Raffaele Viviani, poeta

1932 Raffaele Viviani 1

Raffaele Viviani è rimasto attaccato ai ricordi della nostra prima giovinezza col suo teatro sintetico, multiforme, scintillante di luci e vivido di colori, già teatro anche quando era composto esclusivamente di tipi staccati, indipendenti fra loro. Ogni sua nuova fatica ci dava una gioia nuova, ogni sua rappresentazione ci dava la misura delle sue molteplici possibilità — come autore c come interprete — e qualche volta, perfino ci sbalordiva. Artista personalissimo c autore di teatro coloritissimo, egli ci dà — ora — una poesia pittorica perfettamente intonata all'ambiente dal quale tutto il suo teatro deriva.

Questa sua «Tavolozza», (poesie in dialetto napoletano - editore Mondadori, 1931, - lire 15) ha elevato a lirismo le sue osservazioni e i suoi sentimenti, ma è la stessa che ha elevato il «macchiettista» ad attore e ha dato al suo teatro — in dodici anni di lavoro che non conosce stanchezza — i tipi più caratteristici delle sue commedie da «O vico» a «Circo equestre Sgueglia», da «’A marina e' Surriento» a «’O spusalizio», da «D. Giacinto» a «’O masto ’e l'arsenale», da «Nterra 'a mmaculatella» a «Porta Capuana», da «Piscature» a «Napoli in frak», da «’A cantina 'e coppo 'o campo» a «’O guappo 'e cartone».

Coerente e fedele alle bisettrici del suo pensiero artistico ormai profondamente tracciate, egli ha fatto seguire a un teatro di colore, felice riproduttore di tipi c di ambienti nostri (un teatro che è difficile poter immaginare disgiunto dalla sua persona perchè è 'suo, completamente suo), una poesia essenzialmente pittorica che s'inquadra perfettamente nel piano regolatore della sua costruzione artistica.

Il libro s’inizia con la celebrazione della festa di Montevergince ed è logico che abbia colpita la sua fantasia e tentata la sua vena questa festa così ricca di colore e di situazioni movimentate. Sono undici sonetti: undici momenti, undici sensazioni, undici quadri.

Si capisce subito che il libro tende, a un pubblico più largo e cerca comprensioni oltre le mura partenopee perchè l’autore ha ritenuto necessario tradurre letteralmente tutte le sue poesie oltre che far precedere da un commento esplicativo i sonetti di Montevergine» e di «’A Galleria» e gli ottonari d’ «’A cantata ’e pasture» e di «’E pezziente e San Gennaro».

Non mi è possibile lodare questa sua iniziativa. Il commento va bene,, ma la traduzione letterale, no: un glossario, nella sua sobrietà limitato alle parole e alle frasi tipicamente napoletane che non richiamano alla mente il corrispondente concetto italiano a chi non sia addentro alla nostra parlata dialettale, avrebbe sostituito più vantaggiamene la traduzione letterale che non sempre è elegante.

1932 03 06 Kines Raffaele Viviani f1

E poi, nel commento stesso, era bene avvertire che la festa di Montevergine e i Pezzenti di S. Gennaro, così come l'autore li fa rivivere nelle sue strofe, sono parzialmente sorpassati e fanno parte di un bagaglio tradizionale che non trova riscontro nella realtà presente e andranno rapidamente a tener compagnia al fasto notturno di Via Toledo, a D. Antonio 'o cecato, alla Cava dei vergini, al falso guappo e al falso scugnizzo mangiamaccheroni, tutte cose definitivamente scomparse come appare, del resto, da una sua bella opera di teatro, «Napoli in frak» che Viviani ha portato trionfalmente in giro su tutti i palcoscenici d'Italia e sulla quale — anzi — ha imperniato in America una battaglia politica facendo della sana ed efficace propaganda a Napoli e al Fascismo che ha dato a questa città più volte millenaria un nuovissimo volto.

Ancora oggi, nei giorni della Pentecoste e del Settembre dolcissimo, migliaia di pellegrini e di pastori convengono alla cima del Partenio da tutti i paesi circostanti.

Ancora oggi si parte all’alba dai vicoli popolosi della Sanità c del Borgo Loreto per la montagna sacra a «Mamma Schiavona» in comitive caratteristiche come i quartieri dai quali i gitanti provengono. Ma non piu in carrozze a due maritici si parte, nè le carrozze sono tirate di morelli focosi c da bai velocissimi, infiorali e bardati con ricche cinghie e briglie tintinnanti di campanelli giocondo. L’automobile livellatrice ha soppresso tutto questo fasto magnifico del quale non rimane che una lontanissima idea nei vestiti standardizzati — forma e colore — dei gitanti.

Non più spari di bombe carte ne annunciano la partenza, svegliando echi improvvisi e profondi nei vicoli affollati di gente sonnacchiosa e festante e facendo rintronare paurosamente le case. Come non più, al ritorno, l'arretenata che concludeva fantasticamente questo rito più epicureo che cristiano. Ma, a parte questa precisazione cronologica, quanta vivacità e quanto colore in questi undici sonetti che ci fanno rivivere effettivamente con le lóro impressioni vivacissime, l’orgia festaiola di questa folla così varia c interessante!

«O ciardenielio» non è una semplice costruzione di parole rimate perchè questa cantina ti balza viva dinanzi, col suo proprietario affaccendato e tu la vedi senz’altro e ti sembra d’esscrci dentro, persino. Più potente ancora è la rievocazione dell'arretenata al Ponte della Maddalena. «O baio d’ò rilurgiaro» si muove veramente, si stacca rapido dalla folla delle carrozze, s’ombra, s’inalbera, salta e si lancia veloce in una corsa pazza che non avrà termine che a piazza San Ferdinando. E insieme col cavallo focoso balza il conducente.

I suoi gesti, la sua forza è viva, diventa reai-' tà vera. Non c’è che da chiudere gli occhi e l’illusione è perfetta. «Primitivamente» è un inno alla vita semplice e sana dei campi; quest’istintivo attaccamento alla terra — nostra madre feconda — che si fa più sentire quanto maggiore è la nausea che ci assale per le finzioni quotidianamente sopportate in città. Sicché la campagna diventa per noi una finestra aperta improvvisamente in una camera dall’aria viziata.

In «Fravecature» si sviluppa e si drammatizza il sentimento di pietà per questi rudi e pazienti lavoratori che all’alba sono già sugli anditi arditamente sospesi nel vuoto e molte volte non tornano a casa la sera c i loro figli continuano ad aspettare muti o piangenti intorno alla tavola fredda, finché il sonno li prende.

Ma dove la tavolozza di Viviani spande a piene mani la sua smargiassa ricchezza di colori è in «Mast’Errico», una tipica coloritura di un vecchio, pittoresco e maleodorante vicolo napoletano, «O pecuraro» è un acquaforte impressionante: un tipo perfettamente reso in tutti i suoi particolari tìsici e morali. «Nchiastiello» sembra che grondi dolore, e lacrime da ogni verso, «Sanguetta», invece, è una trovata ingegnosa che sembra tolta di peso da una commedia brillante tanta è la comicità che nc scaturisce, attraverso un fuoco di fila di battute veramente spassose.

Il duetto fra padre e figlio all’ora del pranzo non mi sembra completamente sincero; è un accorato sfogo in cui l’esperienza paterna ammonisce il figlio a non fare l’ardito e a non battere la strada paterna dallo sfondo glorioso una seminata „di troppe amarezze. Generalmente, il padre desidera vedere realizzato nel figlio tutto quello che di buono è rimasto nella sua vita allo stato di desiderio. Quindi, lo sprona a, maggiori conquiste pur temperandone l’ardore e guidandone l’inesperienza con le massime di saggezza che le prove da lui subite gli permettono di dettare. Mille volte meglio la lotta anche se seminata di amarezze, anziché una vita piatta, oscura, connine, anche se circondata di tranquille comodità! I sonetti «Nguilina», «’À campata», ’O puverielló», «’O pato», «’A mamma», «’E figlie», sono quelli che rivelano maggiormente la potenza di osservazione dell’autore e rendono più comunicativa la commozione che la sua sensibilità poetica gli procura.

Non resisto alla tentazione di riprodurne qualcuno:

«’O pato è ’o capo ’e casa, 'o ciucciariello,
pecche tira ’a carretta d’à famiglia!
’E figlie, a sera, ’o fanno ’na quadriglia,
n’applauso appena sona ’o campaniello.
Chi ’a copp ’a seggia ’p va’ a tirà ’o càppiell,
chi ’o leva ’a giacca e st’ommo se ncuniglia,
nun sape a chi vasà, ’nu lassa e piglia,
addeventa pur’isso guagliuncello!
E che sta scena pricsto ’o fa scurdà
ca tene ’a maglia ’a sotto ch’è spugnata...
— Guè, jatevenne ca s’ha da cagna,
E tutte attuorno 'a tavula, a ruciello,
e quanno ’a caccavella è scummigliata...
appizza ’e rrecchie pure ’o cacciuttiello!
’A mamma è n’ata cosa,
è ’o cerevicllo, l’asse d’a casa, ’o sciato, l’armunia.
E' chella ca cumanna ’a cumpagnia, sta ncapo ’o capo ’e casa, è nu cappiello!
Attuorno tene sempe ’nu ruciello, abbatta a mille cose,
fa ’a Maria, e si nu sbatte pe ’na malatia, v’ascianno sempe l'aco cu ’o rucchiello!
A chi ’nu punto. A chi ’na cera storta.
A chi ’nu vaso, a chi n'avvertimento.
E se capisce ’a mamma quann’è morta, quanno nun ce stacchiù
sta scucciantona ca pare ca t’accide ogne mumento e doppo ’nu minuto te perdona!»

Ma anche gli altri sonetti che seguono, «quanno cumanne tu», «’O priesteto», «’a gerarchia», «’a carta ’e visita», «chi se cuntenta», «l’offesa» e le quartine di «Ommo ’e vine» e il soliloquio amletico «sott’à ’nu lampione» meriterebbero larga riproduzione. C’è in essi, oltre gli abituali pregi di osservazione, un substrato filosofico a volte amaro e a volte arguto che è proprio di questa nostra vita che è ddoce e amara a un tempo.

Qualche parola italianizzante per forza farebbe viene a sparire e a cedere il posto alla vera parlata vernacola; altre volte sembra quasi che la soggezione al pentagramma renda meno felice un’immagine; altre volte una poesia iniziata a grande andatura, con tutte le vele gonfie al vento è costretta a rientrare frettolosamente nel porto, alle prese con le difficoltà.

Ma questi sono particolari che nulla tolgono alla bellezza generale del libro, del quale vorrei fissare come conclusione i versi di «Campanilismo» alla quale sottoscrivo con tutte e due le mani, nella speranza che il senso di solidarietà si sviluppi finalmente fra noi e non solo nel campo artistico in cui più ferocemente si esercita la denigrazione di coloro che, insofferenti di ogni lavoro e di ogni iniziativa, nascondono la loro impotenza nell’assalto al vicino che lavora e infastidisce con la sua attività, ma in tutti i campi dove l’unione delle forze potrebbe farci ritrovare i segni della nostra superiorità.

Gennaro Scognamilio, «Kines», anno XII, n.10, 6 marzo 1932


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Gennaro Scognamilio, «Kines», anno XII, n.10, 6 marzo 1932