Galdieri Michele

Michele Galdieri

(Napoli, 18 novembre 1902 – Napoli, 30 novembre 1965) è stato un commediografo, paroliere e sceneggiatore italiano.

Biografia

Figlio del poeta e drammaturgo Rocco Galdieri, operò per quarant'anni, dal 1925 al 1965, collaborando con i grandi del cinema italiano: Eduardo, Titina e Peppino De Filippo, Totò, Anna Magnani, Odoardo Spadaro, Lucy D'Albert e molti altri. Fu attivo anche in campo teatrale: scrisse un gran numero di commedie e riviste a cavallo della seconda guerra mondiale.

È l'autore dei testi di molte canzoni, fra cui la celeberrima Munasterio 'e Santa Chiara, lanciata da Giacomo Rondinella negli anni quaranta, Ma l'amore no, musicata da Giovanni D'Anzi, e Portami tante rose, su musica di Cesare Andrea Bixio, interpretata da moltissimi artisti.

Nella rivista Con un palmo di naso, scritta nel 1944 per Totò e Anna Magnani, sbeffeggiò Hitler dopo l'attentato del 20 luglio 1944 e inserì la celebre parodia di Ciccio Formaggio nella quale Mussolini rimprovera gli italiani di non averlo fermato.

Con il maestro Mario Bertolazzi ha scritto, nel 1964, la commedia musicale I trionfi.

Il Festival di Napoli

Vinse nel 1954 il terzo Festival di Napoli 1954 con 'E stelle 'e Napule, su musica del maestro Giuseppe Bonavolontà, presentata da Gino Latilla con Carla Boni e da Maria Paris.

Programmi radiofonici RAI

L'usignolo d'argento , a cura di Michele Galdieri, voci di oggi, canzoni di sempre, orchesttre di Carlo Savina e Armando Fragna, cantano Jula de Palma, Bruno Pallesi, Bruno Rosettani, Armando Romeo, e il Duo Blengio, presenta Rosalba Oletta, le domeniche alle ore 20,30, secondo programma 1955.
Orfeo al Juke Box , divertimento quasi serio di Michele Galdieri, con le orchestre di Armando Fragna e Lelio Luttazzi, presentano Rosalba Oletta e Renato Turi, venerdì 24 luglio 1959, secondo programma ore 21.

Teatro di Varietà

Ma le rondini non sanno, di Michele Galdieri, con Nino Taranto, Dolores Palumbo, Olga Villi, Harry Feist, regia di Galdieri (1943).



Come si "pensa" una rivista.

Come si fa una rivista? Ancora una volta io rispondo: “Non lo so.” Se lo sapessi ne trarrei profitto per non sbagliare mai. E sbaglio sempre. Perché anche quando il Pubblico, la Critica, gli Incassi dicono che tutto va bene, io solo, guardando il mio spettacolo, dal buio fondo della sala, mi convinco sempre più d’avere sbagliato. L’ho chiesto allora ad un mio più che intimo nemico, il quale, in fatto di “riviste”, la sa lunga: “Come si fa una rivista?”

“Satira, sentimento, coreografia. Ecco i tre cardini su cui posa lo spettacolo di rivista: tre cardini artistici eminentemente, per uno spettacolo di solito e giustamente anche, considerato antiartistico.“Anzitutto pensandola”, mi ha risposto. “Molti credono che bastino venti battute comiche, cinque o sei canzonette, un comico a successo, molte belle donne, un pizzico di piume e due o tre pacchi di lustrini. Altri credono che basti fare un giretto nei teatri di Parigi e di Londra e avere buona memoria. Altri... lasciamo andare. E si trascura la cosa più importante: pensare lo spettacolo. Costruirlo nelle sue linee generali, curarlo nei dettagli, cosi come si fa per ogni altra forma di teatro, insomma, ricordando che una rivista per essere tale e non puro e semplice spettacolo di varietà deve parlare al cervello, al cuore, agli occhi dello spettatore e colpire sempre giusto, sia nella satira, sia nel sentimento, sia nelle visioni coreografiche.

“Satira, dice Melzi, è componimento poetico che mordendo il vizio mira a correggere i costumi.

“Sentimento: giudizio, intelligenza, espressione viva di ciò che si sente.

“Coreografia: arte di comporre balli, pantomime e di segnare i passi e le figure della danza.

“Tre parole, tre leggi che, se rispettate, danno all’autore di rivista il diritto e il dovere di prendere sul serio il suo spettacolo e di presentarlo nel modo più degno.

“Tutto ciò, naturalmente, in teoria. Ché, in pratica, le cose vanno molto differentemente.

“La satira, qualche volta, è soltanto velenosa sbavatura, maldicenza, denigrazione. Altra volta volgare pretesto per tentare di far passare al di là della ribalta sconcezze e vecchi lazzi. A ciò fortunatamente mette riparo la censura teatrale che da molti che non ci sanno fare viene dipinta come una vecchia arpia, come tremendo mostro in agguato.

“Tutto si può dire, di tutto si può presentare il lato comico, grottesco, ma come, con quale tatto, con quale garbo e soprattutto con quale serenità, bisogna farlo! E in tal caso la Censura diventa collaboratrice preziosa: non sono le sue forbici a tarpare le tue ali se queste ali si tengono nel cielo e non guazzano nel fango, ma anzi fa in modo che restino quanto più su è possibile.

“Il sentimento, cioè l’espressione viva di ciò che si sente, è bandito dagli spettacoli del genere. Male. È proprio quell’esprimere sinceramente quel che tu senti e che gli spettatori hanno sentito forse prima di te, a proposito d’un’arte, d’un provvedimento, d’una nuova o vecchia usanza o che so io, che ti dà il consenso della parte eletta del pubblico e nobilmente lo chiama in teatro. E ciò induce l’autore a servirsi non di simboli e di fantocci, ma di uomini veri, del passato e del presente, con le loro passioni, i loro gusti, le loro tendenze, i loro affetti, i loro rimpianti, le loro speranze e le loro delusioni, anche nel teatro di fantasia come in quello della commedia. La vera ragione della morte dell’operetta è qui: la mancanza assoluta di sentimento, di umanità dalle sue trame. Principi di carta pesta e duchesse di pasta frolla. (...)

“La coreografia molti credono che si debba limitare ad una sconcia esposizione di carne umana. Perciò molti autori nei loro copioni, tra una scena e l’altra, scrivono: ‘Qui, una danza’. No. Le scene coreografiche devono essere pensate, come il testo. Scritte e descritte in copione, perché esse servono a commentare e talvolta ad esprimere da sole, ancora, un pensiero. Il compito del coreografo è quello di segnare i passi e le figure della danza, di sviluppare in armonica bellezza il discorso mimato inventato soltanto dall’autore. E le ballerine devono essere belle non perché si debba, come tanti credono, attribuire al pubblico l’insana ansia di sensazioni carnali, ma perché senza bellezza non c’è armonia e senza armonia non c'è coreografia.

“Che poi qualcuno le voglia belle per altri scopi, a noi non interessa affatto. Il successo d'una grande compagnia di riviste straniera era segnato dal numero delle macchine che attendevano all’uscita le ballerine, dopo lo spettacolo. A noi, confessiamo, dà persino fastidio uscire dal teatro e trovare cinque o sei baffuti gagà, in attesa di bionde danzatrici, tanto più che costoro si guardano bene dal mettere piede in sala e dall’acquistare un biglietto.

“Ma di solito si crede il contrario: l’autore di rivista è da molti ancora considerato un furbo speculatore della bellezza femminile e l’impresario è considerato l’astuto ‘Madro’ di svariate beltà internazionali. (...)

“Strano destino quello d’un autore di rivista! La sua reputazione, il suo successo, la sua dignità dipendono da centomila cose lontanissime dalle sue abilità. Un siparietto che viene chiuso prima o dopo il momento giusto; un macchinista che ritarda a montare un praticabile e che obbliga i due attori che trattengono il pubblico a siparietto chiuso a tirarla cosi per le lunghe da stabilire in sala un senso di noia glaciale; un vestito male agganciato; un suggeritore che suggerisce troppo forte; un capocomico che vuole andare in scena ad ogni costo, anche se lo spettacolo non è maturo; un signore del pubblico che ha una tosse maledetta; un riflettore che s’incanta; un colore sbagliato; due gambe meno dritte delle altre, ecc. ecc.: migliaia e migliaia di piccole cose estranee piombano come mazzate sulle spalle del povero autore il quale, come è chiaro, non è responsabile.

“Ecco perché è indispensabile, in tema di rivista, una collaborazione perfetta tra autore, impresa e capocomico. Ma ciò accade troppo di rado, perché l’autore possa serenamente attendersi dal suo spettacolo il meritato compenso. Se ciò avviene, il successo non manca.

“Ma la maggior colpa d’un autore, specialmente di rivista, è proprio quella di avere successo. Nessuno — oltre quelli che le scrivono — pensa di poter scrivere commedie. Tutti — anche gli analfabeti — pensano di scrivere riviste. Cosi frivolo appare alla rappresentazione questo genere di teatro, che tutti, pienamente convinti, dichiarano: ‘Che ci vuole a fare una rivista!?’

“Difatti, non ci vuole niente. Bisogna saperla fare. E quando uno la sa fare, sono pasticci. Se le battute sono buone e spiritose e fanno ridere il pubblico, pacchi di lettere anonime giungono alle autorità competenti per denunciarle come oltraggiose contro Tizio, Caio, contro questa o quella istituzione. Se i dialoghi sono bonariamente comici, il critico parla di parole sguaiate, mentre le stesse parole oggi suonano in tutte le case, in tutte le famiglie. Se le coreografie sono belle ed efficaci, si parla di immoralità, di offesa al buon costume, mentre sulle spiagge, nei grandi balli, nelle grandi serate teatrali, va in giro tanta e tanta nudità femminile. Tutto ciò, ripeto, accade soltanto quando lo spettacolo ha successo. Perché, diversamente, il pubblico non ci va, l’impresa se la passa male, l’autore non guadagna un soldo, il capocomico mette i capelli bianchi, la compagnia si scioglie e tutti sono contenti.”

Michele Galdieri


Fascisti, antifascisti

(su casi cronici, clamorosi o clinici)

Il fatto che esistano così tanti copioni censurati potrebbe far pensare che sia effettivamente esistita, nell’àmbito teatro comico popolare, un’ostilità al regime, se non una vera e propria opposizione. Insomma: se Zurlo tagliava e respingeva, vuol dire che egli identificava nelle battute o nelle situazioni qualcosa di avverso al fascismo? No, le cose non stanno semplicemente così. Sono davvero rarissimi i casi di censura scopertamente politica: nella quasi totalità dei casi si tratta di interventi che avevano lo scopo di adeguare i testi alla moralità professata dal regime. Si trattava prima di educare e poi di preservare il pubblico, come abbiamo detto; e sovente di ripararlo da volgarità vere o presunte. Questo, se non altro, pare costantemente il principio ispiratore del lavoro della censura.

Negli anni si è fantasticato del rapporto conflittuale che c’è (ci sarebbe) stato fra Michele Galdieri e Leopoldo Zurlo. Fantasticherie in una certa misura amplificate dalle stesse memorie del censore il quale addirittura dedicò a Galdieri un intero capitolo intitolato, guarda un po’, «Domine difende me... in proelio contra nequitas di Michele Galdieri e degli altri spiriti maligni che scrivono riviste»: sono una ventina di pagine fitte di aneddoti raccontati a mezza bocca, come da chi non abbia pratica di barzellette e preferisca sempre ritrarsi dopo aver accennato l’inizio. Una sofferenza, insomma.

Ma questa fantasticheria gode principalmente del mito di Michele Galdieri, il quale fu senza ombra di dubbio un autore prolifico e di successo ma soprattutto fu dimenticato tanto rapidamente dal pubblico da finire negli angoli leggendari della sola memoria nostalgica dei testimoni oculari del suo successo. Fino ai primi anni della guerra, Galdieri era la firma più prestigiosa della Rivista italiana, quella - lo abbiamo già annotato - che supportava di intrecci e battute tutti i maggiori comici. Ma la sua più grande invenzione, probabilmente, fu far recitare in coppia Totò e Anna Magnani, intuendo che alla comicità popolare, ormai, mancava solo un sostegno drammaturgico più completo per diventare, di fatto, la più grande tradizione teatrale italiana del Novecento. Forse Galdieri non ebbe mezzi per dare sostanza poetica alla sua intuizione, ma di certo il teatro di Eduardo De Filippo, di Viviani, poi giù fino a Dario Fo da un lato e fino a Manlio Santanelli dall’altro, sono partiti da quella intuizione: era necessario collegare la tradizione dell’attore (anche comico) alla realtà del proletariato o della piccola borghesia italiana che tale tradizione attoriale (tale comicità) avevano prodotto. L’operazione, in chiave drammatica, riuscì al cinema che per dar corpo al neorealismo - già drammaturgicamente predefnito da Aldo Fabrizi, come abbiamo visto - chiese sovente sostegno alla generazione di attori ‘proletari’ che aveva fatto la fortuna dell’Avanspettacolo e della Rivista. E sempre al cinema riuscì sul versante borghese, grazie a una tecnica drammaturgica simile e rovesciata (legare la piccola borghesia alla tradizione dell’attore), con la grande ‘commedia all’italiana’. Non riuscì, invece, a Galdieri, anche perché quando il campo era ormai libero per sperimentare e osare artisticamente, ossia caduto il fascismo, la genialità di Pietro Garinei e Sandro Giovannini spinse la Rivista in una direzione nuova, attraente e prima impensabile: verso una nuova, grande classe sociale intermedia che subito si rispecchiò, politicamente, nel nascente partito della Democrazia cristiana. L’orizzonte di Michele Galdieri, diciamo così, era compreso nel cuore della vecchia Europa, dalla Francia all’area austroungarica; mentre Garinei e Giovannini capirono che l’Europa non sarebbe più bastata agli spettatori italiani: c’era da scoprire l’America.

Fatto sta che Galdieri fu un grande autore e che il teatro l’ha dimenticato in fretta, un po’ come nel decennio precedente (gli anni Trenta) erano stati dimenticati in fretta i precursori di Galdieri e i più grandi talenti teatrali dell’epoca, i fratelli Schwarz. Ma se nel caso di Galdieri il fascismo fu ‘incolpevole’ (in fondo gli interventi della censura contro di lui non facevano che aumentarne il prestigio e la fama), nel caso dei fratelli Schwarz, esso oppose al loro successo le leggi razziali del 1938 in seguito alla quali i due talenti austriaci di origine ebraica e giù fuggiaschi dalle persecuzioni naziste, dovettero abbandonare anche l’Italia alla volta degli Stati Uniti dove dovettero confrontarsi con un immaginario spettacolare nei confronti del quale erano del tutto impreparati. E in effetti, lì negli Stati Uniti, l’esperienza fatta sia a Vienna sia a Roma fu loro del tutto inutile.

A proposito delle leggi razziali, vale la pena sottolineare che esse ebbero un effetto importante anche in àmbito teatrale. Fin dall’autunno del 1938, quando le norme anti-ebraiche erano ancora in gestazione ma la campagna per sostenere la purezza della razza era già partita, molti protagonisti dello spettacolo italiano furono invitati a espatriare. Con l’anno successivo l’invito divenne obbligo, mentre dal 1940 fu vietata la possibilità di far lavorare ebrei in ruoli di rilievo (anche tecnici). Dell’aprile del 1942, infine, la chiusura è drammaticamente totale. Nella legge 517 del 19 aprile 1942, all’articolo 1 si legge: «E' vietato l’esercizio di qualsiasi attività nel campo dello spettacolo a italiani ed a stranieri o ad apolidi appartenenti alla razza ebraica, anche se discriminati, nonché a società rappresentate, amministrate o dirette in tutto o in parte da persone di razza ebraica». L’articolo 2 specifica il tema in chiave musicale: «Sono vietate la rappresentazione, l’esecuzione, la proiezione pubblica e la registrazione su dischi fonografici di qualsiasi opera alla quale concorrano o abbiano concorso autori od esecutori italiani, stranieri od apolidi appartenenti alla razza ebraica e alla cui esecuzione abbiano comunque partecipato elementi appartenenti alla razza ebraica». L’articolo 3 riguarda il cinema: «E vietato utilizzare in qualsiasi modo per la produzione di film, soggetti, sceneggiature, opere letterarie, drammatiche, musicali ed artistiche, e qualsiasi altro contributo, di cui siano autori persone appartenenti alla razza ebraica, nonché impiegare e utilizzare comunque nella detta produzione, o in operazioni di doppiaggio o di post-sincronizzazione, personale artistico, tecnico, amministrativo ed esecutivo appartenente alla razza ebraica». Nemmeno per le comparse c’era speranza: sia detto senza ironia.

Torniamo a Galdieri, contro il quale nessuna legge fu promulgata e con il quale Zurlo intrattenne una fitta corrispondenza venata chiaramente di stima. Galdieri era uno straordinario inventore di doppi sensi: impicci di parole che non alludevano al sesso bensì alla politica, almeno per come questa veniva compresa e capita dal pubblico popolare. Il gioco cominciava fin dai titoli: il più celebre di questi resta E se ti dice va’... tranquillo vai dove si alludeva alle fregature che si potevano prendere dando fiducia a chi «dice va’». E proprio sui titoli Zurlo litigava in modo più acceso con l’autore: per l’elenco delle contese si rimanda alla lettura delle Memorie inutili del censore. Ma a parte gli screzi, le rime tagliate, le strofe riscritte, Galdieri ottenne sempre il visto per i suoi testi. D’altro canto non ci sono documenti sufficienti a suffragare l’eventuale antifascismo dell’autore napoletano. Le battute ambigue nei confronti del regime che talvolta comparivano nei suoi testi avevano il sapore della trasgressione comica, non dell’ostilità politica. Semmai il suo fu ‘antifascismo’, esso lo fu così per ridere, per solleticare il pubblico che voleva sentirsi libero, almeno a teatro, di poter ridere di tutto. Era una gran bestia da teatro Galdieri: la più talentosa del suo tempo.

L’eventuale, nebuloso ‘antifascismo’ della comicità popolare sta altrove e riguarda una questione molto più generale. Nel Varietà, nell’Avanspettacolo e nella Rivista si parlava di fame e miserie: questi erano gli argomenti principali di tutti gli sketch. Poi si parlava di espedienti, di furbizie, di violenze subite e rese. Si parlava delle disgrazie di tutti e di questo, con molta cattiveria, si rideva. Il fascismo, dal canto suo, era impegnato a edificare un’immagine dell’Italia tranquilla e con la pancia piena, zeppa di gente per bene e contenta. Ebbene, tale proposito cozzava frontalmente con tutto quanto il teatro comico rappresentava. E qui che va ricercata la contrapposizione tra comici e fascismo: Varietà, Avanspettacolo e Rivista mettevano in scena un’Italia vera (o comunque assai verosimile) che il fascismo voleva cancellare dagli occhi di tutti a colpi di leggi e propaganda. Non a caso, gli autori teatrali più furbi (Enzo Turco e Guglielmo Inglese, per esempio) edulcoravano i conflitti sociali, li trasferivano in una sorta di limbo vuoi esotico, vuoi straniero, vuoi inverosimile e consolante: ma poi per far ridere sempre alla cattiveria dovevano far ricorso. Benché fosse una cattiveria che, sulla carta, metteva le mani avanti e si scusava subito per essersi manifestata: ci avrebbero pensato poi gli interpreti, sulla scena sera per sera, a sottolineare le cattiverie e ad attenuare le scuse.

Nicola Fano


Il teatro è diverso dal cinema...

Per diventare “qualcuno” in questo bizzarro mondo, agitato anche dalla mania dei paragoni, sembra sia indispensabile presentare ad un certo momento, come ad un esame di maturità, per lo meno un attestato di rassomiglianza con un altro grosso “qualcuno” del presente o del passato. Anche gli autorevoli critici svizzeri, commentando i recenti successi del nostro massimo attor comico del teatro leggero lo hanno accostato a Grock e a Charlie Chaplin. Eppure, a pensarci bene, persino le celebri “bombette” che questi tre assi internazionali del “ridere ridere ridere” amano porsi sul capo, sono infinitamente diverse l’una dall’altra.

Quale identità può notarsi fra le buffonate d'un clown, siano pure deliziose come quelle del grande Grock, che sono sempre astratte, che tutte nascono dal nulla per finire nel nulla, e le trovate comiche di Totò che invece nascono tutte da una osservazione intelligente e profonda delle debolezze umane? Chi non ricorda Totò-gagà, in galante colloquio con Anna Magnani-gagarella, in una sgangherata gargonnière con un pretenzioso bar installato in un comodino da notte?

Il gagà era a quel tempo un personaggio vero, vivo, preso da via Veneto e portato alla ribalta; sedotto da questa grottesca verità Totò se ne impadroni e trovò forse per la prima volta il coraggio di tradire la sua tradizionale redingote e di separarsi per qualche minuto dalla sua inconfondibile “bombetta”. Ma non volle indossare la sgargiante giacca a quadri che il costumista gli aveva preparata.

1947 Michele Galdieri L 2

Era anche quella una verità ed egli doveva deformarla a suo modo. Nessun attore al mondo avrebbe mai pensato di impersonare un gagà senza vestirsi come un vero gagà. Totò invece rubò al suo cuoco la più lisa e striminzita giacchetta bianca, assolutamente fuori moda e sottrasse al guardaroba di sua moglie un rotondo cappellino di feltro, ma quando apparve alla ribalta, la sera, come un disegno animato, tracciato da un caricaturista feroce tutti compresero che più e meglio d’un critico tagliente egli scriveva in quel momento la definitiva stroncatura dei gagà.

Totò crea il personaggio per distruggerlo, ma prima ci gioca a lungo, con astuzia beffarda, con perfidia felina, come il gatto col topo. Poi lo attacca, lo spinge verso tutti gli angoli del ridicolo senza salvezza e lo aizza per umiliarlo subito dopo, poiché egli che sul teatro è nato e per il teatro vive, sa perfettamente che soltanto del succube la gente ride. Sembra a volte che egli-personaggio supplichi se stesso-Totò e implori “lasciami respirare, concedimi una piccola tregua”. Egli per qualche istante abbandona la sua preda. Esce dal personaggio e sgambetta, ballonzola felice, lanciando al pubblico quelle parlanti occhiate da sotto in su, come per dire: “Avete visto come l’ho conciato? Ma non è abbastanza. Aspettate e vedrete”. E rientra con violenza nei panni d’un gagà, d’un Orlando curioso, d’un Pinocchio, d’uno sci-sci caprese, d’un nevrastenico viaggiatore di vagone letto, per ricominciare il suo gioco più serrato, più sfrenato eccitandosi fino all’ebbrezza.

Ancora più inconsistente appare l’accostamento di Totò a Charlie Chaplin, il quale va perfettamente d’accordo col formidabile personaggio che ha creato, tanto vero che appena ha tentato di soppiantarlo per mettersi a braccetto del cinico Monsieur Verdoux, pur avendo realizzato una stupenda opera d'arte, ha visto allontanarsi, deluse, tutte le folle del mondo, le quali vogliono bene soltanto all’amaro, sentimentale, vagabondo Charlot che puntualmente al finale d’ogni film sventola la candida bandiera del buon cuore.

Totò che nella vita è sensibilissimo, tenero, appassionato, che se gli dici “Napoli” già fa gli occhi lustri, che quando canta a mezza voce le vecchie canzoni ci mette tanta amorosa dolcezza che ti fa tremare di commozione, e che gelosamente nasconde sotto la sua inimitabile potenza comica un talento drammatico altrettanto potente, ha sulla scena un vero terrore delle svolte sentimentali.

Anni or sono, in una mia rivista, vincendo l’istintiva riluttanza egli accettò di recitare la parte d’un Dante impazzito di dolore, durante un suo ritorno sulla terra sconvolta. La scena, deviando dal grottesco iniziale, si faceva improvvisamente seria e si concludeva con alcune drammatiche battute. Il pubblico, sorpreso dalla straordinaria bravura di un cosi insolito Totò scattò alla fine in un entusiastico, prolungato applauso. Allora non era ancora di moda cronometrare la durata dei battimani, ma quello scrosciar di applausi sembrava davvero che non dovesse mai finire. Per due o tre rappresentazioni le cose andarono cosi, ma una sera Totò senti il bisogno di scagliare un sasso contro il cristallo incantato che si levava fra lui e il pubblico, quasi vergognoso che qualcuno potesse leggergli nel cuore, e subito dopo la battuta drammatica fece echeggiare nella sala, silenziosa e commossa, un sonorissimo sberleffo. Fu un delirio. La gente piangeva e rideva e gli gridava freneticamente: bravo. I puritani di professione non arricciarono il naso. Anch’essi, magari senza approfondirne il motivo, avevano capito che l’inatteso sberleffo, spoglio d’ogni volgarità, era stato soltanto l’eccentrica espressione di un nobilissimo pudore. Ecco Totò, che somiglia soltanto a se stesso e a un austero Antenato che dalla parete del principesco salotto di casa de Curtis sorride soddisfatto.

Michele Galdieri


La stampa dell'epoca


Galdieri porta in palcoscenico in platea

Nella sua ultima rivista “La piazza” gli attori passeggiano fra le poltrone

Roma, ottobre

Alla prima rappresentazione della nuova rivista di Michele Galdieri, La piazza, il cui allestimento aveva costretto il Teatro Sistina di Roma a rimaner chiuso per molti giorni, è accaduto un fatto insolito: il direttore d’orchestra ha dato l’attacco alle nove e mezzo, cioè appena un quarto d’ora dopo l’orario indicato dai manifesti.

Date le abitudini del pubblici italiani in genere, e del pubblico romano in particolare, nella platea a quell’ora era presente soltanto un terzo degli spettatori, nonostante tutti i posti fossero stati venduti da almeno tre giorni. Gli altri due terzi arrivarono un po’ alla volta, isolati o a gruppi serrati, e prima che tutti fossero sistemati l’orologio aveva già segnato le dieci.

Tanta fretta nel dare inizio allo spettacolo, da principio non fu chiara. La data che stabiliva la rappresentazione inaugurale della rivista, primo grande spettacolo della stagione autunnale, era stata rimandata tre volte. Una mezz’ora di attesa non avrebbe aumentato di troppo il tempo perduto.

Poi tutti cominciarono a capire. I quadri si succedevano ininterrottamente l’uno all’altro, spesso belli, spesso applauditi, ma insolitamente lunghi e privi di appiglio. Dalla loro successione non nasceva nessuno sviluppo. nessun nesso capace di suscitare un interesse per ciò che sarebbe accaduto dopo. Parevano tutti quadri preparatori.

Di questo passo la prima parte della Piazza è finita dopo la mezzanotte, e quando il sipario è calato sulla conclusione della seconda erano passate le due del mattino. Il pubblico rimasto applaudiva. costringeva a sfilare moltissime volte sulla passerella Michele Galdieri, Carlo Dapporto, il Trio Steffen Dancers (ballerini al quali erano toccati i battimani più intensi della serata), il tenore Giacomo Rondinella (che aveva dovuto bissare alcune canzoni napoletane), Onda White, Gladys Popescu, Primarosa Battistella, Isa Bellini. Ma in molti, pur soddisfatti dello spettacolo, rimaneva l’impressione che Galdieri e Dapporto avessero ecceduto in abbondanza. Tutto ha un limite, anche la durata di una rivista. Una quota dei milioni spesi per La piazza poteva con vantaggio essere tenuta in serbo per la prossima rivista, ed altro danaro sarebbe stato risparmiato riducendo i giorni di chiusura del Sistina. La verità è che la rivista, per tener vivo il favore che le si è riacceso attorno negli ultimi anni, si ingrandisce sempre più e da un po’ di tempo rischia di mangiare se stessa. Staccatasi per gradi da ciò che fu in origine, vale a dire uno spettacolo legato all’esistenza di un testo, libero e estroso ma concatenato, è divenuta dominio quasi esclusivo della coreografia. I sarti, i costumisti, gli elettricisti. vi esercitano una preponderanza che supera di gran lunga l’ufficio al quale è ridotto l’autore.

Il copione è ormai inesistente. Alla parola, alla immaginazione e allo spirito, che potevano essere il sale di questi spettacoli, rinunziano tutti; anche uomini di teatro come Galdieri, il quale diede in passato più di una prova felice.

Di ciò si è voluto far risalire la causa a una certa permalosità degli italiani, ai risentimenti politici, al conformismo dilagante. SI è cosi preferito sostituire una battuta satirica con lo stemma di Trieste, mettere da parte i pezzi grossi e rifarsi sulla statura di Romita e l’aspetto di Teresa Noce. Qualche accenno nostalgico e un po’ di qualunquismo, anche se non appagano, non irritano nessuno.

Sembra invece più esatto attribuire tanto affievollmento a una vera e propria stanchezza. Quando, invece della politica, le riviste toccano altri argomenti (si tratti di moda, di giornali, di libri o di sport) si osserva una identica mancanza di mordente.

Il che. a lungo andare, si risolve in danno degli attori. I quattro o cinque episodi che Galdieri ha introdotto nella Piazza. e che dovrebbero aver la funzione di brevi commedie, mancano di ritmo e non hanno sapore. In essi può poco anche l’indole comica di Dapporto, dal quale si potrebbe trarre altro profitto.

Al contrario è dato grande sfogo a tutto ciò che può colpire l’occhio o comunque sorprendere. Si può dire che metà della Piazza si svolge In platea. Campanili illuminati, altoparlanti, note musicali proiettate sul soffitto, luci di fari colorati che arrivano tra le poltrone, attori che si affacciano al palchetti, altri che scendono dalla ribalta, altri che arrivano sui corridoi dalle porte di servizio.

Ciò è affaticante e può far domandare perché nessuno del pubblico si trovi sul palcoscenico. Tuttavia serve a legare la lunga serie dei quadri. Alcuni bellissimi, come si è detto, ma in numero tale come finora non si era veduto. La piazza fa pensare a una cena troppo riccamente imbandita (in essa si è fatto posto anche a quattro soubrettes, una sola delle quali parla italiano), a un affollamento di pietanze che poi l’invitato rifiuta. A saziarlo sono bastate le prime portate.

Raoul Radice, «L'Europeo», anno VIII, n.45, 29 ottobre 1952


Galdieri e Croccolo in causa: un copione e un dente

Il primo citato per danni, il secondo li reclama. Del teatro di rivista si è parlato questa mattina in due aule del Palazzo di Giustizia. Protagonisti di altrettante vertenze legali, due nomi celebri della passerella: Michele Galdieri e Carlo Croccolo.

MICHELE GALDIERI è stato citato per danni dalla Società Internazionale che allestì nello scorso autunno la commedia musicale Baratin. Lo spettacolo, come si ricorderà, ebbe vita effimera c scarso successo. Dopo una diecina di repliche, per di più, venne a mancare la soubrette della i compagnia, Elena Giusti, a causa di un’improvvisa indisposizione.

Le recite furono interrotte, e riprese più tardi senza la bionda Elena; la commedia musicale venne inoltre ribattezzata Il cavaliere a Parigi. Michele Galdieri curò la regìa di Baratin anche se sulla «locandina» non figurò mai il suo nome. Nella memoria, presentata dall’avvocato Nino Corsaro per conto della Società Intemazionale, Galdieri è ritenuto «responsabile del danni derivati all’impresa per l’insuccesso artistico e finanziario di Baratin per insufficienza di opera artistica, sia per quanto riguarda la riduzione dal francese, sia per la regia». La Società Intemazionale reclama pertanto il rimborso di due milioni già corrisposti a Galdieri, oltre naturalmente ai danni. Galdieri, che è assistito dall’avvocato Manzini, ha definito «pazzesca» la pretesa dell’Intemazionale e chiede a sua volta circa due milioni che ancora gli spettano. Dopo le premesse, la causa è stata rinviata dal giudice Morfino all’11 luglio. Come si sa, anche Elena Giusti è stata citata per danni.

CARLO CROCCOLO è pure comparso per una querela da lui presentata contro un dentista milanese, reo, a detta dell'attore, «di avergli spappolato una mascella nel tentativo di estrarre un molare». Una perizia ordinata dall’autorità giudiziaria sarà letta nel pomeriggio al processo che si svolge davanti al pretore Pizzonia. Croccolo dovette andare dal dentista nel novembre del 1953, allorché prendeva parte, a Milano, alla rivista Funicoli Funicolà. Stamane in Pretura, Carlo Croccolo ha esclamato; «Lui, il dentista, mi aveva assicurato di possedere una mano di fata. E si è visto! Cinque mesi sono rimasto dolorante ». Il processo dovrebbe concludersi nel tardo pomeriggio.

«Corriere d'Informazione», 13 giugno 1955


E' morto a Napoli Michele Galdieri

Il suo nome è legato al teatro di rivista e alla canzone napoletana e italiana

Napoli, 30 novembre.

Michele Galdieri è morto oggi improvvisamente in un albergo a Fuorigrotta. Galdieri si trovava da poco più di una settimana a Napoli per seguire la registrazione della prima puntata di Cicerenella, una trasmissione di canzoni napoletane (dal 700 ad oggi), in sei puntate della quale aveva scritto i testi.

Nelle prime ore di stamane Galdieri aveva avvertito un malessere che si era manifestato con una improvvisa crisi ipertensiva ed un forte dolore alla schiena. Nel pomeriggio, quando un cameriere dell'albergo ha bussato alla porta della sua camera non ha ricevuto alcuna risposta. Michele Galdieri era morto.

Michele Galdieri, figlio di Rocco che fu uno dei più amati e qualificati poeti dialettali napoletani, era nato nella nostra città il 19 novembre del 1902. Egli perciò aveva compiuto solo da pochi giorni i sessantatrè anni. La salma sarà trasferita domattina nella chiesa di Santa Chiara, dove si svolgeranno i funerali a spese del Comune di Napoli.

«Corriere della Sera», 1 dicembre 1965


Era il "re" della rivista

Michele Galdieri è morto ieri, improvvisamente, in un albergo a Fuorigrotta. Galdieri si trovava da poco più di una settimana a Napoli per seguire la registrazione della prima puntata di «Cicerenella», una trasmissione di canzoni napoletane (dal 700 ad oggi), in sei puntate della quale aveva scritto i testi, e di cui sono protagonisti Nino Taranto e Gloria Christian.

Michele Galdieri, figlio di Rocco che fu uno dei più famosi poeti dialettali napoletani, era nato a Napoli il 19 novembre del 1902. Era il re della «rivista all’antica», non aveva voluto piegarsi ai modi nuovi imposti da Garinei e Giovannini, anzi, in cortese polemica con i due re dello spettacolo musicale, continuava ostinato nella sua formula, fiero di poter dimostrare che il pubblico la gradiva ancora, quel pubblico i cui gusti non erano poi cosi mutati da non amare ancora lo spettacolo «classico»: i grandi corpi di ballo con le piume e i lustrini, gli sketches coi doppi sensi, un po' di satira di costume, un po’ di quella politica, ma annacquata, così che non dispiacesse a nessuno, e la lunga, patetica poesia rievocante in modi gozzaniani struggenti figure del passato, come la zitella, la vecchia maestra, il colonnello in pensione, le vecchine della Messa dell’alba, il lungo e magro professor di greco.

Non c’è nessuno — Dapporto insegni — abile nel recitar queste poesie quanto i comici, i quali, forse per la legge del contrasto, vi ottengono successi strepitosi. Qual'è il comico italiano che non abbia fatto piangere le platee dei grandi teatri di rivista con una poesia in versi alessandrini scritta da Michele Galdieri figlio di Rocco, famoso poeta dialettale napoletano? Scrisse settantatrè riviste, per non dire dei volumi di Poesia non solo dialettale, delle canzoni, alcune delle quali come «Portami tante rose» e «Munasterio ’e Santa Chiara» (e nella chiesa di Santa Chiara saranno celebrati i suoi funerali) divenute famose, dei soggetti cinematografici e del testi di fortunatissime rubriche radiofoniche. I suoi lavori ebbero per interpreti non soltanto attori di varietà, ma anche illustri di prosa. Non c’era nessuno che non gli riconoscesse il primato assoluto nel campo della rivista, ed era rimasto il più modesto degli uomini, consapevole del proprio valore e del propri limiti. Di simpatico aspetto, di conversazione piacevolissima e non già solo per gli interessanti ricordi di cui sapeva condirla ma per la notevole cultura che vi traspariva, così che i suoi giudizi, sempre acuti e mal malevoli, sul teatro anche non soltanto di rivista erano particolarmente apprezzati.

Non aveva una grande età, ma in questi ultimi tempi la sua salute aveva avuto un improvviso, grave declino. Il brillante, giovanile don Michele cui piaceva ancora, come ai begli anni, fare le ore piccole passeggiando e discorrendo ancora «di sogni e di chimere» per le vie di quella Roma ch’egli ormai amava quanto la sua Napoli, non era più lui. Non lo si vedeva, dimagrito e stanco, che alle «prime» di teatro ch’egli recensiva per conto d’un quotidiano, e le recensiva alla sua maniera, come scrivesse ad una bella signora che, vivendo in provincia, volesse essere ragguagliata, ed erano lettere in cui relegarla e la galanteria aggiungevano alle lodi un sapore particolare e temperavano le critiche, anche le più severe, così che non giungessero mai alla violenza della stroncatura.

Addio don Michele. Scompare con lui un uomo di grande talento e di quella rara civiltà ch’è propria del signore napoletano.

M., «Corriere d'Informazione», 1 dicembre 1965


Morto a 63 anni Michele Galdieri popolare autore di canzoni e riviste

La fine improvvisa a Napoli, per un collasso in albergo - Aveva scritto i copioni di 72 lavori teatrali, recitati dalle maggiori compagnie italiane

Napoli, 30 novembre.

Michele Galdieri, poeta ed autore di tante riviste di successo, è morto oggi pomeriggio in una camera dell'albergo «Stadio» a Fuorigrotta, dove aveva preso alloggio da una decina di giorni. Si trovava a Napoli per motivi di lavoro: presso gli studi del Centro tv di via Claudio egli curava l'allestimento della trasmissione televisiva «Cicerenella», una rassegna in sei puntate di aneddoti e di canzoni napoletane dal '700 ai nostri giorni. In mattinata, Galdieri aveva telefonato al dott. Aldo Angelini, direttore del Centro Tv di Napoli, informando di non poter venire alle prove, perché sofferente di capogiri e disturbi renali. Al suo capezzale veniva inviato immediatamente un medico che gli riscontrava un'eccessiva alta pressione con disfunzioni circolatorie. Il sanitario ha prescritto assoluto riposo e dei medicinali. Lo stato di salute di Galdieri tuttavia non lasciava prevedere un improvviso collasso, che è sopravvenuto nelle prime ore del ' pomeriggio, mentre lo scrittore era assopito.

Un cameriere dell'albergo, recatosi verso sera nella stanza per somministrargli dei farmaci, si è accorto che Galdieri non dava segni di vita ed ha dato l'allarme.

Michele Galdieri era nato a Napoli nel 1902. Aveva cominciato a studiare medicina, ma l'improvvisa scomparsa del padre, il noto poeta dialettale Rocco Galdieri, e la necessità di trovare urgentemente un lavoro, lo spinsero ad iscriversi prima alla facoltà di giurisprudenza, poi a quella di lettere e filosofia. Non ebbe il tempo di completare gli studi.

Ricco di umanità profonda e del tipico estro napoletano, Michele Galdieri ebbe il suo primo successo a Napoli con la rivista Strade che venne replicata per un'intera stagione in tutti i teatri d'Italia. Vi prendevano parte, con la compagnia Molinari, Lucy d'Albert e Charlotte Bergman. Altri lavori che incontrarono favori del pubblico furono Che ti sei messo in testa? e Imputati, alziamoci rappresentati nel periodo dell'occupazione anglo-americana di Roma.

Le sue riviste furono 72. Le interpretarono i più noti attori del teatro leggero italiano: Totò, Wanda Osiris, Dapporto, Nino Taranto, Anna Magnani, Spadaro, Camillo Pilotto, Tecla Scarano, i fratelli De Rege, Vincenzo Scarpetta, Pina Renzi. Fu Inoltre autore dei testi di molte canzoni di successo: la più famosa, forse, fu Munasterio 'e Santa Chiara, dove egli aveva espresso tutta la malinconia per la sua città, sconvolta dalla guerra Altre canzoni popolari furono Portami tante rose, Tu non mi la scerai, Tu solamente tu. Ma l'amore no. Gelsomino. Negli ultimi anni tutta la sua attività era dedicata al l'allestimento di programmi ra diofonic! e televisivi.

a.l., «La Stampa», 1 dicembre 1965


Napoli ha perso con Galdieri uno dei suoi più ispirati poeti

Non è stato soltanto un fertilissimo autore di riviste teatrali, ma anche il paroliere di canzoni di grande successo, tra cui la famosa «Munasterio 'e Santa Chiara» - In questa stessa basilica di Santa Chiara è stata ora composta la salma - Galdieri era tornato da pochi giorni nella città natale per curare l'allestimento di uno spettacolo televisivo in cui si sarebbero rievocate le tradizioni canore partenopee

Napoli, mercoledì sera.

Una folla enorme — umile gente del popolo, aristocratici e sconosciuti, personalità del mondo dell'arte e della cultura — fin dalle prime luci dell'alba si sono radunati nel chiosco della trecentesca basilica di Santa Chiara in attesa dì accedere nel tempio e rendere l'estremo, saluto alla salma del poeta Michele Galdieri, deceduto improvvisamente ieri pomeriggio per trombosi cerebrale.

Durante tutta la notte, le spoglie del poeta napoletano sono state vegliate dal figlio architetto Eugenio, dal fratello Onofrio e da una ristretta cerchia di intimi amici, fra cui Nino Taranto, coi fratello Carlo, il maestro Mario Mancini insieme col quale il compianto artista aveva composto diversi copioni di riviste; Vera Nandi e Pietro De Vico.

La notizia della morte di Galdieri si è diffusa in città ieri sera soltanto a tarda ora. Negli ambienti artistici, la presenza del poeta a Napoli era nota poiché egli stava curando l'allestimento di una trasmissione rìevocativa della canzone napoletana, dal Settecento ad oggi, intitolata «Cicerenella» Era giunto a Napoli il 20 novembre scorso ed aveva assistito a tutte te prove della prima delle otto puntate del lavoro alla tinaie avevano partecipato Regina Bianchi, Nino Taranto, Gloria Christian e Tullio Pane

Aveva preso alloggio in una camera all'ottavo piano dell'Albergo Stadio in via Tausilio, a Fuorigrotta, nelle vicinanze del centro di produzione della Rai-tv per raggiungere senza difficoltà gli studi televisivi e curare personalmente il nuovo impegnativo lavoro, ieri mattina avrebbero dovuto iniziare le prove della seconda puntata ma il poeta non si recava al centro di via Marconi. Preferiva restare in albergo poiché avvertiva acuti dolori all'addome ed alla schiena. Tuttavia, per telefono, prometteva alla signora Marcella Giardino, che cura la regia della trasmissione, che nel pomeriggio l'avrebbe raggiunta per assistere alla revisione della prima puntata. Verso mezzogiorno, però, il malessere si è accentuato ed egli ha telefonato al dott. Aldo Angelini informandolo dell'indisposizione che lo costringeva a letto.

Le condizioni del poeta hanno preoccupato i dirigenti della radiotelevisione che hanno inviato immediatamente al capezzale dell'infermo il dr. Biondi. Il sanitario nel visitare il paziente ha rilavato che la pressione era salita al limite di 250 ed ha ordinato di praticargli subito iniezioni di farmaci vasodilatatori e somministrargli sedativo per lenire il dolore. Il dr. Biondi ha atteso che una infermiera appositamente chiamata praticasse le cure prescritte, restando così nella camera dell'infermo fino alle 15,30. Nell'allontanarsi, ha raccomandato al personale nell'albergo di non disturbare il riposo del compositore che si era nel frattèmpo assopito.

Poco dopo dalla stanza è uscita anche l'infermiera che insieme con un fattorino dell'albergo si è recata in farmacia a prelevare altri medicinali nonché del latte e biscotti per alimentare l'infermo, qualora avesse avvertito appetito. Quando l'infermiera ed il fattorino sono tornati, invano hanno bussato all'uscio della camera dì Galdieri: il poeta da pochi minuti era passato per trombosi cerebrale dal sonno alla morte.

Durante la notte il feretro è stato trasferito nella basilica di Santa Chiara, il tempio tanto caro ai ricordi sentimentali dello scomparso e che egli aveva reso celebre con i versi della canzone «Munastero 'e Santa Chiara». I funerali, a spese del Comune, si svolgono nel pomeriggio con partecipazione imponente di popolo e di personalità.

«Stampa Sera», 1 dicembre 1965


Una vita sul palcoscenico

Michele Galdierl se ne è andato per sempre e un gran vuoto rimane nel mondo del teatro di rivista che lo ebbe cultore vivace, arguto. Intelligente, e da lui trasse motivo di grandi successi. Poeta, figlio di un poeta, egli portò un gusto di scelta e una incisività di satira che elevarono il teatro di quel tipo a un tono di dignità artistica. Rocco Galdieri, suo padre, era un poeta napoletano famoso e Michele senti sempre la presenza di quel genitore come un esempio e uno stimolo.

Da giovanotto non sapeva quale via prendere. Si iscrisse alla facoltà di legge, poi lasciò le pandette per la letteratura e frequentò la facoltà di lettere. Ma, inquieto e sognante, non si laureò. La fama del padre, le amicizie con gli uomini famosi del tempo, a cominciare da Roberto Bracco, la conoscenza e la dimestichezza con attori allora agli esordi e già beniamini del pubblico napoletano, l De Filippo, l'atmosfera in cui era cresciuto, il suo istinto personale ancora non rivelato ma già vibrante, lo spingevano verso il teatro. Sentiva il bisogno di comunicare con la folla. L’animo esuberante e la responsabilità d'esser figlio d’un poeta di nome lo guidarono verso lavori Impegnativi. Una sua prima esperienza, del 1924, quando un Impresario gli affidò un copione del padre Rocco, ebbe fortuna. Si intitolava «Chiù Chiù Paparacchlù» e Michele ebbe la soddisfazione di suscitare l'attenzione e il consenso di Matilde Serao.

Il giovane Galdieri si buttò subito a scrivere un copione tutto suo, «L'Italia senza sole», ed ebbe di nuovo fortuna. Spirito libero, mal sopportava il regime totalitario che si andava affermando nel nostro Paese e già in «L'Italia senza sole» non risparmiò le sue frecciate. E nel suo repertorio (tante furono le sue riviste da costituire un repertorio) le puntate contro il regime furono frequenti e frequenti gli interventi della censura. Ma Michele sapeva dire e non dire, alludeva e non alludeva, strizzava l’occhio alla platea e sfuggiva alle cesoie dei controllori.

Si può dire che Galdieri fu autore di rivista suo malgrado. I successi continui lo invogliavano a scrivere, ma nel suo cuore fermentava l'eredità di poesia lasciatagli dal padre. Anch'egli avrebbe voluto essere soltanto un poeta e ne aveva le qualità. Le sue poesie pubblicate nel 1956 lo dimostrano: sensibili, accorate, umanissime. Invece i successi sulla scena lo definivano sempre più autore di rivista. E non fu un male per il teatro di quel genere che facilmente degenerava nella banalità e nella volgarità combattute anche da due applauditissimi altri autori: Dino Falconi e Oreste Blancoli.

Quante ne scrisse di riviste? Più di una trentina e sempre con lo stesso buon gusto e la stessa fresca e allegra vena umoristica e satirica. Dopo il trionfo della «Turlupineide» di Renato Simoni era nato questo teatro di beffa alle debolezze della società e degli uomini che la dirigevano. Poi l’elemento coreografico aveva sopraffatto i testi anche perchè poco valevano. Michele Galdieri ne risollevò le sorti e seppe fondere in una unità perfetta satire e coreografie, contenuto e spettacolo, cosi da divertire gli spettatori e fustigarne amabilmente i costumi.

Il più grande successo di Galdieri è del 1939 con «Disse una volta un biglietto da mille» con Pina Renzi e Franco Coop, ma altri ne ottenne avendo, sul palcoscenico, collaboratori come Totò. Anna Magnani, I De Filippo, Wanda Osiris e recentemente Carlo Dapporto.

Le sue canzoni, tra le quali «Munastero ’e Santa Chiara». «Portami tante rose», «Tu non mi lascerai», resteranno per molto tempo ancora come esempi da imitare nella storia della canzone italiana: non c’è genere, urlato, o melodico, o «yé-yé», che non le riprenda e le adatti al proprio stile. Di canzoni ne scrisse molte, Michele Galdieri, come scrisse anche molti libretti d'opera. Lavorò sempre, inquieto e insoddisfatto, mirando a fare sempre di più. Voleva dare al teatro di rivista delle ali per innalzarlo. E questo è stato il suo merito maggiore, oltre a quello d'aver lavorato ogni volta con rinnovato entusiasmo e a quello di non aver dimenticato la poesia napoletana di cui diede saggi anche dagli schermi della televisione.

«La Domenica del Corriere», 19 dicembre 1965


Canzoni scritte da Michele Galdieri

1941 - Mattinata fiorentina (1941) per Carlo Buti - musica di Giovanni D'Anzi
1951 - T'ho voluto bene (Non dimenticar) per Flo Sandon's - musica di Gino Redi. Nel film Anna, Silvana Mangano la interpreta doppiata da Flo Sandon's.
1961 - Tu non mi lascerai (1941) per Ferruccio Tagliavini - musica di Giovanni D'Anzi
1964 - Io so che tu mi lascerai per Miranda Martino - musica di Enrico Ciacci (RCA Italiana PM45-3289)
1964 - Nustalgia per Miranda Martino - musica di Nico Fidenco (RCA Italiana PM45-3289)
1964 - Tu non mi lascerai (1941) per Miranda Martino - musica di Giovanni D'Anzi (RCA Italiana PML 10383)

Sceneggiature cinematografiche

Cinque a zero, regia di Mario Bonnard (1932), soggetto e sceneggiatura
Tre uomini in frak, regia di Mario Bonnard (1932), soggetto e sceneggiatura
La fortuna di Zanze, regia di Amleto Palermi (1933), soggetto e sceneggiatura
L'eredità dello zio buonanima, regia di Amleto Palermi (1934) sceneggiatura
Fiat voluntas Dei, regia di Amleto Palermi (1935) sceneggiatura
Inventiamo l'amore, regia di Camillo Mastrocinque (1938) sceneggiatura
Follie del secolo, Amleto Palermi (1939) sceneggiatura
Papà per una notte, regia di Mario Bonnard (1939) sceneggiatura
Boccaccio, regia di Marcello Albani (1940) sceneggiatura
Natale al campo 119, regia di Pietro Francisci (1947) soggetto e sceneggiatura
Il barone Carlo Mazza, regia di Guido Brignone (1948) soggetto e sceneggiatura
Monastero di Santa Chiara, regia di Mario Sequi (1949) soggetto e sceneggiatura
Totò a colori, regia di Steno (1952) soggetto
Gran varietà, regia di Steno (1953) sceneggiatura
Lacrime d'amore, regia di Pino Mercanti (1954) sceneggiatura
Motivo in maschera, regia di Stefano Canzio (1955) soggetto e sceneggiatura
Peppino e la vecchia signora, regia di Piero Ballerini (1959) sceneggiatura


Riferimenti e bibliografie:

  • Michele Galdieri, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana
  • Michele Galdieri, su CineDataBase, Rivista del cinematografo
  • (EN) Michele Galdieri, su Internet Movie Database, IMDb.com
  • Breve profilo biografico, su lastoriadinapoli.it. URL consultato il 3 novembre 2006 (archiviato dall'url originale il 1º novembre 2006)
  • Michele Galdieri in "Scenario", n.2, febbraio 1939
  • "Tessere o non tessere - I comici e la censura fascista" (Nicola Fano), Liberal Libri, Firenze 1999
  • Raoul Radice, «L'Europeo», anno VIII, n.45, 29 ottobre 1952
  • "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980
  • Munasterio 'e Santa Chiara / 'O destino, 45 giri di Iva Zanicchi