Angelo Musco, impressioni d'America
Per noi isolani, l'America è una specie di succursale della Patria. Ci sembra vicina perciò e vicinissima all’anima nostra. Ne abbiamo sentito parlare, fin da ragazzi, da quelli che ci erano stati, da quelli che si preparavano ad andarci, dai parenti di quelli che cerano. La vediamo tutti attraverso le fotografie di quelle case delle mille finestre, che sono appese nei salotti e raccolte negli albums la conosciamo attraverso i discorsi di chi l’ammira e di chi la denigra, descritta e colorita dalle frasi epistolari che le comari si comunicano. Neppure lontana — e l’ho già detto — ci sembra: «Marinari siamo» e i marinari trattano gli oceani con una certa familiarità. Ognuno di noi, il più umile di noi non ha la speranza, nè il desiderio, nè la probabilità di vedere un giorno o l’altro, l’America: ne ha la certezza. Ecco perchè quando si cominciò a discutere di attraversare il gran mare, non me ne meravigliai punto. Mi sembrò una tappa naturale del mio cammino attraverso il mondo. Avevo l’impressione di correre incontri ai miei fratelli d’America. Non mi accinsi alla parranza animato da propositi di guadagni straordinari. Si sa abbastanza che nor ne avevo bisogno. Guardavo più alto e pii lontano. Immaginavo tutti i miei fratelli di laggiù, protesi verso la grande Madre, desiderosi di qualche cosa e di qualcuno che alla Madre avvicinasse il loro cuore.
Man mano che si appressava il giorno della partenza, venivo assalito da dubbi, da improvvisi scoramenti, da presentimenti non lieti... Sì, da presentimenti non lieti. Se il quadro che mi ero formato nel cuore fosse stato diverso da quello che mi aspettava? Se qualche delusione avesse potuto turbare l'anima mia?
Il viaggio rasserenò il mio spirito. Fu allegro. Tutti i miei viaggi sono allegri. Ho con me, sempre, le persone che hanno la potenza di allontanare ogni triste pensiero, di spianare ogni ruga del mio volto: la mia famiglia, i miei figli, mia moglie. Mi avvicinavo all'America sempre più sereno e tranquillo.
Fu una traversata eccellente: ed i successi della Compagnia Siciliana cominciarono a bordo: si rappresentò una sera, in un teatrino improvvisato nel gran salone del «Roma», la commedia di Sante Savarino: Don Gesualdo e la ballerina. Rare volte ho avuto un pubblico così attento e vibrante, così elegante ed espansivo! Non dimenticherò mai quel successo che aveva per me un significato di continuità... dall'una all'altra parte del mondo, come non dimenticherò le accoglienze che io e i miei compagni avemmo in quel colossale transatlantico.
Ho già detto che fin da ragazzo pensavo che sarei andato in America; ma certamente quando nella prima mia giovinezza aprivo l'anima ai sogni cercando il sonno sulle panchine di una piazza di Catania (un hótel che assai si conveniva alle mie possibilità finanziarie), non avrei pensato ad un albergo navigante di questo genere: mi vedevo allora, come viaggiatore, nella promiscuità di una terza classe, o, magari, passeggero clandestino attaccato alle costole di qualche marinaio per compensare con un po' d'aiuto al suo duro servizio, la chiusura di un occhio al momento deill'mbarco.
Invece... la vita non è poi così ingrata come si dice.
Ma voi mi chiedete le mie impressioni d’America. Che peccato non essere uno scrittore! A voce mi sarei fatto intendere meglio. Avrei potuto utilizzare qualcuna delle mie risorse di attore. Ma di fronte a un foglio di carta bianca non so essere che eccessivamente sintetico. L'America mi ha sbalordito. I siciliani — dicono — hanno l'immaginazione fervida. Eppure io siciliano — e come siciliano! — devo confessare l'assoluta inferiorità dell'immaginazione riguardo a questo Paese. Le capitali europee sommate fra loro e moltiplicate per dieci possono forse aspirare a rendere l'idea della complessa e grandiosa vita new forkese. Tutto sembra ingrandito, ampliato, dilatato in questo paese maraviglioso e tutto maravigliosamente regolato.
Queste mie impressioni sono impressioni tutte esteriori. A guardar dentro all'organizzazione ci sarebbe da scoprire... Ma il discorso si farebbe troppo lungo.
Le accoglienze di New York sono state grandiose: il mio amministratore Giovannino Grasso (junior, come egli vuole si chiami), che ha sacrificato il suo avvenire di attore per dedicarsi all'organizzazione delle mie «tournées» mi aveva avvertito delle feste che mi si preparavano. Ed io, come italiano e come artista, ne ero soddisfatto. Ma le cose presero una proporzione allarmante. Banchetti, ricevimenti, offerte di medaglie, testimonianze pubbliche e private di ammirazione e di stima. Un gradito facchinaggio, ma un facchinaggio. Ho portato dall'America un medagliere di parecchi chilogrammi. E alle mie interpretazioni applausi a iosa, non soltanto a New York, ma in tutte le città nelle quali sono successivamente passato.
Giacché ho parlato di medaglie, questo, del successo artistico, sarebbe un lato della medaglia. C'è poi un altro lato che non deve essere ignorato.
Molto c’è da fare in favore dei nostri fratelli che vivono laggiù, un po' isolati, non sufficientemente considerati, e, soprattutto non ambientati. Il risveglio iniziato è ora nel suo perìodo di sviluppo. La compagine della colonia italiana d'America sarà saldata, ed essa farà sentire la potenza e la generosità del suo respiro. Io mi propongo di ritornare in America per realizzare quel programma che ho dovuto interrompere questa volta: passare dalla Florida, all'Avana, al Nicaragua, al Venezuela, al Panama per giungere a Lima, a Santiago, a Rio Janeiro, a Buenos Aires. Considero questo mio progetto come un dovere d'italiano e di artista.
Devo inoltre far noto una inferiorità delta quale soffrono i nostri che si recano in America. La cosi detta libertà in materia di diritti d'autore è un vero attentato alla dignità dell'arte ed è lesiva degli interessi più giusti. Io ho trovato, ad esempio, quasi per intero il mio repertorio sfruttato da tutte le piccole compagnie che battono i teatri dei sobborghi. Ma che dico: sfruttato! Questo sarebbe ancora nulla. L’ho trovato addirittura straziato in rifacimenti idioti, in adattamenti bestiali. E mi son trovato lì — di fronte all'irreparabile — con le mani legate, senza poter protestare, senza una possibilità di giusta reazione.
Non c'è chi non veda, per poco che conosca il teatro, la gravità di una situazione di tal fatta. Io non vedo come si possano realizzare utili manifestazioni dell'arte italiana in America, senza aver regolato, con opportuni accordi con le autorità americane, anche questa materia. C'è, insomma, qualche piccola cosa da fare prima di ritornare in America, dove c’è tanto cuore italiano che aspetta con fede.
Angelo Musco, «Comoedia», anno X, 15 giugno 1928
Angelo Musco, «Comoedia», anno X, 15 giugno 1928 |