Nel mondo qualcosa si chiama Fregoli

1949 08 01 Il Dramma Leopoldo Fregoli intro

Le nuove generazioni forse non lo sanno

Anche il teatrante Leopoldo Fregoli soggiacque alle "magherie" del palcoscenico, posseduto da un numero (il 17); da un fiore (garofano bianco); da un ferro (zoccolo di cavallo).

Fino da quando, ventenne, Leopoldo Fregoli si trovava soldato alla guerra in Affrica, ebbe in odio il numero 17. Il ferro da zoccolo di cavallo, contro la iettatura, che portava inguainato alla cintola, e il garofano o simile flore bianco, che ogni mattina, fresco, di qualunque stagione, s’infilava all'occhiello, entrarono, dopo il numero 17, a prendere abitudine quotidiana, e devota superstizione nella vita di Leopoldo Fregoli.

Le tre pecche: il numero 17, il flore bianco e il ferro calamita della fortuna, stregonerie queste, furono il solo acquisto di Fregoli, nel mondo teatrale. La prima: odio al numero 17, già, subito: neofita sulle tavole improvvisate a palco, alla festa del reggimento. E più tardi le altre due: (il flore e il ferro) tra la gente di palcoscenico vero. E’ un «credo» quello delle malìe : cose che portano male. Giorni nefasti. Numeri malefici. Incontro di cavalli neri, di gobbi e di preti. Il «malocchio», insomma: è credulità, a cui nessun teatrante si sottrae. Così, anche Leopoldo Fregoli alle «magherie» soggiacque, posseduto da un numero, da un flore, da un ferro. Tre manìe, che per altro, non portavano danno al prossimo. Chè mai Leopoldo Fregoli avrebbe perseguitata una creatura umana, individuata cerne jettatrice. Sortilegi dunque innocenti, appresi al suo nobile giovane cuore, nel momento stesso in cui il caso rivelava all’allegro fante in Africa una passione, una vocazione, un destino.

Istinto, scoperta improvvisa in sè di possibilità ignorate, fino a 'farsi maestro e inventore, lì per lì. Il suo spettacolo era nato senza ohe lui sapesse, nuovo e gaio, E gaio rimase sempre, di pulita malizia.

E non c’era, nell’uso, un teatro sì fatto. E se c'era (più grossolano che popolare) non aveva dignità d’arte.

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La grazia. La varietà. Le trovate e i modi. Trame di cento personaggi, lui solo attore. L’indiavolata allegria dei suoni di introduzione, al levar del sipario. E la proporzionata voce a contrasto, aperta l’azione: delicata all’accenno dì un canto garbatissimo. L’orecchio felice. La simpatia del sorriso, al primo apparire sulla scena. La persona piccola e magra. Misurato il gesto. Sobrio l’affaccendarsi, come se fosse naturale cambiare all’istante età sesso e ragione, e dialogare con un’intera famiglia, lui solo. E a tutto dare timbro di verità: anche alle voci che vengono dalla stanza accanto, o dalla strada, da lui emesse a bocca chiusa, di soppiatto alla platea incantata. Questo, dai rudimentali accenni in Africa, in breve, nel mondo, si chiamò «Fregoli».

E mestiere e sentimento furono «Fregoli» un tutt’uno a un tempo.

«Ridere, no: sorridere». Mi raccontava ora vecchio. Chè il ridere sguaiato a lui dava noia.

«E anche piangere... ma, poco, poco». Chè Fregoli subito si industriava di sciogliere il nodo, causa delle lagrime, spuntate negli occhi della fanciulla, nel gioco della parte, contrariata d’amore.

Scherzo e benevolenza. Comicità e non offesa.

«Il buffo è in tutti. Specialmente nelle persone serie. Anche la guerra ha i suoi lati, i suoi ” tipi ” ridicoli. Buffi : i superiori in Africa mi furono i primi modelli. Ma io andavo leggero, toccando la ” paura ”, La burbanza, Le ambizioni smodate, Le invidie. Per non scivolare sulle ” foglie di fico ”, mi attendevo, caricavo' un tantino' sul fìsico. E qualcosa trapelava sempre, che faceva sorridere, anche per i vizi umani. I tradimenti amorosi inevitabili all’uomo in società. I difetti taciuti del modello scelto a bersaglio».

«Più dell’età, sono state le calze delle donne ai farmi capire il tempo trascorso».

E si era fermato qui, a Viareggio, in ima casa che aveva un balcone davanti al mare. Non rimpiangeva gli applausi. La sfarzosa vita nelle metropoli che lo avevano festeggiato. Nemico dei rumori, lui, che era stato «lampo» mutevole, cento vitalità in un’ora, andava a piedi, metodico : ogni giorno al tramonto, dalia casa al canale della Burlamacca. E mai desiderò possedere automobile.

Scherzava sulle ricchezze perdute. Parlava degli ultimi dieci milioni, e di qualche «pazzia». E, senza rancore, i ladri che lo avevano derubato li ospitava, occorrendo, come amici scapati di gioventù.

Essendo io in casa sua, di una signora venuta a trovarlo mi disse poi: «E’ la figliola di quell’amministratore che nel Brasile scappò, portandosi via tutto. Cosa vuoi... è ammalato, povero uomo, ha bisogno». Non mi disse altro: capii che lo aveva sovvenuto.

«Sono state le calze delle donne a mettere giudizio al vecchio Fregoli».

Parlava della sua arte come di un mestiere coscienziosamente esercitato per tanti anni. Ma senza vanterie. Senza presumere primati. Anzi, modestamente, diceva :

«L’uomo è scimmia degenerata. Questo me lo disse un filosofo, a Parigi. In quanto alla prestezza, con cui sulla scena mi mutavo di persona, molta era la collaborazione del pubblico... e delle calze nere.

«Non che dormissi, uscendo ” vecchio cadente ” dalla scena e rientrando all’istante "ballerina Ma era una cosa da nulla buttar giù il gabbano, sotto cui, celate, avevo già le calze nere di seta, a coscia. E le brachette con le trine. La parrucca bionda, attaccata al cappellone ornato di struzzo, piccolo come sono, non c’era nemmeno bisogno che l’inserviente alzasse troppo le braccia per infilarmela tutt’assieme in capo.

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«Era, semmai, il seguitare a ” parlottare ” anche dietro le scene, fuori dalla vista del pubblico, che completava l’illusione: e mi faceva apparire ” fulmine ” mentre tutto era normale. Il segreto sta nel non lasciare riflettere gli spettatori. E per ingannare questi nulla è meglio della parola. Non bisogna dare agli spettatori tempo di riflettere, se non si vuole regalare loro la chiave del gioco. Così, la scena vuota, in teatro, e il silenzio sono gli alleati dell’insuccesso. Le commedie francesi, quelle frivole, con le attrici vestite di moda, dove i personaggi entrano ed escono di scena, senza ordine, dalla porta che più convien loro, e parlano parole armoniose senza, distacco di dialogo : che non senti un silenzio. Quelle commedie, dico, nulla ” vuoti di scena ” e nulla ” silenzi ”, non cadono mai. E la moda. La moda, poi, è la padrona degli occhi delle donne. E allo spettacolo che le donne chiama van sempre dietro gli uomini. «Fu la moda, che mi diede il conteggio degli anni. Le calze nere, comuni ai preti, alle ballerine e a tutti i miei personaggi, erano passate di moda. Ora prevaleva il color carne. Il color fumo e l’ambra. I calzoncini delle donne che interpretavo, con le trine a falpalà, avrebbero dovuto cedere alle ” culotte ” resa. Mi guardai allo, specchio: comico sì — dissi — ma ridicolo compassionato, no».

E alla velocità con cui la sua persona si moltiplicava a vista era subentrata una gran voglia di pace.

Si era fatto contemplativo. Su quel balcone, per ore e ore, solo la distesa del mare gli coloriva di altro azzurro gli occhi chiari e buoni. E forse meditava di Dio. Della «velocità con cui l’uomo va dalla culla alla tomba», «dentro la quale — mi disse, — avverrà l’ultima ” trasformazione ” di Fregoli».

«Della carne — risposi. — Ma l’anima?». Non replicò. Ma mi avvidi che in sè cercava qualcosa.

E una sera, dopo il tramonto (quel giorno non si era mosso di casa), abbandonato' il balcone, parve in sopra pensiero di «qualcosa». Scorse il fiore bianco, nell’acqua fresca, nel bicchiere sul comò. Se lo infilò all’ccchiello come se dovesse uscire. E postosi a sedere sulla poltrona, senza gemiti, spirò. Nei giorni di poi, qualcuno passando vide le finestre aperte e il portone ingombro. Salì i tre scalini che dalla strada immettono nell’atrio della casa, ed ebbe lo spettacolo di un rogo funebre, nel giardino, che nel fondo si apre.

Tra un cumulo di minuterie da scena, che il «trovarobe» accantona per corredo alle varie «trame», bruciavano i regoli di legno sonoro dello strumento a percossa di martello di cui Leopoldo Fregoli era stato sonatore virtuoso.

E l’idea, quasi di carne, di quel che adesso bruciava, la davano le truccature di cartone simili al vero, che avevano servito a modificare i connotati del volto. La barba del cappuccino. Le trecce con i fiocchini rossi della educanda «Santarellina». Il parrucchino color carota dell’adolescente al primo amore.

L’erede mutava di casa.

Il furgone dei traslochi, affiancato al marciapiedi, portava il numero 17. E i due cavalli che dovevano trainarlo erano neri di pelame.

Enrico Pea, «Il Dramma», anno XXV, n. 90, 1 agosto 1949


Il Dramma
Enrico Pea, «Il Dramma», anno XXV, n. 90, 1 agosto 1949