Leopoldo Zurlo, il censore, la censura e il sesso

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Molto probabilmente, il censore teatrale fascista Leopoldo Zurlo era omosessuale: questo si è già detto e a conferma vedremo come reagì di fronte ad alcuni autori comici che trattarono il tema. Ma senza alcun dubbio Zurlo aveva in forte antipatia il cinema. Le due circostanze si sposarono bene con il suo compito delicato: garantivano il rigore più totale nelle controversie legate sia al sesso sia alla conflittualità nascente, ma già assai accesa, fra teatro e cinema. Mussolini lo scelse anche per questo. Sicché all’epoca ogni riferimento al sesso e al cinema era proverbialmente bandito dagli spettacoli di Varietà, d’Avanspettacolo e di Rivista. E passi per il cinema che, almeno quello prodotto in quegli anni in Italia, era piuttosto noioso e - eventualmente - facile da sbeffeggiare; ma togliere il sesso dalla comicità era davvero un’impresa titanica e antistorica. Un’impresa alla quale Zurlo si dedicò con perizia, speciosità e costanza degne di cause più utili.

Dagli ultimi anni dell’Ottocento fino a tutti gli anni Cinquanta del Novecento (e forse più avanti ancora), il teatro comico popolare nelle sue varie forme ha rappresentato l’unico mezzo di educazione sessuale di massa. Vecchi e giovani hanno conosciuto geografie e geometrie dei corpi femminili attraverso le evoluzioni delle ballerine e delle soubrette che incorniciavano e impreziosivano (dando loro ragione economica e sociale) le esibizioni dei comici. Gambe e braccia nude, per oltre mezzo secolo, si sono viste solo nel cuore pulsante del teatro comico: rappresentavano un mistero religioso e vitale, assai più reale e vicino alle emozioni degli spettatori di quanto non fossero l’ombra bianca del seno nudo di Clara Calamai al cinema o l’ombra oscura del seno nudo di Paola Borboni nella prosa.

Eppoi le gambe, le braccia, addirittura i sederi allusi o esposti delle ballerine erano gambe, braccia e sederi di donne normali, donne reali, talvolta belle e talvolta brutte: erano rotondità calde che si insinuavano negli sguardi di tutti gli spettatori come paesaggi naturali della loro quotidianità mammóna e affrettata; mentre i seni di Clara Calamai e Paola Borboni (esposti sotto il fascismo rispettivamente al cinema e nella prosa) erano isole esotiche e deserte perse in mari tropicali inesplorabili, erano capriccetti di dive vanitose le cui grazie erano riservate, semmai, ai gerarchi. Fra gli uni e gli altri passa la differenza che c’è tra qualcosa di desiderabile concretamente (senza colpe troppo arzigogolate nonché in rapporto diretto con le proprie esperienze quotidiane) e qualcosa di irraggiungibile e come tale frustrante. Tutto questo, Zurlo o lo intuiva o lo sapeva bene: comunque fremeva di fronte al sesso ciccione e colorato delle ballerine e invece sorrideva come un vecchio zio di fronte alle promesse che mai avrebbero potuto essere mantenute dal cinema. Perciò tagliava; tagliava a perdifiato con la sua matita rossa. Perché, naturalmente, i copioni dei comici dovevano essere permeati di allusioni costanti, di richiami velati o volgari al sesso: proprio per dare agio, poi, alle soubrette o alle ballerine, di snodare il filo della loro seduzione annunciata.

Ed erano sempre amori rubati, quelli narrati dai comici, erano corna consumate chissà dove e chissà quando, erano sdilinquimenti promessi intorno alla tavola apparecchiata con la tovaglia sporca di sugo. Le parole dovevano richiamare soddisfazioni e carni tremule: era tutto un gran dire a fronte di un fare ridotto all’osso. Ma, appunto, il sentimento chiave era il desiderio: come si può vietare un desiderio? Zurlo dovette spuntare la sua matita rossa su questa semplice realtà fatta, in scena, più di mosse e ancheggiamenti che non di parole scritte.

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Qualche esempio sparso varrà a rendere l’idea generale.

Nel 1934 Michele Galdieri non è ancora il divo incontrastato della Rivista ma solo un autore napoletano raffinato e furbo. Al suo attivo ha molti successi e un insuccesso clamoroso: La rivista che non vi piacerà (titolo infausto e profetico) scritta nel 1927 con Eduardo De Filippo. Ebbene, nel settembre 1934 Galdieri sottopone alla censura la rivista Trottole (busta 209): l’intreccio ruota in pratica intorno a una faccenda di corruzione. Si parla del piano regolatore di Napoli che ha reso forti guadagni a pochi costruttori; questi sono individui scaltri e volgari che parlano di soldi e sesso, e ambiguamente nascondono la vanità per i propri arricchimenti dietro la vanità per le donne conquistate. Leopoldo Zurlo interviene in modo massiccio, ma in pratica tagliando senza riguardo le battute sul sesso e lasciando più di qualcosa a proposito della corruzione (nessuno, tra i corrotti, risulta essere legato in alcun modo alle istituzioni, ovviamente).

Lo spettacolo va in scena tranquillamente al Teatro Nuovo di Napoli a fine anno. Ma il 20 gennaio del 1935, l’Osservatore Romano, quotidiano della Santa Sede, pubblica un corsivo violentissimo in cui si dà conto dell’incendio del Teatro Nuovo (il ritaglio del giornale è conservato ora all’Archivio insieme al copione). La sostanza dell’articolo è che Dio (quello biblico e vendicativo, con tutta evidenza) ha punito con il fuoco la compagnia di Galdieri, colpevole di mettere in scena «volgarità e donne nude»; nessun accenno alla satira sociale, ovviamente. Poi si spiega che la compagnia ha trovato rifugio in un nuovo teatro (di cui non si riporta il nome, ad evitare eventuale pubblicità), concludendo: «Speriamo si sia voluto soccorrere dei malcapitati, non dei malvagi». Effettivamente a metà degli anni Trenta fece un certo rumore il riassestamento urbanistico di alcune città italiane che, si disse, forniva vantaggi tanto ai costruttori quanto alla Chiesa che era messa in condizione di sfruttare al meglio (oltre il lecito?) le sue numerose, secolari proprietà immobiliari. Ma nel caso delle Trottole di Galdieri (in origine il titolo doveva essere Frottole) tutte le licenze del copione scatenarono una vera e propria battaglia solo nei confronti dei marginali accenti sessuali; una battaglia scatenata prima dal censore e poi sostenuta dai giornalisti papali che avevano visto nell’incendio del teatro un meritato castigo divino alla compagnia.

1939 Michele Galdieri 00 L 2Michele Galdieri, 1939

Il testo Quante donne ovvero Tutte le donne di Mario Mangini (con la firma Kokasse è conservato nella busta 84) vanta un record importante: siamo nell’ottobre del 1936 e Leopoldo Zurlo taglia la parola ‘deretano’. E un taglio, per così dire, rabbioso: viene soppressa tutta la situazione che conduce alla parola, mentre di solito i tagli relativi ad allusioni sessuali venivano mitigati da nuove battute meno equivoche segnate a mano dallo stesso Zurlo in margine a quelle cancellate. L’intreccio proposto da Mangini (in precedenza assiduo collaboratore di Eduardo e Peppino De Filippo, come abbiamo visto nel capitolo precedente) ruota intorno al peccato originale e al fatto, del tutto esplicito nel copione, che la colpa di quel peccato è da attribuirsi a Tutte le donne, come indica il titolo. La trama è modesta e i giochi di parole sono sempre pesanti e scoperti: ogni questione, anche la più marginale nella faccenda della mela, del serpente, di Adamo e di Èva, finisce sempre a sciogliersi in un mare di voglie sessuali represse. Zurlo taglia, riscrive e taglia. In complesso Quante donne è un brutto testo senza sfumature, ma ci offre la possibilità di fare due considerazioni in margine.

La prima riguarda la rappresentazione delle donne in epoca fascista. Alla fine degli anni Trenta, uno dei personaggi più popolari dei giornali umoristici era Genoveffa, donna bruttissima irrisa da tutti e di fronte alla quale ogni uomo si sentiva in condizione di lasciarsi andare a insulti di qualunque specie. Genoveffa era disegnata sul periodico Marc’Aurelio da Attalo (Gioacchino Colizzi), uno degli umoristi più apprezzati del tempo. A rivedere oggi quei disegni, si resta colpiti dalla cattiveria riversata a piene mani sui sentimenti della povera, brutta donna. Le tenerezze amene della Fosca di Tarchetti sono lontanissime da qui, come pure la nostalgia per le buone cose di pessimo gusto di Gozzano. Nel disegni di Attalo regna una violenza diffusa e neanche troppo sotterranea: come se questa donna, in quanto brutta, dovesse fungere da bersaglio alle altrui frustrazioni e rabbie represse. Allo stesso modo, le donne cornute (o, più di rado, che cornificano i mariti) nell’Avanspettacolo e nella Rivista rappresentavano una grande valvola di sfogo per tutti, attori e spettatori, maschi o femmine che fossero gli uni e gli altri. La rabbia contro la violenza fascista, contro le vessazioni e le ingiustizie sociali, contro la corruzione e il dominio del servilismo finiva per prender corpo nel teatro comico solo nelle umiliazioni continue nei confronti di povere donne. Brutte, ovviamente.

La seconda considerazione riguarda i doppi sensi. Su di essi Leopoldo Zurlo ha un’idea molto precisa. Nel 1935, fatto oggetto di accese polemiche da parte di alcuni zelanti notisti del Giornale d’Italia e dell’Avvenire d’Italia che lo accusano di essere troppo condiscendente nei confronti delle volgarità dei comici, Zurlo decide di chiedere l’intervento diretto del duce e così indirizza al capo del Governo una lettera appassionata di autodifesa, chiedendo adeguata risposta e copertura. L’episodio è raccontato dal censore medesimo nelle sue memorie.

«Riassumo il testo [della lettera a Mussolini, ndr]. Che fa la censura di fronte alla satira della rivista? Sta in guardia affinché rimanga nei limiti della scalfittura superficiale, della punzecchiatura solleticante. Non può sopprimerla, però: verrebbe meno uno dei puntelli del genere. Ad ogni modo la proibirà quando saranno proibiti tutti gli spietati analizzatori del cuore umano, La Rochefoucauld, Stevenson,Vanvenargue, Leopardi, ecc.

«E veniamo all’oscenità, parola cruda ma precisa. La censura non fama e non tollera quella bassa; ma, di grazia, i critici dei due citati giornali sono poi tanto sicuri che il riso oggi sia più scollacciato di quello dei secoli passati? Qui feci una corsa attraverso il teatro scabroso di tutti i tempi. Ricordai i Mimi di Eronda, Aristofane, la mala gente del repertorio romano, certe farse medioevali, le farse ca-vaiole, certe commedie del Cinquecento, Shakespeare e i suoi lazzi pepati. Citai persino la pruh-dommesca censura della Restaurazione che lasciava libertà alle audacie della letteratura popolare. E conclusi: “Da questa considerazione, troppo breve per una tesi troppo lunga per un appunto, balzano due considerazioni.

1) Che la ginnastica amorosa è stata da sempre supremo argomento di riso.
2) Che mentre la fondamentale impurità (ma è proprio giusta questa parola?) permane immutata, la sua maniera d’espressione si trasforma da un secolo all’altro”.

«In una poesia dell’abate Casti ricorre per esempio a proposito della marchesina Brancaccio un’esclamazione ammirativa che a molti scappa spesso ma qui non oseremo riportare. Se però la stessa cosa fosse designata, per esempio, come uno scettro intermittente, forse ne sorriderebbero gli stessi critici del Giornale d’Italia e dell’Avvenire d’Italia i quali non dovrebbero dimenticare che la storia è vita, dimenticare che il teatro è per adulti e non per adolescenti, che il teatro di varietà non è un oratorio; e che il doppio senso, quando il significato equivoco non si sovrappone a quello decente, rimane innocuo per chi non ne coglie il primo e non insegna nulla a chi non lo conosce».

La formulazione di questa frase, si converrà, è a dir poco geniale dal momento che essa stessa contiene un doppio senso: avrebbe dovuto concludersi con la spiegazione che «il doppio senso, quando il significato equivoco non si sovrappone a quello decente, rimane innocuo per chi non ne coglie il primo e non insegna nulla a chi già lo conosce», piuttosto che «a chi non lo conosce». Con questa seconda formulazione Zurlo vuole sottolineare sostanzialmente l’ingenuità degli spettatori del teatro comico, caratteristica che egli sapeva non poter attribuire loro fino in fondo. Ma forse proprio con quel non al posto di un già, egli cercò di strappare l’approvazione a Mussolini. Al tempo stesso questo bisticcio tradisce la sua fondamentale filosofia di lavoro: proteggere gli ingenui. Sul versante sessuale l’operato della censura fascista è sempre stato indirizzato all’educazione e alla salvaguardia di un generico e ipotetico popolo asessuato. Popolo del quale con ogni probabilità l’uomo privato Leopoldo Zurlo sentiva di appartenere, a dispetto dello stesso Leopoldo Zurlo intellettuale e censore.

Quanto alla controversia con i polemisti del Giornale d’Italia e dell’Avvenire d’Italia, Mussolini rispedì l’appunto a Zurlo con la firma e senza osservazioni di sorta, segno supremo di approvazione. Ovviamente. Andiamo avanti. Nel marzo 1939, il solito Mario Mangini (stavolta l’incartamento riporta lo pseudonimo Cocasse) chiede il visto di censura per la rivista Parliamoci chiaro (busta 124). Sono vari quadri nei quali abbondano corteggiamenti e allusioni amorose: naturalmente Zurlo interviene ogni volta che l’autore calca troppo la mano sui doppi sensi. In uno dei quadri si parla delle esperienze passate di una compagnia d’Avanspettacolo; la canzone intonata dalla soubrette si conclude con questa strofetta: «Quante sere al Manzoni di Milano / con un pubblico duro come che / non si sentiva battere una mano / era duro perché aspettava me». Zurlo la taglia, com’era del tutto prevedibile, e lascia la canzone zoppa. Eppure il doppio senso qui è abbastanza ben celato, perché letteralmente ‘duro’ da affrontare è sempre stato, quasi proverbialmente, il pubblico dell’Avanspettacolo e in effetti non c’era alcunché di strano che nessuno applaudisse e anzi osteggiasse con ‘durezza’ gli artisti aspettando la soubrette. Eppure...

Ma è un altro il quadro più scabroso. C’è un giovanotto seduto su una panchina che viene avvicinato da una donna che comincia a importunarlo, a fargli domande poco chiare: insomma a corteggiarlo. E, inspiegabilmente, l’uomo non cede alle lusinghe, anzi, si ritrae impaurito. La morale potrebbe riguardare una delle solite insolenze contro le donne mature (in quanto tali inappetibili, belle o brutte che fossero) le quali vanno in cerca della compagnia dei giovani; ma pare più probabile che la situazione comica dovesse scaturire dall’ostentata omosessualità del ragazzo. Del resto, il tipo omosessuale, nella comicità popolare, è sempre stato un carattere classico, oltre tutto di facile interpretazione anche da parte di cattivi attori: bastavano una mossettina con la mano, una smorfia, uno sguardo troppo morbido... Ma era raro che i copioni servissero questi trucchi in modo tanto scoperto come in questo caso. Perciò, come punto sul vivo, Zurlo taglia tutto il quadro, non solo la scena finale. E senza commenti.

L’ultimo esempio riguarda la rivista Cortometraggio d’amore di Nuto Navarrini, autore e attore di provata militanza fascista di cui si riparlerà più avanti. La richiesta del visto di censura è del settembre 1942 (busta 567). Il testo, in sé decisamente modesto, è tutto dedicato alla noia procurata dal cinema, a fronte delle meraviglie del teatro. Un lungo duetto tra Ciquita e Codac si risolve in un continuo, greve alludere alle reciproche prodezze amatorie. Ciquita è donna e Codac è maschio. Codac, richiamando nel nome la macchina fotografica, si prodiga in rime che riguardano buchi otturati e colpi di flash (sul tema c’è, coeva, una splendida macchietta di Cioffi e Pisano per Nino Taranto: Fatte fa’fa’ ’na foto). Il nome Ciquita, che rimanda al nomignolo spagnolo Chiquita per ‘ragazzina vezzosa’, lascia libero spazio agli equivoci di ogni sorta intonati dal compagno. Zurlo taglia molto, ma più che sul sesso, si dilunga sulle battute contro il cinema: quest’ultima circostanza sembra mascherare un vero e proprio travaglio da parte del censore che, stando alle direttive del regime, dovrebbe sopprimere tutti i riferimenti negativi al celebrato cinema; viceversa egli, sì, interviene, ma solo limando e riscrivendo, senza alterare troppo la sostanza dell’invidiosa rabbia scaricata dai teatranti sul successo del fratello ricco. Di passaggio, per esempio, in un dialogo su tutt’altri temi, compaiono queste due battute: «Che cos’è la cosa più bella di un film?», «La parola fine». Zurlo non taglia ma elegantemente stempera la risposta: «Per qualcuno, la parola fine»...

1944 02 26 Film Nuto Navarrini L«Film», 26 febbraio 1944

Nuto Navarrini, nel 1942, era un quarantenne milanese dal portamento raffinato che ostentava vecchia eleganza: in scena sembrava un attore da cinema muto e aveva già consumato la sua maggiore popolarità di finedicitore vinto dalle parole inimitabili del cinema. Sicché tentava di risalire la china del successo improvvisandosi modesto comico e soprattutto esibendo al proscenio la sua compagna, Vera Rol, giovane e bella. Navarrini non era propriamente un furbo e, come tutti i suoi colleghi di tutti i tempi, non era un acuto osservatore della cose politiche, talché cercò di rifarsi una posizione artistica, a guerra già iniziata, proclamando una ferrea fede prima fascista poi nazista e offrendo la giovane moglie come un trofeo sia ai gerarchi infoiati sia, poco più tardi, agli ufficiali delle SS: ottenne qualche sostegno economico dal regime fascista, un po’ di eccessiva condiscendenza da parte degli invasori nazisti, e infine una dura rivincita da parte dei partigiani e un processo e qualche mese di galera dalla neonata democrazia. Zurlo, che non era esattamente né fascista né democratico, ma solo un buon funzionario del Regno, non si fece sorprendere e nemmeno addolcire dalle avventure politiche di Navarrini: il suo compito era salvaguardare la moralità dello Stato ed educare gli italiani; perciò tagliò senza remore, anche se sapeva che i gerarchi avrebbero fatto la fila per ottenere una poltrona omaggio di fronte alle gambe di Vera Rol. Questa piccola, privata battaglia tra il censore e il cattivo comico con la ballerina finì male per entrambi. Ne riparleremo.

"Tessere o non tessere - I comici e la censura fascista", Nicola Fano, Liberal Libri, Firenze 1999