Fellini Federico

(Rimini, 20 gennaio 1920 – Roma, 31 ottobre 1993) è stato un regista, sceneggiatore, scrittore e fumettista italiano.

Non mi sono mai venute in mente storie che richiedessero la presenza di Totò, perché Totò non aveva bisogno di storie. Che valore poteva avere una storia per un personaggio così, che le storie le aveva già tutte scritte sulla faccia? Mi sarebbe piaciuto piuttosto dedicargli un piccolo saggio cinematografico, un ritratto in movimento, che rendesse conto di come era, come era fatto dentro e fuori, quale era la sua struttura ossea, quali erano gli snodamenti più sensibili, le giunture più resistenti e mobili. Avrei voluto farlo vedere in diversi atteggiamenti in piedi, seduto, orizzontale, verticale, vestito ma anche nudo, per vederlo bene e farlo vedere, così come si fa con un documentario sulle giraffe, per esempio, o su certi pesci fosforescenti degli abissi marini. Avrebbe dovuto essere un'intervista fantastica, un tentativo di catturare il senso di quella straordinaria apparizione.


Mi ero appena seduto in quella stiva di pirati pronti a tutto, quando si fece sentire, via vìa più sonora e pungente, una musichetta da circo, una tarantella pazza e sinistra che percorse lo sgangherato stanzone come un irresistibile solletico. La platea si agitava tutta, allargava le cosce, sbracandosi nella posizione più comoda, con ingordigia: era scoccato il segnale che un accadimento ansiosamente atteso stava arrivando. Sembrava di stare in un aereo al momento del decollo, sulla pista di partenza... Ma Totò non apparve sul palcoscenico che continuava a restare vuoto e deserto. Arrivò dal fondo del cinema, si materializzò all'improvviso e tutte le teste si voltarono insieme, come una gran ventata. In un uragano di applausi, di urla di gioia, dì gratitudine, feci appena in tempo a vedere l’inquietante figuretta che avanzava rapidissima lungo il corridoio. Scivolava come su delle rotelline, una candela accesa in mano, il frac da becchino e, sotto l'ala della bombetta, due occhi allucinati, dolcissimi, da rondone, da ectoplasma, da bambino centenario, da angelo pazzo. Mi passò vicinissimo, leggero come un sogno e subito scomparve inghiottito dalle onde del pubblico che si alzava in piedi, lo acclamava, voleva toccarlo. Riapparve, ormai irraggiungibile, laggiù sul palcoscenico, si dondolava avanti e indietro, in silenzio, gli occhi che giravano come le palline della roulette. Poi, di colpo, la funebre macchietta soffiò sulla candela, alzò la tesa della bombetta e disse: «Buona Pasqua». Ma non era Pasqua. Era novembre.

È considerato uno dei maggiori registi della storia del cinema. Già vincitore di quattro premi Oscar al miglior film straniero, per la sua attività da cineasta gli è stato conferito nel 1993 l'Oscar alla carriera. Vincitore due volte del Festival di Mosca (1963 e 1987), ha inoltre ricevuto la Palma d'oro al Festival di Cannes nel 1960 e il Leone d'oro alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1985.

Nell'arco di quasi quarant'anni - da Lo sceicco bianco del 1952 a La voce della luna del 1990 - Fellini ha "ritratto" in decine di lungometraggi una piccola folla di personaggi memorabili. Definiva se stesso "un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo". Ha lasciato opere indimenticabili, ricche di satira ma anche velate di una sottile malinconia, caratterizzate da uno stile onirico e visionario. I titoli dei suoi più celebri film - La strada, Le notti di Cabiria, La dolce vita, 8½ e Amarcord - sono diventati dei topoi citati, in lingua originale, in tutto il mondo.


Il miglior regista per un film comico è uno col quale non ho mai lavorato, ma che ritengo, dopo aver visto i suoi film e conoscendo il suo temperamento, il più adatto a dirigere una pellicola comica di alta classe: Federico Fellini. Con lui farei volentieri un film. Molti critici rimproverano ai miei registi di usarmi sempre con la stessa maschera, entro schemi per lo più fissi. C'è da ribattere che Charlot e Musco, per citarne solo due, sono stati sempre uguali grazie alla loro maschera. Perché si dovrebbe cambiare ogni volta? Perché ci si dovrebbe spersonalizzare? Con questa maschera qua ho lavorato nelle farse della commedia dell'arte, nel varietà, nel café-chantant, nella rivista, nelle operette, nella prosa dialettale e nel cinema: le sono affezionato come alla mia cosa più cara.

Antonio de Curtis


Infanzia e giovinezza 

Federico Fellini nasce a Rimini, allora in provincia di Forlì, il 20 gennaio del 1920 in una famiglia modesta. Il padre, Urbano (1894-1956) è un rappresentante di liquori, dolciumi e generi alimentari di Gambettola, cittadina situata a poco più di 20 km a ovest di Rimini, in direzione di Forlì. La madre, Ida Barbiani (1896-1984), romana del rione Esquilino, è casalinga. Fellini segue studi regolari, frequentando a Rimini il Liceo classico Giulio Cesare e rivela già il proprio talento nel disegno, che manifesta sotto forma di vignette e caricature di compagni e professori.

Il suo disegnatore preferito era lo statunitense Winsor McCay, inventore del personaggio di «Little Nemo». Ispirandosi al celebre personaggio, nella sua camera da letto aveva costruito con la fantasia un mondo inventato, nel quale immaginava di ambientare le storie che voleva vivere e vedere al cinema. Ai quattro montanti del letto aveva dato i nomi dei quattro cinema di Rimini: da lì, prima di addormentarsi, prendevano forma le sue storie immaginifiche.

Fellini, fin dall'età di sedici anni, mostrava una grandissima passione per il cinema, infatti, nel suo libro Quattro film, descrive che, tra gli anni 1936 e 1939, usciva di casa senza permesso dei genitori e visitava i cinema nella sua città.

Già prima di terminare la scuola, nel corso del 1938, Fellini prova alcune collaborazioni con giornali e riviste. La Domenica del Corriere gli pubblica qualche vignetta nella rubrica Cartoline dal pubblico, ma la collaborazione più duratura è quella che riesce a stabilire con il settimanale politico-satirico edito da Nerbini, Il 420, sul quale pubblica numerose vignette e rubrichette umoristiche, sino alla fine del 1939. Agli inizi dello stesso anno si era trasferito a Roma con la scusa di frequentare l'Università, in realtà per realizzare il desiderio di dedicarsi alla professione giornalistica.

Gli esordi

Fellini giunge nella capitale seguito dalla madre Ida, che nella città ha i suoi parenti, e dai due fratelli Riccardo e la piccola Maddalena; prende alloggio in via Albalonga, fuori porta San Giovanni (nel quartiere Appio-Latino). Si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza. Le prime esperienze del giovane Fellini rivelano che il suo obiettivo professionale non era tanto diventare avvocato (non sosterrà mai un esame) quanto intraprendere il lavoro di giornalista.

Federico Fellini esordisce infatti, pochi mesi dopo il suo arrivo a Roma, nell'aprile del 1939, sul Marc'Aurelio, la principale rivista satirica italiana, nata nel 1931 e diretta da Vito De Bellis. Collabora come disegnatore satirico, ideatore di numerose rubriche (tra le quali È permesso…?), vignettista e autore delle celebri "Storielle di Federico", divenendo una firma di punta del quindicinale. Il suo principale referente in questa fase è il cartellonista e caricaturista Enrico De Seta.

Il successo nel Marc'Aurelio si traduce in buoni guadagni e inaspettate offerte di lavoro. Fellini fa conoscenza con personaggi a quel tempo già noti. Inizia a scrivere copioni e gag di sua mano. Collabora ad alcuni film di Erminio Macario: Imputato, alzatevi! e Lo vedi come sei... lo vedi come sei? del 1939; Non me lo dire! e Il pirata sono io del 1940; scrive le battute per gli spettacoli dal vivo di Aldo Fabrizi.


La stampa dell'epoca

Il cammello dello Zoo di Roma è stato trasportato sulla sabbia di Fregene a vivere la sua ora di gloria. È un vecchio cammello stanco, disabituato alle fatiche e ormai dimentico di essere stato una volta «la nave del deserto». Cosicché, quando l’attrice Lilia Landi si è sistemata sulle sue gobbe per tentare la fuga verso l’ignoto, non ha voluto saperne di alzarsi e, infine costrettovi da pungoli e da grida, ha mosso qualche passo indolente per tornare a sdraiarsi subito dopo fra beduini e sulamite. A Fregene si sta girando «Lo sceicco bianco», patetica e garbata satira degli eroi dei giornali a fumetti. Lo dirige Federico Feliini, che firmò con Lattuada «Luci del Varietà» e ora si è deciso al gran passo della regia. Fellini ha trentanni. Intorno al 1940 fu «poeta di compagnia» di Fabrizi; poi, firmando «Federico», fu uno dei più apprezzati redattori di un giornale umoristico.

1951 Epoca Alberto Sordi f1

Negli ultimi mesi della guerra (aveva già sposato l’attrice Giulietta Masina), sbarcò il lunario inventando, col pittore Scordio, il «Funny Face Shop», una botteguccia dove i soldati alleati potevano ottenere una caricatura inquadrata in tipici ambienti della Roma antica e moderna. Fellini fuggì di casa a 17 anni e non si vergogna di dire che ha fatto più volte la fame. In un certo periodo si trovò a farla con Alberto Sordi, clienti serali della stessa latteria. Ora, in attesa di realizzare un secondo film sulle avventure dei suoi famosi «compagnucci della parrocchietta», Sordi è il protagonista de «Lo sceicco bianco», con Lilia Landi nella parte di un’eccelsa diva dei «fumetti», e con Brunella Bovo, timida e romantica sposimi provinciale giunta a Roma col desiderio di conoscere il suo «eroe». Il motto di Brunella Bovo è «acqua e cognac». «Lo sceicco bianco» è il suo terzo film: per la terza volta (dopo «Miracolo a Milano» e «La vendetta di una pazza») si vede costretta a inzupparsi d'acqua e a ingurgitare cognac per riscaldarsi. Ma non se ne lamenta. Nonostante i continui bagni, è lo specchio della felicità. Quarto interprete, il commediografo Leopoldo Trieste. Quando egli sognava solo palcoscenici, il povero Francesco Pasinetti gli aveva predetto : «Tu finirai attore». E Trieste è diventato il «comico Poldino».

«Epoca», 1951


Volendo dure ai Vitelloni un sottotitolo che lo descriva, ce n’è uno che pare proprio fatto apposta, « Scene della vita di provincia ». Non lo dico per sfottò, che sarebbe stupido. Lo dico perché (considerato casuale ogni riferimento a fatti e persone reali, cioè a Balzac) questo è praticamente il film di Fellini, una successione di scene ed episodi della vita provinciale, senza stretta concatenazione tra loro, ma solo apparentemente riuniti dall’affinità dell’ambiente e del costume. Questo frammentismo, in cui qualcuno comincia a vedere con ragione un’incipiente pericolo per il nostro cinema, è stavolta per combinazione una insita necessità del soggetto, trattandosi di rappresentare un mondo di sentimenti incompiuti e di esistenze senza scopo: il mondo ristretto ma tipico di una certa gioventù piccolo borghese di provincia, la quale, portata dall’insufflcienza stessa dell’ambiente, ripiega sopra una vita neghittosa e mediocre, cercando nei modesti spassi e nei piccoli piaceri d'ogni giorno il provvisorio surrogato a quei progetti di avventura e di evasione che vengono continua-mente rimessi.

In realtà benché ciondolino insieme dalla mattino alla sera, ciascuno di questi cinque vive per proprio conto, col propri desideri e i propri rimpianti, solo unendoli la comune noia, e il bisogno di reagire a questa noia, e insieme di distinguersi dalla stagnante normalità che li circonda, assumendo gesti e modi spregiudicati che sono una locale affettazione di snobismo. Sotto queste forme emancipate essi mantengono in realtà tutti i difetti del loro ambiente, la piccineria pettegola, l’indifferenza egoista (guardate come si disinteressano di Leopoldo, il letteratucolo illuso, e lo abbandonano solo proprio nel momento in cui l'infelice crede finalmente di varare il suo ennesimo dramma inedito), e qualche volta anche lo scherno cattivo (la risataccla sguaiata e interminabile degli amici che si allontanano sulla strada, dopo aver sentito che il padre di Fausto, il fatuo dongiovannino di paese, lo costringe a sposare la ragazza che aveva resa incinta, quando già egli si preparava a battersela). E' quella cattiveria, frutto di una convivenza troppo vicina, che confessava del resto anche Leopardi, quando era «vitellone» a Recanati:

«Ed aspro a forza - Tra lo stuol dei malevoli divengo»; solo uno speciale « vitellone », che non andava a donne, non giocava a biliardo e scriveva il greco e il latino come Bessarione. A parte le loro miserie, in fondo bravi ragazzi, bravi ragazzi all’italiana, attaccati alla famiglia, sicché resta alla fine un’impressione mista di scombinato e di patetico, di deplorazione e di simpatia.

Ho voluto mostrare prima come i lineamenti di questo ambiente e di questi tipi siano stati sostanzialmente veduti giusti, per dire adesso che i loro sviluppi non sempre lo sono. Chiaramente impostato e condotto è per esempio, nella sua sbruffoneria faceta e puerile scapestrataggine, il personaggio di Alberto, tenuto da Sordi, ma assolutamente sbagliato, nella sua uggiosa passività, è quello di Monaldo dato ad Interlenghi. Esso crolla completamente quando, in contrasto aperto con la sua intima drittu-ru e dominante malinconia (che è poi quella che lo condurrà, unica tra tutti, a salvarsi ossia a prendere un treno), acconsente ad aiutare il cognato, il quale gli ha sedotto e rende infelice lo sorella, a rubare un certo angelo scolpito nel solaio di un antiquario, episodio Irritante da cima a fondo, non soltanto perché psicologicamente sfasato, ma perché portato dilettantescamente (quel povero scemo preso come complice apposta perché fin dal primo momento sia chiaro che si faranno pescare!). Anche la partenza di Monaldo, quella partenza senza preparativi e senza destinazione, è un pleonasmo retorico, messo il per finire, e aggravato dall’intervento sul marciapiede del piccolo ferroviere deamicisiano che fa ciao ciao. Così il capitolo del tirocinio di Fausto nell’azienda di oggetti sacri, tutto ingenuo e tutto falso, dal crudo e maldestro tentativo di seduzione, al vermuth con predicozzo morale e conseguente trionfo dell’amore legittimo.

E allora, si chiederà qualcuno, com'è che gli hanno dato il premio? Glielo hanno dato per l'altra metà, che forse è la più importante: per l’acutezza e sincerità di certe notazioni ambientali, per la grazia disinvolta con cui sono colti i giochi e gli umori dei giovani, e per il suo delicato sottofondo di nostalgia. Insomma è un premio duto sulla parola. Si può ben dare un premio sulla parola. Aspettiamo di vedere adesso se la manterrà.

Filippo Sacchi, «Tempo», 1953 


«Gazzetta di Mantova», 5 aprile 1956 - Federico Fellini


Pietro Pintus, «Gazzetta del Popolo», 12 maggio 1957


Federico Fellini, regista cinematografico, è nato a Rimini nel 1920. Se ne andò a Roma a diciott’anni, solo, e divenne disegnatore umoristico per il "Marc’Aurelio". Cominciò a scrivere copioni e sceneggiature per le riviste e per i primi film di Aldo Fabrizi. Dopo la guerra fu uno dei creatori del neorealismo, soprattutto come sceneggiatore di Rossellini (da "Paisà” a "Francesco"). Debuttò nella regia con "Le luci del varietà" insieme a Lattuada; poi, da solo con "Lo sceicco bianco". Vive a Roma, è sposato con l’attrice Giulietta Masina.

1956 Tempo Federico Fellini f1Domanda. - Qual è secondo lei dalla fine della guerra in poi il film più "italiano" che sia stato prodotto?

Risposta. - I vitelloni.

D. - I suoi sogni sono in bianco e nero oppure a colori?

R. - A colori.

D. - Esiste una attrice o un attore con cui abbia sempre desiderato e mai potuto girare un film?

R. - No.

D. - Chi è, a suo giudizio, l’uomo più malvagio che sia esistito?

R. - Il produttore Dino De Laurentiis, che per il mio prossimo film ri ostina a non volermi dare l’operatore Martelli.

D. - Qual è secondo lei la cosa che meglio esprime 11 nostro tempo?

R. - Il richiamo del sesso.

D. - Qual è secondo lei il colmo dell’imbecillità umana?

R. - Volevo dire "rimpiangere il fascismo”, ma non mi riconosco in questa risposta. La verità è che io ho simpatia anche per gli imbecilli e credo alla loro funzione.

D. - Accade talvolta di udire che la malvagità non esiste e che sia causata soltanto da ignoranza. Qual è la sua opinione in proposito?

R. - La malvagità esiste. Mi pare difficile incontrare un ignorante malvagio, mentre invece conosco personalmente tipi coltissimi e veramente malvagi.

D. - Se la radio comunicasse che i marziani stanno per sbarcare sulla terra, quale sarebbe la sua prima reazione?

R. - Farei le capriole dall’entusiasmo.

D. - Se le venisse concesso di porre un microfono a suo piacimento, sotto la sedia di quale dei suoi contemporanei desidererebbe collocarlo, allo scopo di ascoltarne le parole?

R. - Gli uomini m’incuriosiscono tutti allo stesso modo.

D. - Il giorno del giudizio universale le viene affidata, a sua scelta, la difesa di Robespierre, di Hitler oppure di Mussolini Quale dei tre personaggi che le ho citato sceglierebbe come suo cliente?

R. - Mussolini. Se non altro, questo cliente lo conosco meglio degli altri due.

D. - Quale di queste domande potrebbe secondo lei servire (onore che mi è stato fatto da Giuseppe Marotta) di pretesto ad un racconto o ad un soggetto?

R. - Quella deli’ attricetta che per pubblicità inscena un finto suicidio e sbaglia dose e muore davvero.

D. - Che cosa manca agli italiani per essere felici?

R. - Niente. Mi sembra siano più felici di tanti altri.

D. - Qual è secondo lei la "vera misura” della ricchezza di un uomo?

R. - Intende la ricchezza materiale? Non creda che voglia fare lo spiritoso, ma in questo caso come vera misura della ricchezza di un uomo non saprei indicarle altro che il suo conto in banca.

D. - In ima sua recente dichiarazione alla stampa Coc-teau ha avuto occasione di dire "questa è la generazione dell’autostop". Vuol dirmi qual è in proposito la sua opinione?

R. - Non mi piacciono le definizioni. Non ci credo.

D. - Qual è secondo lei la ragione più profonda dello sconcertante successo di "Lascia o raddoppia?".

R. - Un insospettato, benefico, confortante senso di fiducia verso il prossimo. Lo sconosciuto che ci passa accanto, non è più un nemico misterioso impenetrabile, ma potrebbe essere un amicone simpatico, intelligente, che sa cucinare benissimo, conosce la geografia, possiamo fidarci di lui, farci aiutare, partire insieme per un viaggio avventuroso. Questo è uno dei motivi. L’altro (ugualmente importante) è che, seduti comodamente in poltrona possiamo assistere al crollo di questo sconosciuto amico, partecipando al suo linciaggio senza venirne accusati.

D. - Una dote particolare che distingue i francesi è l' "esprit”. Che cosa possiedono gli italiani che li caratterizzi altrettanto distintamente?

R. - Ammessa la prima parte della domanda, vorrei rispondere: la fantasia.

D. - Ritiene che la mancanza di spirito sia un bene oppure un male in un individuo e che in ogni caso limiti o no il suo successo nella vita?

R. - Come si fa a dirlo? In ogni caso non credo proprio che la mancanza di spirito limiti il successo nella vita. Anzi.

D. - Un mio amico era solito distinguere gli uomini in due grandi categorie traendo conseguenze dal fatto che essi amassero ovvero non amassero le bestie. Trova lei legittima codesta definizione? Se sì, per quale motivo?

R. - No. Conosco gente che adora gli animali ed è ferocemente indifferente verso gli uomini.

D. - Qual è secondo lei il più grave difetto di queste domande?

R. - Che spesso per la concisione della risposta l’intervistato è costretto a nascondersi dietro una battuta di spirito, insincera e nemmeno tanto spiritosa.

D. - Ha seguito lei queste interviste?

R. - Non tutte.

D. - Quale le è sembrata, per ciò che concerne le risposte, la più sincera?

R. - Di quelle che ricordo, le risposte di Pietro Germi.

D. - Se le fosse concesso un atto di potenza assoluta, come lo esplicherebbe?

R. - Vinte tutte le tentazioni di carattere umanitario (Tutti liberi! Tutti intelligenti! Via le malattie!), credo sinceramente che lascerei ogni cosa al suo posto e col suo destino. Userei la mia provvisoria potenza soltanto per divertirmi un po’, curiosando dentro e fuori da questo mondo.

D. - Qual è secondo lei la differenza tra Manon Lescaut e Nanà?

R. - Nanà mi è più simpatica.

D. - Qual è secondo lei la cosa che rende maggiormente ridicolo un uomo agli occhi di una donna?

R. - Lo so, e lo sa anche lei, ma si può scrivere qui sopra?

D. - Esiste un complimento che sia capace di infastidirla altrettanto quanto un insulto?

R. - Purtroppo no. I complimenti, anche se insinceri, mi fanno sempre piacere.

D. - Condannato all’inferno, per quale colpa ritiene potrebbe esservi destinato?

R. - Le bugie. Ne dico molte, anche senza motivo.

D. - Qual è la domanda più indiscreta che secondo lei possa essere rivolta ad una donna?

R. - Dipende da quale donna. Comunque, per una donna al di sotto dei venti anni nessuna domanda è indiscreta

D. - Vuol citarmi un caso generico oppure specifico in cui solitamente il giudizio di un uomo è in contrasto con quello della folla?

R.'-Se si tratta di un uomo intelligente, il suo giudizio sarà quasi sempre in contrasto con quello della folla.

D. - Qual è secondo lei "le mal du siècle”?

R. - L’incertezza.

D. - Costretto a trascorrere un anno in un’isola deserta in compagnia di una di queste tre donne: Sofia Loren, Novella Parigini, Anna Magnani, su quale delle tre cadrebbe la sua scelta e per quale motivo?

R. - Sofia Loren, ma non soltanto per il motivo che lei si sente autorizzato ad immaginare. Per me, Sofia, rappresenta qualcosa di più: una mammona bellissima, all’ombra della quale uno può dormire senza paure e senza rimorsi.

D. - Quale del luoghi comuni, ovvero delle cosidette "frasi fatte”, le riesce più insopportabile?

R. - Dipende da chi le dice. Da certa gente sopporto tutto. Eppoi le frasi fatte ci aiutano a capire meglio con chi abbiamo a che fare.

D. - Trovandosi per la prima volta di fronte ad un suo simile, sente il bisogno di formulare immediatamente un giudizio su di lui? Se sì, in base a quale particolare si forma una sua impressione?

R. - No, non sento questo bisogno. La gente mi piace immaginarla come più mi fa comodo.

D. - Se le restasse mezz’ora di vita cosa farebbe?

R. - Mezz’ora forse è un po’ pochino per tentare di rimediare i pasticci di trenta-sei anni. Mah, non so, farei un’ultima passeggiata in macchina insieme alla creatura che più mi ha xwluto bene, in giro per la città, chissà chi incontriamo? E gli ultimi dieci minuti mi dirigerei solo, spaventato e incuriosito, verso la campagna.

D. - Quale epigrafe vorrebbe sulla sua tomba?

R. - Ma niente. Federico.

D. - Morendo quali beni rimpiangerebbe?

R. - Tutti. Rimpiangerei anche le disgrazie!

D. - Dovendo organizzare un pranzo di cinque attrici famose in modo che la situazione non ne risultasse imbarazzante, chi inviterebbe?

R. - Imbarazzante per chi? L’imbarazzo è uno stato d’animo sconosciuto alle attrici.

D. - Una soubrettina in mal di pubblicità decide di inscenare un piccolo suicidio per far parlare un poco di sè. Inghiotte, a tale scopo, una certa quantità di sonnifero, ma sbaglia e muore. Vuol dettarmi un epitaffio per la sua tomba?

R. - Questa domanda che lei ha già rivolto ad altri, mi ha sempre messo a disagio. Mi fa una gran pena questa tipetto che lei ha inventato. Ha tutta la mia simpatia, la mia pietà.

Dice Fellini che il difetto più grave di queste domande è quello di costringere l’intervistato ”a nascondersi dietro una battuta di spirito, insincera, e nemmeno tanto spiritosa”. E' evidente che Fellini ha voluto, nelle sue risposte, evitare in special modo, la tentazione di nascondersi. Prima ancora che la natura delle sue stesse risposte sta a dimostrarlo il tono che le informa, un po’ inconsueto rispetto a ciò che si legge, e che fa pensare al bisogno, sentito da Fellini, di rispondere senza soffermarsi a riflettere. Egli evita così la battuta, la risposta concisa, non cerca in modo alcuno di essere spiritoso, e quando ci riesce, si sente che ciò è avvenuto, diciamo, a sua insaputa. Alcune fra le domande che gli ho rivolto sono rimaste senza risposta, o almeno senza una risposta convincente, ma ciò non deve far sospettare, in lui, il desiderio, sia pure inconsapevole di sfuggirvi, il che essendo una prova di insincerità verrebbe a contraddire tutto quello che ho detto, ma la necessità di rinnegare una do-manda, che si rivela a suo giudizio insincera, o falsa dalle sue fondamenta. Altre volte Fellini si mostra indeciso; l'incertezza è per lui il "male del secolo”. In altre parole il regista de "La Strada" lascia, per quanto concerne la sua personalità, cadere l'accento, su questo elemento dubitativo proprio di chi nella vita e quindi nell’arte è costretto ad affrontare grandi problemi.

Enrico Roda, «Tempo», 1956


Fellini insultato per «La dolce vita»

Alla prima milanese del suo nuovo film

Roma, 6

La «prima» del film «La dolce vita» di Fellini è stata caratterizzata ieri sera a Milano da molti consensi, ma anche da parecchi dissensi. In merito a quanto accaduto, Fellini rientrato a Roma he, dichiarato: «Il pubblico ieri sera era eccezionale. Un pubblico per intenderci, da "prima" della scala. Il film è stato seguito con enorme interesse e con una curiosità che in qualche punto è sembrata persino malsana. Ad un certo momento, un gruppo di persone ha cominciato a inveire: "Basta. E' uno schifo. Qui si danneggia l’Italia’’. Per la verità, queste grida sono state presto subissate da,gli applausi del resto del pubblico. Si è trattato di una reazione breve ma piuttosto intensa. Quando sono uscito, un tale mi ha sputato addosso. Non so chi sia stato anche perchè costui si è subito confuso tra la folla. Mi è sembrato un vecchio. Non è mancata, anche, una reazione degli altri spettatori. Una signora mi ha chiesto scusa a nome di tutti dicendo che quel gesto rappresentava una vergogna per tutta Milano. Molti mi si seno fatti intorno in segno di simpatia: ho stretto non so quante mani; altri mi hanno abbracciato.

«Qualcuno — ha proseguito Fellini — ha continuato a inveire. Uno ha gridato: "Si vergogni, lei butta l’Italia in braccio ai bolscevichi". Stamane, poi, sono fioccate le telefonate. Ne ho ricevute centinaia, oltre a 400 telegrammi. Tra questi telegrammi — devo dirlo obiettivamente — non mancano testi pieni di insulti».

«Il Piccolo di Trieste» 7 febbraio 1960


«Radiocorriere TV», 1969 - Giulietta Masina e Federico Fellini


Maria Corbi, «La Stampa», 31 ottobre 1993


e. m., , «La Stampa», 31 ottobre 1993


La lunga discesa verso il buio

ROMA. Dopo aver lottato due settimane, Federico Fellini è morto. Contro tutte le previsioni, era riuscito ad arrivare alla data del suo cinquantesimo anniversario di matrimonio con Giulietta, sabato scorso. Poi, ieri, ha detto addio. Erano da poco passate le undici quando il fischio della macchina che lo teneva in vita ha avvertito gli infermieri che la situazione stava precipitando. A mezzogiorno un arresto cardiocircolatorio ha messo fine al suo lungo calvario. Ma nessuno ne ha informato Giulietta Masina, che ha avuto la notizia dalla televisione. Tra le disposizione pratiche che ha poi dato, un «no» all'autopsia e all'invio di fiori. Ha invece espresso il desiderio di offerte alla casa di riposo per artisti «Lyda Borelli» di Bologna. Anche il presidente Scalfaro ha voluto essere presente, con una breve visita alla camera mortuaria e una preghiera. Il presidente francese Mitterrand ha dichiarato in un messaggio: «Il mondo ha perso uno dei suoi più grandi creatori, capace di sposare la poesia con la realtà».

Maria Corbi, «La Stampa», 1 novembre 1993


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Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
  • «Epoca», 1951
  • Filippo Sacchi, «Tempo», 1953
  • «Gazzetta di Mantova», 5 aprile 1956
  • Pietro Pintus, «Gazzetta del Popolo», 12 maggio 1957
  • Enrico Roda, «Tempo», 1956
  • «Il Piccolo di Trieste» 7 febbraio 1960
  • «Radiocorriere TV», 1969
  • Maria Corbi, «La Stampa», 31 ottobre 1993
  • e. m., , «La Stampa», 31 ottobre 1993
  • Maria Corbi, «La Stampa», 1 novembre 1993