Eduardo De Filippo: portare l'attore dall'uomo della strada

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Eduardo crede in un cinema dialettale che, non limitandosi al gusto delle battute e del dialogo colorito, sappia raggiungere motivi e verità universali.

Dopo Napoli milionaria e Filumena Marturano, Eduardo de Filippo ha realizzato la scorsa estate Marito e moglie e l’episodio L'avarizia e l'ira di I sette peccati capitali e si accinge a dirigere Ragazze da marito. Egli ha deciso di rinunziare, per quest'anno, a riunire la sua compagnia e di occuparsi solo di cinema. Se l’assenza dalle scene di una personalità preminente nel mondo del teatro come quella di Eduardo non può evidentemente rappresentare che una parentesi, ci è sembrato tuttavia che questo periodo di esclusiva attività cinematografica fosse il più indicato per intervistarlo e conoscere la sua posizione di fronte al cinema e ad alcuni dei suoi problemi più attuali.

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— Come mai, abbiamo chiesto per prima cosa a de Filippo, si è deciso a passare al cinema anche nel campo della regìa? E’ stato un fatto occasionale, determinato dai vantaggi economici inerenti al cinematografo, o il passaggio è avvenuto perché lei ritiene che il cinema offra maggiori possibilità espressive?

— E’ stato per tutti e due i'motivi. Forse perché sono nato nel 1900, ossia in un’epoca in cui le cifre seguite da sei zeri erano piuttosto rare. Confesso che provo per i milioni un considerevole senso di rispetto; e poi, come ho detto in una precedente intervista, ero stanco di vedermeli passare tutte le sere davanti, questi famosi rnilioni, senza peraltro riuscire mai a fermarli. A parte ciò, ero già perfettamente cosciente, anche quando mi occupavo solo di teatro, delle possibilità espressive proprie del cinema. Naturalmente, in seguito, con l'esperienza diretta, ho potuto rendermi più esattamente conto di tali possibilità.

— Qual è, secondo lei, la principale differenza fra il personaggio teatrale e quello cinematografico?

— Fra il personaggio teatrale e il pubblico si stabilisce subito un contatto diretto che si rinnova continuamente nel corso dello spettacolo. Cosi gli eventuali difetti del personaggio si disperdono, sfuggono all’attenzione, come sfuggono alla nostra attenzione, nella vita, molti aspetti delle persone con cui dobbiamo trattare. Il personaggio cinematografico, invece, prende forma a poco a poco di fronte allo spettatore, e la sua fisionomia si precisa alla distanza. Perciò i suoi difetti, invece di disperdersi strada facendo, si sommano e si accumulano e risultano infine evidenti tutti insieme. Si aggiunga, per quanto riguarda l’interpretazione, che molti dei più facili effetti, di cui l’attore navigato si vale sulla scena a colpo sicuro, non reggono davanti alla macchina da presa. Come conseguenza di tutto ciò, il regista cinematografico deve avere una maggiore capacità di controllo dei suoi personaggi ed essere in grado di valutare e distinguere, in ogni momento, gli atteggiamenti e le battute che rispondono ad una intrinseca coerenza dei personaggi stessi da quelli che non vi corrispondono. Ciò significa, in una parola, che la. regia cinematografica è, nel complesso, più impegnativa e presenta maggiori difficoltà e problemi di quella teatrale.

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— Ritiene, per quanto la riguarda, di essere già completamente padrone della tecnica della regia cinematografica?

— Ho scoperto da tempo che lo studio degli errori che i vari registi commettono nel dirigere un film rappresenta una òttima preparazione e una ottima scuola per chi vuol darsi a sua volta alla regia: Partecipando come attore a molti film ho avuto altrettante occasioni di darmi a questo esercizio e di trarre i dovuti insegnamenti. Oggi però, osservando i film finora da me stesso diretti, ho constato che il regista Eduardo de Filippo non è, per esempio, riuscito sempre a controllare perfettamente l’attore cinematografico Eduardo de Filippo, la cui recitazione -presenta qualche squilibrio e qualche inutile accentuazione. Ho constatato, insomma, che, come regista cinematografico, ho ancora qualche cosa da imparare. Seguiterò quindi a perfezionarmi, rilevando e analizzando, imparzialmente e ad ogni occa s one, sia gli eventuali errori del regista de Filippo che quelli degli altri registi.

— Qual è la sua opinione sul realismo?

— Per il cinema, arte ancora giovane, il realismo rappresenta, a mio parere, una esperienza di gioventù da aggiungersi alle altre (espressionismo, ecc.) già verificatesi in passato. Come tutte le esperienze anche il realismo ha portato a qualcosa di positivo; ha avuto indubbiamente una funzione rivoluzionaria, in quanto e servito a scombussolare e a scalzare molte delle convenzioni e convinzioni prima vigenti. Detto questo devo aggiungere che, malgrado la formula e relativa scuola realista siano oggi ancora di moda, non ritengo personalmente che esse debbano considerarsi ancora valide. Ho appreso dall’esperienza teatrale che compito e funzione dell’arte è di condensare e trasformare la realtà. Lo spettatore, nel suo intimo, non si interessala una piatta riproduzione del vero, ma sì appassiona al verosimile, ossia alla realtà elaborata dalla fantasia. Ciò è tanto esatto che procedimenti decisamente antirealistici sì riscontrano già nella prassi dello stesso cinema realista. Spesso i movimenti e gli atteggiamenti dei personaggi non sono affatto quelli che dovrebbero essere in una riproduzione puramente e fedelmente fotografica della realtà, e la esatta riproduzione dei suoni e rumori reali, vanto (come si ricorderà) dei primi film sonori, è trascurata : molti suoni e rumori o non vengono affatto riprodotti, o vengono riprodotti secondo formule convenzionali o addirittura astratte. La verità è che, abbastanza spesso, anche il cinema realista, in luogo di limitarsi a riprodurre fedelmente la realtà, come esigerebbe la formula applicata in senso rigoroso, la elabora e la trasforma sul piano della fantasia e finisce, cosi, per darci anch’esso il verosimile invece del vero. L’importante è che proprio allontanandosi, deviando dai rigori della formula, il cinema neorealista ha realizzato le sue pagine e i suoi risultati più validi, mentre quando si è veramente attenuto agli schemi preconcetti, i risultati non sono usciti dai limiti di una nuova retorica. Inoltre mi sembra che il film realista, sconfinando sul terreno del documentario, a cui spetta effettivamente di ritrarre obiettivamente la realtà, abbia portato di riflesso un po' di confusione anche in quel campo.

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— Da queste premesse non è difficile dedurre che lei è contrario anche al sistema di valersi di interpreti presi direttamente dalla vita...

— Esatto. Ciò che conta è di portare l'attore sempre più vicino all’uomo della strada e di renderlo sempre più capace di farsi interprete della sua verità poetica, e non già di portare l’uomo della strada sul piano dell’attore. Del resto, se ci si attenesse completamente alla tesi verista che sostiene che solo il personaggio preso dalla vita può esprimere interamente la propria verità, quanti personaggi dovremmo portare sullo schermo per esprimere le verità personali dì ciascuno degli italiani?... Quarantacinque milioni, evidentemente, ossia tutti gli italiani. Dunque tanto il buon senso quanto l’esperienzai che ci insegna che l’arte procede per esemplificazioni e per sintesi, spingono a dissentire dal sistema oggi in voga di prendere gli interpreti dei film direttamente dalla vita.

— Nelle critiche al film Filumena Marturano è stato mosso qualche appunto al suo modo di servirsi della macchina da presa. Che può dirci in proposito?

— Non ho presenti quelle critiche, né i rilievi relativi. Dato però che non ritengo che i movimenti della macchina da presa debbano essere previsti e scontati in partenza e considero invece la macchina come lo strumento delle esigenze soggettive del regista che può servirsene, a suo criterio, sia per sottolineare certe situazioni con particolari accorgimenti, sia per effettuare, con altri accorgimenti, quella che potrei chiamare una analisi, microscopica di determinati personaggi e momenti dell’ azione, mi rendo perfettamente conto che al mio sistema di ripresa si possano muovere delle critiche. Considero tali critiche senz’altro legittime finché vogliono esprimere le diverse esigenze soggettive di chi le formula, ma non certo in funzione di una tecnica ipotetica, prestabilita ed immutabile, dei movimenti della macchina da presa.

— Qual’è la sua posizione di fronte al problema del colore?

— Confesso che il colore mi interessa ben poco, e mi sembra che i suoi problemi debbano, almeno per ora, interessare solo i tecnici. Personalmente trovo il bianco e il nero più che sufficiente, come mezzo e strumento espressivi. In quanto spettatore poi, la presenza del colore in un film ha, per me, solo l’effetto di distrarre e frastornare la mia attenzione.

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Film diretti e interpretati da Eduardo de Filippo. Sopra: Eduardo in Marto e moglie (1952). Sotto:  Stoppa ed Eduardo in Avarizia e ira, episodio di I sette peccati capitali (1952)

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— Come spiega che non si riscontri praticamente in Italia nessuna di quelle forme di disinteressato mecenatismo cinematografico che hanno permesso, in Francia, Germania, Inghilterra, ed anche in America, l’affermarsi dei movimenti di avanguardia e di un certo numero di personalità di eccezione?

— Dato che forme di mecenatismo esistono anche in Italia — sia da parte di privati che di enti e dello Stato — per quanto riguarda il teatro, la pittura ed altre arti, è chiaro che la mancanza di un mecenatismo cinematografico non dipende tanto da un potenziale economico più basso quanto dall’incapacità di considerare il cinema come un’arte, ossia da un difetto di coscienza estetica.

— Ancora una domanda. Crede possibile l'affermazione di un cinema dialettale?

— Se per film dialettali si intendono dei film che si limitino al gusto della battuta e del dialogo colorito, che siano insomma dialettali nel senso più facile del termine, non credo che abbiano motivo né possibilità di affermarsi. Se invece si vuol parlare di un cinema che, attraverso e al di là del linguaggio dialettale, sappia raggiungere quei motivi e quelle verità che, appunto perché universali, restano dovunque le stesse anche se espresse con un linguaggio diverso, allora le prospettive cambiano ».

Per quanto riguarda infine i suoi progetti cinematografici per il futuro, Eduardo de Filippo ha dichiarato che sta curando la preparazione di un film particolarmente impegnativo, cioè, di un film biografico su Vincenzo Gemito che conta di realizzare nella primavera del '53. « Sia per l’epoca in cui si svolse », ha precisato de Filippo, « sia per la varietà di persone e di ambienti con cui l’artista fu a contatto, sia per la tragica grandezza della sua figura, la vita di Gemito presenta un interesse eccezionale ». Quindi Eduardo ha concluso promettendo cortesemente di mettere, a sue tempo, a disposizione di Cinema, per unc studio sulla preparazione del film dedicate al grande scultore napoletano, una parte del materiale fotografico e documentarie su Vincenzo Gemito da lui raccolto.

Braccio Agnoletti, «Cinema», n.84, 15 aprile 1952


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Braccio Agnoletti, «Cinema», n.84, 15 aprile 1952