sue interpretazioni? Nei centoquattordici film registrati nella filmografia dell’attore, a me pare che il cinema italiano non abbia mancato nessuna di queste occasioni. Si può preferire l’uno o l’altro aspetto di Totò, si può deprecare la sciatteria di molti suoi film; ma proprio questi sono paradossalmente i più significativi perché interamente suoi, sostenuti esclusivamente dal suo personaggio, dalle sue trovate, dai suoi sberleffi, dal suo dinamismo. I film in cui non contano né la vicenda né il modo come è stata realizzata, ma conta soltanto la presenza dell’attore. Un mito — direbbe Malraux — allo stato puro.

Domenico Meccoli (critico e giornalista) «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


MarioMonicelli

Totò era un attore molto istintivo, spontaneo, intelligente. Non studiava la parte: bastavano poche parole all’ultimo momento, prima di cominciare a girare, per fargli comprendere il personaggio. Bisognava lasciargli molta libertà. Ncn ho mai capito bene se Totò non volesse studiare il copione per pigrizia o soltanto per non perdere la sua spontaneità. Fatto sta che ho dovuto sempre lasciargli briglia sciolta. Per me, lavorare con lui era come fare un documentario. Tuttavia, durante il lavoro, era molto docile alle indicazioni del regista e non assumeva mai atteggiamenti divistici. Fuori dall’ambiente di lavoro era semplice, cordiale e al tempo stesso signorile e riservato. Non faceva mai teatro fuori della scena. Non era uno di quei comici che hanno sempre la barzelletta pronta. Del resto, faceva una vita molto ritirata. Soprattutto era un uomo di teatro e disprezzava un po’ il cinema. Tuttavia anche nel cinema rivelava doti eccezionali. Quando girai «I soliti ignoti» cercai di far comprendere che questo attore meritava di essere maggiormente apprezzato. Invece fu destinato ad interpretare molti film di «serie B» e ad essere maltrattato dalla critica. Soltanto negli ultimi anni si è cominciato ad avere qualche barlume sulla eccezionalità delle sue doti. Ma sarebbe stato meglio averci pensato prima.

Mario Monicelli (regista) «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Si rideva, ogni volta, a crepapelle. Totò mandava in visibilio intere platee teatrali e cinematografiche senza preoccuparsi di distinguere. C’erano, accanto ai successi, frasi entrate nel linguaggio comune: «Siamo uomini o caporali?» valga per tutte. La sua comicità prepotente superava le angustie del macchiettismo e guadagnava, con intuizione felice e facile, una dimensione umana di rara efficacia. In un’era di distruzioni micidiali e di velocità supersoniche, Totò era forse il personaggio più significativo che riuscisse a «legare» il nuovo al vecchio, il vero al presunto. Era in questo miracolo che emergeva, impetuosa e magnifica, tutta la sua «napoletanità».
In un cielo di meteore, Totò era una stella di prima grandezza, il solo depositario di una simpatia e di uno stile che non si discutono. Entrando in scena, ogni sera, il suo «personaggio» tornava a raccontare la storia — comica e un po’ patetica — di una umanità che piange e ride e trema e canta e si dispera.

Ignazio Mormino (giornalista) «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Carlo Nazzaro

Un’ombra di mestizia scende sul volto del Principe del sorriso. «Qui rido io» aveva fatto scrivere sulla facciata della sua villa l’attore Eduardo Scarpetta. Fuori del palcoscenico Totò non ride.
Un conversatore amabile, un narratore elegante. Potrebbe infiorare la conversazione di aneddoti, parlar tanto di sé. Accenna invece appena a qualche ricordo: l’infanzia, gli esordi, le strade, i compagni di gioco che gli prodigarono i primi applausi. «Per favore, domani sera, mettetevi in un angolo e non vi muovete» aveva detto e, più che detto, ordinato l’impresario Maresca all’esordiente. L’impresario esibiva un campionario di belle ragazze e di sfarzosi vestiti. La mimica dell’artista attirava gli sguardi della platea che l’impresario in tendeva convogliare su calze di nylon e penne di struzzo. La paga del debuttante era di seicento lire. Meno di una di quelle penne. Totò eseguì l’ordine: la sera seguente, immobile, in un angolo. Un silenzio alla Charlot. Un trionfo.

Carlo Nazzaro (giornalista e scrittore) «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Remigio Paone

Totò, principe non attore in quel momento, mi confessava la sua ansia di tornare alla scena. Ne era come esaltato. Quella mattina, il sole di luglio incendiava l’aria, ma lo sguardo di Totò sembrava non percepire il fulgore di quella luce che metteva in risalto violento ogni particolare dello stupendo panorama: era fissato, quello sguardo, nel vuoto, e certo vedeva altre luci lontane, illuminanti fondali dipinti sulla tela, come s’usava al tempo dei suoi primi applausi.
La mancanza del pubblico opprimeva Totò; e certo egli avrebbe già aderito al desiderio che tutti gli esprimevano di vederlo tornare alla scena se uno strano ritegno non gli avesse messo nella napoletanissima anima il desiderio di rimandare, a domani, a dopodomani, all’anno prossimo... Ero legato a lui dai ricordi di un’ascesa comune. Entrammo uno accanto all’altro nei quartieri aiti del teatro. Dal 1929 ad oggi ho realizzato e prodotto oltre centodieci spettacoli, fra prosa, rivista, operette, ed arte varia, mai più belli e significativi spettacoli, per me, sono stati senz’altro quelli che hanno avuto il marchio di Totò.

Remigio Paone (impresario) «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Ettore Paratore

Sul piano facilmente percorribile del teatro leggero e del cinema la funzione rivelatrice dell’intimo dramma della napoletanità decadente è stata vittoriosamente esercitata da Totò. Nessuna delle sue pur innumerevoli e spesso commercialissime apparizioni è priva di un particolare sottilmente significativo che le riscatta sopra un piano di umana validità. E ciò che più si deve in lui apprezzare è l’ascesa continua verso un impianto espressivo che caratterizzasse in maniera più esemplare le intime suggestioni liriche insite nel suo tipo di buffone melanconico palesante con le sue smorfie con i suoi tics e con i suoi espedienti la nascosta disperazione di cui è portavoce.
Non bisogna dimenticare le ultime realizzazioni cui egli è riuscito a giungere sotto la guida di Pasolini, che grazie alla sua tematica di narratore delle confuse e spesso drammatiche aspirazioni delle plebi era fatto apposta per penetrare più a fondo nel clichè di comicità amaramente buffonesca creato da Totò. Il rammarico con cui anche il mondo della cultura ha reagito alla scomparsa dell’attore dimostra quale danno l’arte dello spettacolo abbia ricevuto dall’improvviso estinguersi di un’attività che era divenuta sempre più fervida e più profonda proprio negli ultimi anni di vita.

Ettore Paratore (storico della letteratura latina) «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Pierpalo Pasolini 33

«Uccellacci e uccellini» è stato il mio film che ho amato e continuo ad amare di più, prima di tutto perché come dissi quando uscì è «il più povero e il più bello» e poi perché è l’unico mio film che non ha deluso le attese.
Collaborare con Totò (reduce da quegli orribili film che oggi una stupida intelligenzia riscopre) fu molto bello : era un uomo buono e senza aggressività, di dolce cera. Voglio ricordare anche che oltre che un film con Totò, «Uccellacci e uccellini è anche un film con Ninetto, attore per forza, che con quel film cominciava la sua allegra carriera. Ho amato moltissimo i due protagonisti, Totò, ricca statua di cera, e Ninetto.
Non mancarono le difficoltà, quando giravamo. Ma in mezzo a tanta difficoltà, ebbi in compenso la gioia di dirigere Totò e Ninetto: uno stradivario e uno zuffoletto. Ma che bel concertino!».

Pier Paolo Pasolini (scrittore e regista) «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Walter Pidgeon

Giravamo insieme «I due colonnelli» (quasi una parodia dei «Due nemici». Totò non conosceva nemmeno una parola d’inglese ed io non sapevo nemmeno una virgola d’italiano. Così recitavamo a braccio, improvvisando cioè le battute all’istante e servendoci del copione solo come traccia per l’azione. Comunque era facile capire Totò: mi basta soltanto un suo cenno, un fischio, un’occhiata di sbieco, uno sguardo particolare, una battuta di ciglia. E così, incredibile, riuscimmo a rinviarci di rimbalzo e ad allacciare le battute del copione pur parlando lingue diverse.
Io ho la passione dei balli folckloristici. Una volta improvvisai una specie di danza anglosassone folckloristica, e Totò, allora, fece una cosa che, fuori dalla scena non aveva mai fatto: accennò qualche passo di tarantella napoletana. Eravamo due attori divisi dalla lingua, ma assai uniti nelle nostre manifestazioni esterne. Divisi dalla lingua e dalle diverse divise che indossavamo, ma fatti proprio per essere amici.

Walter Pidgeon (attore), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Mi risulta che Totò, quando non aveva ancora vent’anni e recitava all’Orfeo, un piccolo teatro della zona della ferrovia, agguantò un ottuagenario principe, appartenente alla migliore nobiltà napoletana, il quale era, appunto, fra i suoi spettatori abituali. «Principe perché non mi adottate?» gli chiese un giorno Totò. «Io adottarti? Come sarebbe? Spiegati meglio», sobbalzò l’altro. «Ecco, principe. Io, vedete, sono figlio di un principe di sangue ma non di diritto. Se invece voi mi adottate, io divento principe anche di diritto. No, principe, non vi preoccupate per l’eredità, non è a quella che miro. Anzi, principe, se permettete, sarò io a fare un regalino a voi», spiegò l’attore. Il principe si alzò di scatto. «Totò, ma che ti credi? Io all’Orfeo ci vengo per guardare le ballerine, mica per comprare i guaglioni», rispose. E da quella sera non si fece più vedere in quel teatro.

Marco Rocco di Torrepadula (giornalista), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Renato Salvatori

Quando lavorai con Totò in I soliti ignoti ero ancora molto giovane. Avevo ventiquattro anni e Totò ne aveva cinquantuno. Rimasi immediatamente affascinato dalla sua eccezionale personalità. Non lo avevo mai visto in teatro. Quando fui al suo fianco mi resi conto delle dimensioni del «fenomeno Totò». Era un personaggio imprevedibile non si faceva condizionare né dalla sceneggiatura né dal regista, e del resto nessun regista avrebbe mai pensato di condizionarlo. Non faceva mai due volte la stessa scena. Improvvisava sempre. Totò aveva il dono di coinvolgere anche gli altri compagni di scena in questo suo continuo gioco creativo. Lavorando con lui, ci sentivamo trascinati, stimolati a secondarlo. Io ho avuto la fortuna di lavorare in uno dei migliori film di Totò, diretto da un regista come Monicelli che meglio di molti altri aveva compreso le qualità del grande attore, e con un cast di primo piano. Una fortuna perché tranne qualche eccezione, i film di Totò sono piuttosto scadenti. Insomma ricordo il mio incontro sul set con Totò come una delle mie più importanti esperienze. Ricordo che nei momenti in cui non ero di scena, rimanevo incantato a guardarlo recitare, ogni volta come se fosse la prima.

Renato Salvatori (attore), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Giuseppe Saragat

«La scomparsa del grande e popolare attore Antonio De Curtis è un grave lutto per il teatro e il cinematografo italiano e rattrista gli innumerevoli spettatori che per lunghi anni hanno ammirato ed amato i suoi straordinari mezzi espressivi al servizio di una profonda sensibilità artistica ed umana».

Giuseppe Saragat (Senatore della Repubblica), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Roberto Murolo

L’incontro con Totò è stato una delle emozioni più intense della mia vita. Lo considero il più grande comico del mondo. Mi incantava la sua faccia così mobile che poteva esprimere sentimento, dall’allegria sfrenata alla malinconia, dalla rabbia alla rassegnazione: uno specchio della sua personalità estremamente mutevole.

Roberto Murolo


Totò aveva una personalità talmente strana e talmente personale che qualsiasi regista doveva per forza subirne i limiti nel senso che era un grande attore: allora se tu avessi in mente un’inquadratura particolare e se lui non capiva quel movimento, non se lo sentiva, quella inquadratura non la potevi fare... bisognava lasciarlo fare, insomma; una volta mentre stavamo girando «Letto a tre piazze», si mise più o meno, con Peppino De Filippo che gli faceva da «spalla» e lo seguiva perfettamente, a recitare a soggetto ignorando le battute che erano nel copione. Cominciò a muoversi, scendere dal letto dove si trovava, tornare su, calpestare Peppino, inventando tutto o quasi: la scena riuscì perfetta e fu proprio un esempio di teatro napoletano dell’arte trasportato nel cinema... Non era il caso di stare a fare della regia: era come se avessi dato la macchina da presa in mano a Totò. I tempi di Totò erano perfetti, perché lui li aveva sperimentati anni e anni con il pubblico. Faceva mettere sui contratti che lui sarebbe arrivato sul set del film alle due del pomeriggio. «La mattina non si può far ridere», diceva. I copioni dei film che faceva non lo interessavano molto: «leggeva più l’almanacco della nobiltà che i copioni dei film che interpretava». Era amico dei produttori che lo facevano lavorare. «Il produttore deve guadagnare» diceva «se non guadagna fallisce, se fallisce io non lavoro più».

Steno (regista e sceneggiatore), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Ero legato a Totò da una vera e sincera amicizia. Non vi sono aggettivi per definire Totò. Totò era il massimo che un attore comico potesse rappresentare in tutta la storia del teatro e del cinema italiano. Totò non c’è più, e di Totò non ce ne saranno altri.

Alberto Sordi (attore), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Assieme a Totò girai nel 1958 il film «Totò nella luna». Non ricordo quasi niente di quel film, uno dei primi che interpretai, ma conservo un prezioso e delicato ricordo di Totò. Rammento la sua sicurezza sul set, la soggezione che m’incuteva ed il piacere che provai quando mi disse che io non ero un «comico», ma un «attore». Ci ritrovammo qualche anno dopo, per girare assieme un altro film, e mi ripete «Diventerai un grosso attore». Quando morì mi offersi di sostituirlo nel film «Il padre di famiglia» che Nanni Loy aveva in preparazione. Lo feci per rendergli un modesto omaggio.
Totò non era un attore, ma un «fatto» una forza concreta che si esprimeva in un modo surreale. Forse oggi si accetta un modo macchiettistico di fare ridere, ma si ride di meno. Un altro Totò, l’equivalente delle sue maschere, del suo tempismo, insomma un Totò inedito furoreggerebbe anche oggi; anzi, ci manca. Totò è stato il più grande «comico» che l’Italia abbia avuto.

Ugo Tognazzi (attore), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Cordoni di polizia, la folla che spingeva... Eravamo già alla Ferrovia, e la folla era incredibile. Hanno fermato di prepotenza il carro, e io, dentro la macchina, piangevo come un bambino... Poi arrivammo al Carmine, e là ci fu un applauso che durò cinque minuti buoni. Non ci hanno permesso di portarlo a spalla, come era stato deciso. Se lo sono acchiappati loro, la folla, la gente sconosciuta, e lo hanno portato in chiesa in trionfo. Il prete non riusciva a fare l’ufficio. C’era una gran confusione. Vollero che io parlassi. Ma che dovevo dire? Dissi solamente: «Totò, credo che questo sia stato il più bello spettacolo della tua vita». E non dissi niente più...

Nino Taranto (attore), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Con Totò ho girato un unico film, nel 1948: «Yvonne la nuit». E se metto quella pellicola in relazione con «Ultimo tango a Parigi», mi accorgo che veramente d’allora è cambiato il mondo: siamo in un’altra epoca. Perciò si rivedono i film di Totò con nostalgia: ad alcuni può anche sembrare comicità da educande.
«Yvonne la nuit» era la storia di una sciantosa e di un suo collega. Tutta la vicenda si svolgeva nel mondo del varietà. Totò, fuori del lavoro, si comportava davvero da quel gran signore che era: arrivava sul set con tanto di macchina di rappresentanza ed autista. Mi sembra che sulla macchina fosse inciso persino lo stemma della sua casata. Però non si dava arie; era soltanto un po’ distaccato. Apparteneva ad un mondo che è scomparso.

Olga Villi (attrice), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Sul principio, ai critici, Totò non piaceva: lo consideravano un contorsionista da vecchia fiera, un insulso buffone. Ma la platea era con lui e diventava sin da allora frenetica quando Totò al finale, si metteva a fare il pupazzo, attraversava e riattraversava il palcoscenico al ritmo della fanfara dei bersaglieri, bersagliere e fanfara lui stesso, dirigeva l’orchestra con strepitosa furia o svagato puntiglio, e intimava la chiusura del sipario dopo aver imitato con gli occhi, con le mani, con tutto il corpo l’esplodere di fuochi pirotecnici in un oscuro cielo immaginario. Ben presto, però taluni intellettuali d’avanguardia, come Zavattini, cominciarono a «scoprirlo»; venne così il debutto nel cinema; e, finalmente, il passaggio alla rivista.

Vittorio Viviani (scrittore e regista), «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973


Ne "I due marescialli" Totò era proprio felice di avere accanto nel film un attore come De Sica. E quando era felice, dava davvero il massimo. Il rapporto tra i due metteva tenerezza, perché da principio da parte di Totò c’era una grande deferenza e anche una certa timidezza. E lo stesso si riscontrava da parte di De Sica nei confronti di Totò. Insomma, era un minuetto di “Prego, Principe!”. “Ma si figuri, Commendatore!”. Poi, dopo un po’ di giorni attaccarono con il Vitto’ e l'Anto’ e fu una lavorazione straordinaria, fu una gara nobilissima a dare tutte le possibilità di pretesto comico all'altro. Fu un film che feci in un tornado di gioia e anche uno dei più rapidi che abbia mai girato.

Sergio Corbucci "L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011

In "Totò, Peppino e La dolce vita" (1961) si recitava in presa diretta; Totò come è noto improvvisava e Peppino De Filippo gli teneva testa. Eppure io con le mie battutine da copione, fra quei due mostri di bravura, sono riuscita a cavarmela, a giudizio di tutti. Quando a Ravenna è stato inaugurato il Cinema City, una multiplex di mio marito (12 sale, 2500 posti, 1500 parcheggi auto e un FEC, Family Entertainment Center), sono corsa a Roma a procurami i manifesti di alcuni attori celebri che amavo, Ava Gardner, Gregory Peck, Monica Vitti. E ho trovato anche un grande poster originale, ancora con il segno ingiallito delle pieghe, di quella esilarante pellicola con Totò e Peppino. Adesso qualche volta mi ci fermo davanti e dico: ecco, quella sono io.

Rosalba Neri


Il matrimonio di Lugano fu una sua invenzione. Era stanco di leggere sui giornali: "Abbiamo visto Totò con la fidanzata Franca Faldini”, e quel "fidanzata” sempre tra virgolette, come per sottintendere ironicamente e con malizia la verità. La verità era che vivevamo assieme senza essere marito e moglie. E allora si inventò quel misterioso rito nuziale svizzero per non sentirci coperti ogni volta di ridicolo.

Franca Faldini (Intervista di Maurizio Chierici, «Oggi», anno XXIV, n.24, 13 giugno 1968)

In extremis, un attimo prima del ciak mi sussurrò: ‘Leopoldo, mi potreste ripetere che cosa ci ha detto Roberto, la cosa ultima che ha detto a me?’. E mi confidò che in esterni, in mezzo alla gente, con i ragazzini che facevano chiasso e si buttavano addosso, lui perdeva la testa, non si raccapezzava. ‘Ogni volta è una sofferenza, io sto bene in teatro, quando esco per le strade mi suiciderei’.

Leopoldo Trieste "Dov'è la libertà?", nelle sue memorie rievocando le riprese al portico d’Ottavia



Che stupefacente, misteriosa apparizione! Il sentimento di meraviglia che Totò comunicava era quello che da bambini si prova davanti a un evento fatato, alle incarnazioni eccezionali, agli animali fantastici.

Federico Fellini

Considero una fortuna appartenere a una generazione che può testimoniare di aver visto Totò su un palcoscenico e, lacrimando di gioia e di godimento, di averlo applaudito insieme a platee esaltanti di contentezza e di gratitudine. Come raccontare, come riferire quel fascino inquietante da creatura extraterrestre, da spiritello lunare? Un angelo buffo che si è incarnato con la missione mai tradita di regalare buon umore, risate, festa, gaiezza e renderci tutti allegri, soddisfatti, confortati.

Federico Fellini

Totò è apparso all’orizzonte del cinema come arcobaleno dopo il temporale. Al suo dileguarsi ciò che resta dello spettacolo, sia rivista o pellicola, precipita di conseguenza in una grigia vacuità.

Aldo Palazzeschi

Quando io ho avuto Totò per "Il coraggio" e "Destinazione Piovarolo", Totò era molto legato alle sue radici popolari. Nel film "Il coraggio" volevo fare un ambiente borghese in cui s’inserisce un personaggio popolare, il povero napoletano straccione che si vuol suicidare, ma viene salvato da uno che strumentalizza il salvataggio, e lui si piazza in casa del salvatore con tutta la famiglia: “Mi hai salvato, sei mio padre, sta a te occuparti di noi”. L’ambiente di "Destinazione Piovarolo" è invece una piccola stazione di provincia, dove Totò è finito, la più schifosa e piovosa stazione di provincia dove, dal 1912 al 1958, anno del film, cerca di essere promosso applicando il regolamento. Totò e Cervi erano diversissimi. Cervi è un attore di teatro, del teatro borghese, bravissimo, ma aveva nei confronti di Totò una certa piccolissima sufficienza. Certe sbrodolature che erano l’invenzione di Totò non entravano nei canoni tradizionali di una recitazione borghese. Totò era imprevedibile. Ma di questa sottile tensione io ho cercato di avvalermi. Certe espressioni di Cervi che guarda Totò in quella maniera... ineffabile, erano in realtà stupende ma erano al di fuori del personaggio, erano di un attore che recita con un attore diversissimo da lui. Totò era in realtà molto distruttivo, non professionalmente ma dal punto di vista umano. Una specie di pigrizia napoletana, non so. Gli parlavo di certe soluzioni per il personaggio, del retroterra che gli si poteva dare, e lui sembrava improvvisamente stanco, mi diceva a bassa voce: “Mimmo, dimmi cosa vuoi che io faccia”, e mi bloccava, mi faceva proprio soffrire... Lui era rimasto alla cultura delle sue origini: il cinema non lo amava, era un attore da strada. In Destinazione Piovarolo, vestito da capostazione, mentre giravamo con le macchine che non si vedevano, gli si accostano dei veri viaggiatori e gli chiedono il treno per Pescara. Lui, con una serietà e una finezza incredibili, li indirizzò a un treno che quelli presero, e che finiva chissà dove! Ma fu una scena stupenda. Attore da strada era.

Domenico Paolella ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)

Quella che Age e Scarpelli consegnarono al regista per "La banda degli onesti" era già in partenza una signora sceneggiatura. L’ossatura del film è tutta loro. Totò e Peppino l’hanno infarcita ulteriormente durante la lavorazione. Succedeva che prima di una scena Totò convocasse Peppino e me in un angolo del set, e lì, come costumava ai tempi della commedia dell’arte, uno diceva una cosa, uno un’altra e si inventavano delle gag fuori dal copione. Quindi al ciak ognuno dava un ulteriore contributo personale così come gli veniva in mente. L’idea, per esempio, di velocizzare la sequenza dei soldi la ebbe Totò lì per lì. Sbaglia, però, chi definisce Peppino la spalla di Totò, perché Totò era un grande comico e Peppino era un grande attore comico. E tra una dote e l’altra corre una bella differenza. Sul piano umano Totò era una persona davvero eccezionale, ha fatto del bene a piene mani a tutti. Lavorarci era inoltre un andare a divertirsi. Comunque, era tanto spassoso sul set quanto pacato appena smetteva i panni della scena. La prima volta che mi invitò a casa sua mi trovai d fronte un gran signore che, sebbene affabile, incuteva soggezione.

Giacomo Furia ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)

Non è che con Totò mi trovassi proprio a mio agio però lui aveva una grande stima, un grande rispetto per me. Totò poteva permettersi di fare tutto, cinema e teatro e sempre con una maschera, io mi preoccupavo tantissimo di non cadere in questo errore... Ci ho lavorato sempre bene e ci siamo trovati d’accordo in tante cose. Cominciavamo ad andare sul set alle due, perché prima di allora non ce la facevamo in quanto che Totò era abituato ad andare a letto alle tre-quattro di notte e faceva l’alba, lo finivo il mio lavoro alle otto-nove e andavo dritto a letto perché ero stanco. Ci si trovava alle due sul set con Totò a ricombinare la sceneggiatura; il soggetto era quello, la base era quella, ma era tutto campato in aria. E ricominciavamo il soggetto, il soggetto vero e proprio. Il primo esperimento fu Totò, Peppino e la malafemmina. Questo tipo di film andò avanti sempre su questo binario: ci incontravamo a casa di un produttore e si combinava tutto ma non il copione che, benché io lo chiedessi, non esisteva mai! Ogni film con Totò era per me una lotta, una lotta disperata. A lui per portarlo su un piano di umanità, a me per stare un po’ tranquillo e salvarmi il più possibile da quelle cose che facevano fare a Totò.

Peppino De Filippo ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)

"Arrangiatevi" fu girato in gran parte nella casa di tolleranza d'alto bordo di via Fontanella Borghese, a Roma. Dopo l’avvento della legge Merlin, le case erano state chiuse da una decina di giorni: quando vi entrammo per cominciare le riprese c’erano ancora le persiane fermate con il lucchetto, tutto l’arredamento intatto, e seduta in un angolo trovai la tenutaria, vestita di nero come se fosse a lutto. In piedi alle sue spalle, il genero le ripeteva in tono consolatorio: “Vedrete mammà che le riapriranno, si tratta di un periodo transitorio, forza, non prendetevela così!”. Quando, per girare, togliemmo i lucchetti alle persiane accadde il finimondo, perché i vicini non avevano ma visto cueHe flpestre spalancate. Ci fu persino un violento litigio tra Totò, Peppino De Filippo e l'onorevole Michelini del Msi che abitava nei pressi e sosteneva che era uno sconcio, un vero scandalo, che non si doveva mettere in mostra un ambientaccio simile, e di quel passo dove diamine sarebbe finita la moralità? La gente, invece, e soprattutto quella bene, appariva intrigatissima dal casino. Difatti, siccome nel film c’era Laura Adani allora duchessa Visconti di Grazzano, avemmo svariate invasioni di blasonati che, con la scusa di farle un saluto, curiosavano in giro tra i lazzi di Peppino De Filippo che, dato il luogo, non aveva difficoltà a fare dell’umorismo un po’ pesante, pungolato dalle risate di Laura Adani. Fino al giorno in cui Totò, il quale nel privato viveva con dignità la sua discendenza principesca e non ammetteva di scherzarci sopra, la chiamò da parte per dirle che, quale appartenente a una grande famiglia, non doveva assolutamente stare a quegli scherzi, non era corretto che lo facesse.

Mauro Bolognini ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)

Se dovessi definire Totò, direi che era un poeta della comicità. Lo apprezzavo molto anche come uomo perchè in lui l’eleganza formale si fondeva con una squisita semplicità. Stargli vicino era come assistere a un interminabile spettacolo, perfetto nei tempi e nelle trovate sceniche. Quando lavoravamo insieme mi sorprendevo ad aspettarlo sul set per il piacere di vederlo vivere.

Mauro Bolognini

L’uomo, la bestia e la virtù era un lavoro di Pirandello. lo ero ‘la bestia’, e ‘l’uomo’ era un comico italiano di nome Totò, che sosteneva di essere diretto discendente di Carlo Magno; lo chiamavano Sua Altezza perché sosteneva anche di essere principe. Magari lo era. Era buffissimo: “Pronti per la scena, Altezza”, dicevano; lui entrava sul set e gli tiravano una torta in faccia. Viviane Romance era ‘la signora’. Passava le sue giornate cercando di nascondermi all’obiettivo con certi suoi lunghissimi fazzoletti. Proprio una diva del cinema all'antica, del tipo che non ho mai conosciuto bene. Non saprei come descrivere il film, era talmente strano. Il regista era un tale di nome Steno. Lavorava con degli scrittori; erano una squadra. Ma il marito di Viviane Romance, un egiziano, scriveva il dialogo per la moglie, e senza la minima relazione con Pirandello, col principe Totò o con me. E poi lei parlava francese, il principe e io parlavamo in italiano e il dialogo non aveva il minimo senso. Non c'era alcun nesso.

Orson Welles ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)


Ho un ricordo di Totò favoloso, perché nella mia lunga carriera ho trovato pochi “signori”: lui, indipendentemente dal fatto di essere stato, come affermava, discendente diretto dell’imperatore di Bisanzio, era veramente un signore d’animo. Inoltre aveva preso una simpatica cotta per il mio modo di cantare, in particolare in napoletano, in modo confidenziale in un momento in cui il napoletano si cantava in modo classico. Mi sentì cantare "Malafemmena" e mi disse: “Io ti devo fare prendere per una serie di film che ho in progetto con Peppino De Filippo”.

Teddy Reno ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)

In "Totò, Peppino e... la malafemmina" gli sceneggiatori non si spremevano molto le meningi. Io, che agli stabilimenti della De Paolis me ne stavo sempre attaccato a Peppino e Totò, vedevo che tutte le mattine gli davano dei fogliettini fatti giorno per giorno, senza capo né coda. “Ma noi qui ci roviniamo la faccia”, dicevano. E allora cercavano disperatamente una soluzione per non rimetterci troppo. Un giorno sento che Peppino dice a Totò: “Senti, perché non rivoltiamo la situazione che c’è in Miseria e nobiltà, dove al comico veniva dettata una lettera?” A un certo momento mi accorgo che ridevano tutti e due, soddisfattissimi. Nessuno si aspettava questa scena della lettera, perché non era scritta nel cosiddetto copione, hanno preso di sorpresa tutti, compreso il produttore. Girano nel pomeriggio di quello stesso giorno, in presa diretta. In tutti noi c’era una difficoltà per non ridere; a un manovale delle luci, che chiamavano Polifemo perché era mezzo cecato, scappò improvvisamente una risata come fosse a teatro. “Chi è questo cretino?”, gridò Peppino De Filippo. Dovendo rifare tutto il produttore aveva perso duecentomila lire di allora, roba del genere, ed era disperato. Polifemo fu praticamente licenziato ma io mi resi parte attiva per creare una specie di commissione interna per riprendere questo poveraccio che in fondo aveva riso solo perché non ne poteva più; e infatti siamo riusciti il giorno dopo a far sì che non venisse licenziato. Chiesero a Totò e a Peppino di rifare la scena, ma quel giorno non se la sono sentita di rifarla, non erano nelle condizioni di spirito, perché il comico dentro deve essere assolutamente tranquillo mentre loro erano arrabbiati perché dovevano ripetere una scena venuta magnificamente. Hanno dovuto aspettare due o tre giorni, e finalmente hanno rifatto la scena, che è diventata poi uno dei pilastri del film.

Teddy Reno ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)

La decisione di portare in cinema La patente di Pirandello come uno degli episodi di "Questa è la vita" la prendemmo assieme Brancati e io e ne scrivemmo insieme la sceneggiatura. Poi la proponemmo per Totò. Ricordo una cosa che mi disse Totò a fine film: "Caro Zampa”, mi disse, “se io potessi sempre recitare dei testi come quelli che lei mi ha dato e fare cose di questo genere! Invece faccio tanti film in cui sono costretto a inventarmi tutto, il mattino arrivo in teatro e trovo che non c’è niente, debbo creare i lazzi, le battute, tutto da zero”. Questo me lo ricordo, pace all’anima sua, testimone onesto di quanto lui mi disse. Per questo episodio Totò lo volli proprio io. Brancati era entusiasta all’idea di fare interpretare Pirandello da lui. Diceva che poteva renderlo perfettamente.

Luigi Zampa ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)

Fui scritturata per Totò a colori. Ero una sciocchina che stava a Capri ma voleva andare in montagna. Avevo un orso invece di un cane e degli amici schivi che si buttavano in terra per me. Finché arrivava Totò, un fantoccio con la maglietta a righe orizzontali, e spariva l'ambiente. C’era qualcosa di surreale nella sua recitazione mescolata all’esperienza del capocomicato napoletano di sintetizzare con successo elementi opposti. Ecco cosa intendo. Un grande attore è raro che dimentichi di recitare fuori dal set o dal palcoscenico. Nel suo caso, invece, la distanza era palese. Totò aveva conosciuto abbastanza bene Vittorio Caprioli che è stato mio marito e che aveva avuto in compagnia. E per questo stringemmo una certa amicizia. Avevamo in comune una grande passione per i cani. Mi faceva tenerezza vederlo, accompagnato a volte dalla Faldini, tutto elegante, sigaretta con bocchino in una mano e un volpino nell’altra, come fosse una borsa stravagante. Ci teneva a essere un signore. E lo era per davvero. Rifare la ‘signorina snob’ non è stato difficile, perché era un personaggio, non un abbozzo; scritto, concepito come un personaggio, poteva essere anche visivo. Il testo era mio. Quello di Totò a colori era stato un pochino modificato dalla loro sceneggiatura, non era esattamente il mio ideale, era un po’ forzato, un po’ caricaturale. La situazione si era dovuta adattare alla storia del film, mentre secondo i miei canoni la ‘signorina snob’ era una veramente chic. Ma nel complesso restava un personaggio abbastanza giusto. Non ho mai fatto un film come fossi io, nella realtà; solo nei recital mi presentavo come me stessa, sempre con il mio vestitino nero di Capucci.

Franca Valeri ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)


Era uno spasso continuo. Era una gara fra leoni, molto rispettosa come gara, ma era un'emulazione costante. Be’, c'è stato un periodo che Totò faceva dieci film all’anno. Ogni film di Totò durava tre o quattro settimane, perché, voglio dire, tutta questa pletora di produttori si avventarono su Totò; infatti con il minimo di rischio acquistavano il massimo del guadagno, perché era chiaro che un film di Totò veniva acquistato a scatola chiusa. Pur dove ci sono delle banalità paurose, sia nella trama che nel testo o nella sceneggiatura, però Totò è come un raggio di sole e in un film tre o quattro momenti meravigliosi ce li ha sempre e questo finisce per far dimenticare tutta la bruttura di un film, di un cast non adeguato. Totò nella vita rideva raramente e non faceva nulla per far ridere. Erano quasi due personalità diverse. Mai raccontata una barzelletta, mai. Mentre si aspettava di girare si parlava di tutto, era un uomo che pur non avendo una salda estrazione culturale, si era formato una sua cultura, leggeva, ascoltava, si interessava di tutto, ma ripeto, nella vita non era divertente. Era un uomo triste, come del resto lo è Eduardo o lo era Peppino. In realtà poi, far ridere è molto più difficile che far piangere. Far ridere è veramente una fatica; con un bel drammone chiunque può raggiungere lo scopo, mentre strappare una risata clamorosa... perché con Totò si trattava non di sorrisi, ma di trascinare il pubblico in boati di risate.

Gianni Agus ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)

Si può fare l'ipotesi che Totò nella commedia italiana rappresentasse lo zona metafisica, non i caratteri ma l’imponderabile, il grottesco, l’inverosimile, i piccoli personaggi e i fatti diversi di cui è ricca la nostra cronaca e che sorprendono sempre per quella loro aria inventata eppure plausibile, il morto che si fa vivo dopo vent’anni e mette nei guai la giustizia e il paese, un consiglio comunale che gioca al totocalcio per pareggiare il bilancio, il maiale che cade dal terzo piano e accoppa un passante, la famiglia distrutta dagli errori dell’ufficio anagrafico, quel sottomondo che dal Novellino al Pirandello delle novelle paesane non sembra essere affatto cambiato; infine, un’Italia minuta, le cui leggi biologiche restano estranee al corso della società in progresso di cui fa parte. Per questo Totò va cercato nel suo centinaio di film, non in uno solo, nella continua follia di una maschera che non fa della satira o tanto meno della sociologia ma propone esclusivamente se stessa. Totò ha potuto essere lo jettatore che vuole una patente per esercitare meglio la sua funzione (appunto, Pirandello), o il ‘morto’ professionista utilizzato per sviare le indagini dei doganieri, o il padre di numerosa prole che ‘cerca casa’, e la trova persino in una ex casa chiusa. Ha potuto fingersi gentiluomo, ladro, generale, soldato, mondano, spia, ballerino, avventuriero, dottore, pazzo, uomo d'affari, sonnambulo, eccetera, proprio perché la sua sola presenza caricaturale smentiva tutte le possibili attribuzioni. Nella frantumazione della commedia dell’arte, mentre i ‘servi’ Brighella, Arlecchino, Pulcinella si sono dati a rappresentare il mondo possibile nelle vesti dei loro padroni, Totò si è dedicato a illustrare, come in una striscia comica, dunque sempre à suivre, l’assurdo della sua presenza in quel mondo. Una trovata in fondo letteraria, di confutazione della realtà fatta servendosi dei suoi propri mezzi, con una sicurezza e un disegno aristocratico, che conferma almeno il titolo bizantino del suo inventore.

Ennio Flaiano ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)


Cosi conobbi Totò, e nei limiti delle nostre due timidezze, diventammo quasi amici. Totò era un "signore”, perlomeno del signore meridionale aveva la calma, la tolleranza, la cortesia. Questa fu la prima impressione. Salutava togliendosi il cappello, non faceva mai circolo attorno a sé, non raccontava storielle, nè cadeva preda di quelle concitate allegrie o depressioni che, nel lavoro del cinema, sono il prodotto delle lunghe e inspiegabili attese. Quando gli consegnavo il foglio delle sue battute, egli lo leggeva assumendo un’aria serissima, ma ad ogni parola, con una sorpresa sempre nuova, il suo volto cominciava a scomporsi in una reazione continua, apparentemente comica, e di una intensità infantile. Un re da favola, che avesse letto il discorso preparatogli dal ciambellano, non avrebbe espresso in altra forma la sua contenuta meraviglia. Un minuto dopo era pronto a dire nel migliore dei modi le povere cose da noi scritte. Totò va cercato nel suo centinaio di film, non in uno solo, nella continua follia di una maschera che non fa della satira o tanto meno della sociologia ma propone esclusivamente se stessa. Ha potuto fingersi ladro, gentiluomo, generale, soldato, mondano, spia, ballerino, avventuriero, eccetera, proprio perché la sua sola presenza caricaturale sentiva tutte le possibili attribuzioni. Totò si è dedicato a illustrare, come in una striscia comica, l’assurdo della sua presenza i quel mondo. Una trovata in fondo letteraria, di confutazione della realtà fatta servendosi dei propri mezzi, con una sicurezza e un disegno aristocratico.

Ennio Flaiano («Il Piccolo», 15 febbraio 1998)


Mattoli era un semplice, ma un nevrotico. Al momento di girare avrebbe voluto che la scena fosse già girata. Insomma non aveva molta pazienza, né faceva granché per rendersi gradevole o familiarizzare. Oltretutto andava a simpatie. Se una persona gli era antipatica, aveva passato un guaio, poteva essere cattivissimo. Ricordo che una volta Mattoli disse: “Senti Coso” a Totò, e allora Totò gli rispose: “Avvocato, io non solo ho un nome e un cognome, ma per lei, in questo caso, anche un titolo: mi chiami principe!”. Sì, con Totò ha lavorato tanto, ma non è che gli fosse molto simpatico. Tirava via, faceva le inquadrature a teatrino, anche perché credo che il film comico non gli piacesse. Difatti fece i film comici nel dopoguerra, un periodo già di decadenza per lui. Quelli invece che diresse nell’anteguerra, di altro genere, erano film molto più curati

Aldo Tonti ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)

C’era questa Ferrania che stava facendo la pellicola a colori. Nessuno ci credeva, nessuno si capacitava che sarebbe venuta davvero fuori con una pellicola a colori. Allora ero a contratto con De Laurentiis, e dovevo andare a fare La tratta delle bianche e non mi ci mandarono più, tant’è vero che Comencini si offese con me. Mi fecero restare a Roma proprio per quest'avvenimento del colore. Non so perché vollero affidare il compito a me, so che Tonti era occupato e credo che gli altri operatori non avessero il coraggio di imbarcarsi neH’impresa. Mi dettero settanta metri di pellicola, facemmo dei provini, e vennero fuori colorati per davvero. Allora andai da Dino e gli dissi: “Guarda, per come dicono di fare il colore quelli della Ferrania io non sono capace, perché loro raccomandano di illuminare la scena come una cartolina a flash, insomma pretendono che non ci sia nemmeno un’ombra o una mezza ombra ma tutta luce piena”. Dino insistette, io d’altronde non avevo modo di controbattere le istruzioni della Ferrania, così mi misi un po’ d’accordo con Steno, lo avvertii che il materiale sarebbe venuto fuori tipo “Il Corriere dei Piccoli”, e difatti Filippone fece pure le scene alla “Corriere dei Piccoli”, tutte colorate, con le porte verdi e le lenzuola azzurre anche perché ci dimenticammo della pellicola colori e così pensammo che sarebbe stato come nel bianco e nero, che uno fa la biancheria gialla perché risulti bianca. Insomma fu un casino, praticamente non ci preparammo per niente, c’erano solo questi tecnici della Ferrania che più o meno davano un indirizzo. Però con i sistemi di illuminazione che erano quelli del bianco e nero tutto diventava difficile perché, al posto di una lampada mettiamo da dieci candele, ce ne voleva una da diecimila. E quindi eravamo costretti a mettere tante lampade una vicina all'altra per avere l’enorme luce necessaria. Le luci furono bestiali, a Totò spesse volte gli fumava la parrucca. Poi piano piano, quando cominciai a non dare del tutto retta ai tecnici della Ferrania, riuscii a calare un po’ le luci e ottenni anche qualche piccolo effetto. Ad esempio secondo loro non si poteva fare il raggio attorno a Totò quando recitava il burattino sul palcoscenico. Invece io feci di testa mia e difatti venne bene. Appena finita una scena, Totò cercava di scapparsene dal teatro, mi sembrava una farfalla accecata e sbruciacchiata dalla lampada. Una sera si sentì male, aveva la parrucca arroventata perché, oltre ai riflettori, attorno alla macchina da presa si accendeva, al ciak, una corona di lampade che era stata ribattezzata “il mostro”. Così gli dovettero mettere una borsa di ghiaccio in testa, perché gli era venuto una specie di colpo di calore. Quando poi anni dopo si ammalò agli occhi, io ripensai tante volte a quelle luci, pensai che, chissà, potevano avergli provocato il primo danno alla vista.

Tonino Delli Colli ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)

I film di Totò erano un vero riposo, perché Totò risolveva il sessanta per cento dei problemi da solo. Un animale di spettacolo. Bastava che gli davi un canovaccio, e lo riempiva lui senza problemi. Veniva a lavorare che non aveva neanche letto la sceneggiatura, ma aveva l’abilità incredibile di non uscire mai dal personaggio, mai. Le cose in cui era più straordinario venivano fuori quando il soggetto gli offriva il pretesto per i suoi numeri di aggressività. Bastava la spalla giusta, ed erano miracoli!

Lucio Fulci


L’idea della serie scarpettiana di Totò fu di Vincenzo Talarico. Ce la disse nello studio di Ponti: "Perché non fate questo?”. L’idea era ottima, perché i soggetti soliti per Totò, con la trovatina banale, non erano più sufficienti, mentre lì c’era un contenuto, una trama, dei personaggi. Tutte le volte che il teatro ha potuto collaudare una cosa, questa cosa si valorizza enormemente. Tant’è vero che nei film di Totò quelli che sono un po' meno riusciti sono quelli dove l’idea iniziale è un po’ troppo banale o troppo elevata. Totò esercitava un certo potere su Libassi, Broggi, questo tipo di produttori, e allora i giornalisti dicevano di lui che era un attore sciupato, rovinato, e lui: “Qui bisogna fare per forza un bel film”, e si fece una commedia francese, con attori importanti, si fece Sua Eccellenza si fermò a mangiare, che era una cosa rodata, buona. È per questo che Scarpetta andava benissimo. Quando si faceva per esempio un Totò Tarzan, non c’era una vera costruzione, c’era solo un’idea, che si logorava velocemente. Miseria e nobiltà è nato in un momento felice. Totò non sempre era dello stesso tipo di sentimenti nei miei confronti. Si irritava con me quando proponeva una cosa che io non mi sentivo, in buona fede, di accettare, perché lui ogni tanto si metteva in testa (non so se era qualcuno della corte che aveva intorno che glielo suggeriva) delle cose costosissime, difficoltosissime, e che io sapevo per esperienza che non avrebbero funzionato. C’era il clan Bragaglia che per esempio gli suggeriva cose in polemica con me... La scena lunghissima degli spaghetti è nata in una giornata di grazia, il merito credo fosse suo ma, non lo dico per falsa modestia, anche un po' mio, perché c’erano in quei tempi difficoltà tecniche incredibili, lo avevo fatto per esempio, per via del colore, un “fine del primo tempo” su un pezzettino di un quadro che sale. La commedia c’era, funzionava, con dei personaggi, con dei costumi giusti, la fotografia era di un ottimo operatore, mi pare che fosse Struss.

Mario Mattoli ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)

Lo dissi fin dall’inizio che era un’operazione sbagliata. "L'uomo, la bestia e la virtù" lo sceneggiammo io e Brancati. Totò non lo voleva fare, ma aveva il contratto con Ponti e De Laurentiis e non poteva tirarsi indietro. Era una fissazione di Ponti. Non aveva mai funzionato in teatro, perché doveva funzionare in cinema? Costò un sacco di soldi, e non fece una lira. Con le grane e le rotture di scatole che ci furono nel girarlo, soprattutto per via del marito della Romance, che la troupe chiamava Pallesecche. E lei pure non scherzava. A Welles chiesi una volta: “Ma perché hai fatto 'sto film?". “Perché sono ‘desperato’”. Difatti era dovuto scappare da Hollywood dopo La signora di Shanghai. Siccome il film fece perdere un sacco di tempo a tutti, Ponti non gli diede la prorata e Welles se la squagliò pochi giorni prima della fine della lavorazione. Non ne poteva più, continuava a scappare. Cominciò in quel periodo l’amore per la Mori, dopo i disastri con la Padovani durante l'Otello. Tra Welles e Totò i rapporti erano buoni. All’inizio Ponti diceva: “Che succederà con Totò?”. E io: “Totò se lo magna dopo due minuti”, e infatti nel film fu proprio così, e finì che Welles faceva la spalla a Totò, gli dava il pretesto per i suoi lazzi. Welles voleva recitare in italiano. Totò: “Meglio in inglese, lo capisco meglio!”. Povero Totò. Mi ricordo in macchina, io e lui, fermati a Trastevere da un mucchio di gente che gli diceva: “Totò, facce ride’!”. E lui: “Non ne posso più, sapeste come non ne posso più!”. Era un personaggio triste, Totò. A Napoli, poi, girare con lui era impossibile. Welles mi trascinava spesso con sé, in giro. La notte era capace di mangiarsi una quarantina d’arance. Aveva un appartamento a Napoli e da una parte c’era la Mori, dall'altra c’era lui che scriveva, lavorava tutta la notte sui film che pensava di poter fare. Girò addirittura un pezzetto di Mister Arkadin, allora, in mezzo a noi, proprio a Napoli. Una notte prese il comando di una nave all’una, guidando lui personalmente, con Steno che ci aveva il mal di mare! Campava di arance. Una sera ne contai quarantasette, mi terrorizzava. Carico di debiti! Quando lasciò Napoli scappando, le sue valige vennero messe all’asta. Welles sosteneva, per tornare a Totò, che fargli fare quel personaggio che lui definiva - mi ricordo benissimo perché scrisse una specie di relazione per Steno su questo - “sinistro e ignobile”, a un comico come Totò era un errore clamoroso. Una relazione di sessanta pagine, in inglese, per Steno su questo film, che fu tradotta da una segretaria, e chissà se Steno l’ha conservata. E finiva dicendo: “Ma perché facciamo questo film?”

Lucio Fulci ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)


Io e Tonino Delli Colli siamo stati i primi a usare il colore in Italia. Lui con "Totò a colori", io con una "Vita di Dante" proposta attraverso dei dipinti. Personalmente, però, continuo a preferire il bianco e nero anche se usandolo era facilissimo sbagliare: bastava che una lampada fosse appena un po’ scadente che ti trovavi dei neri terribili o dei bianchi sporchi. Secondo me, era molto più fascinoso del colore, consentiva un maggior distacco dalla realtà.

Alvaro Mancori ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)


Una sera, abbordai Totò. Non sapevo come cominciare. Gli dissi: «Le sono grato per il divertimento che ci offre. Lei ci libera dagli incubi, è un grande consolatore. Bravo». E lui, sfiorando col dito l'orlo della sua bombetta: «Bontà sua». [...] Gli esposi la mia opinione sulla difficoltà di far ridere la gente. «Lei» replicò, «crede proprio che la gente ride? Ride e piange. Il comico è come il giudice istruttore che indaga sui segreti degli indiziati di reato: e, di indiziati di reato, ce ne sono più di quel che si immagina. L'attore comico ha il coraggio di rivelare i reati; e, badi, l'esito dell'indagine e della relativa scoperta risulta, per la voce del comico, più grave di quello che porta alle manette. Sapesse come pesano certe meditazioni e certi rimorsi, mammamia». [...] Ci demmo appuntamento l'indomani in un caffè della vicina piazza Beccaria, quasi all'ingresso di una grande arena dove si erano fatti applaudire la bella Otéro e Clèo De Merode. Rammentammo anche loro. «Altri tempi», commentò Totò, «altre nature e altre voci. Vede, ora, uno come me che non ha voce, può cantare e farsi applaudire». «Altro spirito», aggiunsi io. E lui assentì: «Ah, di quello ne ho ad abundantiam: e frizza, sa, oh se frizza sulle piaghe». «Sulle piaghe?», commentai. «Quali piaghe?» Totò: «Lei deve essere un uomo fortunato. Mi dà l'idea che ignori le preoccupazioni; e che non sappia quel che si nasconde dietro la maschera del comico. Il comico è un uomo che soffre, profondamente triste. Cerca di dimenticare la sua tristezza, reagendo. Reagisce, imponendosi di ridere e di far ridere. Ah! Ah! Che allegria».

Luigi Maria Personè (Testimonianza per Totò, «Giornale di Brescia», 24 aprile 1987 e Totò: «Il comico è un giudice», «Il Gazzettino», 23 ottobre 1994)


L’unico ruolo cinematografico di cui vado fiero è quello in "Totò, Peppino e la malafemmina" dove faccio il giovane che i fratelli Capone cercano di distogliere dalla sbandata per una soubrette. Contrariamente a quanto è accaduto dopo la sua morte, Totò era allora molto osteggiato dalla critica, i suoi film si giravano con quattro lire e con copioni praticamente inesistenti. La lettera che ormai è diventata un cult nacque perché la sceneggiatura di Edoardo Anton e altri risultava debolissima. Giravamo alla De Paolis e, in mancanza di camerini, Totò, Peppino e io dividevamo uno squallido camerone. Totò si era sistemato al centro, io sulla sinistra e Peppino a destra. Ogni giorno perciò li udivo brontolare perché quello che trovavano scritto sulle pagine della sceneggiatura non faceva ridere. La loro conclusione era sempre la stessa: “E mo’ che ci inventiamo?". E inventavano, e come! Accadde anche con la lettera. Se ben ricordo fu Peppino a rammentarsi di una missiva in Miseria e nobiltà di Scarpetta. In quel lavoro era la spalla a dettarla al comico e la situazione era diversa, loro invece decisero di invertire i ruoli. E al ciak, senza fare alcuna prova, la inventarono di sana pianta scatenandosi come se invece che su un set si trovassero su un palcoscenico, davanti al pubblico pagante.

Teddy Reno ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)

Totò era un reazionario autentico, nostalgico di una società ordinata e di uno Stato paterno. Non per nulla la sua ambizione, da ragazzo, era stata quella di diventare funzionario di polizia, tanto che sua madre lo chiamava «'o spione». In realtà il suo sogno non era tanto di spiare, quanto di arrestare, le manette rappresentando ai suoi occhi il supremo simbolo dell'autorità. Ma forse gli sarebbe piaciuto metterle solo per poterle togliere.

Indro Montanelli (Quel viso, «Corriere della Sera», 16 aprile 1967)


La storia del film "Guardie e ladri" è alquanto complicata. Il soggetto era di Tellini che lo aveva proposto alla Magnani, che doveva interpretare la parte della ladra. Flaiano, e qualche altro forse, aveva fatto un trattamento, non una sceneggiatura. Fabrizi venuto a conoscenza del progetto se ne è subito innamorato - non ricordo se gli è stato offerto da Steno e Monicelli o se l’ha scoperto lui - comunque, superate le piccole difficoltà derivanti dall'antagonismo Totò-Fabrizi, il progetto andò in porto. Comunque la sceneggiatura vera e propria l’abbiamo scritta Steno, Monicelli e io, ha collaborato molto anche Fabrizi. Potrei citare come primi film della commedia italiana, film che non erano considerati tali, alla cui stesura io stesso ho partecipato, Guardie e ladri e Signori in carrozza, che pur essendo precedenti all’arrivo dei vari Sordi, Gassman, Manfredi, Tognazzi, ecc. sono commedie all’italiana.

Ruggero Maccari ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)


Sono passati cinquant’anni da quel film. Totò a colori era il primo lungometraggio a colori ed ero completamente impreparato di fronte al nuovo sistema. La Ferrania cominciava a fare la pellicola a colori. Nessuno ci credeva, nessuno si capacitava che sarebbe venuta davvero fuori. Allora ero a contratto con Dino De Laurentiis, dovevo andare in trasferta a fare La tratta delle bianche e non mi ci mandarono più, tant’è vero che Luigi Comencini si offese con me. Mi fecero restare a Roma proprio per questo avvenimento del colore, proprio per il primo film italiano a colori, con Totò protagonista. Non so perché vollero affidare il compito a me. Tonti era impegnato e credo che gli altri operatori non avessero il coraggio di imbarcarsi nell'impresa. Mi dettero settanta metri di pellicola, facemmo dei provini, e vennero fuori colorati per davvero. Allora andai da De Laurentiis e gli dissi: «Guarda, per come dicono di fare il colore quelli della Ferrania io non sono capace, perché raccomandano di illuminare la scena come una cartolina a flash, insomma pretendono che non ci sia nemmeno un’ombra o una mezza ombra, ma tutta luce piena». Dino insistette, io d’altronde non avevo modo di controbattere le istruzioni della Ferrania, così mi misi d’accordo con Steno, lo avvertii che il materiale sarebbe venuto fuori tipo «Il Corriere dei Piccoli» e infatti lo scenografo Piero Filippone fece pure le scene alla «Corriere dei Piccoli», tutte colorate, con le porti verdi, le lenzuola azzurre. Anche perché ci dimenticammo della pellicola a colori e pensammo che sarebbe stato come nel bianco e nero, dove uno fa la biancheria gialla perché risulti bianca. Insomma, fu un casino, pratica-mente non ci preparammo per niente, c’erano solo questi tecnici della Ferrania che davano un indirizzo. Questi colori ebbero un ruolo fondamentale nella costruzione di un’atmosfera quasi surreale, più conforme al varietà che al cinema. Gli accordi con la produzione prevedevano comunque la ristampa in bianco e nero se la realizzazione del colore non fosse stata adeguata. L’inconveniente più grosso era costituito dai riflettori. Per ottenere la quantità di luce sufficiente a impressionare la pellicola, le riprese in interni richiedono una luminosità tre-quattro volte superiore a quella necessaria per un film in bianco e nero. La nuova pellicola a colori era poco sensibile, di sole 6 ASA, mentre quella del bianco e nero era di 100 ASA. Perciò al posto di una lampada da dieci candele, ce ne voleva una da diecimila. E quindi mettemmo tante lampade una vicina all’altra per avere l’enorme luce necessaria. Per far venire fuori i colori accesi delle scenografie e dei costumi vennero utilizzati un numero enorme di riflettori. Sotto il fuoco terribile delle lampade, l’orso che Franca Valeri ha con sé nello sketch di Capri si incattivisce. Totò soffre enormemente il caldo. Alla fine del primo giorno di lavorazione si mette a letto mezzo accecato, con la testa che gli scoppia e gli abiti che scottano. Appena finita una scena, Totò cercava di scapparsene dal teatro, mi sembrava una farfalla accecata e sbruciacchiata dalla lampada. Una sera si sentì male, aveva la parrucca arroventata perché al ciak, oltre ai riflettori, attorno alla macchina da presa si accendeva una corona di lampade che era stata ribattezzata «il mostro». Così Steno gli fece mettere persino una borsa del ghiaccio sotto la parrucca, che cominciava lo stesso a fumare. Quando anni dopo si ammalò agli occhi, ripensai tante volte a quelle luci, pensai che, chissà, potevano avergli provocato un primo danno alla vista. Pian piano cominciai a non dare del tutto retta ai tecnici della Ferrania, riuscii a calare un po’ le luci e ottenni anche qualche piccolo effetto. Ad esempio secondo loro non si poteva creare il raggio intorno a Totò quando faceva Pinocchio sul palcoscenico. Invece feci di testa mia. Costruii una luce funzionale a questa vivace recitazione, liberando Totò da ogni impaccio e permettendogli di muoversi a suo piacimento. La fotografia cattura ogni trovata dell’attore. Ho cominciato a fare qualche effetto e mi sono accorto che i risultati erano buoni anche mettendo meno luce. C’è stata un’evoluzione nel colore delle riprese, lo si può vedere facilmente, perché il film è stato girato secondo l’ordine narrativo. Le ultime scene sono illuminate in modo meno piatto, più preciso.

Tonino Delli Colli (Direttore di Fotografia - Intervista di Chiara Supplizi)

Totò era come due persone in una. Quando era al di fuori del palcoscenico, a casa sua o per la strada, era un tipo di persona, sul palcoscenico diventava un altro. Nella vita privata era molto gentile ma schivo, non dava confidenza neppure a quelli che lavoravano con lui da molto tempo. Prima dello spettacolo non parlava con nessuno, stava chiuso in camerino, poi nel momento in cui metteva piede sul palcoscenico si accendeva, sembrava che esplodesse con tutto il suo umorismo, con la sua forza mimica, con le sue battute surreali. Anche nei film è spesso un personaggio surreale, nel contesto di una scena viene fuori con dei gesti, con una battuta al di sopra delle righe, una rottura totale con la situazione che si voleva rappresentare. Nei rapporti d’ogni giorno era sempre abbastanza formale, anche con quelli che lavoravano con lui, addirittura un po’ carente dal punto di vista umano, anche se sempre molto corretto, privo di tutte le rivalse, le ripicche, che ci sono spesso tra colleghi. Si raccontavano storie di gelosie folli, patologiche. Quando lavorava a teatro non faceva niente durante tutta la giornata, se non dormire a lungo. Dormiva sempre molto, mangiava, andava in teatro prima dello spettacolo. Arrivava con un certo anticipo, alle sei e mezza, sette per andare in scena alle nove. Si metteva sulla chaise-longue che aveva in camerino e riposava, probabilmente pensava alle gag che avrebbe fatto o a modificare qualcosa. Era sempre vestito con grande cura, quasi con ricercatezza: colletto duro, spilla sotto la cravatta, sempre doppio petto, bei vestiti, ben tagliati. Quando usciva dal camerino era un’altra persona, si faceva due pomelli rossi sulle guance, un po’ di riga agli occhi per segnarli di più, indossava una bombettina, un fracchettino strambo, sdrucito, era pieno di vitalità. Solo sul palcoscenico si scatenava, non si poteva immaginare che un signore, mezz’ora prima così riservato, potesse trasformarsi in quel modo. Altri comici nella vita privata sono uguali a come li vedi sul palcoscenico. Totò invece era un’altra cosa.vitalità. Solo sul palcoscenico si scatenava, non si poteva immaginare che un signore, mezz’ora prima così riservato, potesse trasformarsi in quel modo. Altri comici nella vita privata sono uguali a come li vedi sul palcoscenico. Totò invece era un’altra cosa.
Con Totò ho lavorato la prima volta nell’estate del 1947 in I due orfanelli di Mario Mattoli. Nell’inverno successivo Totò mi volle nella rivista C’era una volta il mondo e poi in Bada che ti mangio!: abbiamo lavorato insieme per due anni di seguito. Il famoso sketch del vagone-letto, che poi è stato ripreso in Totò a colori, l’ho fatto per la prima volta in C’era una volta il mondo. Era uno sketch per modo di dire perché alla fine era diventato lungo quasi come un atto di una commedia, durava quarantacinque minuti, mentre al momento del debutto durava sì e no dieci minuti. Ogni sera Totò aggiungeva qualche cosa. Per quanto riguarda lo starnuto, aveva cominciato con un accenno, vedeva che il pubblico ci stava e allora la seconda sera lo allungava, ma continuava a fare anche tutto quello che aveva fatto la sera prima. Una cosa si agganciava all’altra, con un rigore assoluto: inventava molto e, se riteneva che funzionasse, una volta che la metteva a punto non cambiava più una virgola. Lo sketch nasce da un canovaccio di Michele Galdieri, ma è una variante ferroviaria dell’antica farsa napoletana La camera fittata a tre. Qui i letti sono due, prenotati da Totò e dall’onorevole Trombetta, la terza persona è una bionda affascinante che chiede asilo nel loro scompartimento. Già prima che l’intrusa entri in scena, i due si guardano in cagnesco con la recondita speranza di cacciarsi l’un l’altro e occupare tutto lo scompartimento. Nel film la scena è affidata agli attori che l’avevano interpretata a teatro e cioè a Totò, Mario Castellani e a me. Totò ci ha messo le cose più carine, però a teatro era un’altra cosa. Totò a colori puntava tutto sul colore: nel vestito o nel trucco ci voleva sempre qualcosa di rosso o di verde. Tutto era coloratissimo, come nei film americani. Spesso i film fatti con Totò erano tirati via, fatti in fretta. In quel periodo facevo quattro, cinque film durante un’estate, uno dopo l’altro, senza neppure il tempo per ricordarmi le storie, del resto abbastanza idiote. Quando ho rivisto alcuni di questi film, mi sono accorta che Totò era di una bravura eccezionale. Sia che il film fosse bello o che fosse brutto, Totò era straordinario, riusciva a salvarsi sempre.

Isa Barzizza (intervista di Chiara Supplizi)


In fase di sceneggiatura Totò praticamente non dava nessun apporto. Ma appena arrivava sul set, partoriva un’idea dietro l’altra, inventava battute e situazioni comiche, ti trasformava di sana pianta anche la scena più banale. Totò, Peppino e la dolce vita era un film incasinatissimo, prodotto da parenti suoi, la figlia con il marito, tanto è vero che io arrivai in sostituzione di Camillo Mastrocinque che aveva litigato e se ne era andato. Non sapevo niente, non avevo neppure letto il copione, e c’era una scena di una specie di bar con un tavolino, e su un foglio lessi che Totò e Peppino avrebbero dovuto sedere attorno a questo tavolino chiacchierando. Ma di che cosa non era specificato. Gli dissi: “lo sono piombato qua, questo è quanto mi trovo tra le mani, però sono all’oscuro di tutto, e adesso che facciamo in questa scena del bar?”. E Totò, calmo calmo, mi disse di lasciarlo fare. Così, di sana pianta, mentre lo seguivo con la macchina e Peppino ordinava dello champagne al cameriere che gli suggeriva il Moét Chandon, Totò inventò uno sketch straordinario svisando Moèt Chandon in “Mo’ esce Antò" andando avanti sull’equivoco per diversi minuti. Tutti della troupe schiattavamo dal ridere, in quei casi spesso i macchinisti e gli elettricisti finivano con l’applaudirlo perché si divertivano come pazzi, inaspettatamente.

Sergio Corbucci ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)

Ho scritto la sceneggiatura di "Uccellacci e uccellini" tenendo presente un corvo marxista..." ma non del tutto ancora liberato dal corvo anarchico, indipendente, dolce e veritiero. A questo punto, il corvo è diventato autobiografico, una specie di metafora irregolare dell’autore. Totò e Ninetto rappresentano invece gli italiani innocenti che sono intorno a noi, che non sono coinvolti nella storia, che stanno acquisendo il primo jota di coscienza. Non scelgo mai un attore perché finga di essere qualcos’altro da quello che egli è, ma lo scelgo proprio per quello che è. Volevo un personaggio estremamente umano, cioè che avesse quel fondo napoletano e bonario, e così immediatamente comprensibile, che ha Totò. E nello stesso tempo volevo che questo essere umano così medio, così «brava persona», avesse anche qualcosa di assurdo, di surreale, cioè di clownesco, e mi sembra che Totò sintetizzi felicemente questi elementi.

Pierpaolo Pasolini (Lettera aperta, in Occhio Critico, Anno I n. 2, nov. 1966)

D'ogni grosso fatto criminoso s'è costruito la propria opinione, con slancio e competenza: Ghiani e Fenaroli sono colpevoli, Bebawi non ha ucciso e l'assassina doveva essere lei, il diplomatico Grande non sparò e sua moglie fu probabilmente uccisa da un servo. «Quando c'era Maigret alla televisione», interrompe Franca, «si fermava la casa. Non si doveva perdere una puntata. Macché puntata: una battuta». Lui conferma gravemente: «Cervi è un grande attore e io sono un poliziotto dilettante».

Silvio Bertoldi («Oggi», 1° dicembre 1966)


Nel 1949 la censura ancora non si era organizzata bene, risentiva ancora dell'anarchia degli anni immediatamente precedenti. Già comunque i produttori per conto loro, e a nostra insaputa, per non avere storie, avevano cominciato a far leggere i copioni all'addetto alla censura: Scicluna Sorge. Non esisteva una commissione ministeriale, era lui la censura. Era un italiano di Malta; era fuggito da lì durante la guerra ed era venuto a portare al Duce l'adesione di Malta, con un tempismo da record! Aveva ottenuto così un posto al Ministero e alla fine lo trovammo che dirigeva la censura. [...] Scicluna Sorge dava dei consigli ai produttori sulle scene da girare o da non girare. Così i produttori facevano difficoltà a noi: sembrava che la cosa partisse da loro, mentre invece partiva dall'alto.

Mario Monicelli (L'arte della commedia, Dedalo, Bari 1986)

Quello tra Totò e Fabrizi per Guardie e ladri fu un rapporto stupendo. Si trattavano con grande civiltà, con molto rispetto reciproco, anzi fu proprio allora che capii come una delle grosse furbizie di un regista fosse quella di mettere assieme due grandissimi attori perché in quel caso ognuno dei grandissimi attori tende a dimostrare all’altro che è privo di meschinità e trabocca di fair play, con la conclusione che il tutto sfocia in una lavorazione liscia come l’olio, paradisiaca.

Mario Monicelli

Di uno spiacevole incidente, che poteva costargli la vita, è stato vittima Totò, il comico numero uno del nostro schermo, noto negli ambienti mondani come il principe De Curtis, Gagliardi, Griffo, Focas, ovvero l'aristocratico dai cinque o sei cognomi. Mentre si girava nei dintorni di Roma una scena del film Guardia e ladro, Totò (il ladro) veniva inseguito per i campi da Aldo Fabrizi (la guardia). In quel momento si trovavano a passare nei pressi due carabinieri che - ignorando la finzione scenica, e richiamati dal fatto che Fabrizi gesticolava e gridava «Al ladro!», «Fermatelo!», «Arrestatelo» e altre frasi d'occasione -, non esitavano a estrarre le pistole per fare fuoco in aria allo scopo di intimidire il fuorilegge. Al primo colpo di pistola, il buon Totò, tremante di paura, si fermava, alzava le mani e aspettava calmissimo l'arrivo dei militi della Benemerita, i quali, avviliti e contriti, si rendevano subito conto di non aver a che fare con un volgare delinquente, ma con un asso della comicità. Scuse, giustificazioni, strette di mano e abbracci concludevano la tragicomica scena, mentre i due carabinieri approfittavano dell'occasione per farsi rilasciare un autografo dai due attori.

Italo Dragosei (Totò salvo per miracolo, «Hollywood», n. 283,17 febbraio 1951)


Durante la lavorazione de "L'uomo, la bestia e la virtù" un giorno Welles mi disse: "Ma che c’entro io tra un napoletano e una francese in questo lavoro?". Allora io gli chiesi perché aveva firmato il contratto, e lui ribattè: “Per fame, ecco perché”. Comunque, non mi creò mai dei problemi, non tentò mai di interferire. Anzi, ero io che a volte gli chiedevo un consiglio. Un giorno, finalmente mi suggerì qualcosa e poi aggiunse subito: “Ricordati che non bisogna mai dare retta a quanto suggeriscono gli attori”. Al termine di una scena, si ritirava invariabilmente in camerino. Mi sembra stesse scrivendo qualcosa su Moby Dick. Quando eravamo pronti per girare e si doveva chiamarlo, cercavano tutti di evitare il compito di disturbarlo, perché ne avevano un sacro rispetto. Ha sempre avuto un atteggiamento da gran signore. È uno di quei registi che, quando lavorano come attori per un altro regista, si comportano da ospiti e non da padroni [...] Fu Ponti a incaponirsi nell’idea di L’uomo, la bestia e la virtù, forse perché Pirandello gli dava la possibilità di avere dei grossi attori come Welles e Viviane Romance. Fu un tentativo di cast internazionale che in realtà non funzionò. Ne risultò un film ibrido. Comunque, io la sceneggiatura la feci con Brancati; non è che mi permisi delle cose a vanvera ma mi affiancai il più grosso sceneggiatore e scrittore siciliano, che certo era profondo in Pirandello.

Steno ("L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011)

Dovevo avere nove o dieci anni, quando, passando per Milano insieme a mia madre per andare in vacanza, siamo andati a vedere Totò al varietà. In uno dei suoi sketch, portava un'ampia crinolina non proprio della sua taglia e a un certo momento se la restringeva in un solo colpo e diventava una specie di fallo. Fu un effetto tremendo, pensi, io sedevo accanto a mia madre.

Steno in Jean-Louis Comolli, Francois Géré, Entretien avec Steno, «Cahiers du cinéma», n. 297, febbraio 1979

Totò a colori fu girato tutto negli stabilimenti della Vasca Navale. Era il primo film a colori italiano e le luci erano spaventose. Totò fu costretto a mettersi una borsa di ghiaccio sotto la parrucca, data la violenza dei riflettori. Bene, la parrucca a un certo momento gli fumava. Con Delli Colli non ci eravamo preparati in modo particolare alla lavorazione a colori. Contavamo sul tecnico della Ferrania, onnipresente in teatro di posa. Difatti ci stupimmo molto quando vedemmo che la biancheria, che nel bianco e nero per risultare bianca è gialla, era invece azzurra. In Totò a colori, che è considerata un po’ un’antologia di Totò, molte cose le girò lui così come voleva, io non mi ritenevo autorizzato a modificarle, dato che era quasi tutta roba del suo repertorio teatrale. Come ad esempio lo sketch del vagone letto, che nessuno meglio di Totò e Castellani poteva conoscere da fuori e da dentro.

Steno "L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011

Finito di girare andavamo sempre per i fatti nostri, magari giocavamo sul serio a pallone, mentre i grandi stavano un po’ tutti con la Merlini. Totò l’ho visto solo quando avevo delle scene da girare con lui e avevo sempre l’impressione che venisse all’ultimo momento. Stava già parecchio male con la vista, non vedeva proprio. Era molto stanco e questa cosa degli occhi lo stava massacrando: per un attore non poter prendere in mano un copione, studiarci sopra, dover essere costretto a farsi dire quello che c’è scritto per poi farci il lavoro che ci faceva lui, l’elaborazione, l’invenzione... Il rapporto della troupe con lui forse non era più quello gioioso che si instaurava quando stava bene. C’era una tensione maggiore a evitargli dei disagi, ovviamente c’era la paura di sbagliare e di dovergli far rifare la scena: per lui stare sotto i riflettori era una sofferenza. Ma se uno non l’avesse saputo, niente avrebbe fatto presupporre le sue condizioni: mai un gesto di insofferenza, di intolleranza, di impazienza, anche se nel cinema il contrattempo succede ogni due minuti. La troupe lo adorava e forse faceva anche poca fatica ad adorarlo perché lui finito il film portava una valigia piena di soldi. All’epoca c’era un po’ l’abitudine che alla fine della lavorazione il protagonista dava una cifra per brindare con tutti: lui dava proprio soldi, faceva donazioni, era la sua natura. Su ogni scena pensava a inventare sopra delle gag, diventavano tutti pezzetti suoi inventati. Si pensava che improvvisasse ma era invece di una precisione... Una volta stabilite le cose che diceva, da un ciak all’altro non inventava. Quello che mi colpì è che poteva benissimo andare a braccio ma che finiva nello stesso modo preciso ogni volta, come se avesse imparato a memoria battute e risposte. Ricordo che un giorno sono stato molto contento. C’era una scena del film in cui gli facevo la barba, ed era un ciak piuttosto lunghetto perché giravo da una parte, dall’altra, con un dialogo abbastanza fitto. Provammo, girammo, dopo il primo ciak facemmo il secondo e lui, bontà sua, si girò e mi disse: “Lei è un attore, eh?”, “In che senso?”, dico io. “Eh, un attore, preciso”. Uno può sempre riprendere un copione e rileggerlo, lui, non potendolo fare, memorizzava con una precisione...; e proprio per questo, dire a me “sai, sei un attore”.

Paolo Ferrari "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998


Se in molti casi la conoscenza ravvicinata di personaggi mitici delude, da vicino Totò ha invece rafforzato la profonda ammirazione che avevo per lui. Da un punto di vista umano era veramente qualcosa di straordinario. Aveva un titolo che molti dicono, scherzosamente e anche beffardamente, acquisito col denaro; secondo la mia esperienza diretta e personale la sua era una nobiltà che non si acquista col denaro, ma connaturata e congeniale con un animo gentile come il suo. Lavorare con lui è stato per me esaltante: prenderlo in 'Gambe d’oro' fu un’idea mia, ma devo dire che la mia non fu solo un’esperienza professionale. Giravamo il film in Puglia e la sera non c’era altro da fare che stare insieme. La cosa che mi colpì profondamente era che lui era di una grandissima solitudine, ma di una solitudine “in compagnia”, ho sempre avuto la sensazione che una solitudine “da solo” fosse per lui intollerabile. Restavamo a lungo dopo cena quasi senza parlare, capivo benissimo che era rapito dalla sua solitudine ma forse aveva paura di una solitudine totale, definitiva, che lo astraesse del tutto. Sulla scena sembrava così spregiudicato e sprezzante, nella vita privata era invece di un pudore quasi verginale, da educanda, era riservato, addirittura schivo.

Turi Vasile "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998


Al suo primo apparire è stato accolto da un applauso che sembrava non finire mai. Ha avuto a lungo le lacrime agli occhi. Anche Franca Faldini, nelle quinte. È la prima volta che assiste ai suoi spettacoli da quando gli è vicina. A Perugia, in un palco, era scoppiata a piangere come una bambina.

Sergio Sollima recensione della "prima" della rivista "A prescindere". Roma, novembre 1956


Totò e Peppino si capivano al volo, battuta contro battuta, pause... Con Totò ho solo una scena, nella parte finale, quando ci fanno la fotografia con “il torchio”. Che era poi Memmo Carotenuto, un attore simpaticissimo e straordinario, come il fratello Mario, tutti attori che hanno avuto meno di quello che meritavano. Totò si trovava a suo agio, per lui il set era il palcoscenico perché faceva quello che gli pareva: nella scena in cui io intervistavo “il torchio”, quel “Pronto, pronto, chi parla?” è tutto inventato. Forse abbiamo provato una volta, e poi al momento di girare anche se avevamo provato in una certa maniera era possibile che lui cambiasse qualcosa e bisognava seguirlo. Ma non era difficile perché anch’io avevo già la mia esperienza, avevo 25-26 anni ma avevo già le spalle quadrate. Si capiva quando bisognava attaccare, Totò dava il la, bastava uno sguardo, un tempo e uno attaccava subito. Era un signore vero, una persona garbatissima, gradevole, senza intolleranze. Ho lavorato con tanti attori, specialmente americani, che m’hanno fatto disperare, sempre isterici: se c’era il primo piano, ti giravano per metterti di spalle. Totò invece era uno che ti aiutava e basta. Il clima durante la lavorazione si può immaginare: simpatico, non c’era mai un filo di tristezza, preoccupazioni o problemi. Camillo Mastrocinque lo dirigeva sapendo benissimo che con lui bisognava aspettarsi dei cambiamenti nel corso della scena. Era un regista raffinato, una persona dolcissima, che aveva fatto tanti film con Totò, ed era un suo grande amico. Totò lavorava soltanto con gli amici: non negava la possibilità ad altri attori di lavorare, però si contornava di amici anche perché aveva voglia di stare a suo agio, tranquillo, senza patemi d’animo... Ricordo che mi ha portato due volte a cena; amava sempre durante il film fare queste cene tutti insieme al Grill del Grand Hotel. Non parlava quasi mai di lavoro, ed era divertentissimo, anche se c’era sempre un filo di malinconia; non era un mattacchione, ma nel corso della serata quelle quattro o cinque risate vere te le faceva fare.

Franco Interlenghi "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998


Conobbi Totò qualche mese fa per una serie di interviste per un settimanale. Parlammo oltre 4 ore. Su oltre cinquanta interviste Totò fu l'unico ad interessarsi di me e della mia collega intervistatrice... Nulla di sè faceva pesare agli altri, schietto, sincero, semplice... Parlò della sua malinconia/tristezza, delle delusioni subìte...

Fausto Antonini (Roma, 23 gennaio 1932 - Roma, 21 maggio 1996) è stato professore associato di Antropologia filosofica presso l'Università di Roma "La Sapienza", Istituto di Filosofia e Storia della Filosofia poi III Univesità.

Quando si dice “Totò non ha mai trovato il grande regista che gli ha fatto fare il grande film” è vero in parte, ma in parte è anche un luogo comune: quando si lavorava con Totò il problema era trovare un tipo di regia adatto alla sua personalità. [...] Totò aveva una personalità talmente strana e talmente personale che qualsiasi regista doveva per forza subirne i limiti. Limiti nel senso che era un grande attore: allora se tu avevi in mente un'inquadratura perticolare e lui non capiva in quel momento, non se lo sentiva, quella inquadratura non la potevi fare.

Steno "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998

Se sedete per un po’ nel camerino di Totò assisterete ad una processione di produttori, grandi e piccoli, che sfilano dinanzi a lui per proporgli contratti, nuovi film da interpretare. E lui accetta, finché può, finché ha tempo di fare film uno dopo Valtro. E incassa denari, milioni, molti milioni, forse tutti quelli che avrebbe dovuto e non ha guadagnato in passato, forse anche di più, molto di più. Ma Totò fa bene. Lui stesso dice: “È come vincere al Totocalcio o una quaterna secca al lotto”.

Roberto Sgroj «Cineillustrato», 1950

Ho un ricordo di Totò favoloso, perché nella mia lunga carriera ho trovato pochi “signori”: lui, indipendentemente dal fatto di essere stato, come affermava, discendente diretto dell’imperatore di Bisanzio, era veramente un signore d’animo. Inoltre aveva preso una simpatica cotta per il mio modo di cantare, in particolare in napoletano, in modo confidenziale in un momento in cui il napoletano si cantava in modo classico. Mi sentì cantare "Malafemmena" e mi disse: “Io ti devo fare prendere per una serie di film che ho in progetto con Peppino De Filippo”.

Teddy Reno, 1956. "Totò, Peppino e... la malafemmina" "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998

A teatro Totò arrivava con un certo anticipo, alle sei e mezzo - sette per andare in scena alle nove. Teneva molto spesso una chaise-longue in camerino: si metteva lì e riposava, probabilmente pensava alle gag che avrebbe fatto o a modificare qualcosa. Era sempre vestito con grande cura, quasi ricercatezza, colletto duro, spilla sotto la cravatta, sempre doppio petto, bei vestiti ben tagliati; quando usciva dal camerino era un'altra persona, si faceva due pomelli rossi, un po' di riga agli occhi per segnarli di più, una bombettina, un fracchettino strambo, sdrucito, ed era di una vitalità... non si poteva immaginare che un signore mezz'ora prima così riservato potesse trasformarsi in quel modo.

Isa Barzizza "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998


Il codice penale e l'araldica erano le due cose che lo appassionavano moltissimo. Amava moltissimo seguire i casi giudiziari importanti e fare via via ipotesi su chi poteva essere l'assassino. Allora ci furono i delitti Martirano, Ghiani, Fenaroli, Montesi: leggeva sui giornali tutte le varie versioni, poi, siccome l'avvocato Eugenio De Simone era spesso per casa, gli diceva: «Ah, io direi che l'assassino è questo per questo motivo», proprio con lo spirito del poliziotto. E ci godeva quando per caso ne azzeccava uno, era un vanto, nascevano delle discussioni...

Franca Faldini intervista di Alberto Anile, 1997


Nei suoi film Totò trovava ogni volta un modo divertente per presentare il mio personaggio. All’inizio aveva pensato con il regista di presentarmi in un’altra maniera: Totò si alzava, si spogliava, andava al settimanale, tirava un cassetto e dentro c’ero io che dormivo. Questa cosa fu preparata, la girammo ma poi non venne inserita. Però siccome lui voleva vendicarsi di qualche birichinata che avevo fatto (anch’io facevo degli scherzi), ad un certo momento mi fece chiamare dalla troupe: “Scusi, permette che proviamo se va bene dentro il tiretto, se ci sta ben comodo?”. Mi fecero allungare dentro, chiusero a chiave e dettero pausa. Pausa significava un’ora per mangiare. E io rinchiuso là dentro. Dopo dieci minuti mi vennero a liberare...

Carlo Croccolo, 1956. Sul set del film "Totò lascia o raddoppia?" "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998

I rapporti di Ponti e De Laurentiis con Totò erano sempre osannanti, soprattutto quando dovevano convincerlo a fare qualcosa che a lui suonava poco.

Franca Faldini ("Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fofi) - Feltrinelli, 1977)


Quando lo conobbi, famoso com'era, al culmine del successo, mi apettavo un tipo estroverso, brillante, rumoroso, amante del bel mondo. Invece mi si presentò un signore lisciato, di temperamento riservato, con la spilla nella cravatta.

Franca Faldini (Intervista raccolta da Silvio Bertoldi, Oggi n.48, 1 dicembre 1966)


Era un insieme di cose che aggiungeva ogni sera. Per quanto riguarda lo sternuto, aveva cominciato con un accenno, vedeva che il pubblico ci stava e allora la seconda sera lo allungava un po', però continuava a fare tutto quello che aveva fatto la sera prima. Una cosa si agganciava all'altra, con un rigore assoluto: inventava molto e, se riteneva che funzionasse, una volta che la metteva a punto non cambiava più una virgola.

Isa Barzizza "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998


Ricordo che ero molto guardingo, non volevo disturbare nessuno. Mattoli stranamente aveva della simpatia per me, tant’è vero che poi mi fece fare altri due film, Tipi da spiaggia e Guardatele ma non toccatele. L’unica cosa che gli chiedevo era di essere lasciato sul set quando giravano Totò e Peppino. Andavo a vedere in produzione e se leggevo che il giorno successivo c’era una scena con loro andavo sul set anche se non toccava a me. Totò lavorava mezza giornata, con orari ridotti. Portava sempre gli occhiali scuri, tranne quando girava. Era proprio al di sopra, riservato, silenzioso. Quando doveva girare si illuminava di colpo e appena staccava tornava come prima. Avevo vent’anni, ero molto emozionato a stare con lui. Era una persona adorabile, generosissima, un uomo come pochi ne ho conosciuti: lo aspettavano fuori Cinecittà tutte le mattine e lui dava denaro alle persone che avevano bisogno. Mi diceva che era una cosa che bisognava fare visto che eravamo fortunati a guadagnare.

Johnny Dorelli "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998


Con Totò ho fatto undici film e due spettacoli; perciò posso permettermi di dire che chi non lo ha visto sulla scena non ha visto nulla della sua grandezza. Quello dello schermo è un Totò al sessanta per cento perché le esigenze della regia, i movimenti della cinepresa, le costrizioni del set, lo impastoiavano, sebbene qualche suo passaggio surreale riveli come, sporadicamente e di straforo, certe libertà se le sia prese lo stesso. Tanto per fare un esempio, lo sketch del vagone letto che nasceva da una variante ideata da Michele Galdieri della farsa La camera fittata a tre, nella versione cinematografica di Totò a colori è poco o nulla rispetto a quello teatrale, benché anche lì, a farlo accanto a lui come a teatro, fummo io e Mario Castellani. la sua spalla ineguagliabile, che in palcoscenico lo intuiva al volo. Il che era un compito arduo perché Totò era imprevedibile, partiva a razzo su quanto gli frullava nella mente in quel momento e Castellani doveva tenere conto della sua mimica, delle improvvise pause, deg scatenamenti a fuoco d’artificio e dei subitanei tormentoni. Eppure, per come lo rammento io, ci riusciva sempre, quasi avesse delle antenne, ma senza ma darsi delle arie da unico attore in grado di farlo. Ricordo che al debutto in teatro, il vagone letto era nor sketch della durata di una decina di minuti; poi, via via si trasformò in una specie di atto unico, tre quarti d'ora di limpidissima comicità, perché Totò, secondo il suo costume, vi infilava ogni sera una gag diversa, lo saggiava con il pubblico e se funzionava ce la includeva. Mai più ho sentito in un teatro i boati di risate che suscitava Totò.

Isa Barzizza "L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011


In quel film gli sceneggiatori non si spremevano molto le meningi. Io, che agli stabilimenti della De Paolis me ne stavo sempre attaccato a Peppino e Totò, vedevo che tutte le mattine gli davano dei fogliettini fatti giorno per giorno, senza capo né coda. “Ma noi qui ci roviniamo la faccia”, dicevano. E allora cercavano disperatamente una soluzione per non rimetterci troppo. Un giorno sento che Peppino dice a Totò: “Senti, perché non rivoltiamo la situazione che c’è in Miseria e nobiltà, dove al comico veniva dettata una lettera?” A un certo momento mi accorgo che ridevano tutti e due, soddisfattissimi. Nessuno si aspettava questa scena della lettera, perché non era scritta nel cosiddetto copione, hanno preso di sorpresa tutti, compreso il produttore. Girano nel pomeriggio di quello stesso giorno, in presa diretta. In tutti noi c’era una difficoltà per non ridere; a un manovale delle luci, che chiamavano Polifemo perché era mezzo cecato, scappò improvvisamente una risata come fosse a teatro. “Chi è questo cretino?”, gridò Peppino De Filippo. Dovendo rifare tutto il produttore aveva perso duecentomila lire di allora, roba del genere, ed era disperato. Polifemo fu praticamente licenziato ma io mi resi parte attiva per creare una specie di commissione interna per riprendere questo poveraccio che in fondo aveva riso solo perché non ne poteva più; e infatti siamo riusciti il giorno dopo a far sì che non venisse licenziato. Chiesero a Totò e a Peppino di rifare la scena, ma quel giorno non se la sono sentita di rifarla, non erano nelle condizioni di spirito, perché il comico dentro deve essere assolutamente tranquillo mentre loro erano arrabbiati perché dovevano ripetere una scena venuta magnificamente. Hanno dovuto aspettare due o tre giorni, e finalmente hanno rifatto la scena, che è diventata poi uno dei pilastri del film.

Teddy Reno, 1956. "Totò, Peppino e... la malafemmina" "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998

Delle scene con Peppino non c’era quasi niente di scritto. A volte c’era solo ‘qui parla Totò’. Loro provavano pochissimo: s’incontravano, magari camminavano insieme verso il punto dove dovevano girare, parlavano fra loro dieci minuti, ‘Sei pronto?’, ‘Andiamo?’, ciak e via. Senza sapere cosa poteva succedere perché anche Peppino era un mostro. C’erano molti 'buona la prima' perché le ripetizioni non piacevano a nessuno dei due. La rifacevano credo per l’assicurazione; però facevano la seconda in modo che si dovesse scegliere la prima, perché era quella più naturale, più vera.

Johnny Dorelli "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998


Carlo Ludovico BragagliaContrariamente alle mie ambizioni non ho potuto mai, mai nella vita, realizzare un film inventato da me» ci ha detto. «Tra i radi progetti esposti ai produttori avevo formulato una volta l’idea di utilizzare Totò come Pulcinella e avevo già preso contatto con i grandi sceneggiatori Metz e Marchesi, che erano entusiasti dell’idea; però non avendo trovato un produttore che volesse fare il film, abbiamo rinunciato. Quest’idea di Pulcinella è derivata dalla grande ammirazione che mio fratello Anton Giulio aveva per il teatro popolare, soprattutto napoletano, e la commedia dell’arte. Non esisteva ancora altro che un’idea, con Metz e Marchesi non abbiamo neanche iniziata una trama, e se l’abbiamo formulata non me la ricordo. Avrei pensato di fare un film originale soprattutto per attribuire a Totò quelle capacità che io gli ho sempre riconosciuto, non di attore ma di marionetta, perché ho fatto ben sei film con lui ma non ho potuto mai realizzarne uno ideato come soggetto da me. Ritenevo che Totò potesse eguagliare la grandezza di Charlot, se avesse dato retta a me che desideravo inserire un attore comico in una trama drammatica. E qui viene uno dei miei paradossi: per fare un bel film comico, occorrono attori drammatici, per fare un bel film drammatico occorrono attori comici. La grandezza di Charlot non sta nell'invenzione del personaggio col bastoncello in mano, ma è dovuta alla comicità in contrasto con una trama che per sfondo ha il dramma, il patetico. Luci della città aumenta la grandezza comica di Charlot contrapponendogli una povera cieca che lo sogna come principe azzurro; quando in La febbre dell’oro mangia i lacci delle scarpe, la comicità nasce dal fatto che dietro c’è lo spettro della fame, il dramma. Tra i film di Totò che leggermente si accostano a questa formula cito Guardie e ladri, in cui la comicità di Totò nasce dal fatto che è un povero disgraziato e in contrapposizione ad Aldo Fabrizi. Avevo sempre suggerito a Totò di fare un film drammatico e a un certo momento avevo anche proposto a un produttore, che aveva accettato, di fare un film con Totò e la Magnani, la grande attrice, sfruttando reciprocamente le grandi qualità: doveva essere un film drammatico in cui la comicità di Totò e la stravaganza della Magnani risultassero dal contrasto. Non è stato possibile realizzarlo perché i due grandi attori avevano cominciato a pretendere un titolo più grande dell’altro. Totò si riteneva giustamente importante e voleva il nome prima della Magnani, la Magnani pretendeva a sua volta. Inventai allora una ruota in cui i due nomi si seguivano, non si sapeva qual era il primo e qual era il secondo. Alla fine sarei riuscito a convincerli, ma il produttore s’era talmente scocciato che non ne volle più sapere, anche perché era difficile fare entrare nella testa di un produttore di far fare a Totò un film drammatico.

Carlo Ludovico Bragaglia  "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998

Ho iniziato prestissimo, a tredici anni, perché dopo la guerra c’era la possibilità di andare a Cinecittà a fare le comparse. Con Sophia Loren, con cui ho pochi mesi di differenza, le prime cose che ho fatto al cinema sono stati i film con Totò. Nelle Sei mogli di Barbablù eravamo dentro la vetrina, facevamo le sei mogli, stavamo lì ferme, niente di più. In Tototarzan Sophia aveva il gonnellino di banane, io le foglie di ficodindia; mi vergognavo come una matta, con Sophia che mi diceva “Dai, non fare la stupida!”: mi incoraggiava, mettermi in due pezzi era una cosa di cui proprio mi vergognavo. E così ho conosciuto Totò, che era veramente un uomo straordinario. Dico straordinario perché eravamo delle ragazzine spaventate, lavoravamo non tanto perché si avesse la vocazione d’attrice ma proprio perché avevamo bisogno di lavorare, sia Sophia che io. Totò aiutava tutte le persone che avevano bisogno e più di una volta ha aiutato anche noi: invece di prendere le tremila lire al giorno come comparse, ci faceva dare la paga come generiche; oppure ci mandava a chiamare nei film che faceva, perché era così, un uomo stupendo.

Giovanna Ralli "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998


«Signor duca, lei ha trenta secondi per rispondere.... Quando mi dà lo stipendio?». Era una scena molto difficile, tutta un’unica carrellata. L’abbiamo provata e fatta una ventina di volte, perché ogni volta c’era un errore tecnico per cui bisognava rifarla. Alla fine l’abbiamo fatta bene, tutta, fino in fondo, e allora lui, proprio per farmi dispetto, mi rispose: “Questa non è una domanda pertinente, è una domanda impertinente!”. E io pfffff, cominciai a ridere. Mi presi una sgridata dal regista...

Carlo Croccolo, 1956. Sul set del film "Totò lascia o raddoppia?" "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998

Nel cinema italiano la maschera di Totò non ha ancora trovato la sua esatta collocazione filmica. Questo grande mimo fa ridere il pubblico, si direbbe, a dispetto del regista. Mai, finora, la macchina da presa ha colto il simbolo, l’universale di certe sue frenetiche pantomime. Nessun gusto, nessun rispetto direi, per la sua comicità, nessun accenno a una rappresentazione propriamente cinematografica. La comicità di Totò è a fuoco d’artifìcio, prima cresce e poi si apre. Il cinema non ha mai dato tempo alle sue invenzioni di svolgersi, non ha mai concesso a Totò di improvvisarsi, si direbbe anzi che s’è solo divertito a rompere continuamente la molla della sua fantasia automatica, spezzandone l’altezza, la profondità e il ritmo. E poi, quel trascriverne i moduli teatrali non è insensibilità, e profonda, a quelle che sono le leggi del linguaggio cinematografico?

Dino Risi (periodico "Schermi", 1949)

Di solito prima di andare sul set si andava nel camerino di Totò dove c'era Castellani che leggeva la scena che bisognava girare. Totò sentiva a orecchio se funzionava o meno. Se andava bene diceva: vabbene, e allora facciamo così. Se non gli suonava bene, cosa che succedeva spesso, allora cominciava a dire: ma no, ma qui potremmo dire..., qui potremmo fare..., io potrei..., tu fai questo..., tu fai quell'altro..., E si cambiava.

Giacomo Furia "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998

Riscrivevamo il copione, lui proponeva poi ognuno di noi faceva delle proposte che lui accettava o meno; metteva tutto insieme come si fa in teatro e poi facevamo i movimenti: provavamo due, tre, quattro volte la nuova versione, e solo dopo aver provato un quarto d'ora, venti minuti, mezz'ora, se c'era il tempo anche un'ora, allora uscivamo dal camerino e andavamo a girare. Quando si usciva fuori, quello che era stato stabilito non solo non si toccava, ma bisognava rispettare i tempi della prova, non si poteva nemmeno ritardare o fare la "faccetta", non si poteva fare niente.

Carlo Croccolo "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998

Il teatro è quanto di meno improvvisato ci sia, deve sembrare tutto molto naturale, molto nato lì per lì, ma in realtà bisogna sapere anche dove respirare. Totò era assolutamente così, anche nei tempi, nella lunghezza delle pause: c'è un punto che è giusto ed è solo quello. A maggior ragione in cinema, dove Totò era di un rigore assoluto. A volte, magari, alla fine di una sequenza metteva una cosa pazza sua, ma era una chiusura, un'espressione, un gesto, un'occhiata, non di più.

Isa Barzizza "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998


Poteva anche essere un difetto, aggiungere gag e allungare le sequenze. Lui stesso diceva a Corbucci: “Sai, noi la facciamo, se poi viene troppo lunga, ppù”. Il suo famoso “ppù” stava per “zac”, un taglio e via. Cosa che succedeva perché non si fermava più. Parecchie volte la scena veniva spezzettata, da una frase compiuta a un’altra si saltava attraverso un controcampo, qualche “ascolto”, si ritornava su di lui e il gioco era fatto. C’era il suo benestare, anzi lo suggeriva lui stesso...

Enzo Barboni "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998

Non ho mai sentito il disagio della macchina da presa, mi è sembrato sempre di stare su un palcoscenico, anche perché mancava poco che le maestranze facessero degli applausi a scena aperta, e alla fine della scena applaudivano, era veramente come a teatro. Si vedevano molti macchinisti, elettricisti, sarte, che schiattavano per non farsi sentire ridere, si tappavano la bocca, durante la scena vedevi proprio le lacrime che scendevano per il tanto ridere

Aldo Giuffrè

Totò era uno di quelli pignoli, che provava tutto, anche i respiri, anche i tempi, anche i movimenti, perchè diceva che il tempo comico è praticamente come la musica, dev'essere quadratissimo, talmente veloce da non far prevedere la battuta comica, però sufficientemente lento da farla capire. E' un tempo ideale difficilissimo da raggiungere. E infatti non tutti sanno far ridere.

Carlo Croccolo "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998

Nel corso di un film Fabrizi finisce col litigare con tutti. Ebbe anche un diverbio con Totò quando lo diresse in "Una di quelle" perché – in una scena di pioggia artificiale scrosciante – una comparsa che doveva dare uno spintone a Totò dicendo una battuta continuava a sbagliare e Totò, stufo di infracicarsi, gli aveva detto che scritturasse per il ruolo qualcuno minimamente in grado di recitare invece di una schiappa. Lui, tra le altre frasi pittoresche, gli rispose che la smettesse di fare il burattino e accadde il finimondo. Totò lasciò il set e non vi rimise piede che dopo due giorni e solo quando Fabrizi gli aveva presentato le sue scuse. Tutto questo però lo fa solo per via del suo caratteraccio che si accende come un cerino. Altrimenti non c’è persona migliore di Aldo. E nessuno che abbia tenuto Totò in più considerazione di lui, come del resto lo teneva Totò che di Fabrizi aveva una stima immensa come attore. Nella vita, poi, erano molto amici, Aldo era una delle poche persone dell’ambiente che Totò vedeva fuori scena.

Dante Maggio


A me piace viaggiare, a lui no. A me piace veder gente, a lui no. Io sono estroversa, lui introverso. Io amo sentire dischi, ballare: lui, niente.

Franca Faldini (Intervista raccolta da Silvio Bertoldi, Oggi n.48, 1 dicembre 1966)


Nel film "Napoli milionaria" Eduardo parla a Dante del personaggio del "finto morto".

La parte che poi fece in maniera divina Totò. Qualche cosa doveva essere successo al momento dell’assegnazione dei ruoli tra Eduardo e Totò proprio per quella parte del finto morto. A me andava benissimo, invece, la parte di Enrico. Girai anche poche scene come finto morto, dicevano che era una prova. Durante la lavorazione le cose andarono discretamente bene, ma il produttore, Dino De Laurentiis, era sempre sul set e so per certo che fu proprio lui a intervenire per far fare il finto morto a Totò. Sul set, montato a Roma, nella zona della Farnesina, c’erano alcune famiglie di popolani che De Laurentiis importò da Napoli per arricchire l’ambiente. In mezzo a quelle persone trovai un mio compagno d’infanzia e fu tale la gioia reciproca del ritrovarsi dopo molti anni, che il mio ricordo del film è legato soprattutto a quell’incontro.

Dante Maggio


Il suo corpo, più che un burattino, diventava un cadavere elettrizzato. E la sua intima esuberanza e vitalità diventavano poetiche proprio per questo suggerimento, questo beffardo presagio di morte. Totò danzava e recitava come se dicesse di continuo, in sottofondo: ‘Mi agito tanto e anche voi vi agitate tanto: ma fa lo stesso: siamo già scheletri dentro di noi, e finiremo, tutti, stecchiti’.

Mario Soldati 'Inventò la sua maschera funebre', “Il Giorno”, 18 aprile 1967

Mi resi subito conto, io che avevo imparato scrupolosamente il copione, di aver fatto una fatica inutile. 'Nino', mi disse, 'ma ti pare che possiamo star dietro a quello che sta scritto su questi fogli?'

Nino Taranto (durante le riprese del film "Tototruffa '62") - "Principe, eccoci qua" in Fiammetta Rossi, "Totò che piacere rivederti", “Radiocorriere TV”, 11 giugno 1978

Al film ("Dov'è la libertà?") lavorò la gente più impensata, è stata una lavorazione molto caotica, come d’altronde erano sempre caotiche le lavorazioni con Rossellini. I due si adoravano, non dipendeva da incompatibilità ma da un certo disordine di vita, dalla genialità del regista. E vero che il film è stato ultimato da più persone, così com’è vero che Rossellini l’ha scritto o riscritto praticamente al momento: ogni tanto si appartava e buttava giù su foglietti quattro cose... Era un modo di lavorare piacevolissimo per chi c’era perché era sempre una sorpresa, però, indubbiamente... Per Totò avrebbe potuto essere una bellissima cosa, poteva dargli un passaporto per il mondo.

Franca Faldini ("Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fofi) - Feltrinelli, 1977)


Caro mio amico Totò. Mi diceva sempre di voler recitare in prosa con me. Con me solo, diceva, avrebbe voluto tentarlo. Ma come era possibile? Che avrebbe guadagnato economicamente, lui che soprattutto tartassato dal fisco, più di ogni altra cosa, in fatto di lavoro, doveva mirare solo al guadagno del momento? Infatti, ogni volta che cominciavamo un film, se ne usciva con questa frase: ‘Basta... sono stufo, Peppì, di questa fatica... altri quindici film e poi... basta: mi ritiro e faccio teatro!'

Peppino De Filippo (Peppino De Filippo, Il principe De Curtis, “Il Messaggero”, 13 aprile 1969, Peppino De Filippo, Strette di mano, Alberto Marotta Editore, Napoli 1974, p. 100)


Sono stato con Viviani, per poco, ma il tempo sufficiente per rendermi conto della sua unicità; i grandi del varietà li ho conosciuti tutti e praticati spesso; Fabrizi non mi ha mai tolto una battuta; ho lavorato con Totò, il più grande di tutti, e ci siamo lasciati come due fratelli perché Totò mi rispettava come uomo, prima ancora che come attore. Ho avuto come spalla Carlo Dapporto e credo che non abbia mai avuto motivo di lamentarsi di quell’esperienza in una mia compagnia. Nel cinema sono stato diretto anche da registi veri, come Mattoli, che conosceva molto bene il teatro. Peccato che non ho conservato una lettera che mi scrisse pnma di morire, piena di complimenti che rischiavano di far diventare rosso uno come me che non sa nemmeno cosa voglia dire arrossire...

Dante Maggio


Lo considero l’unico autentico artista fra tanti cialtroni, l’unico vero signore fra tanti cafoni, l'unica Altezza Imperiale dinanzi alla quale mi tolgo non uno ma cento cappelli

Oriana Fallaci Il principe metafisico, “L’Europeo”, n. 40, 6 ottobre 1963

A un certo punto Totò diceva: ‘Che pagina è?’ ‘Undici. Che segno, principe?’ ‘Fai un circoletto in mezzo alla pagina’. Poi, dopo un po’: ‘A che punto siamo?’ ‘A pagina ottanta’. ‘Fai una croce’. Erano i punti dove sentiva che il copione ‘si sedeva, oppure che un certo personaggio si ripeteva, che c’era bisogno di rimpolpare, di farci qualche aggiunta. Poi, quando si faceva la lettura del copione in ufficio, Totò faceva dei finti cazziatoni al regista e al produttore - che poi era Gianni Buffardi, suo genero. ‘Ma è possibile?’ diceva scherzando ‘Non vi siete accorti che a pagina venticinque fallai! Non ve ne accorgete che questo qui è un personaggio stupendo e se ne va? E fategli fare qualche cosa, metteteci qualche altra cosetta, ’na bella risposta, due risate e via!

Enzo Barboni "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998

Speravo che quel film non finisse mai. Totò per me era già un mito: allora per quelli che sognavano il teatro, che sognavano di diventare qualche cosa, lui era il caposcuola. Questo film doveva essere il salto di qualità, doveva portarlo in una dimensione diversa. Lui era bravissimo, devo dire, ed era bello anche il film. Meno comico del solito, non era il Totò che conosciamo noi se non in qualche cosa, ed essendo una coproduzione italofrancese lui doveva stare molto al testo. Ognuno parlava nella sua lingua per cui era anche difficile inventare. Con me per esempio giravamo a ruota libera. Mi ricordo, in carcere: ‘Allora parli?’, ‘No’, ‘Cosa vuoi?’..., ‘Sì’, allora mi alzavo, facevo per andare via, ‘Ornano?’, ‘Sì’ e tornavo indietro: sono cose fatte lì per lì. Erano le intonazioni la grande invenzione di Totò: facevi cinque ciak e non ne trovavi mai cinque uguali, alle volte c’era l’imbarazzo della scelta. Ricordo che Giovanna Ralli ha preso uno schiaffo dal regista perché non riusciva a fermarsi dal ridere. Totò doveva dire ‘Ornano, Ornano, ma ti pare che se io sapessi dove sono i soldi te lo direi?’. Ripetemmo la scena trentadue volte. Ogni volta che lui diceva ‘Ornano, Ornano...’, ci mettevamo a ridere perché cambiava intonazione ogni volta, cambiava sguardo ogni volta. Il regista De Felice ai primi ciak rideva anche lui, e la Ralli non riusciva a resistere. Facemmo una pausa mensa, andammo tutti a mangiare: non bastò perché poi alla ripresa successe di nuovo. A quel punto De Felice le dette uno schiaffo, la Ralli era una ragazzina, avrà avuto sedici anni.

Gino Bramieri Intervista dell'autore - "I film di Totò" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998

Uno diceva una battuta, l’altro si metteva a ridere, l’altro diceva una battuta, ridevano, non ridevano... A un certo momento mi sono accorto che ridevano tutti e due, erano soddisfattissimi. Al pomeriggio di quel giorno nessuno si aspettava la lettera, perché non era scritta nel cosiddetto copione: hanno preso di sorpresa tutti, compreso il produttore.

Teddy Reno "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998

Si mise seduto sullo sgabello vicino al leggio con la cuffia, dando le spalle allo schermo: guardavamo le immagini sullo schermo e vedevamo che era perfettamente in sincrono. Ascoltava una volta la cosidetta colonna-guida, riusciva a capire dove erano le pause e le accelerazioni. Non solo, aggiungeva delle cose. Evidentemente aveva percepito delle pause che poteva riempire. Con nostro grande sbalordimento e apprezzamento.

Ugo Gregoretti "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998, p. 337

La lavorazione (del film Il Comandante) era difficoltosa perchè non ci vedeva, anche se suppliva con la sua tecnica straordinaria, mi diceva: “Guidami per un braccio e fammi vedere il percorso che devo fare e dove mi devo fermare, sta’ tranquillo che a quel punto mi fermo”. Non ci vedeva a doppiarsi, allora bisognava fare tutto in presa diretta e a quell’epoca ancora non c’era stata la televisione, che ha obbligato molti a fare la presa diretta; non c’erano nemmeno tecnici capaci, microfoni adeguati.

Paolo Heusch regista del film Il Comandante

Gli proponevano soggetti impossibili, abborracciati in quattro e quattr’otto per far fronte alle richieste del pubblico. Tutte le sere, dalle otto alle undici, noi ci trovavamo nella sua casa romana di via Monte Paridi al 4 per discutere le scene che avremmo girato l’indomani. Mentre il regista o un altro della troupe leggeva il testo, Totò mi prendeva la mano, si chinava al mio orecchio e diceva: ‘Che te ne pare, Macà? Per me è una schifezza’. [...] Alle due del pomeriggio, puntualissimo, si presentava sul set, accompagnato in macchina dal suo segretario autista. Poiché era quasi cieco, chiedeva subito che qualcuno leggesse la scena che si doveva girare. Ascoltava con pazienza fino alla fine, poi sentenziava, ma questa volta pubblicamente: ‘E una schifezza’. E aggiungeva: ‘Facciamo un’altra cosa’. Una breve pausa, quindi, rivolto a me, domandava: ‘Macà, che vogliamo fare?’. Detto fatto, lui mi dava la battuta, tanto per saggiare il terreno, e io cominciavo a rispondergli a tono. Dopo pochi minuti, botta e risposta, la scenetta era combinata. La provavamo un paio di volte, tanto per mandarne a memoria i punti più importanti e per consentire al regista di fare le sue annotazioni; quindi si cominciava a girare e si andava avanti così, sempre inventando, sempre recitando ‘a braccio’, fino alle sette. Alle sette, infatti, Totò smetteva. Non c’era verso di fargli prolungare l’orario di lavoro: puntualissimo nell’arrivare sul set, lo era altrettanto nell’andar-sene. Quando si avvicinava ‘l’ora fatale’, compariva il segretario-autista ad annunciare: ‘Mancano dieci minuti’. Totò, allora, tirava un respiro di sollievo e mi dava una gomitata nel fianco: ‘Forza Macà’, diceva ‘che adesso finiamo. Io, mi sono scocciato.

Macario Giuseppe Grieco, Totò, quasi cieco, mi afferrava una mano e diceva: ‘Macà, che schifezza, “Gente”, n. 19, 13 maggio 1972

L’idea era nata perché avevano girato a Roma un film con la Gardner, La Maja desnuda. Dovevamo sfruttare in interni le stesse scene e poi si sarebbe dovuto andare a girare alcuni esterni in Spagna. In realtà gli spagnoli avevano partecipato alla produzione perché volevano Totò in Spagna. Ma lui niente, non voleva andarci. Totò non è andato mai in aereo, era un pauroso; d'estate, in barca, andava praticamente costa costa mentre l’autista doveva seguirlo con la macchina lungo la strada: nel caso ci fosse stata qualche onda di più o il mare cominciasse a muoversi un po’, Totò dava immediatamente ordine di fermare la barca, scendeva e pigliava la macchina. Così in Spagna non ci siamo andati, tant’è vero che cambiarono la sceneggiatura e invece del comico spagnolo che doveva esserci venne il francese Louis de Funès.

Giacomo Furia intervista di Alberto Anile (film "Totò, Eva e il pennello proibito"), "I film di Totò" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998, cit., pp. 269-270

E' stato divertente fare questa parte nel film "Totò lascia o raddoppia?" però fui profondamente deluso, perché non ero ancora preparato per trattare i compensi. Mi pare che ricevetti qualcosa come tre o quattro milioni. Stiamo parlando del ’56, però lei capisce che tre o quattro milioni per quello che stava facendo "Lascia o raddoppia?", un personaggio che tutti volevano vedere... Forse la colpa era dei produttori che molto probabilmente facevano i furbi. Comunque fu una grossa esperienza; Totò qualche volta mi dava un passaggio, arrivava con la Cadillac, non dava confidenza a nessuno, faceva la sua scena e poi spariva, nessuno aveva modo di parlargli.

Mike Bongiorno "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998

Mi sono trovato con due grandi. Totò un grande comico: poteva leggere l’elenco telefonico e suscitare ilarità. Peppino un grande attore comico: doveva capire il personaggio e poi ne faceva quello che voleva. Due grandi che però mi hanno agevolato, cercavano di farmi fare le mie cose nella maniera migliore... Totò pensava a Peppino, Peppino pensava a Totò, tutt’e due pensavano a Giacomo Furia... Questo ha reso il film più interessante, più bello, perché quando si lavora in questo modo poi si vedono i risultati. Dovrebbe essere il segreto del successo di tutti i film; l'unico responsabile di una pellicola è il regista però se c’è un’ottima collaborazione da parte di tutti, dall’ultimo macchinista al produttore, vien fuori un buon film. Questa era la cosa bella con Totò, uno andava a lavorare però in fondo non andava a lavorare. I francesi dicono parlando del teatro, à jouer, e in fondo con Totò era proprio un gioco.

Giacomo Furia "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998 

Mi dicevano di tenere le luci più basse che potevo perché dava fastidio alla vista di Totò. In teatro di posa illuminiano tutto quanto e [Totò e De Sica mi dicono: «E la luce?». Dico: «Commendatore, principe, è questa». De Sica, che mi conosceva dai tempi di Miracolo a Milano mi fa: «Ma che, mi stai pigliando per il culo? Qua ci si vede sì e no». «È una pellicola nuova, una Triple x...». Gli ho fatto un segno, lui ha capito ed è rimasto zitto. Poi tornano. «E vabbene» mi fa Totò, «ma un naso ce l'ho, un pochino più di luce non guasta».

Enzo Barboni (direttore della fotografia in I due marescialli di Sergio Corbucci)

Si ride con soddisfazione, con la convinzione di ‘ridere giusto'. E da che cosa derivi questa convinzione, quale verità morale sia alla base della comicità di Totò [...] non saprei dirvi: bisognerebbe studiarla, pensarci a lungo. E' probabile, però, che la molla più potente di questa comicità sia un assoluto non conformismo. Appena vediamo la faccia di Totò, sentiamo subito che lui ha fatto piazza pulita di tutte le balle della nostra cultura e della nostra società, di tutte le cose e le persone noiose, di tutte quelle idee, enormi o minute, che Croce definiva ‘pseudoconcetti’. Insomma, come Molière e come tutti i comici veri, Totò smaschera le ipocrisie e denuncia spietatamente le vanità della società che gli è contemporanea e più vicina.

Mario Soldati, "E se un giorno Totò incontrasse bellini", “Europeo”, n. 37, 13 settembre 1964 - Mario Soldati, "Da spettatore", Mondadori, Milano 1973, pp. 154-157
 

Vincendo l’istintiva riluttanza egli accettò di recitare la parte d’un Dante impazzito di dolore, durante un suo ritorno sulla terra sconvolta. La scena, deviando dal grottesco iniziale, si faceva improvvisamente seria e si concludeva con alcune drammatiche battute. Il pubblico, sorpreso dalla straordinaria bravura di un così insolito Totò, scattò alla fine in un entusiastico, prolungato applauso. Per due o tre rappresentazioni le cose andarono così, ma una sera Totò sentì il bisogno di scagliare un sasso contro il cristallo incantato che si levava fra lui e il pubblico, quasi vergognoso che qualcuno potesse leggergli nel cuore, e subito dopo la battuta drammatica fece echeggiare nella sala, silenziosa e commossa, un sonorissimo sberleffo. Fu un delirio. La gente piangeva e rideva e gli gridava freneticamente: ‘Bravo!’

Michele Galdieri, Il pudore di Totò, “L’illustrazione Italiana”, dicembre 1948-gennaio 1949.


Tante volte, vedendo un film di Totò, quando egli sparisce dallo schermo, accade come quando, viaggiando, il treno entra in una gallerìa, e il paesaggio, d’un tratto, è abolito, e gli alberi, i fiorì, il sole diventano in un baleno dei semplici ricordi. Non resta che aspettare lo sbocco del tunnel per riprendere a vivere. Totò illumina lo schermo, come la scena. Il suo volto, i suoi sguardi, i suoi tic sono come i paesaggi, come le letture, come le conversazioni con i compagni di scompartimento, indispensabili a rendere meno faticoso il viaggio. Totò, poi, ha il dono di far dimenticare anche i testi più insulsi Ha il segreto di apparire sempre fresco, inedito e senza mai ingegnarsi di mutar pelle come i serpenti e i comici da strapazzo; e nemmeno di forzare la sua natura. L’umanità di Totò non ha nulla da dividere con il sentimentalismo di certi attori «col cuore in mano» che passano dal pernacchio al pianto con istrionismi intollerabili.

Vincenzo Talarico, «Vie Nuove», anno XVII, n.2, 11 gennaio 1962

Era per farci ridere o farci piangere che era stata inventata quell’assurda e inespressiva fissità, quella crudele e burattinesca astrattezza, quella rigorosa e ritmica follia? Come poteva suscitare simultaneamente la massima ilarità e il più doloroso turbamento, il più candido divertimento e il più raggelante stupore, lo sgomento più profondo e il piacere più infantile, sgangherato e liberatorio? Fu così ridendo e spaventandomi a un tempo di fronte a quell’inquietante pantomima che scoprii, senza poter ancora nominare il senso di quella esperienza, i poteri del perturbante.

Ruggero Guarini, "Tutto Totò" - Gremese, 1991, p. 10.

Dopo aver fatto una serie di film musicali: “Urlatori alla sbarra”, “I ragazzi del juke box”, “Io bacio, tu baci”, avevo appena fatto “Super-rapina a Milano”. Presi la trama di “Serenata a Vallechiara” e scrissi “Rita, la figlia americana” pensando a Totò e Rita Pavone. Girammo, mi pare, in 5 settimane, fra il settembre e l’ottobre 1965, ricordo che avevamo ancora gli abiti “leggeri”. Girammo gli interni alla Scalera. Avevo una gamba ingessata, e, solo per gli esterni notte, a Piazza di Spagna, chiesi mi fosse fatta una calza per il fresco. La canzone “Veleno” non ricordo, ma credo che l’abbiamo scritta tutti insieme. Totò lo ricordo con piacere, era straordinario. Mi affascinava per la bravura: mi diceva le battute, lavorando dalle 14 alle 19, rendendo più degli altri che lavoravano dalle 9 (del mattino). Battendo il ciak, si ripeteva il miracolo: vedeva; allo stop, tornava a non vedere. Tenuto per mano, anche lui faceva le prove luci. I cubi furono ricostruiti in teatro di posa: no, non girammo al Piper! Girammo anche in una Villa, sita dietro via Nomentana. Dove l’audio della presa diretta non era buono, Totò al doppiaggio non venne, perché con la vista era “proprio giù”: lo venne a doppiare Carlo Croccolo, Totò voleva solo lui.

Piero Vivarelli, regista del film "Rita, la figlia americana"


Comunque ti appaia, vestito da guerriero antico o semplicemente da Totò, d’Artagnan o gagà, Orlando innamorato e furioso o mordace travet in un ufficio di censura, bandito o gentiluomo, personaggio della storia o passante della vita d’oggi: neanche per un attimo possono esserci dubbi, [...] Totò è sempre, e più che mai Totò. [...] Inafferrabile come un fantasma, [...] Totò ha il segreto d’apparire sempre fresco, e inedito; e senza mai ingegnarsi di mutar pelle come i serpenti e i gerarchi

Mercutio [Vincenzo Talarico](Ehi della Gonda, qual novità?, “Star”, 16 giugno 1945)

Esistono musicisti di grande finezza e intuito, dotati di orecchio ‘assoluto’. Totò è un caso rarissimo di artista in grado di rintracciare la comicità nelle occasioni e nei contesti più svariati, che sa trovare la fonte della risata come un rabdomante nel deserto, che è in grado di far ridere anche leggendo l’elenco telefonico. Totò è un comico assoluto.

Alberto Anile

Il ritmo dei gesti di Totò è di un’esattezza implacabile. Come il suo atteggiarsi, così il suo ballare. E l’accento. E lo sguardo. E la spalla che s’insacca. E la bocca che si scardina. E l’intera persona che si divincola, si trasfigura, si annienta in una demenza scomponitrice, la quale però conserva, non si sa come, una statica e un ritmo. E un’osservanza. E una dignità. Qualche cosa, vi ho detto, quasi rituale e di molto antico. Totò oggi, è il primo comico d’Italia. Forse, d’Europa.

Marco Ramperti (Totò, in Enic, Cinecittà, Cines, volume pubblicitario per la presentazione, con ritratti di diversi attori, della stagione cinematografica, 1942)

Totò è attore di grandi risorse, solo in parte valorizzate. Vi è la possibilità di sfruttare nella sua compiutezza l’inesauribile vena del protagonista affidandogli un personaggio che sia più caricatura che macchietta, che tragga sempre l’ispirazione da un fondo umano, vero, piuttosto che dal personaggio stilizzato del comico a tutti i costi. Più caricatura che macchietta.

Carlo Ludovico Bragaglia (“L’Araldo dello Spettacolo”, n. 19, 10 febbraio 1950)

In uno sketch interpretava senza dire una sola battuta, ma con pura mimica, un ‘Ascaro di Scelba (Sceiba era il ministro degli Interni e i suoi poliziotti erano stati soprannominati così per la violenza con cui usavano i manganelli durante i numerosi scioperi e le manifestazioni di quell’epoca inquieta). Totò restava in scena più di mezz’ora, rispondendo solo a gesti all’attacco del pubblico proprio come se fosse un poliziotto alle prese con la folla: era uno spettacolo incredibile

Galeazzo Benti (Ricordi di un gagà, “Diario”, 8 ottobre 1997)

Quando lavoravo con Totò i critici non lo apprezzavano, al punto che anch ’io, per aver partecipato a molti suoi film, venivo considerato con diffidenza. Oggi che viene paragonato, giusta-mente, a Charlie Chaplin provo una grnade malinconia perchè lui non è più con noi per godersi il suo meritato trionfo.

Galeazzo Benti
Durante la tournée spagnola a Barcellona nel novembre 1946:

Totò ci dava dentro che era una meraviglia e il pubblico si scatenava appena lui usciva alla ribalta. [...] Una sera due spettatori finirono all’ospedale perché dal gran ridere avevano perso il controllo e si erano dati una capocciata tremenda. Confesso che venimmo alla ribalta quasi paralizzati dalla fifa. Ma fu un trionfo. Alla fine del primo sketch i colleghi erano in piedi e urlavano, battevano le mani, agitavano fazzoletti come se invece che in teatro fossimo alla corrida

Mario Castellani Giuseppe Grieco (Intervista a Mario Castellani - Una soubrette si uccise per Totò)

Incontrai Totò nel 1927. Lui proveniva dal varietà, io dall’operetta. Allora le riviste erano a filo conduttore ed eravamo i due comici della rivista. Poi ci lasciammo per delle vicissitudini dovute alla tremenda crisi del teatro e ci riunimmo nel 1941. In compagnia c’era Anna Magnani e facemmo teatro assieme. E poi ho continuato con lui per anni e anni e anni, in teatro e in cinema. Totò è stato un caposcuola, ha insegnato un po’ a tutti, tutti hanno attinto e attingeranno ancora da lui per molto tempo. Le cose che Totò poteva insegnare sono innumerevoli. La meccanica, la tecnica, l’improvvisazione, il gioco mimico, perché era un grandissimo mimo.

Mario Castellani

Totò dietro le quinte faceva delle grandi litigate con la Magnani. Poi prima d’entrare in scena avevano paura l’uno dell’altra, e allora grandi baci de corsa. Se ne dicevano... Erano due grandi, pieni di lazzi, di battute, e i grandi insieme hanno sempre fatto scintille.

Marisa Merlini  "I film di Totò, 1930-1945: l'estro funambolo e l'ameno spettro" (Alberto Anile), Le Mani-Microart'S, 1997

Dopo l’annullamento del matrimonio, i nostri rapporti continuarono ad essere tempestosi. Divenne ancora più geloso di prima, ammesso che fosse possibile. Non solo non permetteva che uscissi da sola io, ma neppure Liliana. Liliana non è mai andata a scuola, ha fatto tutti gli studi in casa. Nel 1939 andò in tournée per due anni. Poiché, per via di Liliana, non poteva portarmi con sé, fece venire i suoi genitori da Napoli. Costrinse sua madre a giurargli che non mi avrebbe mai permesso di uscire da sola. Per due anni, dal 1940 al 1942, non sono mai uscita di casa.

Diana Bandini Rogliani (Costanzo Costantini, Il Principe della gelosia, “Messaggero”, 11 marzo 1989)

Si tratta della figura più significativa del teatro di rivista italiano: qualche cosa di mezzo fra il mimo, la marionetta, il macchiettista ed il vecchio e glorioso Pulcinella del Teatro San Carlino, fusi in un tipo nuovo, modernamente paradossale, che forse tutti li rammenta, ma da tutti si distingue.

Nino Capriati (“Film”, 11 maggio 1940)

Era Castellani che si occupava delle prove, Totò veniva poco per la verità. Con Totò io facevo tre cose, e ricordo che alla prova generale prima del debutto mi disse: ‘Caro Cajafa, guardate, in questo primo sketch non imparate la parte, perché tanto è inutile, perché vi farò ridere, e allora il pubblico vede che voi ridete e ride pure lui. Avete capito?’ E io pensai: ‘Ma guarda com’è presuntuoso questo individuo! Io non riderò, qualunque cosa faccia non riderò, voglio vedere che succede’. Ebbene, per tutti i dieci mesi dello spettacolo, tutte le sere, io non è che ridessi, mi rotolavo dal ridere per le cose che faceva. Era una cosa enorme.

Gianni Cajafa (1995, in Alberto Anile, Il cinema di Totò (1930-1945). L’estro funambolo e l'ameno spettro, Le Mani, Recco 1997, p. 186.)

Totò deve tutto a un fenomenale istinto: tra l’animalesco e l’infantile. [...] Un’ameba con uno stato civile, ma un’ameba. Senza satira, senza tempo. In un limbo attraverso il quale intravediamo misteriosi formicolìi dell’animo.

Cesare Zavattini (“Tempo”, 30 maggio 1940)

Antonio si sentì ‘frenato’ dalla politica di Mario Sceiba. Gli sarebbe piaciuto continuare sulla linea di "Guardie e ladri" e di "Totò e Carolina". E invece, su consiglio di Vincenzo Talarico, si dovette rifugiare nelle farse di Scarpetta: grandissimo Sciosciammocca! Ma Antonio non ne poteva più di fare la maschera napoletana. Dovette mediare.

Franca Faldini("Totò e Carolina", cit., p. 196.)

Teatro Della Valle di Aversa, 1922. Fischi a Totò.

Totò, quando venne il suo turno, incominciò a declamare le solite macchiette di Gustavo De Marco. Fu tutto un uragano incessante di fischi. L’attore dovette letteralmente fuggire dal teatro. ‘Demma, non posso più rimanere a Napoli. Andrò via. Andrò a Roma', mi disse quella sera stessa

Enrico Demma (intervista rilasciata a Vittorio Paliotti)


Totò capocomico merita l’esilio. La sua compagnia è molto zelante, ma vi abbiamo visto crescere le girls, diventare madri, nonne; tra le quinte sono stesi ad asciugare i panni come in un vicolo. I suoi spalleggiatori [...] sono le prime vittime della mediocre regia di Totò. [...] Sicuro di sé in un modo feroce, riassume lo spettacolo nella sua presenza quasi costante sul palcoscenico.

Cesare Zavattini (“Tempo”, 30 maggio 1940)


Totò fu un direttore di compagnia un po’ moscio, che delegava i testi e anche le prove, fidando unicamente nella propria capacità di tenere in pugno la platea, senza mostrare grande interesse per tutto il resto.

Wanda Osiris (Silvio Danese: Totò, Wanda e le rose, “Il Giorno”, 8 aprile 1992)


Confesso che da anni io vado a vedermi, magari in un cinemino alla periferia di Milano, le pellicole "storiche" di Totò. Adesso tutti gridano al miracolo, lo riscoprono. Devo tutto a Totò: fu lui, quando avevo soltanto 16 anni, a farmi debuttare al suo fianco nel " Piccolo caffè " al teatro Excelsior di Milano. Bentornato Totò: adesso potrò andarmelo a vedere nei cinema del centro.

Wanda Osiris («Paese Sera», 16 aprile 1967)

Bisognava vederlo portare le braccia in su, piegando le mani verso gli omeri come una danzatrice sacra indiana, e poi cominciare a buttare il torso nella direzione opposta dell’addome e la testa in tutt’altra direzione rispetto al torso, e gli occhi storcersi nella direzione contraria a quella del capo, e la bazza per conto suo rispetto alla bocca, e il pomo d’Adamo correre in giro vorticosamente facendo correre la farfallina nera della cravatta. Era proprio allucinante [...].

Sandro De Feo (Il Picasso della risata, “L’Espresso”, Roma, 23 aprile 1967)


Non ho mai «messo al mondo» un film così disarmato, fragile e delicato come "Uccellacci e uccellini". Non solo non assomiglia ai miei film precedenti, ma non assomiglia a nessun altro film. Non parlo della sua originalità, sarebbe stupidamente presuntuoso, ma della sua formula, che è quella della favola col suo senso nascosto. Il surrealismo del mio film ha poco a che fare col surrealismo storico; è fondamentalmente il surrealismo delle favole. Mai ho scelto per tema di un film un soggetto così difficile: la crisi del marxismo della Resistenza e degli anni Cinquanta, poeticamente situata prima della morte di Togliatti, subita e vissuta, dall’interno, da un marxista, che non è tuttavia disposto a credere che il marxismo sia finito (il buon corvo dice: «Io non piango sulla fine delle mie idee, perché verrà di sicuro qualcun altro a prendere in mano la mia bandiera e portarla avanti! E’ su me stesso che piango...

Pierpaolo Pasolini (Lettera aperta, in Occhio Critico, Anno I n. 2, novembre 1966)

Al semplice comparire di Totò sul proscenio scoppia irrefrenabile la risata del pubblico tanto delle poltrone che della galleria; è il più grande fantasista che abbia oggi l’Italia.

Umberto Barbaro, (“L’Italia letteraria”, 1935)


Proprio in quel periodo mi ammalai di reumatismi e Totò che aveva finito il suo ingaggio al Kursaal, mi sostituì al Teatro Olimpia nella commedia napoletana che stavamo recitando. E quando la notte ritornava in pensione dopo lo spettacolo, mi faceva le pezze calde col ferro da stiro, e poi con quelle mi fasciava le braccia colpite dal reumatismo. Poi recitava e cantava le macchiette solo per me, me ne ricordo una in particolare, "Il portavoce": allungava il collo, si dimenava nella mossa del cavallo; io ero veramente un suo ammiratore e distinguevo bene, oltre lo straordinario allucinante personaggio, la precisa intensa satira mimica muta.

Eduardo De Filippo (Ci scambiavamo cappotto e pelliccia, “Paese Sera”, 17 aprile 1977)


Vestito di nero, magro il volto e allampanato, con un cappellino di quelli che a Napoli chiamano ‘da prevete’, in sulle prime Totò sembrava un personaggio funebre e quanto mai tetro a cui, a mortificazione di tutto il pubblico, fosse stata data l’incombenza di chiudere, nel clima di un mortorio, uno spettacolo gaio e sfavillante di luci. Anche quel suo modo di camminare, di allungare smisuratamente il collo, gli orecchi e il naso, quel suo corpo snodato che faceva pensare al viscido corpo di un verme, davano un senso di pena insieme e di disgusto. Ma poi l’estro di una comicità istintiva e vulcanica [...] conquistava [...] il pubblico che abbandonandosi a grosse risate voleva e rivoleva alla ribalta il magro e pallido Totò.

Adolfo Franci (Totò, “Cinema Illustrazione”, n. 14, 5 aprile 1939)


Conobbi Totò quando cominciava a lavorare nei varietà periferici di Napoli, piccoli teatrini sgangherati. [...] Faceva l’imitazione di un artista che si chiamava Gustavo De Marco [...]. Ricordo ancora dei manifesti per le strade col suo nome scritto grande, anzi grandissimo, e sotto, tra parentesi e in lettere piccolissime: ‘imitato da Totò’. Il fatto è che la stella di De Marco era ormai in declino e sulla sua scia sorgeva invece questo guaglione.

Peppino De Filippo (Ettore Mo, In tandem con Peppino, “Corriere della Sera”, 15 aprile 1977)



Mio padre non lo voleva in compagnia perché Totò sfondava le scene. Nel senso che il pubblico per indurlo a fare alcuni numeri fuori programma glieli sollecitava lanciando monete da due soldi o da quattro soldi, monete pesanti che finivano quasi sempre sui fondali di carta, bucandoli. E allora un fondale dipinto costava trecento lire...

Beniamino Maggio (Eduardo Piromallo, Quel Totò non lo voglio in scena, “Radiocorriere TV” n. 49, 30 novembre 1980)


L’aria che tirava conteneva in sé l’impronta che aveva decisamente impresso la rinnovazione artistica dovuta al futurismo, era un’aria pregna di futurismo. Probabilmente non è catalogata né riconosciuta l’attività di Totò quando faceva gli sketch d’avanspettacolo prima del film: lì è uscito fuori un personaggio straordinario. Ma non è derivato da un uomo colto e intelligente, Totò non capiva cosa fosse il futurismo. Totò era un ignorante, ignorava anche la sua grandezza: io l’ho definito una marionetta inconsapevole i cui fili sono agitati dalla mano di Dio.

Carlo Ludovico Bragaglia ("I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998)


Si riapre il fondale sul tradizionale fondale di giardino. La scena è vuota, l’orchestra continua la sua marcia. Ad un tratto, preceduto da un potente colpo di grancassa, entra in scena [...] il comico Totò. Egli si esibisce in una danza meccanica: i suoi arti si snodano come quelli di un burattino in movimenti precisi, ritmati dai colpi della grancassa. Mano mano questi movimenti si accelerano, ogni parte del suo corpo è in convulsione, sembra una girandola vivente che attraversa il palcoscenico come una meteora. Ad un colpo più forte della grancassa il corpo dell’attore si arresta di botto appiattendosi contro un pilastro della scena. Da tutta la sala prorompe un urlo di gioia e lo scroscio di un lungo e nutritissimo applauso.

Umberto Onorato (Primo incontro con Totò, “La Fiera Letteraria”, 1 settembre 1966)


Sì, si può dire che Totò, il suo modo di essere, di presentarsi, di esprimersi fisicamente, ha qualcosa di avanguardistico in senso lato, e cioè ha se non altro l’estraniamento: si stacca dalle cose, dal mondo degli altri e costruisce questa specie di marionetta che non ha quell’interezza umana tipica dell’arte classica, semmai è tipica dell’avanguardia.

Pierpaolo Pasolini (Tommaso Chiaretti e Mario Morini, Pier Paolo Pasolini: ecco il mio Totò [intervista de! 1974], “La Repubblica”, 3 agosto 1976)

Secondo me, nonostante le apparenze, la comicità di Totò non era "adatta" per la generazione di ieri. Va invece "a pennello” per il gusto di oggi. I giovani non ridono soltanto per la "battuta" o l' "espressione" esteriore di Totò: loro vanno a fondo, leggono attraverso le righe tutta l'amarezza del comico. Azzarderei che la maschera di Totò è più "cattiva” di quella di Chaplin: più disperata.

Alberto Bevilacqua  («Paese Sera», 16 aprile 1967)

La verità è che Totò era un trovatello. Faticò a rintracciare sua madre e ci riuscì. Anni dopo trovò in un ospedale un vecchio signore ormai ridotto sul lastrico ma discendente da un’antica e famosa famiglia napoletana, appunto il marchese De Curtis, e lo convinse a sposare sua madre.

don Giovanni Pietro dei duchi Caffarelli, presidente dei Cavalieri di Malta italiani nonché presidente del Corpo della nobiltà italiana (Paolo Conti, Ma quale contessa e contessa, “Sette”, n.16, 1996)


Ricordo come se fosse ora la sera in cui girammo l’ultima scena. Eravamo dinanzi a una chiesa. Al termine delle riprese io dissi a Totò: « Principe, perché non mi canti Malafemmena? ». Mi cantò Malafemmena e la Magnani l’accompagnò. Nel fondo era un uomo molto dolce e generoso, affascinante.

Ben Gazzarra

Ho avuto la fortuna di lavorare con Totò una sola volta, nel ’66, in “Operazione San Gennaro”. Totò aveva serissimi problemi con la vista, ma davanti alle luci dei riflettori il suo istintaccio geniale riusciava a farlo essere inappuntabile (qualche problema in più ci fu in fase di doppiaggio, perché aveva difficoltà a disitinguere le immagini sullo schermo). Sapevo anche prima di lavorarci che era un grandissimo comico, lo sapevamo tutti: non è vero che non avessimo capito il suo enorme talento. Nella vita l’avevo incontrato solo una volta, a un pranzo con Franca Faldini, ma lo conoscevo benissimo come artista fin dai tempi in cui correvo a vederlo a Milano al Teatro Esperia e morivo dal ridere. Quando ho lavorato con lui era puntuale e professionale, credo che avesse vissuto sempre per il suo lavoro e che fosse destinato a morire in scena come Molière.

Dino Risi

Ho scoperto Totò da piccola: papà mi portava da bambina a vedere i suoi film. A Napoli è un’istituzione e il suo culto si tramanda di generazione in generazione. Credo senza retorica che sia un genio assoluto. È stato un vero rivoluzionario: ha saputo applicare una legge che ogni artista dovrebbe adottare, e cioè quella di creare un nuovo linguaggio, autonomo e libero, rivoluzionando quelle preesistente. Ancora oggi, quando rivedo i suoi film, scatta in me quella sensazione di appagamento infantile che ti viene dalle risate libere e viscerali: risate di gioia.

Iaia Forte

Almeno fino al Seicento quella era una zona collinare abitata esclusivamente dai nobili, spiega Marco Rocco dei principi di Torrepadula parlando di Santa Maria Antesaecula. [...] Lo stesso caseggiato in cui Totò nacque era di proprietà, in origine, del barone Stanislao Campagna. [...] La gente del rione Sanità, perciò, era abituata a vedere nei nobili la massima espressione del mondo che li circondava. Da bambino Totò, e questo l’ho afferrato anche dai lunghi discorsi che io e lui abbiamo avuto, guardava i nobili del rione Sanità con ammirazione e, forse, con segreta invidia. Avrebbe voluto essere uno di loro, avrebbe voluto giocare con i loro figli. E invece doveva accontentarsi di giocare con gli scugnizzi.

Vittorio Paliotti (Piangeva su ogni de Curtis, “Oggi”, n. 14, 5 aprile 1973)


Ho recitato con Totò in “Guardie e ladri”, “Totò e Cleopatra” e “Totò contro i 4”. E ho, per questo ricordi molto lontani: è inutile soffermarsi sulle straordinarie doti d’attore, preferisco mettere in risalto come fosse generoso e premuroso. Si informava su quello che facevo ed era affettuoso e amichevole nonostante fosse notoriamente schivo. Il suo fascino e la sua grandezza, infatti, erano nella sua strabiliante capacità di sdoppiarsi e diventare un altro quando recitava, spesso improvvisando dal nulla. Non l’ho frequentato fuori dal set, l’ho incontrato solo qualche volta uscendo con Aldo Fabrizi di cui ero amico. Era nota la sua generosità con la gente: ogni giorno, quando usciva di casa per andare sul set trovava ad aspettarlo in strada compagni di lavoro sfortunati, comparse, generici che gli chiedevano aiuto, inventando situazioni disperate, sfratti e rovine in agguato: e lui dava a tutti mance molto generose.

Carlo Delle Piane

A parte il Totò attore, c’era il Totò uomo perché ho fatto due o tre film con lui - era un signore, sul piano umano era uno molto serio, sulle sue, ma aveva una grande disponibilità verso gli altri. In Guardie e ladri, essendo io un bambino, mi ha aiutato, mi dava tranquillità, mentre da parte di Fabrizi - ancora non eravamo amici, ero un ragazzino - c’era invece un certo menefreghismo. Come attori erano eccezionali, con loro non c’era la sicurezza del copione tutto previsto, bisognava stargli dietro, perché le gag non venivano mai uguali, da una ripresa all’altra. Questo, per la mia età, mi divertiva e mi preoccupava. Si provava quello che era scritto, si girava ed era diverso, si ripeteva ed era ancora diverso. Finiva che non capivo niente. Ero dentro, e dovevo istintivamente comportarmi a seconda del momento, non era mai una cosa meccanica.

Carlo Delle Piane

Tra i miei pochi rimpianti c’è quello di non aver conosciuto Totò. L’ho incontrato una sola volta, durante gli anni dell’Università, quando ottenni dei biglietti omaggio per il teatro. Alla fine dello spettacolo andai in camerino a salutarlo e lo vidi, serissimo e spiritosissimo al tempo stesso, mentre si allontanava salutato da una custode di nome Concetta col rituale: “Principe, che la Madonna vi accompagni”. Quella volta Totò si fermò e le disse: “Concè, ma secondo voi San Giuseppe non si scoccia che la Madonna mi accompagna tutte le sere?”. Mi sono consolato attraverso i racconti dei miei amici che hanno lavorato con lui. La grandezza di Totò stava nel fatto che lui andava oltre la parola, non contava quello che diceva, ma quello che trasmetteva nell’aria. Era unico e inimitabile.

Luciano De Crescenzo

Era un professionista rigoroso, con un’idea tutta sua dell’improvvisazione: e cioè non era ammissibile nulla, né un gioco, né uno scherzo, a parte quelli che aggiungeva lui nel copione. Severissimo con se stesso e con gli altri, un’ora prima di andare in scena ci faceva provare nella sua roulotte le battute che aveva riscritto per noi. Poi tutto doveva andare come stabilito. Una sola volta non fu così: in “Totò lascia o raddoppia”, se ne uscì a sorpresa con la battuta: “Questa non è una domanda pertinente, ma impertinente!”. Scoppiai a ridere, e pensai che avremmo rifatto tutto. Invece il regista ci disse di continuare, andava bene. E l’unica vera improvvisazione che potete vedere in un film di Totò.

Carlo Croccolo

Gli ho voluto bene per la simpatia, la capacità di fondere l’animo popolaresco napoletano con un contegno principesco, per la straordinaria dignità. Abbiamo fatto un episodio del film “Le belle famiglie”: era già quasi cieco; ma sul set era perfetto. Arrivava con il suo autista, sempre puntualissimo. Tranne una volta: era il giorno del funerale di Togliatti. Quando arrivò, pallido, mi prese da parte e mi disse “Ugo mio, Roma invasa dalle bandiere rosse... Dove andremo a finire?!”. Faceva tenerezza.

Ugo Gregoretti

Aveva dentro l’antico “sacro fuoco” napoletano, che gli ha permesso di essere uno dei più grandi protagonisti moderni della commedia dell’arte, nel teatro e poi nel cinema, con un dono innato per la comicità dei gesti, delle parole, della mimica. Era uno di quegli attori che possono fare tutto: anche commuovere. Solo il fatto di essere italiano e dialettale gli ha impedito il paragone con Chaplin all’estero. Forse è morto troppo presto....

Lello Bersani

La collaborazione con Totò, per “La mandragola”, è stata splendida. Lui aveva già problemi di vista, ma si imponeva di fare tutto. Era un professionista straordinario, un’adorabile creatura, ottimo ascoltatore e acuto osservatore, sempre garbato nel riferire impressioni e suggerimenti. Voleva sapere tutto, non avrebbe mai tollerato di essere colto di sorpresa da qualche ritocco nel copione. Avevamo in testa un altro film, in cui sarebbe stato una sorta di “Mattia Pascal”. Era entusiasta, ma non c’è stato tempo...». - «La collaborazione con Totò, per “La mandragola”, è stata splendida. Lui aveva già problemi di vista, ma si imponeva di fare tutto. Era un professionista straordinario, un’adorabile creatura, ottimo ascoltatore e acuto osservatore, sempre garbato nel riferire impressioni e suggerimenti. Voleva sapere tutto, non avrebbe mai tollerato di essere colto di sorpresa da qualche ritocco nel copione. Avevamo in testa un altro film, in cui sarebbe stato una sorta di “Mattia Pascal”. Era entusiasta, ma non c’è stato tempo....

Alberto Lattuada

Avevo visto tanti comici napoletani della grande tradizione di Eduardo Scarpetta, li avevo visti aver paura sul palcoscenico e tremare, perdere il colore, balbettare più o meno naturalisticamente come è giusto che faccia un attore che vuol far ridere dando ad intendere che ha paura. Totò non faceva nulla di tutto questo, non tremavano le mani, non tremava la voce e neppure il corpo, solo si spostava, si dislocava, si dissociava a quel modo. Eppure subito io capii - ed è forse l’arte dei grandi comici di rendere subito intellegibili al pubblico le loro intenzioni e convenzioni più estreme - capii subito che di quel suo corpo prodigioso Totò si era servito per farmi ridere, dandomi ad intendere che aveva paura.

Sandro De Feo

La mia infanzia è stata costellata dei suoi film. Ma devo dire che ho iniziato ad apprezzarlo ancora di più man mano che crescevo e mi si affinava il senso dell’umorismo. La sua grande dote è stata non solo quella di far ridere tutte le generazioni, ma anche quella di essere sempre originale

Diego Abatantuono

Se ne potevano accorgere anche prima del vero valore di Totò. Ma in questo nostro Paese è sempre stato così: per essere apprezzati fino in fondo bisogna proprio crepare!

Anna Magnani («Paese Sera», 16 aprile 1967)

Totò avrebbe voluto fare un film muto. Una volta ne parlammo assieme. Era un grandissimo mimo, lo avrebbe potuto interpretare straordinariamente. Quando però accennammo la proposta ai produttori, ai noleggiatori, ai distributori, trovammo grande perplessità da parte loro e la loro reazione si manifestò con una esclamazione: “Ma come, un passo indietro!”. Non capirono che una cosa vecchia sarebbe potuta diventare estremamente nuova, age Dopo morto, tutti dell’ambiente hanno parlato bene di Totò, tutti si sono accorti di quello che avevano perso, perché Totò era veramente un grandissimo artista. Penso però che avrebbero dovuto rendersene conto prima, che quando era vivo si sarebbe dovuto fare qualcosa di più per lui. Totò ha fatto tanti film che non si dimenticano solo e proprio per lui, ma se qualche grossa produzione lo avesse messo sul piedistallo che meritava sarebbe stata una cosa bella, giusta. Totò avrebbe potuto fare film e personaggi immensi. Aveva un sogno, poverino, ma non lo ha potuto realizzare: quello di fare Don Chisciotte. Sarebbe stato perfetto

Anna Magnani

Durante la lavorazione di "Risate di gioia" mi sembrava di essere tornata indietro di molti anni, quando lavoravo nelle compagnie di rivista, in un’atmosfera spumeggiante. Abbiamo sempre lavorato di notte, e, tanto per tenerci di buon umore, spesso il produttore ci mandava sul set dello champagne. Bevi tu che bevo io, fra me e Totò si rideva fino alle lacrime. Ma la cosa più buffa è stata quando ci siamo accorti di avere tutti e due il complesso del naso. Io non cambierei la mia faccia con quella di nessun’altra, ma mi sarebbe piaciuto avere le gambe di Marlene Dietrich ed un naso decente. Anche Totò non è mai stato soddisfatto del suo. Così evitavamo tutti e due di farci riprendere di profilo. Dopo aver a lungo discusso, giungemmo ad un accordo: nelle scene in coppia, una volta si sarebbe "esposto” di profilo lui, una volta io. Ora che il film è finito posso dire, però, che sono stata poco ai patti. Con un po’ di prepotenza, ho fatto in modo che il naso più in evidenza fosse il suo

Anna Magnani "Mio figlio è tutta la mia vita", «Gente», 4 novembre 1960

Mi diceva sempre «Tu sei il mio grande amore artistico», e questa frase è sempre stata per me molto importante. Quante risate di gioia ho fatto con lui!

Anna Magnani

Buio assoluto in sala, luci fioche, cimiteriali, l’orchestra esegue una marcia funebre. Totò si irrigidisce come in catalessi. Interviene a questo punto un colpo di teatro pensato dallo stesso Totò: dalla prima fila di poltrone salgono in palcoscenico quattro spettatori, opportunamente istruiti. Il morto viene portato in spalla come in un funerale e fa il giro della sala e così parte la suggestione collettiva al punto che, dal fondo della sala, in attesa del “morto vivo” si alza il pianto delle puttane. Regolarmente ogni sera le brave donne si rifugiano in teatro, a un segnale convenuto con la maschera, per assistere al numero, lasciando deserti i posti di lavoro intorno al teatro.

Beniamino Maggio (Nino Masiello, Tempo di Maggio.)

Passavo molto tempo con lui nella roulotte - racconta Cerami in "Consigli a un giovane scrittore" - a suggerirgli i dialoghi. [...] Leggevo dal copione scandendo forte e bene le parole e lui le ripeteva tra sé una per una. Poi però, quando recitava la battuta intera, a voce alta, pronunciava una frase tutta diversa. All’inizio lo correggevo e lui mi faceva si con la testa. Poi, nel riprovare, ne dava un’altra versione ancora. Ne parlai con il regista e si decise di lasciarlo libero di inventare nelle prove di memoria. Ci avrebbe pensato Pasolini durante le riprese a ristabilire il testo originale. Ma non fu cosi. Totò a ogni ciak cambiava sempre qualcosa. Vedevo che il regista spesso non interveniva. In verità Totò non faceva che girare intorno alle frasi per cercare di mettere in bocca al proprio personaggio la battuta più vicina alla sua maschera. Pasolini lo interrompeva poco perché l’attore, pur rigirando la frase, spesso modificandola nei toni, salvava puntualmente tutti i contenuti «informativi» e le metonimie. Ciò significa che nel momento di lasciarsi andare all’improvvisazione non dimenticava neanche per un istante il filo del racconto. Sapeva perfettamente tutto ciò che era successo fino a quel punto e che cosa sarebbe successo nel seguito. I suoi interventi creativi erano diretti alla forma verbale e lasciavano intatta la sostanza narrativa.

Vincenzo Cerami (Assistente alla regia nel film "Uccellacci e Uccellini")

Egli compiva col suo corpo una di quelle operazioni di distacco, di deviazione e alienazione delle varie membra dal proprio asse [...]. Bisognava vederlo portare le braccia in su, piegando le mani verso gli omeri come una danzatrice sacra indiana, e poi cominciare a buttare il torso nella direzione opposta dell’addome e la testa in tutt’altra direzione rispetto al torso, e gli occhi storcersi nella direzione contraria a quella del capo, e la bazza per conto suo rispetto alla bocca, e il pomo d’Adamo correre in giro vorticosamente facendo correre la farfallina nera della cravatta.

Sandro De Feo

Ai giovani d’oggi piace Totò non solo perché è un grande comico, ma anche perché hanno scoperto i valori autentici e popolari di quel cinema italiano tanto denigrato dalla critica intellettuale che va sotto il nome di cinema "boz-zettistico". Ho sempre pensato che c’era più fantasia e verità in tanti film "bozzetti-stici” degli anni Cinquanta che in tutta la letteratura italiana del dopoguerra.

Luigi Comencini («Paese Sera», 16 aprile 1967)

Tra i due comici non ci furono scontri particolari benché il carattere di Fabrizi sia tutt’altro che facile. Forse perché nella vita erano molto amici e anzi, la sera uscivano assieme per andare al night. Spesso Fabrizi tentava di mettere bocca. Totò comunque non ci dava peso. Erano duetti di due leoni. Ogni tanto, quando uno si sentiva sopraffatto dall’altro, cavava fuori le sue astuzie di grande attore. Cosi Totò fregava Fabrizi con una battuta imprevista e Fabrizi fregava Totò mettendosi a ridere e interrompendogli la scena.

Steno

Il pubblico è alla ricerca di una ventata d'aria pulita, senza lo "smog della problematica”. Che cosa ce di meglio di un buon film di Totò per passare due ore in allegria? Una cosa non mi spiego, perché la critica, quando il povero Totò era vivo, non ha mai voluto ammettere una volta per tutte che lui era il numero uno dei comici italiani. Ma si sa: dare con generosità, come faceva in ogni suo film Totò, è un'abitudine che pochi sanno apprezzare.

Nino Taranto («Paese Sera», 16 aprile 1967)

Totò è una cartina di tornasole. Se lo ami sei un essere umano di una qualche rilevanza. Se no, no. Questo è, ovviamente, quello che pensano i suoi irriducibili adoratori, di cui amerei moltissimo essere la presidentessa. Già, che stupida, non ci avevo mai pensato e mi viene in mente solo ora. Farò un «Totò fan club». Bene. E ora so che non posso sottrarmi alla tua richiesta perché sai che ho avuto la fortuna, il privilegio di conoscerlo personalmente e, come mi chiedi, vuoi sapere qualcosa di più. Ecco, quando lo vedevo mi comunicava la netta sensazione di essere di fronte a una meraviglia della natura, la più alta montagna, il brillante più puro, la lampada di Aladino, il mago Merlino. Aveva una classe personale, un tratto, una disposizione che dire principesca è dire poco. Ho visto persone delle più varie estrazioni commosse fino alle lacrime solo per il fatto di essere vicino a lui, e qui si ripeteva il miracolo. Totò ti arriva all’anima per strade sconosciute.

Mina

I giovani riscoprono Totò perché si è sparsa la "voce” che i suoi film fanno ridere, che la sua "maschera" è intatta. Di Totò ho un ricordo umano straordinario. Dicevano che si fosse innamorato di me. Ricordo, quando lavoravamo insieme, che mi mandava ogni giorno in camerino mazzi di rose, scatole di cioccolatini: un gentiluomo d'altri tempi. Per tutta risposta io dissi a Totò una frase che vorrei non aver mai detto: "Caro Totò, io ti voglio bene, ma come ad un padre". Solo quando se n’è andato per sempre ho capito di avere amato Totò: per le indimenticabili lezioni di gentilezza d’animo che ha dato a me e a tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo da vicino.

Silvana Pampanini («Paese Sera», 16 aprile 1967)

Gli proponevano soggetti impossibili, abborracciati in quattro e quattr'otto per far fronte alle richieste del pubblico. Tutte le sere, dalle otto alle undici, noi ci trovavamo nella sua casa romana di via Monte Parioli al 4 per discutere le scene che avremmo girato r indomani. Menntre il regista o un altro della troupe leggeva il testo, Totò mi prendeva la mano, si chinava al mio orecchio e diceva: «Che te ne pare, Maca'? Per me è una schifezza». Ma non interferiva con osservazioni di nessun genere: tanto, sapeva benissimo che sul set avrebbe poi fatto di testa sua, inventando come nella commedia dell'arte. A quel tempo Totò era molto stanco e triste. Non si alzava mai prima di mezzogiorno e consumava a casa un pasto leggero. Alle due del pomeriggio, puntualissimo, si presentava sul set, accompagnato in macchina dal suo segretario-autista. Poiché era quasi cieco, chiedeva subito che qualcuno leggesse la scena che si doveva girare. Ascoltava con pazienza fino alla fine, poi sentenziava, ma questa vollta pubblicamente: «È una schifezza». E aggiungeva: «Facciamo un' altra cosa». Una breve pausa, quindi, rivolto a me, domandava: «Maca', che vogliamofare?». Detto fatto, mi dava la battuta, tanto per saggiare il terreno, e io cominciavo a rispondergli a tono. Dopo pochi minuti, botta e risposta, la scenetta era combinata. La provavamo un paio di volte, tanto per mandarne a memoria i punti più importanti e per connsentire al regista di fare le sue annotazioni. Quindi si cominnciava a girare e si andava avanti così, sempre inventando, sempre recitando «a braccio», fino alle sette. Alle sette, infattti, Totò smetteva. Non c'era verso di fargli prolungare l'orario di lavoro: puntualissimo nell'arrivare sul set, lo era alltrettanto nell' andarsene. Quando si avvicinava l'ora fatale, compariva il segretario ad annunciare: «Mancano dieci minuti». Totò, allora, tirava un respiro di sollievo e mi dava una gomitata nel fianco: «Forza Maca'» diceva, «che adesso finiamo. Io, mi sono scocciato».

Macario

Le lodi sperticate di tanti uomini di cinema, oggi, sono un " mea culpa " per avere sprecato Totò da vivo. Poteva diventare una maschera internazionale: solo che gli a-vessero offerto dei film non prettamente commerciali. Era un mimo meraviglioso: eppure nessuno, allora, gli finanziò il sogno di tutta la sua vita, quello di realizzare un film muto, basato sulle espressioni del viso. Una specie di sfida a Charlot. Gli proponevano soltanto il "filmaccio” commerciale da 100 milioni: tanto sapevano che tutto sarebbe andato a gonfie vele. Adesso è facile dire "viva Totò": tanto non costa più una lira!

Franca Faldini («Paese Sera», 16 aprile 1967)

Totò è giovanissimo e la sua arte è giovanissima. Scriverò anche di più: Totò è migliorato, perché alla smaccata e dilatata mimica che richiedeva la partecipazione acrobatica di tutto il suo corpo, e che forse era soltanto l’effetto della giovinezza, della sua intima esuberanza e vitalità, oggi è stato costretto a sostituire una recitazione più paziente e precisa, più musicale e più raffinata: un gioco da fermo; un pò come i grandi calciatori sul finire della loro carriera, quando fanno miracoli nello spazio di un metro quadrato: ma più efficacemente di loro e con la prospettiva di una durata molto più lunga per l’avvenire, dato che il calcio non può fare a meno di una certa violenza fisica,e, a un certo momento, dell’energia muscolare necessaria a un breve shoot, mentre a quello shoot degli attori che è il primo piano basta un silenzio, un’immobilità, la scelta di un tempo, un timido abbassare delle palpebre, una lieve contrazione della pelle tra naso e labbro superiore.

Mario Soldati

Con le dovute proporzioni, accade per Totò quello che è accaduto per Charlot. La "maschera” dell’attore napoletano sta dimostrando di avere tutte le carte in regola per andare al di là di una determinata epoca. A differenza di altri attori comici italiani, Totò ha avuto la grande fortuna d'essere stato partorito dal golfo di Napoli: e Napoli non è una semplice città, ma un vero e proprio mondo, quindi anche i suoi cittadini sono i cittadini del mondo.

Giovanni Mosca («Paese Sera», 16 aprile 1967)

Era monarchico, eh sì, eccessivamente. Infatti una volta, durante un'elezione, cercò di convincermi a votare per Stella e Corona. La monarchia andò piuttosto male e, a elezioni compiute, mi chiese a chi avessi dato il voto. «Ho votato comunista» gli dissi. Stavamo mangiando sul set, lo ricordo bene. Buttò via tutto, cartocci e bicchieri, gridandomi addosso: «Questo proprio non me lo dovevi fare».Un giorno mi disse: «Ma tu lo sai che se la Regina d'Inghilterra m'invita a pranzo a me m’ha da mettere vicino ad essa?». Gli piaceva nominare cavalieri e commendatori, ma a me mi disse: «A te non ti faccio, pecché mi sfotti».

Peppino De Filippo

La cecità lo colse nella primavera del 1957, durante la tournée di "A prescindere" che aveva segnato il suo ritorno al teatro dopo un'assenza di sette anni. Al Sistina di Roma, quando si era affacciato in scena la sera del debutto, il pubblico lo aveva accolto con tre minuti e quarantadue secondi di applausi cronometrati e lui, in fracchesciacche e una valigia in mano, si era appoggiato al sipario commosso e nella voce bassa e smozzicata che dopo un attimo avrebbe cangiato in quella di Totò aveva mormorato più volte grazie, con le labbra che gli tremavano.
Il teatro era la sua vita, il suo ambiente naturale, ci si muoveva a suo agio quanto un animale rimesso in libertà. E per il teatro nutriva un sacro rispetto tanto che, quando attraversava il palcoscenico per raggiungere il camerino all' ora o al termine dello spettacolo, immancabilmente, secondo un antico costume artistico, si toglieva il cappello "perché", diceva, "per l'attore il palcoscenico è un tempio e non si attraversa un tempio fregandosene da maleducati" .Era istintivo. Non provava i suoi sketch che negli ultimi due giorni precedenti il debutto, lasciava che gli attori per allenarsi li ripetessero con la sua spalla, poi ogni sera li modificava un poco secondo l'inventiva del momento e lo stato d'animo del pubblico, tanto che spesso nascevano brevi e via via assumevano la corposità di un atto unico. Ai componenti la compagnia dedicava un interessamento quasi paterno, approfondiva i loro problemi umani, li trattava con grande rispetto e non ammetteva alzate di voce per redarguire qualche trasgressore. Spesso la sera, a sipario calato, li ospitava tutti a casa.Nel febbraio di quell'anno, quando la rivista andava a gonfie vele al Nuovo di Milano, fu colpito da una broncopolmonite virale curata in fretta e furia con dosi massicce di antibiotici e una degenza di quattro giorni in un appartamento dell'Hotel Continental, mentre Remigio Paone, che era il suo impresario preferito di quella e di tante riviste celebri del passato, si aggirava nella hall come un corvo a stecchetto che deve rinunciare a un lauto pasto, supplicando i medici di accelerare i tempi. Il teatro era venduto al completo per un paio di settimane, fosse stato per lui lo avrebbe spedito in scena anche semicadavere. E poco ci mancò, perché il terzo giorno di degenza tanto fece e disse che egli si levò dal letto febbricitante e rintronato, raggiunse il Nuovo, si truccò grondando sudore freddo, e quando per i camerini riecheggiò il classico Cinque minuti, avviandosi in quinta ebbe un collasso e lo spettacolo venne sospeso.I medici gli avevano prescritto un minimo di convalescenza di quindici giorni. Il virus broncopolmonare non era del tutto sgominato, a evitare ricadute e danni si rendeva necessaria questa ulteriore cautela. Per Antonio fu una tegola in testa. Ci rifletté fino all' alba, poi, sfinito e angosciato, tirò le sue conclusioni. Con quella ulteriore sospensione la tournée sarebbe zompata per aria. E come avrebbe sbarcato l'inverno la gente della compagnia, a stagione più che iniziata, senza lavoro o paga? Erano tutti individui che vivevano della loro fatica, no, non se la sentiva di infliggergli quel colpo a tradimento, era stato anche lui un pesce piccolo e i disagi del conto non pagato alla pensione o alla bettola gli si erano scolpiti nella memoria. Quindi, al diavolo le raccomandazioni, curarsi è un lusso che non debbono pagarti gli altri, sarebbe tornato al lavoro, era il capocomico, aveva la responsabilità di quelle persone che non campavano d'aria.E così, vincendo gli intimi timori, le obiezioni cliniche e lo sforzo fisico, terminò la piazza di Milano e partì per una serie di debutti in provincia. Biella, Bergamo, San Remo. Fu qui ché avvertì le avvisaglie di quanto stava per accadergli. Festeggiavamo, dopo lo spettacolo, il matrimonio di due ballerini di "A prescindere", Sandro e Josey, a cui aveva donato una 500 perché "vi siete conosciuti, amati e uniti in mano a me e spero che scarrozzerete a due per il resto delle piazze e della vita".Guardandosi attorno per il locale mi sussurrò: "Strano, vedo ballare le pareti e i tavoli, oscillano come se fossi sbronzo fradicio, eppure non ho bevuto niente". All'uscita, lo stesso fenomeno gli si ripeté con i palazzi. Il giorno dopo si recò da un oculista che attribuì la manifestazione agli antibiotici e alla debolezza, e prescrisse un ricostituente e delle vitamine.Anziché diminuire, il fastidio si accentuò. A Firenze, dove il teatro crollava per la calca e ogni sera il pubblico ritrovava un Totò parossistico e disarticolato, diceva che quel disturbo gli dava un senso di maretta e mi pregava di leggergli i quotidiani poiché le righe gli si accavallavano.Antonio divenne cieco in scena, sulle tavole del Politeama a Palermo, vestito da Napoleone, a tre passi da me che gli ero accanto nello sketch del cocktail party poiché, per uno di quei rari casi del destino che nella necessità ti fanno trovare fisicamente vicino a chi ti è caro anche quando proprio non dovresti esserci, da circa un mese avevo accantonato la mia veste borghese di compagna indossata circa tre anni prima per seguirlo, e sostituivo la soubrette Franca Mai infortunatasi nelle piroette di un ballo. Al nostro fianco, c'erano Franca Gandolfi, non ancora signora Domenico Modugno, Elvy Lissiak ed Enzo Turco.Notai che batteva le palpebre come per togliersi un corpo estraneo dagli occhi e voltava per un attimo le spalle al pubblico guardandosi attorno con le pupille sbarrate. Poi, sottovoce, pacato, con quel tono impercettibile con cui in scena, tra una battuta e l'altra, ci si comunica a volte i fatti propri, mi disse: "Non ci vedo, è buio pesto". Nessuno se ne accorse in sala. Accelerando i tempi, tagliando battute, con una vitalità selvaggia scaricò se stesso in una mimica frenetica che fece delirare il pubblico e, tra le ovazioni di un teatro impazzito che gli urlava "Totò, si 'na muntagna ri zuccaru", si avviò ad intuito verso le quinte mentre il sipario si chiudeva lento, per ritornare più volte sul proscenio a ringraziare la platea, le file di palchi e il loggione neri di folla e illuminati a giorno che lui, però, non distingueva più. Da quel momento e per oltre un anno fu notte piena.Tornammo a Roma tra la curiosità morbosa dei passeggeri sul traghetto che avevano appreso la notizia della sua disgrazia dai quotidiani, i lampi crudeli dei fotografi e il tatto di cacciatori di autografi che, allontanati a forza, gli sbottavano in faccia un "Ma allora è vero che è proprio cieco." Pianse al rientro a casa, quando non riuscì ad afferrare la mano tesa del personale e a vedere Gennaro che dal trespolo gli volava incontro. Poi non pianse più. Si rintanò nella sua stanza e lì rimase, tra letto e lettuccio, le serrande abbassate sul sole di primavera, per mesi e mesi di oscuro isolamento.

Franca Faldini

Confesso che da anni io vado a vedermi, magari in un cinemino alla periferia di Milano, le pellicole "storiche” di Totò. Adesso tutti gridano al miracolo, lo riscoprono. Devo tutto a Totò: fu lui, quando avevo soltanto 16 anni, a farmi debuttare al suo fianco nel " Piccolo caffè " al teatro Excelsior di Milano. Bentornato Totò: adesso potrò andarmelo a vedere nei cinema del centro.

Wanda Osiris (soubrette)

Il cinema italiano in particolare è ricco di film importanti nella sfera politica e della contestazione, ma non è altrettanto ricco in commedie comiche, evasive o di semplice divertimento. Negli ultimi tempi si sono visti i nostri maggiori attori comici, come Nino Manfredi (” Per grazia ricevuta"), Alberto Sordi ("Detenuto in attesa di giudizio"), Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi ("In nome del popolo italiano”), impegnati in film in cui il divertimento va ricercato sotto abbondanti dosi di amarezza. Il ritorno di Totò, secondo me, è dovuto non solo ai meriti de! grande attore, ma anche al fatto che la gente, nei tempi calamitosi in cui viviamo, ha voglia dì ridere, come reagente ad una situazione politica ed economica che non ha più nulla di divertente.

Pietro Bianchi («Paese Sera», 16 aprile 1967)

In teatro tutto "ritorna". Di Totò la nostra generazione ha fatto indigestione negli anni Cinquanta. A tal punto che le splendide trovate del comico napoletano ci sembravano oramai ovvie, come ovvio ci sembrava il fatto che Totò ci facesse immancabilmente ridere. Lo riscopre questa ultima generazione, che non s’è rotolata di risate sulle poltrone di tanti teatri per le "gag" di Totò. Ricordo la puntualità di Totò, che cominciava lo spettacolo alle 21.15 precise. Se la prendeva con quelle signore impellicciate che arrivavano a teatro in ritardo. Appena vedeva nel corridoio della platea farsi avanti una di quelle ritardatane, Totò bloccava l'orchestra e interrompeva l'azione scenica. Diceva: " Grazie signora, eravamo tanto in pensiero per lei...". Quanti comici lo imitano? Meglio non fare nomi.

Remigio Paone «Paese Sera», 16 aprile 1967

L’ho doppiato naturalmente non in tutti i film ma solamente nelle scene esterne, per via dei rumori che richiedevano la doppiatura e, siccome Totò non riusciva a vedersi e allora lo facevo io. Avevamo la stessa pasta di voce . Sono stato scelto perche’ lui si e’ ricordato di quando l’ho doppiato in francese ne “La legge e’ legge” La loi c’est la loi, e che avevo la stessa voce. Totò era un comico modernissimo infatti aveva una comicità surreale purtroppo e’ sta apprezzata dopo, tant’e vero che era surreale che oggi i film di Totò sono ancora di moda anzi sono più che mai di moda sono sempre attuali, e la gente ride e si diverte ancora oggi. Totò sceicco fu il mio debutto al cinema ed era una specie di provino che Totò m’aveva fatto, cioè per vedere se sapevo recitare allora m’ha infilato in questo film di forza, “con birra e salciccie” facevo il genovese.

Carlo Croccolo

Considero una fortuna appartenere a una generazione che può testimoniare di averlo visto veramente sul palcoscenico e, lacrimando di gioia e di godimento, di averlo applaudito insieme a platee esultanti di contentezza, gratitudine. Come raccontare, come riferire di quel suo fascino inquietante da creatura extraterrestre, da spiritello lunare, da manifestazione di seduta spiritica, un angelo buffo che si è incarnato con la missione mai tradita di regalare buonumore, risate, festa, gaiezza e renderci tutti più allegri, soddisfatti, confortati. Vi ricordate la sua voce bassa, rauca, stentorea e sfiatata da sepolto vivo? E la grazia stregata delle sue danzette al rullo del tamburo, disarticolate, da scossa elettrica, da zombi? Non erano forse un addomesticamento gioioso della danza macabra, non alludevano a dimensioni grottescamente già esorbitate dalla vita conosciuta, diurna, quotidiana?
Davvero dico sul serio: perché non si pensa di santificare questo generosissimo benefattore dell'umanità? Un santo clown o, se la proposta vi scandalizza, vi sembra sproporzionata, blasfema, cominciamo intanto a stampare la sua incredìbile faccia sui francobolli del nostro paese. Chi meglio di lui può rappresentarci? Le miserie, le paure, i raggiri, l'irresponsabilità bambinesca, l'antico dolore, la bassezza e la nobiltà, il disastro cronico, la scomparsa, il ricordo di qualcosa che non c'è più, ma eternamente risorge, morto e vitalissimo: il nostro limato paese dove si può convivere con tante contraddizioni in un prodigioso equilibrio come proponeva la magica marionetta napoletana, irridendo, sghignazzando, piroettando con grazia e levità...San Francesco amava definirsi giullare di Dio, e allora coraggio, San Totò! Del resto non faceva già piccoli miracoli sul palcoscenico?

Federico Fellini

Non ci sono in Italia film puramente comici validi, all’infuori dei tentativi di Franchi e Ingrassia: ecco perché Totò è ritornato da vincitore. Il pubblico è stufo di ridere amaro, o, peggio ancora, di vergognarsi di ridere con semplicità. Modestamente sono stato io a "lanciare” Totò. Ero in compagnia con A-chiIle Maresca, in " Madama follia”, al teatro Lirico di Milano. Improvvisamente dovetti cercare il mio sostituto: dovevo tornare a Torino per motivi familiari. Mi segnalarono un comico napoletano al varietà "Apollo” di Napoli. L’andai a vedere, e dopo due "battute" l’avevo già scritturato.

Macario «Paese Sera», 16 aprile 1967

Noi fratelli Bragaglia, io, Anton Giulio, «Il teatro degli Indipendenti» abbiamo avuto sempre una grande ammirazione per Totò quando ancora era nell'avanspettacolo, pensavamo che sarebbe diventato qualcuno. Allora eravamo all'inizio della nostra attività, che poi Anton Giulio ha abbandonato per fare il teatro invece del cinema. Tanto io che lui avevamo la passione di far fare un film a Totò, ma la difficoltà era di imporre un attore di avanspettacolo a un produttore. Invece è a Gustavo Lombardo che dobbiamo questo merito: aveva prodotto Fermo con le mani! e produsse anche Animali pazzi.
Gustavo Lombardo, napoletano, era diventato amico di Totò e gli riuscì di cavar fuori dall'avanspettacolo questo grande attore. Insieme con Achille Cammpanile avevamo pensato a un soggetto di grande fantasia, ma il film non si poté realizzare come era stato concepito da me e da Campanile, perché ci volevano dei mezzi finanziari enormi, in quell'epoca il cinema era limitato a un circuito esclusivamente nazionale, e poi per le difficoltà del produttore che era uno che si arrangiava e quindi mancavano i mezzi per fare tutte le enormi trovate fantasiose che avevamo escogitato con Campanile per fare veramente degli animali pazzi. Nel film è rimasta soltanto una traccia, che funziona abbastanza, ma è venuto meno il pepe, che erano le pazzie degli animali. Ce n'è soltanto qualcuna appena accennata, ma le più facili e le meno costose perché le più costose avrebbero avuto bisogno di tempo e di danaro, che non avevamo.Approfittammo di certi ambienti che Lombardo aveva fatto non ricordo per quale film, tra i quali c'era un bellissimo, grandissimo salone che è quello del finale, della scena del matrimonio. Avevo chiesto per lo meno cinque-seicento comparse per riempire questo salone, ma Lombardo mi disse: ,Tu sei pazzo, io non ho soldi» allora venimmo a patti, trecento, duecentocinquanta, finché stabilimmo centocinquanta comparse. Quando mi presentai a girare la scena non ce n'erano neanche cinquanta. Il film era tutto basato sul "doppio" che si fa con i mascherini, e allora approfittai di questo mezzo tecnico che avevamo adoperato nel resto del film e riempi la sala di duecento persone facendo quattro mascherini, e modificando le posizioni delle cinquanta persone, il cappello di quello lo mettevo a quell'altro, insomma venne fuori una sala in cui sembrava ci fossero duecento persone, non cinquanta.

Carlo Ludovico Bragaglia

Politicamente non era impegnato, e anzi era quasi impossibile puntualizzare il suo pensiero. Non perché propendesse al nostrano banderuolismo ma perché in ogni corrente politica trovava una cosetta o due da salvare e il resto da gettare schifato nella pattumiera. Così aveva elucubrato un suo credo personale: non so come si materializzase in sede elettorale, ma so per certo cher in sede umana raggruppava in un unico polpettone un certo numero di ingredienti disparati: un pizzico di nostalgia molto romantica per la monarchia, un nonnulla di consenso per la rispettosità centrista di alcune istituzioni, una dose di ammirazione per l'intransigenza destrorsa e certe trasgressioni, una spolverata di propensione per l'idealismo alla Cristo di un determinato socialismo, un pugno di consenso per le promesse sinistrorse di un benessere generale, purchè scevro da un vero livella mento sociale [...].

Franca Faldini

Mi ero appena seduto in quella stiva di pirati pronti a tutto, quando si fece sentire, via vìa più sonora e pungente, una musichetta da circo, una tarantella pazza e sinistra che percorse lo sgangherato stanzone come un irresistibile solletico. La platea si agitava tutta, allargava le cosce, sbracandosi nella posizione più comoda, con ingordigia: era scoccato il segnale che un accadimento ansiosamente atteso stava arrivando. Sembrava di stare in un aereo al momento del decollo, sulla pista di partenza... Ma Totò non apparve sul palcoscenico che continuava a restare vuoto e deserto. Arrivò dal fondo del cinema, si materializzò all'improvviso e tutte le teste si voltarono insieme, come una gran ventata. In un uragano di applausi, di urla di gioia, dì gratitudine, feci appena in tempo a vedere l’inquietante figuretta che avanzava rapidissima lungo il corridoio. Scivolava come su delle ro-telline, una candela accesa in mano, il frac da becchino e, sotto l'ala della bombetta, due occhi allucinati, dolcissimi, da rondone, da ectoplasma, da bambino centenario, da angelo pazzo. Mi passò vicinissimo, leggero come un sogno e subito scomparve inghiottito dalle onde del pubblico che si alzava in piedi, lo acclamava, voleva toccarlo. Riapparve, ormai irraggiungibile, laggiù sul palcoscenico, si dondolava avanti e indietro, in silenzio, gli occhi che giravano come le palline della roulette. Poi, di colpo, la funebre macchietta soffiò sulla candela, alzò la tesa della bombetta e disse: «Buona Pasqua». Ma non era Pasqua. Era novembre.

Federico Fellini

Sono stato uno dei primi che ha avuto le confidenze di Totò a proposito delle sue ricerche araldiche. È stato durante la lavorazione del Ratto delle Sabine in cui faceva il guitto che moriva di fame e faceva andare per le lunghe le prove perché nel frattempo era mantenuto con tutta la compagnia. Nella recita Totò fa il re e mi ricordo che finché eravamo lì che provavamo m'ha detto: "Ah Carle', io qui faccio per scherzo ma lo sono veramente!". lo che non ero al corrente di nullla sono rimasto un po', lo guardavo e pensavo: , "Sta raccontando una barzelletta". Dico: "Non ci credo". "Ma io sono veramente re", e il giorno dopo m'ha portato un malloppo di carte dell'ufficio della consulta araldica fiorentina e m'ha fatto vedere il papier secondo il quale era già barone. Non ho mai avuto il coraggio di chiamarlo principe, perché mi sembrava di pigliarlo in giro, capisco domani in società ci terrai, ma qui stiamo facendo i buffoni ... A questo proposito m'ha racccontato un bell'aneddoto. Dapporto va a trovarlo al Quattro Fontane, entra in camerino durante l'intervallo e gli fa: "Buongiorno, principe". "Ah, ma lo sai pure tu". "Sì - dice - guardi che lo sanno tutti". "Meno male che sono solo principe. Pensa, se ero re che sentivo un fetente che veniva a bussare: "S'accomodi, tocca a lei Altezza", sai sarebbe stata una cosa un po' troppo mortificante". Poi a poco a poco è entrato in possesso dei suoi titoli, era molto soddisfatto, era la sua vita, tanto è vero che io un giorno per scherzo ho detto: "Mi sembra che Totò viva in un giardino pieno di alberi genealogici", perché non parlava d'altro.

Carlo Campanini

Tu fai ridere pure 'e nire [...] Dicimmo 'a verità, chilli puverelli [...] che teneno a ridere?

Eugenio Aulicino (impresario teatrale di Totò negli anni '20)

Abbiamo avuto i nostri alti e bassi, un paio di volte siamo stati sul punto di stringerci la mano e riprendere ognuno la propria via. I motivi che a tratti riuscirono a smagarmelo furono sempre gli stessi, retaggio di una possessività piccolo-meridionale, una superiorità maschilista tipica della generazione sua, una predisposizione pavida a evitare i crudi impatti con la vita, che poi invece accettava con profonda filosofia, anche se non seppe mai dirsi "passato vieni che ti domo" o cullarsi nella sua ombra come una barca in uno specchio tranquillo.
Antonio si asteneva dal vietarti drastico qualcosa, sosteneva che a questo mondo ognuno è libero di scegliere alla maniera sua, ma poi, per metterti il bastone tra le ruote, attaccava il bloccante ritornello del "Fai, fai pure, però preferirei che..." E quando gli prestavi orecchie da mercante aveva un’arte tutta sua per fartela scontare.

Franca Faldini

Totò era il frenetico animatore di quelle pazzesche e vertiginose cerimonie anarchiche e plebee che erano i finali interminabili delle sue riviste. Luogo privilegiato di queste cerimonie era la passerella, lungo la quale Totò non si stancava di correre, marciare o passeggiare, trascinandosi dietro l'intera compagnia come la coda di una cometa.
Tutta la crudeltà e le dissacrazioni che ci vengono oggi proposte da un preteso teatro d'avanguardia non sono che innocue lambiccature di fronte all'esplosiva virulenza di quei rovinosi ed esilaranti "finali".Totò mimava una rivista militare? Tutta la retorica marziale franava nel grottesco. Totò mimava una processione? Tutto il beghinismo cattolico franava nel ridicolo. Totò mimava un funerale? Tutta l'ipocrisia religiosa franava nel dileggio. Totò mimava la marcia dei Bersaglieri? Tutta la retorica patriottistca finiva nella derisione. Totò mimava un attacco alla baionetta? Tutta la mitologia guerresca frana nella beffa.

Ruggero Guarini autore del libro "Tuttototò"

Quando facevamo "Guardie e ladri" giravamo verso l'Acqua Acetosa alla periferia di Roma, c'era Totò che scappava inseguito da Fabrizi che era la guardia, a un certo momento arrivò una vettura della polizia e si intromise, due poliziotti saltarono giù con la rivoltella perché credevano che fosse vero, si misero a inseguire Totò che si spaventò e disse subito: "Fermi, fermi". Totò aveva una grande qualità, quella di avere due facce, una umana e una comica, ma addirittura surrealistica.
Totò era un attore straordinario, di grande sensibilità, di grande sapienza, di grande mestiere, inventava continuamente la parte, non che inventasse le battute, ma inventava continuamente il personaggio. Lo sforzo che è stato fattto intorno a Totò anche da me, più che altro da me, è stato quello di levargli questo suo marionettismo, cioè di cercare di umanizzarlo, di umanizzare queesta sua comicità un po' marionettistica, burattinesca. I primi tentativi furono fatti proprio con "Guardie e ladri". A mio avviso però questa non è stata nemmeno la strada giusta perché, quando si lavorava, Totò tendeva a costruire questa sua comicità tutta meccanica, surrealistica, e forse è stato un errore contrastarlo.Il primo film che ho fatto con Totò è stato "Totò cerca casa" ed è nato per caso. Non è che io l'ho scelto o lui ha scelto me, è stata una cosa abbastanza avventurosa, è stato un film che è stato fatto perché c'era Totò libero per quattro settimane. Ponti aveva questo contratto con Totò e venne da me e da Steno e ci disse: "Tra quattro settimane devo cominciare, avete un'idea?". Rispondemmo che sì, un'idea ce l'avevamo. C'era la crisi degli alloggi, bastava metterci Totò che ha una famiglia, cerca una casa, tutto quello che può avvenire quando uno cerca casa, con i vari incontri. Scrivemmo questa sceneggiatura assieme ad Age, Scarpelli e altri amici ma, finita la sceneggiatura, non c'era il regista; allora Ponti disse: "Fatelo voi", la cosa è nata così, non è che ci fosse questa grande preparazione. Certo, lo conoscevamo già perché lo avevamo incontrato in occasione delle sceneggiature che avevamo scritto per lui.

Mario Monicelli

Un nostro quadro che aveva molto successo si intitolava "Il paese dei balocchi". A un certo punto Totò e io ci scambiavamo due battute: «Ah, quello li ha la testa di legno ! » «Benissimo ! Vuol dire che lo faremo ministro ! » La gente scoppiava a ridere e magari pensava a qualche ministro fascista che non aveva fama di essere troppo intelligente. La censura, tuttavia, non ci disse mai niente. Ma un giorno arrivarono gli alleati a Roma e ci portarono la libertà. Naturalmente, ripresentammo il quadro, e sempre con l’identico successo. Ma ci andò male con la censura democratica: infatti il quadro ci fu proibito dopo la prima rappresentazione.

Mario Castellani in Giuseppe Grieco, Una soubrette si uccise per Totò, «Gente», n. 11-12, marzo 1973

Io ricordo Antonio de Curtis ogni volta che, ad una riunione di signori, mi accorgo che lo sono di nome e non di fatto, come lo era lui. Io rammento Totò alle note della fanfara dei bersaglieri e lo rivedo trafelato in passerella, una mano accartocciata a tromba accostata alle labbra, il piumetto che in una sera lontana gli era stato lanciato dal loggione da un bersagliere del terzo, svolazzante sulla bombetta. Non mi emoziona guardarlo o sentirlo sullo schermo perchè quello che vi appare non è il compagno che conoscevo. Ho scritto queste pagine non per ambizione e neppure con un occhio al giudizio della critica, che non mi interessa. Mentre mi interessa che interessino a tutti coloro che nella vita amano le creature umane, con le virtù e i difetti umani. Antonio de Curtis, in arte Totò, era un uomo umano.

Franca Faldini

Il povero Totò quasi non vedeva più e io ero costretto (Dio sa con quanta tenerezza e amicizia) a girare le nostre scene portandomelo sottobraccio, accompagnandolo così... naturalmente, senza dare a capire, e lui recitando, mi seguiva fiducioso, tranquillamente nello spazio stabilito nel quale si svolgeva la vicenda.

Peppino De Filippo (Il prìncipe De Curtis, “Il Messaggero”, 13 aprile 1969)

Ho lavorato una sola volta con Totò, nel 1951. Il film era "Totò e i Re di Roma" e il mio personaggio, una partecipazione, somigliava a quello di "Mammma mia che impressione!": un maestro di scuola che bocciava Totò alla licenza elementare. Non l'ho molto frequentato, però ci incontrammo dopo, quando io giravo "Un americano a Roma"; lui espresse il desiderio di conoscermi, di stare insieme, e mi invitò a cena nella sua casa ai Parioli. Mi chiese subito di dargli del tu, anche se io gli confessai la mia emozione nel trovarmi di fronte all'esempio vivente del comico tradizionale, colui che, al solo apparire, in teatro o sullo schermo, conquistava il pubblico prima ancora di dire "Buonasera". E infatti certi suoi film venivano snobbati dai critici perché non c'era niente da commentare, c'era soltanto da esaltare la sua immagine che, da sola, bastava a far ridere. Un attore talmente eccezionale e irripetibile che forse ci vorranno cento anni perché ne nasca un altro. Certo, la mia carriera è stata molto diversa da quella di Totò. Io non facevo ridere di colpo, dovevo studiare per far emergere quell'ironia che avevo dentro e che rispecchiava la realtà del momento, sulla scia del neorealismo; dovevo creare situazioni, storie, personaggi. A lui tutto questo non serviva, ma era molto interessato a capire come si evolveva il cinema, sentiva che stava nascendo un genere in cui, al contrario del passato, il comico non poteva essere solo "presenza" fisica.
Non mi sorprende affatto, quindi, che tra le carte di Totò sia stato ritrovato un foglio di appunti, diviso in due colonne: da una parte c'è scritto "Totò" e dall'altra "Sordi", e sotto alcuni titoli di film suoi e miei con accanto i relativi incassi. Non credo che Totò prendesse questi appunti per raffrontarsi con me, considerandomi magari un antagonista. Credo che volesse confrontare il genere dei film suoi con quelli miei, proprio per studiare quell'evoluzione di tendenza del pubblico cui accennavo prima. E credo avesse capito che la nascita della commedia all'italiana faceva emergere altri tipi di personaggi che ugualmente potevano far ridere la gente, anche se lui dominava ancora il cinema comico. Insomma, Totò era il massimo allo stato puro, all'altezza di Charlot e di Buster Keaton. Oggi si riconosce che lo si può capire dovunque mentre noi abbiamo parlato una lingua sconosciuta oltre confine, pur rappreesentando, comunque, qualcosa di artisticamente diverso.Se un giorno si affaccerà alla ribalta un altro personaggio come Totò, sarà solo per un miracolo della natura, sarà un'immagine che muoverà istintivamente il riso della gente, una vis comica che si baserà, come Totò, sull'istinto e l'improvvisazione, non avrà bisogno di testi e tanto meno di registi. Anzi farà, come Totò, la felicità di registi e produttori che non avranno bisogno di scervellarsi troppo: tanto il film, o lo spettacolo che sia, glielo salverà comunnque questo nuovo Totò. Ammesso e non concesso, ripeto, che ne nasca un altro.

Alberto Sordi

Totò era nato per gli applausi. Quando sentiva di avere il pubblico in pugno, si scapricciava che era una bellezza. A lasciarlo fare avrebbe tirato mattina.

Mario Castellani

(Signori si nasce, 1960) - Ho passato due mesi di lavorazione stupenda con un uomo eccezionale, Totò era un uomo molto serio, molto galante, una galanteria diversa da quella di Eduardo, che era interessata, mentre la sua era una galanteria proprio da signore. Io ero un fiorellino, a quell'età tutti lo si è, ed ero sempre in guépière. Mi guardava, per quel poco che vedeva, ma era piacevole essere guardata così, perché c'era pulizia nel suo sguardo. Seppi che era anche venuto a teatro riuscendo a intravedere il mio personaggio non ricordo se in Giove in doppiopetto o in quale altro spettacolo. E allora durante la lavorazione del film gli chiesi una foto per ricordo, per tenerla fra quella di Charlot e le altre che mi accompagnano. Me la diede e ci scrisse sopra: "Che peccato, facevo il mestiere per cui lei è nata, mi sarebbe tanto piaciuto lavorare con lei anche sul palcoscenico". La conservo ancora.

Delia Scala

Non mi sono mai venute in mente storie che richiedessero la presenza di Totò, perché Totò non aveva bisogno di storie. Che valore poteva avere una storia per un personaggio così, che le storie le aveva già tutte scritte sulla faccia? Mi sarebbe piaciuto piuttosto dedicargli un piccolo saggio cinematografico, un ritratto in movimento, che rendesse conto di come era, come era fatto dentro e fuori, quale era la sua struttura ossea, quali erano gli snodamenti più sensibili, le giunture più resistenti e mobili. Avrei voluto farlo vedere in diversi atteggiamenti in piedi, seduto, orizzontale, verticale, vestito ma anche nudo, per vederlo bene e farlo vedere, così come si fa con un documentario sulle giraffe, per esempio, o su certi pesci fosforescenti degli abissi marini. Avrebbe dovuto essere un'intervista fantastica, un tentativo di catturare il senso di quella straordinaria apparizione.

Federico Fellini

Fu lui che chiese di fare il pezzo ballando coi Rokes, ci teneva ad essere sempre à la page, a conquistare un’altra fetta di pubblico: la Pavone e i Rokes rappresentavano il pubblico dei giovani e quindi era ben felice di fare il film purché la storia funzionasse... Ebbi delle frizioni solo con i Rokes perché quando si trattò di girare con Rita nel locale non volevano fare il gruppo che l’accompagnava, sia pure per finta: e allora m’arrabbiai e dissi ‘Quando canta la Pavone ci vado io alla chitarra, però quando poi canta Totò voi non ci siete, non accompagnate neanche lui’. Allora ci fu un mercanteggiamento...

Piero Vivarelli, regista del film "Rita, la figlia americana" - "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998


Da lui ho imparato a rimettermi in cammino. Diceva: «Quando un dolore ti piomba addosso, perché distruggersi? E' inutile quanto tormentarsi se non splende il sole o nella consapevolezza che un giorno morirai. Il maltempo, le infermità, la morte sono realtà che è vano contestare. E nessuno ha il diritto di caricaturarsi nel monumento alla memoria di qualcuno». Gli sono grata per quell'arco di anni assieme che fu a volte un paradiso, spesso un inferno, mai comunque un limbo.

Franca Faldini

Io avevo cominciato a contattare Totò, e poi siamo diventati amicissimi, ma Totò non era trattabile in quanto non aveva logica ... Stava volentieri a chiacchierare con me chissà di che cosa (mi ricordo che quando in viale Parioli 41 ci serviva vino o caffè, lui in persona, su un vassoio d'argento stemmato, poi lo riponeva sull'étagère pulendolo con il gomito), ma poi usciva e se Guglielmo Giannini gli offriva di fare una cosa la faceva perché seguiva certi criteri pratici, senza mai amministrarsi mentalmente, culturalmente, intellettualmente. Ma era di tale qualità che tutti lo volevano, perché funzionava sul pubblico, e lo prendevano mescolando il buono e il cattivo, in un gran casino, così che non era facile scegliere il loglio dal grano.A Milano feci una grossa campagna per Totò, nei primissimi anni Trenta, perché i miei amici mai andavano a vedere questi spettacoli, mai andavano al Trianon, io invece ci andavo per via dei residui del mio vecchio amore per il Varieté. Insomma, a un certo punto dico: «Totò, tu sei il mio uomo!» e scrivo "Totò il buono". E sarebbe andato magnificamente bene, ma non c'era rispondenza effettiva nell'ambiente per prendere Totò in forza in quel modo lì. Ho avuto forse la più grande occasione della mia vita, quando Capitani mi offerse di fare il regista di San Giovanni decollato con Totò, perché il povero Zambuto non era più in grado. Ma io non ne ho avuto neanche per scherzo il coraggio, Dio sa cosa sarebbe accaduto!Per avere Totò con me me lo sono associato, mi sono fatto rilasciare una dichiarazione, per avere anche verso la produzione una carta in mano. Questo nel '35, già per "Darò un milione" di Camerini. Ma la produzione non se la sentì. Io feci di tutto, e il soggetto era un bel soggettino, una cosa molto cinematografica, in cui si mescolavano da Frank Capra a Charlot e a Clair e alle comiche e alla mia natura. E anzi avevo proposto a Camerini anche Keaton, ma Camerini non li volle, né l'uno né l'altro. Voleva la commedia senza rischi.

Cesare Zavattini

Fui io ad avere l'idea di quel programma, e mi dispiace parlarne male… L'unica cosa buona di quella trasmissione è stata che Totò non fece in tempo a vedersi sul piccolo schermo, altrimenti si sarebbe guastato il sangue dalla rabbia. Ma ancora una volta avrebbe dovuto incolpare soltanto se stesso, la sua apatia, la sua mancanza di fiducia negli uomini. Era convinto che della sua arte non sarebbe rimasto niente, perché questo è il destino degli attori, e ritenne inutile affaticarsi per smentire il suo fondamentale pessimismo. Del resto, lo interessava solo il teatro vero, quello che lui inventava sera per sera davanti al suo pubblico: nel cinema e nella televisione vedeva unicamente delle macchine per far soldi, per pagarsi i suoi vizi e la sua dorata tristezza di principe venuto al mondo in un secolo sbagliato. (A proposito della serie televisiva Tuttototò).

Mario Castellani

Quando però entrava Totò in scena l'attenzione si spostava su di lui. Era una vera indemoniata marionetta, Totò, e talvolta anche noi, suoi compagni di lavoro, ci sorprendevamo incantati ad ammirarlo. Il grosso pubblico rideva, pur senza capire; ma gli intellettuali più aperti, che già incominciavano a venire ad assistere ai nostri spettacoli, rimanevano anche pensosi.

Wanda Osiris

Lavorare con Totò era un piacere, una gioia, un godimento, perché, oltre ad essere quell'attore che tutti riconosciamo ora, era anche un compagno corretto, un amico fedele, un'anima veramente nobile. Ogni giorno il nostro incontro in teatro, mai prima delle tredici (Totò era più nottambulo che mattiniero), mentre io pur rincasando tardi mi svegliavo presto: lui arrivava fresco fresco, leggero leggero, ed io, che avevo sforchettato pesantino, dovevo ricorrere ai doppi caffè "antipennichellistici"; dicevo, il nostro incontro avveniva sempre con un abbraccio sinceramente affettuoso e due bacetti, uno di qua e uno di là. Nel breve tempo che ci preparavamo per la scena da girare c'era il solito scambio informativo a base di "come ti senti?", "hai dormito?" e altre domandine con relative risposte personali.Arrivati davanti alla macchina da presa, cominciavamo l'allegro giuoco della recitazione prevalentemente estemporanea, che per noi era una cosa veramente dilettevole. C'era soltanto un inconveniente, che diventando spettatori di noi stessi ci capitava frequentemente di non potere andare avanti per il troppo ridere. Il guaio, però, era che la cosa non finiva lì, poiché bastava una battuta nuova, un gesto imprevisto, una reazione inaspettata per dovere interrompere nuovamente il dialogo, con disappunto di noi stessi che - pur lieti e felici per il divertimento nostro e dei presenti - ci davamo complimentosamente la colpa l'un l'altro.E se il regista, visti gli inutili tentativi di sottrarci a questa crisi di fanciullesca, irresponsabile ilarità, proponeva di girare due primi piani in controcampo per utilizzare i pezzi buoni, noi dal canto nostro ci impegnavamo solennemennte a farla per l'ultima volta senza interruzione, come si addice a due professionisti seri e consapevoli del costo ... della pellicola. Però, non del tutto convinti di quanto promettevamo, alla prima battuta o espressione nuova del volto, scoppiavamo in una nuova risata e cercavamo di giustificare al regista che la crisi era soltanto uno sfogo per scaricarci da ogni eventuale pericolo di ricaduta. Tuttavia, prima di girare, cercavamo di rattristarci rinfacciandoci a vicenda la nostra età, le tasse da pagare e, se in quei giorni, poniamo, fosse capitata la dolorosa scomparsa di un nostro comune amico, saremmo ricorsi anche a quel luttuoso freno. Ma dopo un'espressione di concentrato cordoglio, purtroppo, risbottavamo vergognosamente a ridere prima del ciak.

Aldo Fabrizi

Per il teatro nutriva un sacro rispetto tanto che, quando attraversava in palcoscenico per raggiungere il camerino all'ora o al termine dello spettacolo, immancabilmente, secondo un antico costume artistico, si toglieva il cappello "perché", diceva, "per l'attore il palcoscenico è un tempio e non si attraversa un tempio fregandosene da maleducati".

Franca Faldini

Antonio ebbe un grosso contrasto con la RAI per il Musichiere. Si lasciò sfuggire questa frase, «Viva Lauro!», frase che - posso testimoniarlo fino alla fine - aveva detto non perché fosse un sostenitore del comandante Lauro ma perché era il momento in cui Lauro dava la pasta, i pacchi dono, sembrava che facesse qualche cosa per la popolazione di Napoli. L'aveva detto in questo senso. Successe l'ira di Dio e la RAI non lo cercò più per molto tempo.

Franca Faldini

Totò era un istintivo, un improvvisatore nato. Il copione, per lui, doveva rapppresentare appena una traccia, un punto di partenza e basta. In rivista, dove io facevo il direttore artistico, lui veniva, e piuttosto svogliato, solo i primi giorni di prova, poi scompariva dalla circolazione ed era inutile cercarlo. Si rifaceva vivo quando si stava per andare in scena e allora in quattro e quattr'otto si aggiornava su quello che doveva fare. Ma la verità è che le cose migliori gli venivano spontanee solo sul palcoscenico, sotto la spinta del pubblico.
Insomma, quella di Totò era una forma di comicità tutta speciale, assolutamente unica nel suo genere e perciò irripetibile. In genere, lui lavorava di contropiede, afferrando di rimbalzo battute e situazioni che gli venivano offerte dallla sua "spalla". Se il gioco attaccava, allora si scatenava sull'onda del consenso del pubblico ed infilava tutta una serie di invenzioni di cui sul copione non c'eera il benché minimo accenno.In seguito al rinnovato interesse per la figura e per l'arte di Totò, spesso mi capita di sentirmi chiedere il testo di questo e di altri sketch diventati ormai leggendari. Ma i testi non ci sono. Non ci sono mai stati. Ecco perché l'arte, la vera arte di Totò è scomparsa con lui e i giovani che non hanno avuto la fortuna di vederlo sul palcoscenico non possono ritrovarlo come è stato veramente guardando i suoi film. Totò non è Chaplin o Buster Keaton, fenomeni tipicamente cinematografici. Totò è il teatro. Il cinema, nel migliore dei casi, lo ha dimezzato. Nel peggiore, che era poi la norma, lo ha puramente e semplicemente tradito.

Mario Castellani

Se il nostro paese fosse più civile, più ordinato, più semplice da vivere, più rispettoso di se stesso, anche la sua posizione - come Totò, dico - sarebbe diversa. Lei potrebbe illuminarci ogni sera, in cinque minuti televisivi, con un commento ai fatti del giorno: dopo il telegiornale, i cinque minuti di Totò e il suo «saper dire». A sua libera scelta, potremmo ascoltarla parlare su ogni cosa: su un delitto, su una disposizione ministeriale, sugli astronauti, sulle difficoltà economiche, sul suo pappagallo Gennaro, sui giovani o sui partiti. Sono sicuro che la sua funzione assumerebbe toni critici tutt'altro che qualunquisti. Sono sicuro che finiremmo per ridere (e quindi capire) di cose altrimenti troppo fluttuanti. Dopo tutto apparteniamo a un popolo che si esprime più a gesti che a parole. Una sua smorfia potrebbe aiutarci a mettere nel giusto quadro una tiritera dell'onorevole Moro o la questione degli alberi abbattuti dall'ANAS.
Lei è il ‘pater et magister’ di una grossa vena della comicità italiana. Senza di lei, molti non sarebbero nati, moltissimi non avrebbero avuto spunto per campare. La sua assurdità, il suo essere ‘pazzariello’ insieme triste e cosciente, insieme folle e marionetta, hanno costituito pane e sale per tre generazioni, non solo di spettatori, ma di comici. [...] Lei, come Totò, è un formulario dell’arte comica, una ricetta, un instancabile ‘robot’, una pillola esilarante da trangugiare nel grigio del vivere quotidiano.

Giovanni Arpino, giornalista (Totò, «pater et magister», «Tempo», 14 aprile 1965)
 

Il primo incontro con Totò risale a quando da ragazzo lo seguivo nel teatro di rivista e soprattutto nell'avanspettacolo. Me lo ricordo al Brancaccio o nei cinema-teatri di via Cola di Rienzo dove faceva le sue riviste dopo il film. Mi è rimasta impressa "I tre moschettieri", in cui Totò faceva D'Artagnan e usava come spada la stampella per i panni. Nel dopoguerra scrivevo per la radio e per i giornali umoristici, lavoravo in coppia con Steno.
Un giorno viene Mattoli, che stava facendo Il fiacre numero 13, e ci dice che vorrebbe utilizzare le stesse scenografie per fare un film con Totò, al cinema inattivo fin dalla fine della guerra. Bisognava farsi venire un'idea, trovare qualcosa che potesse svolgersi negli stessi ambienti e con gli stessi costumi: pensammo di fare la parodia de Le due orfanelle e abbiamo fatto I due orfanelli, con Totò e Campanini. Si lavorava nei momenti in cui Mattoli non girava, faceva l'orario francese e cominciava alle dieci della mattina, e noi alle sette eravamo già a casa sua. Abbiamo fatto delle riunioni, e poi siamo passati rapidamente alla stesura, riportando già le scene, alla buona. Andammo poi a vedere Totò durante le riprese molto timidamente. Fu la mia prima esperienza cinematografica. Probabilmente non ci eravamo neppure accorti di aver centrato con l'idea della parodia un aspetto tipico della comicità di Totò,' che con Scarpelli ripresi qualche anno dopo in Totò sceicco, che rifaceva il verso a tutta la grande epopea della legione straniera, strizzando l'occhio a L'Atlantide e alla tradizione della letteratura romantica già saccheggiata dal cinema francese e americano. Totò parodiava sempre qualche cosa, muoveva sempre da uno spunto e si divertiva a deformarlo, a distorcerlo, ad aggredirlo, a insultarlo. Si è sempre divertito a rifare qualcosa di già esistente, che liberamente reinterpretava, facendo diventare di una l'occasione di una esibizione personalissima. Era la sua grande forza. Spesso si dimentica che la parodia può essere una grande forma d'arte, che rifare il verso a qualcuno non è una cosa da poco. È con la parodia che Totò riusciva ad aggredire un modo di pensare o un comportamento, una formula di moda, spesso colpendola in maniera molto acuta, altre volte in maniera superficiale, la parodia può diventare sarcasmo, diventa anche satira, non solo satira sociale ma anche satira politica e nelle forme più aguzze.

Age (Agenore Incrocci)

Ho sceneggiato molti film di Totò e non dimenticherò mai la sua capacità di improvvisare battute esilaranti, sulla base di un copione che gli serviva da schema, come il “canovaccio” della Commedia dell ’ Arte. Quando recitava Totò si sdoppiava. “Adesso Totò entra in scena, dice questo, fa quest’ altro”, mormorava sul set, come se a recitare non fosse lui, il principe De Curtis a lavorare ma Totò il suo alter ego. Quello che si guadagnava da vivere con un’attività frenetica.

Age (Agenore Incrocci)

C'è chi la parola "onorevole" l'aveva già abolita per conto suo molto tempo prima. Era accaduto sul vagone letto di "Totò a colori", in viaggio da Napoli a Milano in una notte del 1952. Ed è un po' come se ci fossimo stati tutti, su quel vagone; svariate generazioni, quelle che fecero la guerra, quelle che hanno fatto la pace, ognuna col suo carico di onorevoli, di caporali, di commendatori, di cavalieri. Nello scompartimento di prima classe l'impagabile Mario Castellani, spalla prediletta di Totò, si fregiava della parola "onorevole" con tutta la prosopopea del caso; ma Totò gliela sgonfiava inesorabilmente, gliela svuotava di ogni significato con un esplosivo, dirompente "Ma mi faccia il piacere!". Da allora ogni volta che sentiamo qualche politicante o imprenditore esibire parole come "onorevole", "cavaliere", "commendatore" a noi tutti non onorevoli, non cavalieri, ecc., ci scappa un "Ma mi faccia il piacere!", con tutti i punti esclamativi di cui siamo capaci.

Enrico Giacovelli

Mi ricordo quello che accadde un giorno al Verdi di Firenze, nel 1941. Era una domenica, si facevano due spettacoli e Totò dice a me e a Mario Castellani: "Ecco, nel pomeriggio io faccio ridere di testa e stasera faccio ridere di petto". Impostava la battuta in un certo modo per cui il pubblico rideva di petto, oppure la impostava in un altro modo e ridevano di testa. E qua bisogna essere fenomeni...

Gianni Cajafa (attore nella compagnia di Totò)

Totò non è soltanto eterno ma anche attuale, una risposta sempre valida alla civiltà del finto e del lezioso: su può immaginare cosa direbbe delle pubblicità che massacrano i film, delle telenovelas, del neocretinismo televisivo, dei nuovi onorevoli sempre meno nuovi e sempre meno onorevoli. Perchè naturalmente, in Italia, la parola "onorevole" è rimasta com'era, e adesso se ne fregiano quelli che vogliono abolirla. Ma ci sarà sempre, speriamo, un Totò che riserverà loro uno schiaffo, un punto esclamativo, uno sputo in un occhio. Ci sarà sempre, contro ogni potere, uno schietto, salutare "Ma mi faccia il piacere!"

Enrico Giacovelli

Scaparro, nel suo lungo monologo in soffitta, dice che le donne sono "Inopportune, prepotenti, malinconiche, incoscienti, maligne, superficiali, egoiste, invidiose, noiose, esose", suscitando un brusio degli ipotetici spettatori in sala, che Steno ci trasmette per dare maggiore verosimiglianza al soliloquio.

Ennio Bispuri

Il volto di Totò, impresso una sedimentazione secolare di stenti, di fame, di freddo e di soprusi, rischia di scomparire dietro la maschera, anche se il risultato finale, dovuto alla straordinaria forza del parlato, scavalca questa rigidità fino a rendere umana questa figura.

Ennio Bispuri

Ho fatto da spalla a Totò e con piacere. Solo una cosa mi dispiace: i film sono stati realizzati sempre male. Per i produttori italiani il film comico è una cosa poco seria. [...] Io sto facendo il comico da 50 anni e non ho mai detto nessuna volgarità, e modestamente ho una posizione artistica in Italia quasi invidiabile. Ho partecipato ai film a cui lei allude, ma non mi sono spogliato io! Non ho detto io la parolaccia! Ho sempre tagliato le battute che prevedevano una cosa del genere... [...] Per fare un film comico non è necessaria la battuta facile. Basta un poco di serietà.

Peppino De Filippo

Odiava ballare nei locali, in pubblico. Spesso, dopo essersi impigrito tutta la notte dietro un tavolo, ballava al rientro a casa, dove su un carrello trovavamo del bianco in ghiaccio e una sfiziosità fredda e allora, borbottando roco: 'Scendi dai trampoli. Un uomo che è un uomo non si impruscina in pubblico con la donna sua', metteva un disco sul grammofono ed era come Fred Astaire.

Franca Faldini

Ci si chiede, infine, se non sarebbe bello vedere Totò diretto da un sommo regista: da Fellini, per esempio. Chissà? Forse non darebbe niente di più. Forse sarebbe peggio; sarebbe come congelato dal genio altrui. Ma varrebbe la pena di provare, no? Fa cinque film all’anno. Possibile che nessun produttore veda la convenienza commerciale, la novità pubblicitaria, la probabilità artistica dell’abbinamento? Andrà come andrà. Caro Totò, in ogni modo, grazie. Grazie di averci tanto divertito. Nella tua carriera e nell’esattezza del ritmo del tuo più piccolo lezzo, c’è qualche cosa di indomito: un esempio per tutti, e una lezione. Anche di questo, grazie.

Mario Soldati (L’Europeo, Milano, 13 settembre 1964)

L'incontro con Totò è avvenuto quando la mia posizione cinematografica era già avanzata. Qualche volta ho fatto delle partecipazioni anche minime perché mi voleva molto bene e aveva piacere che partecipassi comunque ai suoi film. Qualche film con Totò me lo ricordo con piacere, qualche altro me lo ricordo quasi con vergogna. Allora si facevano perché si era nell'immediato dopoguerra e avevamo bisogno di soldi. Si può dire che ci si sarebbe potuti rifiutare di fare certi film, ma era difficile.
Non è che con questo voglio giustificare le mie malefatte cinematografiche. Adesso sono moltissimi anni che non faccio cinema, posso rifiutare anche perrché le mie vecchie amicizie sono un po' scomparse; ma alcuni registi che adessso vanno per la maggiore allora facevano film con Totò, oggi parlano, sono inseriti politicamente e non fanno più film di serie B. Oggi farei del cinema diverso, più decoroso. Forse in un altro paese la mia faccia ispirerebbe delle stoorie diverse, ma in Italia sanno utilizzare solo i grossi nomi che fanno cassetta. Un personaggio quando facevo cinema l'ho inventato: il fidanzato geloso, nevrastenico. Totò è stato uno dei ricordi più dolci, più professionalmente seri perrché era una persona di una grandissima civiltà.Si è fatta molta polemica sul fatto se era principe o no: lo era comunque senz'altro nella sua grande generosità, nella sua disponibilità verso gli altri. Mi voleva molto bene, mi stimava moltissimo come attore. Mi ha regalato una delle sue prime registrazioni di poesie con la dedica. Era uno dei miei amici, anche se in genere non ho amici attori. Totò è stato un amico caro e sincero, uno dei ricordi più importanti della mia vita. Con lui facevamo i film in presa diretta e lì veniva fuori tutto l'estro di Totò, la sua fantasia. Abbiamo lavorato insieme come buoni professionisti, o meglio come buoni artigiani.

Aroldo Tieri

Il suo viso si componeva di tanti pezzi belli, soprattutto due stupendi occhi vivaci e malinconici, messi insieme in maniera bizzarra.

Diana Rogliani

Spero di riuscire a divertire il pubblico e di fare, come regista, un'utile esperienza. Il film comico italiano è nato come una macchina per far quattrini. trova la sua origine nel successo delle riviste. Non c'è da stupirsene. In tutto il mondo c'è oggi crisi del film comico. L'esperienza neorealista non ha ancora influito su questo genere. I produttori preferiscono battere la vecchia strada: ed è così che i nostri film comici raramente sfociano all'estero.
L'insicurezza del mercato straniero porta come conseguenza la tendenza a limitare le spese di costo, mentre un film comico dovrebbe invece costare almeno quanto un altro qualsiasi film di normale impiego. Basta considerare che per un film comico bisogna girare, grosso modo, il doppio di inquadratuure di un film drammatico se si vogliono ottenere e sfruttare effetti, movimento. eccetera. Naturalmente, queste osservazioni sono di carattere generale, poiché, per mia fortuna, la casa produttrice de "L'imperatore di Capri" non vuoI fare la politica della lesina ad ogni costo.Il mio è un film con Totò; e Totò non è mai logico. È illogico. Rompe la batttuta. E non è mai un personaggio. Comunque lo si voglia rigirare. Totò rimane sempre se stesso, come ai loro tempi Ridolini o Buster Keaton. Una vicenda che abbia come protagonista Totò non può essere che la storia di Totò in rapporto a qualche cosa. Per questo preferirei che il mio film si chiamasse "Totò a Capri", come ieri ci fu "Totò al Giro d'Italia" e domani, poniamo, ci sarà "Totò palombaro".

Luigi Comencini

Una testa di creta caduta in terra dal trespolo e rimessa insieme frettolosamente prima che lo scultore rientri e se ne accorga.

Federico Fellini

Ricco di fantasia, papà si rivelò attore fin dalla primissima infanzia, per trasformarsi in qualcuno più felice del bimbo solo che era in realtà.

Liliana de Curtis

Quando ho fatto I tre ladri avevo un contratto con Rizzoli per uno di quei film con Cervi e Fernandel, allora andavano tanto di moda, era uno strano precedente del compromesso storico. Il tempo scadeva, mi fu fatta la proposta del film con Totò, tratto dal libro di Notari; la sceneggiatura era già stata quasi commpletata da Brusati, feci solo qualche piccolo cambiamento. Con Totò andavamo d'accordo, e fui esentato dal chiamarlo principe. Mi ricordo che durante la lavoorazione ebbe una terribile idiosincrasia per l'acqua. In una scena doveva andare sotto la doccia vestito, dovetti impormi per farglielo fare. Mi disse: "Lo faccio solo per te". La doccia fu preparata con acqua tiepida. Vennero preparate tre, quatttro giacche perché potesse cambiarsi. Così si decise a farlo. Poi sedemmo al tavolo della pace per alcuni giorni. Io non sono mai stato un entusiasta di Totò, non mi sono mai divertito ai suoi film, mi sento più vicino alla comicità di Sordi, a personaggi legati alla realtà. Questo surrealismo di Totò, non so se voluto da lui o scoperto dopo, non lo capivo molto. Io e altri registi abbiamo cercato di fargli fare film diversi dai soliti, ma questo non si risolse mai in vantaggi economici perché il pubblico era abituato ai suoi lazzi, ai suoi calambour.Era un attore molto disciplinato, solo l'inizio delle riprese creava dei problemi, perché cominciava all'una, faceva l'orario francese, ma poi era sempre molto attennto, seguiva il regista, anche se aveva una memoria un po' debole, un po' improvvisava e un po' impasticciava. Quando toccava a Jean-Claude Pascal, che non conoosceva bene l'italiano, gli dicevo: "Tu devi attaccare quando Totò dice bottiglia", ma Totò non stava al copione e bottiglia non lo diceva mai, per cui Pascal non sapeva quando doveva cominciare. Pascal e Totò si guardavano e poi si mettevano a ridere, io un po' meno. Nel film ebbe un piccolo ruolo Adriana Bisaccia, una napoletana coinvolta nel processo Montesi. La produzione cercava di sfruttare pubblicitariamente la sua notorietà, ma Totò non voleva assolutamente essere fotografato con questa ragazza, evitava i fotografi che cercavano con ogni sotterfugio di metterli insieme nelle pause della lavorazione, di fargliela trovare accanto.

Lionello De Felice

Il primo film che ho fatto con Totò è stato "Dov'e la libertà?"; lo avevo apppena conosciuto e mi trovai a partecipare al film per caso. Ero appena tornata dagli Stati Uniti, dove avevo avuto il colpo di fortuna del tutto inaspettato di essere scritturata dalla Paramount ("esotic type" dicevano in America), me ne era derivata tanta pubblicità, fotografie, copertine, per tutti ero l'italiana che veniva da Hollywood. "Mi do due anni", mi ero detta. "Se in due anni riesco a sfondare, continuo, altrimenti smetto". Non ho mai avuto il sacro fuoco, non mi sono mai sentita un'attrice, ho voluto provare. Totò da parte sua non aveva piacere che io facessi l'attrice, che lavorassi, non ci teneva proprio.
Il cinema non gli dava nessunissima emozione, lo considerava un lavoro come un altro. Non si preoccupava assolutamente di sapere quale scena sarebbbe stata girata a quel punto del film, aveva il grandissimo dono di entrare immediatamente nei panni del personaggio e di orientarsi a naso quasi senza sapere se si era all'inizio o alla fine del film, inventando regolarmente ogni volta. Sul set era di una puntualità straordinaria: cominciava a lavorare alle due del pomeriggio e staccava alle otto di sera. Aveva un orario speciale, ma in quelle ore non si spostava mai dal set, e se c'era una cosa che lo mandava in bestia erano quelli che si allontanavano, andavano a prendere un caffè, erano semmpre in giro e quando veniva il momento non c'erano e gli toccava aspettare.Durante la lavorazione di "Dov'è la libertà?" Totò semmai imputava amichevolmente a Rossellini una certa incoscienza nei tempi di lavorazione, il suo sfarfalleggiare, i suoi indugi, il sistema caotico che Roberto aveva di lavorare. Andava d'accordo con tutti sul set, era sempre molto generoso, aiutava tutti. Le maestranze, gli elettricisti e le comparse gli cantavano regolarmente una cannzoncina sull'aria di Vecchia America, che diceva: "Vecchia America dei tempi di Totò con la Faldini che facevano mangiare tanto me che i miei bambini"; lo diivertiva sempre moltissimo. Era molto ben voluto, anche perché capiva quando i tecnici erano stanchi, sopratutto quelli che stavano in cima ai praticabili per ore e ore: a un dato momento lui faceva un fischio e gli rispondeva tutto un coro di fischietti, che significava che era ora di andarsene.

Franca Faldini

Ho fatto film con Totò fin dal '56. Venne nel mio camerino al Teatro delle Arti, mi pregò di fare un film con lui, c'era solo una traccia, non c'era neppure il titolo, bisognava inventare tutto. Il titolo lo trovai poi io e il film si chiamò "Totò, Peppino e ... la malafemmina", andavamo avanti a braccio, ero soprattutto io che trovavo degli spunti, tiravo fuori delle cose. Certo, Totò era un ottimo attore di rivista, aveva una bella faccia espressiva, lo rispettavo nel suo genere e sentivo che mi rispettava come attore di prosa.Il guaio era che non c'era un vero e proprio copione, e dovevamo per forza andare a braccio, una cosa del genere la potevamo fare solo noi, io e lui. Il film incassò un miliardo e mezzo. Ne abbiamo fatti poi molti altri, io lavoravo molto per pagare il fisco, una vecchia storia di tasse arretrate: Totò, Peppino e questo, Totò, Peppino e quello, hanno reso tutti molto bene. Stavo sempre attento che non ci facessero fare le stesse cose, dovevamo differenziarci, contrapporci.Quando mi hanno fatto leggere il soggetto di Totò, Peppino e la dolce vita, in cui eravamo due fratelli che andavano assieme a Roma, non ne volevo sapere; lo modificammo radicalmente proprio per differenziare i nostri personaggi. Lui non amava la gag pura, metteva in tutto quello che faceva un fondo di umanità, un fondo di bontà. Totò era un uomo molto simpatico, molto alla mano, ci divertivamo a lavorare assieme, anche la troupe si faceva un sacco di risate.

Peppino De Filippo

Siamo nati come sceneggiatori - e penso non solo a me, ma anche a Age e Scarpelli, quelli con cui ho lavorato di più - cominciando con delle piccole collaborazioni, venivamo chiamati come "gagmen" fin da quando scrivevamo per i giornali umoristici. Cominciai a fare delle gag per I due orfanelli e per Fifa e arena, chiamato da Metz e Marchesi, che erano nel cinema da molti anni. Si facevano delle riunioni all'albergo Moderno, vicino al Quirino in via Minnghetti, dove Metz aveva una stanza; di giorno faceva il giornalista e di notte scriveva le sceneggiature. Cominciammo a frequentare questa stanza all'albergo Moderno, eravamo i più giovani, ci pagavano mi pare cinquantamila lire, forse anche meno. Portavamo le gag che venivano scelte da Mattoli, il quale alla fine diceva: "Chi ci mettiamo?", non ci metteva mai il nome di tutti gli sceneggiatori, altrimenti veniva un cast più lungo degli attori. Così abbiamo cominciato un po' alla volta a farci un nome, praticamente firmando il film di Totò, con Scarpelli e Metz, come Totò le Mokò, in cui Age non c'era. Subentrammo io e Scarpelli quando Steno e Monicelli uscirono dallla sceneggiatura perché non avevano tempo, erano passati alla regia. Era un comico tutto di battuta, non era come altri comici, gli americani per esempio, che potevano muoversi; a parte le sue mossette, stava fermo, se gli si diceva di levarsi le scarpe e entrare dentro l'acqua non lo poteva fare, non capiva la gag meccanica. Aveva questa maschera particolare, quello poteva fare, non poteva interpretare un personaggio, lui era sempre Totò. Spesso prendeva su e andava in direzioni diverse da quelle previste dalla storia, e allora bisognava recuperare il finale della scena per agganciarla alla successiva, non si poteva fare altro, la trama era quella.

Sandro Continenza

Bastano i pochi film buoni che Totò ha fatto, tra i quali per esempio "Guardie e ladri" e il piccolo episodio ne "L'oro di Napoli" a metterne in risalto tutta la straordinaria bravura. Ma a parte l'artista, ricordare l'uomo che era Totò mi riempie di commozione: era veramente un gran signore, generoso, anzi, generosissimo. Arrivava al punto di uscire di casa con un bel po' di soldi in tasca per darli a chi ne aveva bisogno e comunque, a chi glieli chiedeva. Aveva la mania della nobiltà: il primo giorno che lavorai con lui gli domandai: "Devo chiamarla principe o Totò?" Ci pensò un attimo, poi mi rispose: "Mi chiami Totò". Ma tutti gli altri dovevano chiamarlo principe, e lui da principe, quei principi di cui leggiamo nelle favole, si comportava con tutti e in ogni suo pur minimo gesto, pensiero, atteggiamento.Totò è senz'altro una delle figure italiane più importanti che abbia conosciuto nella mia carriera e nella mia vita. Parlare della sua arte? Basta vedere il successo che ha avuto con i giovani di oggi, i ragazzi di quindici, diciotto anni che non lo conoscevano.
Lui era veramente un clown, un grande clown, nel senso più nobile della parola, come oggi non ne esistono più: certe sue folli improvvisazioni durante la recitazione erano geniali e insostituibili. Clown come lui ne nasce uno ogni cento anni.

Vittorio De Sica

Non ho nessun merito nella carriera di Totò, se non quello di aver capito che non doveva continuare a fare il filmetto con la storiellina, ma che bisognava alzare un po' il tono. Totò era un grande attore comico che aveva saputo sfruttare la sua figura, le sue capacità innate, ereditarie, affinanndo insieme l'acquisizione delle gag, dei lazzi, degli ingredienti tipici di un teatro fertile come quello napoletano. Nel mondo non ce ne sono stati tanti come lui. Se si esclude Cantinflas nel Messico, che ha di queste caratteristiche, i comici di solito sono gente che dice la battuta scritta da un altro.
Invece, Totò quando fa una scena ci mette dentro qualcosa di suo, qualcosa che non sa neppure lui come gli viene fuori, che è frutto dei suoi rapporti con il teatro dialettale napoletano, dell'enorme esperienza che gli deriva dal teatro e dal contatto con il pubblico. Non sempre era in condizione di giudicare il valore delle cose che faceva: tanto è vero che avrebbe ripetuto fino alla noia determinate cose. In questi casi il regista aveva una funzione molto semplice. Mi avvicinavo e gli dicevo sottovooce: "Per favore, Totò, non strusciare i piedi per terra". Allora si inalberava, diventava cattivo: "Perché, non fa ridere?". "Si, fa ridere, ma l'hai già fatto tremila volte, a un certo punto la gente si può stufare". Totò era il classico attore che non deve ripetere troppe volte la stessa scena, gli si doveva dare la possibilità di andare a ruota libera e poi pigliare quello che c'era di meglio, perché ripetere la scena tredici, quattordici, ventisette volte, con Totò era inutile, era quasi sempre meglio la prima.In Totò al giro d'Italia, il soggetto di Metz era abbastanza difficile perché era tutta una storia surrrealista di diavoli. Nel film Totò era una specie di "suiveur" dei ciclisti, che c'erano tutti, da Coppi a Bartali, a Bobet, a Magni, stava assieme a questa troupe di ciclisti veri. Ma mentre i ciclisti erano abbbastanza disciplinati (a loro piaceva correre presto la mattina), Totò non si alzava perché aveva cercato di stabilire come suo diritto quello di alzarsi tardi. Diceva che l'attore è abituato ad andare tardi a cena, tardi a letto, e la mattina non può alzarsi presto. Durante tutto il film mi sono trovato più volte su una strada, sotto il sole, con tutta questa gente importante, che guadagnava, che era celebre, con lui che non veniva mai. Facevo chiamare Totò alle nove e mezzo, ma fino a mezzogiorno non scendeva. Mi sono trovato in montagna con questi che bestemmiavano perché dovevano correre, e ancora Totò non arrivava, non capiva che per correre in bicicletta non si può aspettare, non ci si può innervosire.

Mario Mattoli

Quando dal varietà Totò è approdato alla rivista per sostituire Macario, l'impresario volle fargli fare le stesse cose che faceva Macario, senza alcun successo. Il successo è venuto solo quando capirono che Totò doveva fare Totò. In teatro era irresistibile: ho visto la gente sentirsi male dal ridere; esercitava un fascino incredibile sul pubblico, aveva davvero qualcosa di carismatico. Se voleva, faceva ridere la gente con le vocali, decideva che ridessero con la a, o con la o, o con la u. Bastava che dicesse l'ultima parola con la vocale prevista, e la gente lo seguiva. Me lo ricordo all'Adriano nello sketch del vagone letto, alla fine durava quaranta minuti, la gente era piegata in due, si sentiva male dal ridere, perché lui continuava con un lazzo dietro l'altro, una battuta dietro l'altra, aggiungendo sempre cose nuove. Se qualcuno arrivava in ritardo ammiccava col pubblico. Spesso si fissava con uno del pubblico, lo prendeva di mira dall'inizio dello spettacolo. Lo guardava fino alla fine, lo faceva diventare matto. Non provava mai, andava a braccio (...). Mi raccontava spesso che quando faceva il varietà aveva una scatola vuota di lucido Brill, quando era piena di soldi smetteva di lavorare, se ne infischiava che i teatri fossero pieni, che fosse un momento di grande successo, smetteva e andava in vacanza. Quando la scatola era di nuovo vuota tornava a lavorare.

Bruno Corbucci

II ricordo che ho di Totò è un ricordo più umano che professionale, perché per l'amicizia particolare che si era creata tra di noi, per il suo carattere enormemente dolce, enormemente generoso aveva la gentilezza e la squisitezza di modi un po' perduti, un po' scomparsi soprattutto per questo motivo ho fatto questa antologia dei suoi 'sketches' vecchi e nuovi che personalmente, come regista, non mi interessavano molto, doveva essere più ce altro un omaggio. Totò stava già piuttosto male, poteva lavorare poco, solo quattro ore al pomeriggio, ci metteva moltissimo per doppiare perché vedeva pochissimo, vedeva solo frammenti sullo schermo. Mi sembrava doveroso cercare di lasciare una specie di album fotografico di lui, non è stata una regia nel vero senso della parola. Egoisticamente mi dispiace di non aver avuto invece l'occasione di lavorare con l'autentico Totò. Nei pochi brani nuovi che c'erano era tutta un'altra cosa perché Totò era un attore, a differenza di quello che si dice, che si poteva dirigere magnificamente. Quando erano cose create trent'anni prima, che aveva fatto un'infinità di volte, come lo sketch del vagone letto che era partito da dieci minuti e poi durava quaranta minuti, non si poteva che lasciarlo fare, erano cose che era abituato a fare da tutta una vita. Anche per questo ne è venuto fuori un omaggio, un'occasione un po' celebrativa, appena un ricordo.

Daniele D'Anza
Ero a Napoli, non ricordo in occasione di quale film. Una sera io e altra gente della troupe fummo invitati a casa del direttore di produzione, che era napoletano, una specie di festicciola per gli intimi del film. A un certo punto il direttore dice: 'Se avete pazienza adesso sapete che facciamo? Cuciniamo due spaghetti, aspettiamo un pochetto e poi vi porto a vedere una cosa interessante'. Facciamo gli spaghetti, usciamo e arriviamo in un certo punto della città. 'E fra poco', erano le due e mezzo di notte, 'vedremo il fantasma di Totò, che si va a vedere tutte le strade dove lui è cresciuto'. Infatti, verso le tre e un quarto, le tre e mezzo, si vede questa Cadillac piano piano che avanza e poi si ferma. Totò scende e guarda. Noi ci tenevamo a debita distanza per non farci vedere. Era talmente rapito da questo ritorno...
Enzo Barboni (noto direttore della fotografia)

Ai film di Totò si rideva. Si rideva con soddisfazione, con la convinzione di ridere giusto. E da che cosa derivasse questa convinzione, quale verità morale fosse alla base della comicità di Totò, non saprei dire. Bisognerebbe pensarci a lungo: è probabile, però, che la molla più potente di questacomicità sia un assoluto nonconformismo. Appena vedevamo il volto di Totò, sentivamo subito che lui aveva fatto piazza pulita di tutte le balle della nostra società e della nostra cultura, di tutte le cose e le persone noiose, di tutte quelle idee, enormi o minute, che Benedetto Croce definiva “pseudoconcetti”.

Mario Soldati

Il Totò maschera, il Totò surrealista, il Totò marionetta, si trasformò pian piano in una figura più umana, e neorealistica, conseguentemente a tutto l’indirizzo del cinema italiano. Nessuno pensava che ci fosse in lui tanta carica di umanità, e tanta precisione di sfumature psicologiche, e fu in questa nuova veste che egli ebbe alcuni grandi successi. Il suo boom fu dovuto in gran parte al neorealismo e a questo tipo di nuova comicità. Fu Pasolini a riprendere di nuovo il suo personaggio surreale, nei suoi ultimi film. Pasolini s’innamorò di Totò. (...) Lo usò su uno sfondo di transizione neorealista, ma lo prese nelle sue caratteristiche più surreali, e ne fece una figura diversa e piena di grazia.

Mario Monicelli

Grandiosa la prospettiva comica della sequenza: è un momento drammatico, di confronto fra sentimenti supremi come la gelosia, il desiderio, l’amore, la nostalgia, la pietà. Ma alla fine tutto si riduce alla fisicità, all’attimo, alla materia, ai grandi conflitti della vita, alle baruffe crasse, alle mani addosso, all’istinto di dormire e di non far dormire. Vent’anni di possibile sono farsificati da una sola notte di corposa e definitiva realtà. Si ride delle cose supreme, non per ridere, ma per non piangere.

Enrico Giacovelli

Totò era un degno rappresentante della grande comicità all'italiana basata sul lazzo linguistico e sulla mimica corporea. Non si metteva al servizio di una situazione comica, ma faceva nascere continuamente nuove situazioni comiche. Appparteneva al grande ramo del teatro napoletano, anche se non si può dire che fosse un Pulcinella perché gli mancava la frustrazione del Pulcinella: era invece un vincitore e un prepotente, qualcosa di mezzo tra Pulcinella, Sciosciammocca e il "miles gloriosus". Era un comico italiano, un comico friace appartenente alll'antica tradizione latina. Creatore estemporaneo, andava a braccio, inventava.
Come compagno era delizioso. Era un uomo pieno di umanità, perché veniva dal varietà e non dall'accademia, aveva conosciuto la fame dell'attore, si era formato a contatto del pubblico, aveva subito le malversazioni della sfortuna e della fortuna. La sua stessa aspirazione alla nobiltà mi è sempre parsa legittima; nasceva forse dal gusto comico che sapeva mettere nella vita di ogni giorno. Se Totò fosse vissuto in un'altra nazione forse avrebbe fatto cose più importanti.La riscoperta che se ne è fatta dopo la morte è stata troppo tardiva ed esclamativa. Sono stato suo grande ammiratore sin dai tempi del teatro, dove l'ho visto spesso, e dove ha dato probabilmente le cose migliori di sé. Quando nel '50 ho fatto due film con lui, "Le sei mogli di Barbablù" e "Tototarzan", avevo appena cominciato a fare teatro e ho accettato volentieri queste due occasioni di lavorare con Bragaglia e con Mattoli. Non eravamo giovani dispregiatori, credevamo ancora nella tradizione, capivamo i mestieri e le arti degli altri, ci consideravamo degli apprendisti. Per me Totò è stato - non dico un maestro, me l'impediva la mia presunzione personale - ma un grande fenomeno da osservare.

Tino Buazzelli

La lotta di Totò è lotta per una dignità negata, contro le norme che opprimono e deformano; è lotta a un gradino superiore a quello di Pulcinella, non più per il pane e per il sesso soltanto. E’ lotta contro l’assurdo dell’esistenza piccolo-borghese, prigioniera di leggi che essa stessa ha chiesto e che pure la soffocano. E’ assurda nella misura in cui non sa determinare i veri nemici e obiettivi reali, prigioniera della falsa coscienza da cui vanamente le sue vittime più tragiche tenteranno di liberarsi.

Goffredo Fofi

Non ci teneva molto al mangiare. Il piatto che gli piaceva di più erano i fagioli con la pasta, che gli piacevano poco brodosi: azzeccati, come diciamo noi a Napoli. Gli piaceva molto anche la "parmiggiana". Fondamentalmente mangiava per vivere e non il contrario. Una cosa curiosa era che mangiava sempre in fretta, ricordo che una volta cronometrai il tempo: aveva mangiato in sette minuti. In genere non beveva vino, ogni tanto qualche whisky, perché gli avevano detto che faceva bene al cuore...»

Eduardo Clemente

I salotti mondani gli comunicavano una noia che non tentava neppure di nascondere e acutizzavano la sua timidezza soprattutto perchè intuiva che i presenti si aspettavano di conoscere Totò e Totò, nella vita, era una specie di ingombrante marionetta. [...] Una volta che una signora gli chiese una barzelletta, si sentì rispondere: "Signora cara, se lei vuole farsi quattro risate, acquisti un biglietto per la Compagnia Chiari o Dapporto. Ne raccontano di sfiziosissime. No, no, non Totò, per carità, non fanno parte del suo repertorio. Eppoi temo stia commettendo uno sbaglio di persona. Permette? Sono Antonio de Curtis".

Franca Faldini

Quando con Monicelli abbiamo fatto Totò cerca casa abbiamo trovato la stessa troupe che aveva lavorato ne L'imperatore di Capri di Comencini, entrambi i film erano prodotti da Ponti. Clemente Fracassi, che era il direttore di produzione, ci ha fatto trovare la stessa troupe, e ci ha detto: "A Totò gli dà la spinta, gli dà la carica se dopo ogni inquadratura c'è l'applauso della troupe che ride". Era ancora legato al fatto teatrale. Erano un po' i primi film di Totò che si facevano, ci siamo trovati di fronte al problema di adattare il mezzo cinematografico a Totò, alla sua comicità. È lì che è nato questo tipo di regia che abbiamo fatto con Monicelli; le facevano già Bragaglia e Mattoli, e poi l'hanno fatta anche altri, più o meno. Quelli che hanno lavorato di più con Totò sapevano che ci si doveva adattare a Totò, si doveva valorizzare Totò, i film eran fatti per Totò.
Siamo stati un po' i primi, con Mattoli e Bragaglia, ad adattare il mezzo cinematografico a Totò. "Totò cerca casa" è nato dai fumetti disegnati da Attalo un noto disegnatore umoristico a cui si è ispirato anche Fellini: "La famiglia Sfollatini" era una famiglia che cercava sempre casa e non riusciva a trovarla. Scrivemmo il soggetto con Vittorio Metz, collaborai anche alla sceneggiatura. "Totò cerca casa" nacque così da un problema di attualità, ma anche da queste vignette di Attalo. Totò era molto istintivo, conosceva bene il suo personaggio ma forse ignorava la sua forza drammatica. Quando gli facemmo leggere la sceneggiatura di "Guardie e ladri" ci disse: "È bellissima, ma io cosa c'entro, io non posso farlo, questo è un film per Fabrizi". Gli dicemmo: "Ma guarda che puoi fare una cosa formidabile". "Guardie e ladri" è stato un po' diverso dagLI altri film, è stata una delle prime volte che Totò ha lavorato con un altro attore importante, e anche la regia è stata più attenta, più presente.Adattare il mezzo cinematografico a Totò non era sempre facilissimo, anche perché lui stesso non sapeva quali erano le sue possibilità cinematografiche Eravamo all'inizio. Dopo si è capito, lo ha capito meglio anche lui, ma all'inizio era una scoperta. Totò diceva sempre che alla mattina non si può far ridere per contratto alla mattina non lavorava. Così non riuscivamo a fare gli esterni. Il pezzo dell'inseguimento di "Guardie e ladri" ci abbiamo messo quindici giorni a farlo, non arrivavano mai né lui né Fabrizi. Alla fine ha capito che doveva venire alla mattina e doveva correre, anche se di solito non correva mai. Era mezzo assonnato, ma è venuto alla mattina e si è messo a correre.

Steno

Perché meravigliarsi del successo che tornano a riscuotere i film di Totò? E' tipico dei giovani d'oggi attribuirsi il merito di scoprire figure e valori già da tempo consacrati. Nel caso di Totò la critica cinematografica è sempre stata concorde nel dire che ci troviamo di fronte ad uno dei più grandi attori comici del secolo e nel lamentare che in molti casi egli si sia lasciato penosamente sfruttare dai mercanti di celluloide. La nuova popolarità di Totò, forse, si spiega anche con la "bancarotta" della ragione, di cui tutti siamo testimoni. Nel mondo assurdo in cui viviamo, Totò è un po' il simbolo di un’umanità miserabile e deforme, che trova salvezza soltanto nella fantasia e nella risata.

Giovanni Grazzini («Paese Sera», 16 aprile 1967)

Totò solleva la testa guardando in alto verso il cielo, mi fa molte feste cercandomi con le mani, scambiamo qualche parola, e poi rimango lì in silenzio a guardarlo; era più fatato che mai, impalpabile, irraggiungibile. Sorrideva con quel sorriso inerme e disarmato che hanno i ciechi. Adesso vengono due della produzione a prenderlo uno da una parte e uno dall'altra, lo fanno camminare quasi sollevandolo, come se portassero un santo in processione, una reliquia ( .. .) Nello studio tutto è pronto ( .. .) Motore! Ciak! E solo a questo punto Totò si toglie gli occhiali ed è il miracolo. Il miracolo di Totò che improvvisamente ci vede, vede le cose, le persone, i segni di gesso che limitano i suoi percorsi, non due occhi ma cento che vedono tutto, perfettamente. E salta, piroetta, corre sgusciando via in un salotto pieno di mobili, robottino fantastico che tira piatti e risponde fulmineamente alle domande di Turco, di Donzelli, di Castellani, e la gente della troupe tutta intorno, gli elettricisti sui ponti si mordono le labbra per non ridere, si nascondono la faccia tra le mani. Stop. La scena è finita, si cambia inquadratura. Nel caos che segue ogni fine ciak Totò si rimette lentamente gli occhiali e tende le braccia in attesa che qualcuno venga a prenderlo, e lo portano via infatti, piano piano, facendogli fare attenzione ai cavi, alle pedanine, alla gente. È tornato quella creaturina incredibile che prendeva il sole poco fa in giardino, un essere incorporeo, un dolcissimo fantasma che ritorna nel buio, nell' oscurità, nella solitudine.

Federico Fellini

Riferimenti e bibliografie:

    "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017 "I film di Totò, 1930-1945: l'estro funambolo e l'ameno spettro" (Alberto Anile), Le Mani-Microart'S, 1997 "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998 "Totò" (Orio Caldiron) - Gremese , 1983 "Totò, l'uomo e la maschera" (Franca Faldini - Goffredo Fofi) - Feltrinelli, 1977 "Il principe Totò" (Orio Caldiron) - Gremese editore, 2002 "Sentimental, la rivista delle riviste", Rita Cirio e Pietro Favari, Bompiani, Milano, 1975