Raffaele Viviani, ricordi
1. Ricordo Raffaele Viviani, all’epoca della sua prima venuta a Milano, se non sbaglio, nel ’23, al teatro Diana, da dove, poi, passò al teatro Filodrammatici. Andai a trovarlo in un intermezzo; era la sua serata d’onore e dava uno spettacolo «spezzato», con inclusione di dizione di versi romaneschi (erano le favole di Trilussa), di macchiette e canzonette da lui stesso composte e musicate, ricordo del tempo in cui, con la sorella Luisella, faceva il «divo» del teatro di varietà.
Uomo piccolo di statura, con un occhio leggermente strabico, un parlare a raffiche, secco, per nulla abbondante come, per lo più, suole essere il napoletano, irrequieto nella persona, entusiasta del successo artistico, se pure quello finanziarlo era stato piuttosto magro. Ma, egli, di questo, non si lamentava affatto; quasi giusto e doveroso, quasi espiazione per essere rimasto tanti anni a fare il «divo» del teatro di varietà.
Di quel colloquio avuto mentre si truccava e si cambiava d’abito ò trovato, perdute tra le molte carte, in fondo ad ignorato cassetto, gli appunti, forse tracciati per un eventuale articolo, ed ò trovato, anche, tre o quattro fotografie dell’attore.
Ed ho pensato che, a tanta distanza, con tanto cammino fatto, ora che l’Artista à raggiunto la sua piena maturità e la platea è sempre affollata, venendo a corroborare così il successo artistico di un giorno lontano, ora che la sua arte si è fatta, direi, più umana e più definita, non sia male rivederlo così come era un giorno. Apro il taccuino; leggo.
2. Delle città marinare, Napoli, à anche serbato una forma, terribile di superstizione. Credo impossibile trovare un popolo meno, o più. superstizioso del napolitano. Ed è appunto questa mescolanza di elementi disparati che forma quel contrasto di sentimenti, di affettività, di brutalità, che caratterizza tutta la popolazione. Esseri violenti e timidi come bambini: crudeli e sentimentali fino alla sdolcinatura. Quasi impossibile credere: un camorrista indurito nel vìzio e nella crapula, commosso davanti al suo mare, o esalante l’anima in sospiri degni del più mellifluo trovadore, allo note tenere di una canzone: ed è di tutti i giorni.
Quei camorristi che la cronaca (tener sempre presente che questi appunti sono stati scritti nel ’23) ci presenta ogni giorno in una interminabile teoria di delitti, varianti dal semplice furto alla più complessa forma di rapina o di omicidio, berretto a sghembo e sigaretta appiccicata al labbro superiore, sono degli esuberanti passionali che, determinate circostanze di vita e di ambiente, ànno avviato per una falsa strada. Comunque, il napolitano, è un popolo pieno d’ingegno se bene indolente come l’orientale. L’esempio più palmare della sua intelligenza, ce l’offre quella pittoresca categoria di fanciulli senza casa e senza affetti: gli scugnizzi.
Costretti a bastare a sè stessi sin dai più teneri anni, e messi a contatto con la dura quotidiana realtà, cominciano sùbito, per necessità di cose, a scaltrire il gioco della mente. Quello che domani faranno, ignorano: vivono al minuto, esercitando i mestieri più disparati.
Furbi, scaltri, maliziosi, non sfugge loro nulla; capiscono e intuiscono tutto. Per lo più vivano in comunità, e la sera ànno il loro punto di ritrovo per mostrarsi il frutto della giornaliera attività. Le passioni preponderanti sono due, fra gli scugnizzi: il teatro, e la battaglia. Per dare sfogo agli istinti bellicosi, si dividono in partiti e Ingaggiano delle furibonde zuffe non sempre incruente.
L’altra passione, il teatro, è più vasta e più profonda, origine condivisa da tutto il popolo. Preferiti sono i drammoni a forti tinte, ad intreccio complicato ed emotivi. In queste produzioni c’è posto per tutto; al farsesco, al tragico, al sentimentale. Ma c’è, anche, un impeto musicale che domina il complesso groviglio delle grezze passioni, e che scaturisce irresistibile e si manifesta in brevi canzoni di odio e d’amore.
Il dono della musica e del colore, ogni napolitano lo porta in sè fin dalla nascita: è un po’ del ritmo del suo mare e dell’azzurro del suo cielo. Questa disposizione naturale, che si riscontra in tutte le popolazioni meridionali, produce i più potenti artefici di vita. Di tutte le forme d’arte, per quello che oggi mi interessa, fermerò l’attenzione all’arte drammatica.
3. Gli artisti meridionali, tra i difetti, del resto insiti ad ogni natura umana, ànno un singolare grandissimo pregio: la spontaneità. All'abbondanza verbosa sanno accoppiare una semplicità incantevole. Essi vivono, su la scena, e non recitano. Forse, a questo, concorre la preparazione culturale: per non citare che due nomi farò quelli di Edoardo Scarpetta e Angelo Musco. Chi oggi, (cioè ieri quando scrivevo queste note) a questi due grandi signori della scena si avvicina a grandi passi, è Raffaele Viviani. Come i primi due, è un autodidatta: come i primi due ha umili origini.
Viviani viene dal «varietà». E qualche aspetto della sua amorfa origine lo conserva: anche perchè è costretto a crearsi da sè il repertorio. Discende da vecchia razza di comici popolareschi. Suo padre recitava i drammoni in quella specie di tende fatte di legno e tela che ancor oggi non è difficile trovare alia periferia della città, e che porta il nome caratteristico di casotti.
A tre anni Raffaele Viviani, dopo il dramma, si esibiva in un numero di varietà. Dotato di vocetta intonata e aggraziata cantava le canzonette in voga. Tuttavia era un bambino malinconico, poco amante dei giochi, e molto chiuso, quasi scontroso. Se vogliamo dirlo con un gioco di parole, diremo che fu un bambino che non fu mai tale. A sette anni, morto il padre, dovette pensare al mantenimento della famiglia.
Da tale epoca data la sua vita di «uomo di teatro». Ciò che prima faceva per diletto, dovette farlo per necessità, e col compenso di dieci soldi giornalieri. La sua mente flessibile e pronta diede, però, sùbito, a quella sua «arte», una impronta inconfondibile di personalità. Ma ciò che in lui vinse fu la forza di volontà.
4. Messo a contatto con la vita tutti i giorni, capì che era luì che doveva andare incontro alla vita e che questa mai sarebbe venuta incontro a resistenza gli giovò più di qualsiasi altro mònito: e il bambino precocemente maturatosi, si tracciò una via e quella si impose dì seguire senza dispersioni e sbandamenti. Non ebbe un metodo; ma ebbe il suo metodo. Ed è per questa inflessibile volontà, per questo sapersi mettere al di sopra e al difuori di tutto l’informe groviglio delle passioni, per aver voluto fermamente, che à vinto.
Tutto ciò che in ogni buon napolitano è fatalismo, in Viviani diventa forza attiva e fattiva: gli anni apportarono il senso pratico della esperienza: ed anche il nebuloso si chiarificò. La conseguenza fu immediata: l’angusto ed equivoco teatro di varietà non potè più bastargli; le sue ali reclamavano un volo più alto e più lungo. Il teatro di prosa lo attirava: il passo era difficile e rischioso, non solo per le complessità di ordine artistico, ma anche per quelle di attuazione pratica: la passione seppe superare ogni ostacolo.
5. L’idea di far rivivere la vecchia commedia paesana, che della sua città ritraesse usi e costumi era troppo invogliante: l’antico sangue, di parecchie generazioni di comici, sì ridestava in lui rinnovellato. La grande abiura, così, venne fatta senza rimpianto: ed entrò in una costellazione di astri di ordine superiore.
6. Il compito si presentò arduo: oltre tutto, doveva crearsi un repertorio adatto per il suo temperamento. Le sue prime produzioni, più che delle organiche opere d’arte, sono, direi, altrettanti numeri di attrazione legati da un sottile filo. A poco a poco però, si fanno più complesse, diventano macchiette, impressioni, che colgono, con la rapidità di un’istantanea, un episodio della vita. Contorno indispensabile: canti, suoni e colore locale.
Della commedia non hanno ancora nè l’unità nè la sostanza, nè l’organicità, nè il profondo studio delle anime. C’è l'impronta visìbile d’un ingegno acuto e pronto; c’è studio ed osservazione; c’è disegnato, a linee rilevate, la figura d’un eventuale protagonista, ma il resto è opaco ed impreciso. Viviani autore, prepara a Viviani attore un canovaccio, che la parola colorirà e la mimica completerà.
Tali opere, però, portano un male originario: la ricerca dell’effetto: la insistenza dei motivi musicali che a-prono e chiudono quasi sempre gli atti. Viviani è sotto l’incubo del suo passato: nè può staccarsene d’un colpo: ciò sarà possibile solo con un processo di continua analisi e disciplina artistica. Ma per la sicurezza del suo avvenire dì autore, chè l’attore può dirsi completo, c’è l’ultima sua commedia: Circo esquine; pietra basilare che promette una serie di lavori comici e drammatici dal respiro ampio e durevole.
7. Se quelli numerati sono i necessari errori di un artista che tende, oramai, con moto irresistibile, alla più lontana mèta, non bisogna dimentica- ; re le fatiche intellettuali e morali a cui quest'uomo si è sottoposto per un sogno d’arte. Viviani à disprezzato i facili trionfi e i lauti compensi per un bisogno prepotente e per una fede grande. Come commediografo è un osservatore attento e preciso: il mondo napolitano è come in realtà i suoi occhi l’hanno osservato: riproduzioni così attente e cosi scrupolose, di persone e di luoghi, ce l’hanno saputo dare Salvatore di Giacomo e Ferdinando Russo.
Difetti e pregi sono personali. Certo l’esperienza di palcoscenico è difficile ed aspra. Ma sin da ora si può dire che Raffaele Viviani è un grande artista perchè nella sua arte tutto tende ad un continuo superamento. Non si ferma: sa bene che la perfezione è irraggiungibile, e la perfettibilità richiede una severa disciplina.
Alfio Berretta, «Corriere Emiliano», 28 giugno 1931
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Alfio Berretta, «Corriere Emiliano», 28 giugno 1931 |