Un concentrato di rivista: Ettore Petrolini
Se il romano Leopoldo Fregoli fu — in un certo senso — un intero spettacolo di Rivista, un altro e non meno celebre romano, Ettore Petrolini, fu — per così dire — un concentrato di Rivista. Un giorno — c’è da esserne certi — si creerà la leggenda di Petrolini, il più pirotecnico e il più poeta dei nostri attori di ieri; e in essa, allora, si narrerà probabilmente che quando il piccolo Ettore venne alla luce intorno alla sua culla vegliavano tre belle fate: l’Arte, la Commedia e la Tragedia: ma ad un tratto esse dovettero scostarsi per far posto ad una vecchia fata scarmigliata, baffuta e cenciosa, come la fata Carabosse della Bella addormentata nel bosco, la quale piombò al capezzale del neonato come un uccellacelo di rapina sulla preda. Era la Satira, di cui Arte, Commedia e Tragedia ebbero sempre un po’ paura. Le tre belle avevano insufflato al pargolo i loro doni più preziosi e grazie a loro Ettorino sarebbe divenuto col tempo un grande artista, un irresistibile comico e un tragico eccelso. Ma la vecchia fata dispettosa, i cui incantesimi erano più forti, stese le mani adunche sul bimbo addormentato e mormorò una sua potentissima formula magica. In tal modo il futuro grande artista, il comico irresistibile, il tragico eccelso, sarebbe fatalmente stato soggetto per l’avvenire ai magici ineluttabili voleri della Satira.
In realtà, ora che l'acclamato attore non è più e a noi non rimane che rivangare nel ricordo incancellabile ch’egli ci ha lasciato, ci rendiamo conto che il genio di Ettore Petrolini fu soprattutto, forse anche inconsciamente, un genio satirico. Spifferasse l’assurda filastrocca di Fortunello, dipingesse la pavida ostinazione del turco Mustafà, colorisse i grotteschi stupori del protagonista di 47 morto che parla, tratteggiasse la malinconica amarezza dell’impiegatino nella Sera del trenta, sospirasse la sorridente mestizia del cieco di Cortile, belasse la nonsensistica litania dell’Amor mio non muore, dietro la grande arte di Petrolini sogghignò e sghignazzò sempre la Satira. Era logico che gli inizi della sua carriera fossero incerti: egli portava sui palcoscenici di Varietà una voce nuova, una voce stridula e aggressiva, stravagante e mordente, che lasciava perplesso un pubblico avvezzo a lazzi più bonariamente grassocci e più serenamente gai. In fondo, i comici del teatro di Varietà, al tempo dei debutti petroliniani, non erano che degli ometti ridanciani, i quali si sforzavano di solleticare il pubblico con le piccanti gaiezze del «non adatto per signorine». Ma, tutto sommato, erano gente semplice, come Petrolini, invece, non fu mai.
Non lo era nemmeno da ragazzo, quando — come lui stesso narrava — si divertiva pazzamente a prendere in giro il prossimo, caricandosi sulle spalle una cassa vuota e poi arrancando su per la salita di Via Panisperna come se fosse schiacciato da un peso immane, o unendosi al corteo del funerale d’un ignoto e singhiozzando disperatamente, per il solo gusto birbone di farsi consolare da qualcuno che, al contrario di lui, aveva davvero conosciuto il defunto. Perciò finché l’inesperienza giovanile induce Petrolini a forzare la propria natura e ad esibire sui palcoscenici la comicità semplice della tradizione caffè-concertistica, il successo è men che mediocre. Poi, un bel giorno, scritturato non si sa come in un teatrucolo di Buenos Aires, il mediocre successo si risolve in un aperto fiasco. Gli spettatori argentini hanno — non a torto — l’aria di pensare che è inutile far venire dall’Estero un attore non dissimile dai tanti, dai troppi che hanno già in casa loro. Il giovane Petrolini corre il rischio di esser protestato e di tornarsene in patria con nel sacco nessun peso e molte pive. La prospettiva è per lui come una frustata all’ingegno. La sera dopo — naso finto, parrucca di stoppa, costume di stracci — improvvisa una parodia che doveva renderlo famoso (la caricatura del Faust, «Margherita, non sei più tu») e abbozza la satira dei tanghi mettendo in musica la balorda tiritera di «C’era una volta un piccolo naviglio» (Habia una vez un barco muy chiquito). Il pubblico è sconcertato, sbalordito, ma divertito. E comincia il «fenomeno» Petrolini.
Dal Faust, egli passa all 'Amleto («Ma che voleva Amleto? Io ancora l’ho da capì»), alla Gioconda, a Cyrano di Bergerac. Le sghignazzate succedono alle sghignazzate. Il romanticismo convenzionale è il suo bersaglio preferito. Le «borellerie» dei passionalissimi film muti gli suggeriscono la sublime scemenza dell’Amor mio non muore (lo rivediamo ancora con gli occhi perdutamente bistrati, due cernecchi spinaciosi spioventi sulle spalle, felinamente raggomitolato su una seggiola da cucina, lagrimare sconsolato sulla morte della pulce, dell’elefante, del pesce e dello scarafaggio per poi proclamare liricamente che solo l’amor suo non moriva). Più tardi, ecco i celebri Salamini, dove l’estro satirico di Ettore, pur parafrasando una macchietta del francese Dranem, tocca addirittura i vertici del surrealismo. Il suo «Perchè sì» indignava qualche ottuso e incallito borghese. «Ma che vuol dire?» si chiedono sgomenti i tradizionalisti. E non si accorgono che quel tremendo «Perchè sì» è proprio l’umoristico grido di rivolta contro la tradizione e ne è l’irridente atto d’accusa. Non era possibile che la Rivista non attirasse un comico come Petrolini. E difatti egli costituisce una piccola ma gustosa formazione e porta in giro una serie di rivistine scanzonate e salaci: Zero meno zero, Acqua salata, Contropelo. Ma il testo delle produzioni conta poco. La vera rivista è lui, Ettore. Basta che egli appaia in scena e lo spettacolo si vivifica, si elettrizza, si mette a fuoco. Divenuto celebre, Petrolini esigeva che, quando egli era in scena, su di lui si puntasse un riflettore acceso. Era forse una civetteria. Ma poteva anche essere il bisogno intimo di dar un aspetto materiale a quel che spiritualmente sarebbe accaduto lo stesso. La recitazione di Petrolini era sempre presa nei raggi d’un riflettore, visibile o no. E, a questo proposito, non è male rievocare un aneddoto autentico, sebbene forse conosciuto soltanto da coloro che ebbero la buona sorte di assistere al divertente episodio.
Una sera, a Milano, al «Filodrammatici», dopo l’introduzioncina languidamente pizzicata che preludiava la famosa macchietta di Gastone, Petrolini entrò in scena e il riflettore, che, come di rito, avrebbe dovuto accendersi dal centro della prima galleria, non si accese. Petrolini, senza parere, ammiccò in direzione dell’elettricista preposto all’apparecchio, ma quello o non se ne accorse o era nell’impossibilità di occuparsene. Allora l’attore, che aveva fatto fermare l’orchestra ed era rimasto per qualche secondo immobile, in attesa del raggio rituale, rivolse tranquillamente ma categoricamente la parola all’elettricista:
— Ahò, embè? — gli fece senza sorridere. — Quanno che te decidi è sempre tardi.
Qualcuno, nel pubblico, ebbe un lieve mormorio, come a riscaldamento che all’attore era parso eccessivo, ma quando egli aveva tentato di discutere, s’era sentito rispondere che a norma del contratto le cifre per detti rimborsi, come per ogni altro servizio prestato dalla impresa, erano insindacabili. Ah, si? E allora Petrolini si era appellato all’opinione pubblica e la sera stessa aveva cominciato a trattare a modo suo la questione del riflettore. La sera dopo avrebbe discusso con gli spettatori la tariffa del noleggio del mobilio, poi quella dei servi di scena e così via fino alla faccenda dei caloriferi. Voleva vedere come sarebbe andata a finire. Finì, molto semplicemente, che la quota del contributo per il riscaldamento venne convenientemente ridotta l’indomani stesso e che da quella sera la tariffa del noleggio di quel famoso riflettore fu di sole cinque lire.
Petrolini era così: il suo mondo, la sua legge, la sua società erano il pubblico. Del resto questo suo modo di sentire lo si avvertiva chiaramente quando recitava; nonostante le sue più serie intenzioni, nonostante la massiccia sicurezza della sua arte, egli, a un certo punto, provava la necessità quasi fisica di uscire fuori dal personaggio rappresentato per ridiventare, sia pure per qualche minuto, Ettore Petrolini, e parlare così, da uomo a uomo, al pubblico. Ed erano forse quelli i momenti in cui gli spettatori lo amavano di più. Una commedia di cui egli era l’autore oltre che l’interprete non incontrò il favore della platea e il sipario calò sull’ultimo atto fra vivaci dissensi. Petrolini non s’arrese; venne alla ribalta e chiese al pubblico, al suo pubblico:
— Embè, com’è? Nun v’è piaciuta? A me me pareva che era tanto caruccia! Ma che d’è? È il finale che nun ve va? Embè, lo cambiamo, che c’entra! Ma mica c’è bisogno de fà tanta caciara! N’antro, vorta me chiamate a me dite: «A Petrolì, er finale nun ce piace!». Siamo d’accordo? Allora adesso nun ve riannette, che ve fama er finale in ri un antra maniera !
E dopo essersi brevemente concertato coi propri comici, improvvisò una fine diversa, che forse non valeva gran che più della prima, ma che dopo quella sua inattesa chiacchierata fu accolta con molta simpatia.
Com’era alla ribalta, così era nella vita. Una cordialità burbera e prepotente, tutta d’un pezzo, che non sapeva piegarsi a nessuna ipocrisia convenzionale. Quando il suo nome cominciò a prendere quota nel mondo del teatro e si principiò a parlare della sua personalissima arte con un rispetto nuovo e stupito, non più come di un buffone da Caffè-Concerto, ma come di un attore compiuto, i suoi colleghi del teatro cosiddetto «d’ordine» andarono a giudicarlo con un interesse non esente da una certa prevenzione. Il grande Ermete Zac-coni, recatosi una sera a sentirlo nella celebre caricatura di Amleto, si accorse che il comico in più d’un punto si burlava di lui. Una burla senza malignità, sì, ma alla quale il pubblico rideva enormemente: cosa che, com’era d’altronde logico, all’insigne tragico non fece eccessivo piacere. Il rammarico del collega illustre venne riferito a Petrolini, che lì per lì ne sorrise divertito; ma ecco che, alcune sere dopo, il nostro Ettore, avendo appreso che Zacconi dava un corso di recite in una città vicina, mette in riposo la propria Compagnia e corre in automobile ad ascoltarlo in uno dei suoi «cavalli di battaglia». Alla fine del dramma, quando il grande artista rientra in camerino vi trova Petrolini con gli occhi rossi e il viso smorto:
— Tu m’hai da perdonà! — gli dice bruscamente il creatore di «Fortunello» — Io nun t’avevo inteso mai! Che t’ho da dì? Tu sei un colosso e io so’ un disgraziato!
Dava del tu a tutti, anche a quelli che conosceva per la prima volta; e se per combinazione il suo interlocutore aveva l’aria di formalizzarsi per quell’eccesso di confidenza, Petrolini non si scomponeva.
— Nun te preoccupà: — diceva serenamente — si a te te fà specie er «tu», sai che fama? Tu me dài der «lei» e io te dò der «tu».
A Viareggio, dopo la recita, gli attori di passaggio per la città erano usi di recarsi a una baracchetta lungo la spiaggia. Una sera, intorno ad una gran tavola erano riuniti Dina Galli, Fregoli, Gandusio, Gastone Monaldi e Petrolini. Mo-naldi, come certo qualcuno ricorda, era il tempestoso interprete di un drammaticissimo e popolaresco repertorio in vernacolo romanesco: Nino er boja, Er più de Trestevere, ’Na serenata a Ponte; tutti i lavori che avevano per sfondo la malavita romana. Non si sa se la cosa fosse proprio vera o se Monaldi amasse farlo credere a scopi pubblicitari, ma il fatto si è che l’attore si vantava di essere stato veramente in gioventù uno di quei «bulli» che egli raffigurava in scena con tanta evidenza: ed era anzi suscettibilissimo su tale argomento, offendendosi a morte se qualcuno metteva in dubbio quei suoi burrascosi trascorsi. Petrolini lo sapeva e si divertiva a stuzzicarlo.
— E piantala! — badava a ripetergli. — Qua senio fra amici, fra colleglli... Nun ci hai bisogno de raccontacce tante frescacce! Di’ la verità: tu, la teppa romana, manco sai dove sta de casa!
Il buon Monaldi s’inalbera, straluna i grossi occhi a palla:
— Nu’ lo so? — tuona. — Nu’ lo so? È robba che a Trastevere a me me chiamaveno Toto er bojaccia! Le vorte che me so’ trovato a dovè da fa’ le condiate manco se contano ! Ci ho ancora li segni delle cicatrice!
E impetuosamente, melodrammaticamente, com’era suo stile, Monaldi si sbottonò la camicia e mise a nudo il vasto torace, che effettivamente appariva solcato da quattro o cinque cicatrici di arma da taglio. Tutti i commensali tacquero, un po’ impressionati dallo spettacolo. Ma nel silenzio si udì la voce scanzonata di Petrolini che commentò con un bel simulato tono di stupore:
— Ma ce le hai prese sempre!
Umorista nato, aveva il dono di una comicità esasperata ed esasperante; pure, negli ultimi tempi il suo estro corposamente faceto s’era venato d’una curiosa malinconia: una malinconia della quale pareva volersi testardamente far gioco e che tuttavia non riusciva a soffocare. Una sera, a Milano, nell’uscire dal caro vecchio Savini dopo il teatro, un gruppo di attori e giornalisti si arrestò dietro il Duomo ad ammirare le prodezze dello «Sciuscià». Era costui un ex funambolo mezzo alcoolizzato, che a quel tempo girava di notte per Milano e offriva ai passanti una specie di spettacolo di fachirismo, mangiando stoppa accesa e sputando fuoco e fumo. Aveva il naso e il mento bruciati dalle fiamme, e quel viso già teschio che vomitava vampe come un dannato aveva qualcosa di macabro.
Petrolini s’era fermato a guardare con una strana espressione nell’occhio intento. Qualcuno gli chiese che cosa mai trovasse di tanto attraente in quella ripugnante visione. Sorrise, senza allegria.
— Quel poveraccio — disse pensoso — io me lo ricordo quando era in Varietà. Siamo stati parecchie volte nello stesso programma.
Proseguì in silenzio il cammino. Ma ad un tratto Petrolini si fermò di nuovo:
— E poi, perchè «poveraccio»? — mormorò come fra sè. — Intanto lui vive ancora... E io, chissà se arriverò alla età sua...
Non ci arrivò. Nell’estate del 1935 un attacco di angina pectoris (era il secondo, il primo l’aveva colto a Torino, sei anni innanzi) lo inchiodava a letto. Troppo intelligente per non capire che tutto ormai era finito, Petrolini si ostinava caparbiamente a ridere del suo stesso male. Il demone della satira non l’abbandonò neppure in quei suoi ultimi giorni. Definiva sogghignando il proprio stato con una di quegli arditi traslati che erano le gemme più sfavillanti del suo umorismo: «Io mica sono malato. Macché. Io sono l'Upim delle malattie».
E due giorni prima di entrare in agonia scrive sul diario questa quartina nella cui risata sardonica pare di sentire tremare un singhiozzo disperato:
Che tragedia da ridere
questo nostro soffrire!
Uno nasce per vivere
e vive per morire...
"Guida alla rivista e all'operetta", Dino Falconi - Angelo Frattini, Casa Editrice "Accademia", 1953