Esordi di Raffaele Viviani

1937 Raffaele Viviani f1

E’ possibile dire qualche cosa che già non sia stata detta su l’arte inimitabile, tutta colore, poesia, musica, di questo genialissimo attore ? E, quand’anche, parlandone, non si corre il rischio di esser tacciati da ingenui sfondatoli di porte aperte? Nemmeno a quelli — sono tanti, purtroppo! — che si guardano bene dal varcare la soglia di un teatro di prosa si può pretendere, di «presentare» Raffaele Viviani, giacché costoro, nella quasi totalità, sono assidui frequentatori di sale cinematografiche e, come tali, hanno avuto modo di ammirare l’autore e l’interprete magnifico di quella Tavola dei poveri che, per quanto edito già da qualche anno, rimane sempre uno dei prodotti più pregevoli della cinematografia nazionale.

Pensandoci bene, ci sembra che, tutt’al più, si possa dire qualcosa non di nuovo ma di meno ripetuto occupandoci, anziché della gloriosa maturità artistica di Viviani, dei suoi interessanti esordi, sia come attore che come autore.

I primi passi di attore risalgono per lui quasi all’epoca dei... suoi primi passi. Il piccolo Raffaele non aveva infatti che quattro anni e mezzo quando debuttava fra artisti di legno e di stoppa, in un teatrino di marionette a Porta S. Gennaro. Sue padre era vestiarista teatrale e noleggiava i suoi poveri costumi alle compagniette che agivano nei piccoli teatri rionali. Fra i clienti vi era pure il Teatro delle Marionette ove Raffaele, cantando e ballando con una precisione ed una sicurezza sbalorditive, seppe entusiasmare a tal segno il pubblico che all’indomani in tutta Napoli non si faceva che parlare del «bambino prodigio».

1937 11 06 Corriere Emiliano Raffaele Viviani f1

«La sera di poi — è lo stesso Viviani che racconta — il teatro fu preso d’assalto. Ero il primo bambino che compiva il miracolo di non smarrirsi alla luce delle ribalta: la quale, nonostante semplici e fumosi lumi a petrolio, produceva sempre, anche là un certo bagliore. Da allora non smisi più. Cominciai a farlo per divertimento, poi... mi accorsi che qualche liretta faceva comodo a quei tempi. Ero divenuto l’idolo del pubblico di quel popolare rione, e più ancora l’idolo della famiglia. Per tre anni passai di casotto in casotto, di teatrino in teatrino. Capitò poi una lunga malattia di mio padre, e quello che avevo cominciato a fare per divertimento dovetti continuare a farlo per necessità. Divenni il sostegno della mia famiglia. Ma per poco: chè mio padre morì quando io avevo appena nove anni. E cominciò la mia odissea. Presi a lavorare a cinquanta centesimi per sera: tanto di che sfamare, con molta buona volontà e con altrettanta parsimonia, la minuscola famiglia. Cantai, cantai tanto che la mia vocina a poco per volta si trasformò, ed oggi è diventata rauca e non dissimile molto da quella di un contrabbasso. Ma presto compresi che per fare strada bisognava differenziarsi un po’ dagli altri. E cominciai a scarabocchiare canzoni... Ahimè ! quanti errori di grammatica! Furono proprio quegli errori ad indurmi a studiare. Divenni un autodidatta».

E divenne anche l’autore del suo repertorio. Osservatore acutissimo prese a ritrarre con sorprendente minuziosità di particolari i vari tipi del marciapiedi napoletano. Ogni sua macchietti era una compiuta creazione artistica che mandava in visibilio i pubblici di tutta Italia. Cominciarono i maggiori guadagni e cominciò anche l’interessamento della Critica per questo «macchiettista» che distanziava di mille lunghezze ogni altro che si produceva allora sui palcoscenici dei teatri di varietà.

Ma Viviani mirava più in alto, ambiva a far di più, sentiva in sé la possibilità di dedicarsi ad una forma più seria e più nobile di teatro, sognava di creare un teatro dialettale napoletano diverso da quello popolale a base di camorra e di delitti e diverso anche da quello del famoso Scarpetta, fabbricato sui boulevards parigini ed adattato alla meglio, con qualche sostituzione di nomi, all’ambiente partenopeo.

Il repertorio di cui Viviani aveva bisogno non esisteva. A chi chiederlo? Non c’era che da provare a fabbricarselo. «Don Rafè» provò; e come vi sia riuscito lo sanno bene i suoi innumerevoli ammiratori che ogni anno tengono a battesimo qualche sua «novità».

Quanto commedie ha scritto Raffaele Viviani, dai Vicolo, che comparve nel 1918, a Padroni di banche, nata in quest’anno, che sta ora riportando i primi entusiastici successi e che l’autore considera il suo capolavoro? Soltanto... cinquantotto. Un’inezia! E tutte ricche di movimento, di colore, di comicità saporosa, di delicatissime sfumature, di vibrante drammaticità: di vita.

Mi ecco che siamo già usciti di carreggiata e che stiamo parando fatalmente vasi a Samo. A che può esaltare il talento di Viviani-autore? Per passare poi a vantare le lodi di Viviani-attore? Magari per divertirci a stabilire se quest’ultimo sia più grande dell'altro o viceversa? Tutte porte già spalancate da tempo. Raffaele Viviani è altrettanto grande come attore e come autore. Solamente, la sua personalità di attore è così rilevata che egli finisce col divenire — nessuno se ne abbia a male — autore anche di quei lavori che sul cartellone portano il nome di un altro.

E. Caglieri, «Corriere Emiliano», 6 novembre 1937


Corriere Emiliano
E. Caglieri, «Corriere Emiliano», 6 novembre 1937