Eduardo De Filippo: San Ferdinando, morte e resurrezione
Sull'area del vecchio teatro San Ferdinando, distrutto da un bombardamento nel '43, Eduardo De Filippo sta facendo costruire un nuovo teatro che riprenderà il nome di quello demolito. Eduardo lascia spesso i suoi impegni in altre città per seguire con appassionato fervore l'andamento dei lavori.
Per teatro, ha un'origine insolita: le febbriciattole d'una regina. Maria Carolina consorte di quel Ferdinando IV meglio conosciuto come Re Nasone era appunto (cosi l'aneddoto) perseguitata da febbri tanto ostinate che inesplicabili: per non saper che pesci pigliare, i medici le prescrissero aria di campagna. Ora lei, che del marito come uomo di Stato poco si fidava sicché non voleva lasciarlo solo a governare, ma che alla propria asburgica pelle tuttavia teneva, quella campagna se la scovò proprio in città: nella popolarissima zona di Foria allora tutta allegra di orti, dove si fece fabbricare apposta una villa.
Qui poi che guarisse o meno sempre tornò volentieri per lunghi periodi, e d’estate in ispecie: tanto che, col tempo, intorno a quella regal dimora sorsero come guardie del corpo altezzosi palazzi delle casate partenopee più affezionate alla Corte: i Torchiarolo, i Forino, i Santobuono... e un principe Ripa Franconi di Colubrano che, in onore della sua sovrana, verso il 1790 fece addirittura costruire un teatro, opera elogiata dell’architetto Camillo Lionti. La nuova sala di spettacoli (battezzata col nome del santo del re, come già si era fatto col "San Carlo" ai giorni del monarca di tal nome) aveva una platea di cinquecento posti, quattro ordini di palchetti e un loggione. S’incomincio con le opere liriche e le semiserie, e frequentatori assidui erano il re, la regina, l’aristocrazia.
Nato dunque sotto il segno della regalità borbonica e delle alterazioni febbrili, la sua vera fortuna il teatro la trovò invece con i repubblicani: ma la febbre, che non guarda in faccia nessuno, non passava davvero. All’indomani della proclamazione della Repubblica Partenopea, su quel palcoscenico si recitò difatti in serata di gala e in sciolti" la tragedia (ahimè) «Adelaide e Comingio» di Giacomo Antonio Gualzelli patriota, davanti a un pubblico davvero febbrilmente "storico": tra i maggiorenti del Comitato rivoluzionario c’erano Mario Pagano e Domenico Cirillo; tra i pezzi grossi dell'esercito repubblicano il piu grosso, il generale Chainpionnet. Libertà, libertà!... Codesti entusiasmi dovevano spegnersi nel sangue: chi era quella sera in sala e in palcoscenico (e l’autore medesimo), tutti finirono, tornati i Borboni, sotto i colpi del Ruffo in un'inaudita macelleria.
Addio Adelaidi, addio Comingi: di nuovo, inamidati e reazionari gorgheggi. Otto anni cosi: poi altra febbre, altro colpo di scena. Daccapo i francesi: con la corona nuova e neoclassica dei Buonaparte.
Ma poi, per una ragione o per l’altra, il teatro non ospitò che scadenti compagnie filodrammatiche, fino a che non ne asunse la gestione, nell'ultimo ventennio dell’Ottocento, l'attiva e intelligente stirpe dei Golia: Giuseppe Bartolomeo, quindi Luigi e SaIvatore, infine Giuseppe tuttor vivente: i quali vi portarono con gran successo i più rinomati artisti dialettali. Una formazione in particolare vi ebbe persistente, clamorosa fortuna per lustri e lustri: quella capitanata dal popolarissimo Federico Stella. Era l'epoca in cui la plebe napoletana (ma non la soltanto) andava pazza per gli eroi improbabili di Francesco Mastriani romanziere e per quelle sue eroine lacrimogene, «Cieca di Sorrento» alla testa, che lo Stella e il suo complesso trasferivano sulle scene con una bravura di mestiere, un senso del “concertato" veramente (dicono) da sbalordire.
Ecco, tanto per dar l’idea, qualche titolo: La mano insanguinata; Ciccio il pizzaiolo del Carmine... E guardateli sulla fotografia di gruppo (qui sopra) nella fila mediana i protagonisti: quarto da destra, una sorta di Leoncavallo coi baffî alla Guglielmone e la cravatta all’anarchica, Enrico Altieri. È il “guappo" assetato di giustizia; sotto le apparenze brutali cela la bontà del marzapane. Ammirate (terzo da sinistra: non è Hindenburg) Giuseppe Pironi, l’odiatissimo Pironi: Tiene 'o core ’e Pirone si diceva per antonomasia degli spietati; beninteso però che (Ridi, pagliaccio!) l'anima nera, il “tiranno" della combriccola era poi una pasta d’uomo. (Ma gli spettatori si cavavan le scarpe e per vituperio glie le tiravano addosso.) Primattore, primattrice e "spalla" recitavano in lingua; tutti gli altri in dialetto. Traggo da notizie del Muzii che quel teatro, e i copionacci del Mastriani che vi si rappresentavano, «erano entrati cosi profondamente nel cuore dei napoletani, che molti emigranti fecero sorgere in America tanti piccoli "San Ferdinando", e i drammi popolari della Napoli dei bassifondi divennero drammi nazionali americani: costituendo il presupposto di quello che sarà poi il dramma giallo».
Per chiuder questo capitolo appetitoso non potrei megiio che trascrivere (era murata sulla facciata del “San Ferdinando”: ora vi tornerà) la tipica epigrafe di Giovanni Bovio a Mastriani: «Visitava gli umili ed è morto povero come i suoi personaggi; ma l’Italia - povera come lui - non ne ha colpa». Questo il teatro che, nell'incursione aerea del 3 settembre 1943, crollò sotto le bombe.
Eduardo ne ha rilevata l’area dall’ultimo dei Golia (il vecchio e simpatico Giuseppe: fisicamente un abbozzo alla brava di don Benedetto, di Croce vogliamo dire): e dopo averne fatte demolire fin l’ultime macerie, lo viene ricostruendo dalle fondamenta.
Le quali risultano ora d’una quindicina di metri piu in basso del livello stradale. In sezione, il teatro nuovo ricorda la struttura d’un piroscafo (che va benissimo, per una città di mare): tanti piani sovrapposti, uno dei quali quello immediatamente al di sotto della platea particolarmente originale come struttura e funzione. Destinato a bar, godrà della vista del “sottopalco" allo scoperto: negli intervalli fra un atto e l’altro il pubblico potrà assistere con legittima curiosità al traffico dei macchinisti e trovarobe pei cambiamenti di scena: i quali si eseguiranno qui col sistema molto pratico e in Italia assai raro: non l’hanno che il Teatro dell’Opera a Roma e la Fenice a Venezia detto a “settori mobili", azionati idraulicamente.
Un altro frapponte salgariano di questa nave ideale ospiterà un caffè non destinato agli spettatori, ma ai passanti: tu stai seduto a sorbirti il gelato e intanto da appositi altoparlanti ti arriva senza aumento di prezzo la commedia (o l’opera lirica o l’operetta o che altro) che è in esecuzione due piani più su: il ‘ teatro dei poveri”, idea molto suggestiva, molto napoletana.
«Si, un teatro proprio sui generis», dice Eduardo: «novecento, ma decorato coi tre colori tradizionali, rosso bianco e oro. Un teatro molto comodo; gli attori per esempio disporranno di camerini accoglienti, con la doccia; e la stanza dei pompieri...» S’interrompe, sorride. «La stanza dei pompieri è dappertutto uno sgabuzzino ignobile; e loro non possono vedercisi vanno a giro continuamente per i palcoscenico... Io», soggiunge cavandosi di bocca l’eterna sigaretta «mi sono preoccupato dei bravi vigili, avranno un locale che è un paradiso, ci vorrà la forza per snidarli di lì... Un teatro con milletrecento posti di platea», dice Eduardo, e quattrocento di galleria, e ordine solo di palchi. Ma i palchi non saranno contrassegnati da numeri, bensì dai nomi dei grandi attori dialettali: Ferravilla, Petito Musco, Petrolini, Viviani...»
«Bello. E questo sarà il teatro suo? la sua Stabile?»
«Purtroppo no. Non posso in chiodarmi a Napoli, debbo girare se voglio mantenermi aperto a comprendere - benché fedele al dialetto come strumento - le voci, gli umori le aspirazioni del vasto mondo complicato che è anche il mio. Ma ci passerò diversi mesi ogni anno; e voglio inaugurarlo con due novità mie; e il mio cuore in ogni caso è lì, anche se io col corpo e col cervello corro in giro per l’Italia.» Parla pacato, modesto, con la sua caratteristica malinconia venata di umorismo. È un uomo ancor giovane, estremamente intelligente, estremamente rappresentativo di una situazione nazionale degli intellettuali, forse non artistica soltanto. Impossibile capire se lo sa se questo suo valore gli pesa. E' cauto, attento, propone le sue idee senza insistervi, quasi non dandovi peso. Ma s'indovina che esse sono tenaci in lui, radicate; e tutt’altro che indifferenti alla sua umanità profonda.
Esaurito il tema del “San Ferdinando” lo stuzzico su altri argomenti, sempre teatrali s’intende. I discorso cade sul repertorio.
«Ci sono poche commedie», dice «perché non ci sono teatri. O distrutti dalla vecchiaia o dalla guerra, oppure diventati cinematografi.» È un punto di vista concreto il suo, tutt’altro che idealistico «Manca al commediografo, mancando i teatri, quella possibilità di sfruttamento del suo lavoro che gli dia convenienza economica. Se in Italia esistesse una rete completa e continuamente attiva di teatri efficienti, gli autori non difetterebero. Ricostruendo il “San Ferdinando” io porto appunto il mio piccolo contributo soprattutto alla rinascita d'un repertorio. Cosi come stanno le cose, gli ingegni si volgono ad attività affini, ma più redditizie: principale la sceneggiatura di film.» Cita Fellini, altri nomi...
«Gente in gambissima: sarebbero commediografi eccellenti», dice con la pacata sicurezza dell’intuito.
Lo guardo non senza emozione. Vivo com’è, cosi sensibile anzi a tutte le istanze d’oggi, sociali, artistiche e sin filosofiche, riassume e perpetua una tradizione empirica illustre, di attorea utore, da quel Beolco che si fece Ruzzante a quel Poquelin che si fece Molière. Eccolo qui questo De Filippo con la sua prosaica giacca grigia a doppio petto, questo De Filippo astuto e segreto che giorno per giorno sta metamorfosandosi in Eduardo. “Eduardo” senza più cognome, qua si senza più stato civile, con la sui leggenda di comico e la sua verità di poeta, per i secoli da venire.
orrado Pavolini, «Epoca», anno I, n.3, 28 ottobre 1950
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Corrado Pavolini, «Epoca», anno I, n.3, 28 ottobre 1950 |