Natale in casa Cupiello

1943 Eduardo De Filippo gh6

Ripresa all'Odeon di Milano una delle più famose commedie di Eduardo De Filippo.

L' indiscrezione sulla confidenza di un morto non è mai da persono corrette. Salvo, forse, nel caso che faccia onore a chi la fece e non risulti disdicevole a chi ne fu argomento. E’ il mio caso; e, pertanto, me la concedo. Si sa quanto il povero Ruggero Ruggeri fosse severo con sè stesso, poco benevolo, benché mai, però, maligno coi suoi colleghi; e come poco amasse sedere in platea ad assistere ad uno spettacolo. Su quest’ultimo punto, lui, dal gusto così aristocratico solitario, faceva una scia deroga per il circo equestre, per il varietà e per i fratelli De Filippo.

 

Bontà sua, negli ultimi anni che visse io godetti della sua affettuosa simpatia e potei penetrare oltre lo schermo gelido di quella timidezza proterva che lo tenne, per mezzo secolo, isolato, estraneo e al disopra del teatro, e fu giudicata superbia mentre non era che difesa della propria vulnerabile interiorità. Un giorno si parlava di attori; meglio: io parlavo, lui si limitava ad ascoltare con la sua curiosità attenta, sfumata da un’impercettibile vibrazione ironica alle punte delle labbra. Alla fine, inaspettatamente, ' senza alcun apparente legame con l’ultimo bersaglio, — una musicale prima attrice — preso di mira, concluse, con una laconica affermazione. «Si crede, disse, che io sia il più bravo di tutti» — sono le precise parole; ricordo bene perchè mi colpì sentir dire bravo e non grande — «Ma Eduardo De Filippo è più bravo di me». Non aggiunse altro, nè perchè nè per come.

Se andava a teatro Ruggero Ruggeri andava a vedere i fratelli De Filippo. «Non sono il più bravo - diceva - Eduardo De Filippo è più bravo di me»

1958 05 10 Le Ore aVI n261 De Filippo f4 L

Quel giudizio mi tornò in mente e mi accompagnò per due ore, sere fa, mentre assistevo alla ripresa di «NATALE IN CASA CUPIELLO». Non avesse scritto che quella sola commedia, non avesse interpretato che quel solo personaggio, essi sarebbero più che sufficienti alla fama di Eduardo.

E’, si dice, la verità e l’umanità. Questione di intendersi. In nome della verità e dell’umanità, s’è gabellata e si gabella tanta, troppa, merce di seconda e terza mano, che, ormai, un discorso del genere ci rende diffidenti. Secondo molta gente, la verità altro non è che l'obbiettivo fotografico applicato al buco della serratura; altrettanto lontana dall'arte quanto il vizio di origliare agli usci lo è dalla buona educazione. Allo stesso modo, nove volte su dieci, l’umanità viene confusa con la retorica del buon cuore. Per un attore, in special modo, è sempre difficile essere umano senza essere eloquente.

La verità di De Filippo è la più profonda ed umana. «Le mie commedie — ha detto — sono sempre tragedie anche quando fanno ridere»

Ben altro il caso di Eduardo. Eduardo scende; al fondo del vero, ne mette allo scoperto le radici fin nelle terminazioni estreme ove le più delicate fibrille gemono e intristiscono al contatto della luce; si colloca nell’angusta ed infinita dimensione magica onde la fine del vero tocca il principio del mistero, e il sentimento non può svelare il suo ultimo segreto altro che penetrando nel cuore della coscienza morale. Seno i momenti, quando questo miracolo si compie, e si compie spesso — e da capo a fondo, nella commedia in questione, aliena, se Dio vuole, da pericolose ambizioni problematiche e moralistiche — in cui viene meno qualsiasi possibilità di classificazione e di definizione. Allora, introdotti in un lirico stato di grazia, incantato ed effuso, si realizza il prodigio, stavo per dire il sortilegio, di respirare nella pura spiritualità avendo i piedi ben puntati sul reale: l’ilare felicità del riso irraggia dalla superficie di una profonda ed austera serietà che, mercè il dialetto e al di là del dialetto, universalizza l'occasione e nobilita il banale quotidiano preso come punto di partenza. Si rivela l’ambigua natura della comicità classica che confessa la sua faccia nascosta. Una sovrana malinconia allarma le manifestazioni della più esplosiva buffoneria e, dal fendo della gioia, emerge una sconsolata amarezza. Dentro alla farsa, il dramma; e dentro al dramma, la farsa. Cosi, Eduardo può affermare «Io sono convinto che le mie commedie siano sempre tragedie anche quando fanno ridere».

Ecco perchè, dopo aver riso tutta la sera ai casi di Luca Cupiello, mite e semplice popolano che ha conservato nell’anima l’ingenua purità del fanciullo, imprigionata in tutti noi ed, ohimè, troppe volte soffocata, lo spettatore esce dal teatro col cuore stretto. Quella candida e disarmata fedeltà al presepio della sua stagione infantile, amorosamente riallestito ad ogni Natale; che lo rende supplice mendicante di una lede, sempre negatagli e solo sul letto di morte concessagli, per compassione, dalla inconsapevole ed atroce crudeltà del figliolo; quel procedere cieco, fiducioso ed ottimistico, senza sapere, senza vedere, attraverso le miserie e le meschinità della vita; quella fulminante rivelazione della colpa della figlia, che lo seppellisce, paralizzato, in un letto e lo condanna a un ebete fantasticare, sollevano la commedia in un clima favoloso, senza spostarla di un centi-metro dalla realistica volubilità di un interno partenopeo, piccolo-borghese, colto, o per meglio dire, accarezzato in tutte le pieghe e le increspature del suo minuscolo, affettuoso e doloroso umorismo.

Poesia che diserta e trascende la pagina, e si realizza pienamente solo sul palco-scenico. La parola, la battuta, il silenzio, la pausa, la sintassi mimica, l’intonazione, il ritmo, quelli e nessun altro; gli oggetti stessi della rappresentazione stanno sul medesimo piano di importanza: strumenti e valori espressivi egualmente indispensabili nel contrappunto di un linguaggio unitario, dove l’opera dell’autore risulta indissolubile da quella

Walter Mori, «Le Ore», anno VI, n.261, 10 maggio 1958


Le Ore
Walter Mori, «Le Ore», anno VI, n.261, 10 maggio 1958