Il cuore di Pasquariello
Creatore di "Ninì Tirabusciò". A Londra si sarebbe potuto mantenere cantando ogni sera "Marechiare" solo "Marechiare" - La sua vita eccola in sintesi - Piacque a Caruso, Puccini e Toscanini
Queste, probabilmente, sono le ultime confidenze fatte da Pasquariello ad un giornalista «settentrionale»: ad uno, cioè, che in un’intervista chiedeva parole precise, fatti e date con tanto di riferimento ad un preciso calendario, e non solamente misteriosi ammiccamenti, muta telegrafìa delle pupille, l’alfabeto dei gesti delle dita e dei tentennamenti del capo. Sviluppo appunti a matita di tre anni or sono, ora che il mite e un po misterioso vecchietto è morto. Ero stato a trovarlo perchè s’era parlato, con un po’ di apprensione, della sua povertà, e di una sua quasi singhiozzante richiesta di aiuti. In verità, la sua povertà, in confronto a quella di tanti casi napoletani, era quasi una modesta agiatezza. Come un personaggio di Eduardo De Filippo, il vecchio cantore viveva tra i «fantasmi» di una miseria che era solamente nelle sue immaginazioni. Pudicamente, ad un «settentrionale» Pasquariello non parlò di povertà nè di miseria. Mi parlò della sua vita.
Il giorno prima avevo letto in un giornale napoletano che Gennaro Pasquariello non avrebbe rifiutato di cantare ancora, a ottantatrè anni. se qualcuno avesse organizzato per lui, a Napoli, una di quelle «serate in onore» che qui sono ancora in uso quando si vuole festeggiare un vecchio artista e quando, soprattutto, si vuole trovare un modo amichevole e dignitoso per dargli un po’ di aiuto. A quanto potei comprendere — non era facile capire Pasquariello: l’età era tarda, la parola era qualche volta incerta e qualche volta si aveva l’impressione che il vecchio artista preferisse tacere quando non voleva rispondere a certe domande — una di queste «serate» era stata organizzata due o tre anni fa, ma capii anche che un «bis > non gli sarebbe dispiaciuto: una serata nella quale avrebbe dovuto essere rievocata, anche con la presenza dei pochi suoi superstiti, l’epoca d’oro della vecchia canzone napoletana, quando, nei primi anni del secolo, Napoli era la «capitale del café-chantant» Ma di essere disposto a cantare anche lui, Pasquariello non mi parlò: nè io lo chiesi al vecchierello quasi cieco e vestito a lutto che mi stava davanti, seduto in una poltroncina di acajou del suo vecchio studio arredato con mobili stile liberty.
In ogni modo, se non per il pubblico. Pasquariello. quel giorno cantò per me. Non mi cantò una canzone intera: e certamente non aveva voluto nemmeno darmi la prova di essere ancora in possesso di almeno una parte di quelli che erano, un tempo, i suoi mezzi vocali. Gli domandavo quali erano state le sue canzoni preferite e lui, fra i titoli delle molte migliaia che aveva cantate nella lunghissima carriera — la parola di gergo non è «cantate»: è un po’ più ampollosa: è «create» — ne andava indicando qualcuno, come quelli di Nini Tirabusciò o di Signorinella pallida. Altri titoli restavano, per me. oscuri. quasi appartenessero alla preistoria, e addirittura alla «età della pietra» dell’antico variété: titoli che non mi dicevano nulla, che non mi suggerivano nessun ricordo. Quando Pasquariello. dalla sua poltroncina, parlò di Sirena, e tentennò con il capo come per dire che Si-rena era forse, dopo Marc-chiare, il suo più bel ricordo canoro, il mio silenzio gli fece comprendere che quel titolo si aggiungeva al passivo della mia estrema ignoranza. Allora, a mezza voce, con un quarto, con un’ottava di voce, accennò il ritornello:
«Quanno 'a luna affaccianose 'a cielo
passa e lluce e int' all'acqua
se mmira...».
I versi sono di Salvatore di Giacomo: la musica di Vincenzo Valente. La voce del vecchio «divo della canzone» sembrava lontana lontana, ma non era nè tremula nè roca. Cantando, egli volgeva verso me gli occhi quasi bianchi, gli occhi che quasi non vedevano. Sciolse le mani, che durante tutta la conversazione aveva tenute stancamente intrecciate in grembo, e ripetè il gesto che — me lo aveva detto la sera avanti Gaspare Casella, principe dei librai antiquari napoletani, depositario di tutti i segreti della vita partenopea lungo l’Interminabile scala che porta da Benedetto Croce ad Antonio Petito. da Gennaro Pasquariello a Eduardo De Filippo — può essere considerato, nella sua semplicità, fondamentale della mimica di Pasquariello, e di quella sua «arte del porgere» che incantò per mezzo secolo i pubblici: il gesto ottocentesco di indicare il cuore, di toccare il cuore come per dire: «Non sono le mie labbra che cantano: ma è lui, il cuore...».
Questo richiamo, con un gesto, al cuore — il gesto come di raccogliere e di porgere un misterioso flore che apra lieve i suoi petali nella musica — fu «la scoperta» di Pasquariello. quando aveva vent’anni. Fu la scoperta del canto «sommesso», del canto appena appena schiuso, fatta da un cantante che voce non ne aveva molta, e che, non sapendo «urlare» le sue canzoni, doveva imporsi con una nota di gentilezza melanconica. Il richiamo al «cuore» era il richiamo agli antichi valori dell’elegia fatto da un cantore che fu anche interprete di canzoni gaie, e per questo gareggiò, nelle «macchiette», con Nicola Maldacea e Peppino Villani, e cantò persino travestito da donna, ma che, soprattutto, fu un cantore di amore. Era il tempo delle «divette» dai fianchi baldanzosi e dal «colpo d’anca» procace: il tempo della «mossa» contro la quale i prefetti del tempo emanavano draconiani divieti. Pasquariello preferiva il gesto della mano che raccoglie la misteriosa musicalità, il morbido e doloroso canto del cuore che palpita. «Avevo — dice — bisogno di sentire le parole prima della musica, e dovevano corrispondere alla mia melanconia: altrimenti non mi piaceva di cantarle...».
A Pasquariello era accaduto il contrario di quanto, tanti anni dopo, doveva accadere a Erminio Macario che, lasciando ragazzo Torino con una Compagnia di guitti che andava recitando negli stanzoni delle «cooperative» nei paesi lungo il Po, sino al Polesine, parti convinto di aver la stoffa dell’attore drammatico, e. tornando a casa qualche mese dopo senza un soldo — gli ultimi cento chilometri li percorse a piedi — si rese conto di essere, soprattutto, un «comico». Pasquariello sognò da ragazzo, quando lavorava da sarto nella bottega del padre in via Duomo, di diventare un attore comico. Recitava con i filodrammatici del rione, e alla fine riuscì a farsi scritturare da Giuseppe De Martino e da Davide Petito, fratello del famoso «Pulcinella» Antonio Petito. Pasquariello sperava insomma di diventare, negli ultimi anni dell’Otto-cento, un bravo «Pulcinella». Solo più tardi, passati i vent’anni, «scoprì» che la natura l’aveva fatto nascere per la canzone da cantare «suspiranno»: e, da allora, continuò a «sospirare» per sessant’anni.
Era ancora sconosciuto
A ventotto anni Pasquariello, nel 1898, era ancora uno sconosciuto, In quel mondo del café-chantant in cui, anch a Napoli, dominavano gli elementi del ra* neté straniero incominciando dalla Bella Otero e da Cléo de Merode. I suoi «sospiri» canori il figlio del sarto di via Duomo andava a distribuirli nei teatrini del porto e nei «circoli * di periferia. La miseria era grande, ma il coraggio era altrettanto grande Un giorno Pasquariello si tece, di punto in bianco. «direttore» di una Compagnia di nomadi, una dozzina di persone, uomini e donne, giovani come lui e come lui disperati e affamati, ma invasati dal «sacro fuoco».
«Ci eravamo proposti — raccontò Pasquariello — di girare per tutti t paesi vesuviani recitando commediole e farsette. cantando canzonette. eseguendo duetti e balletti Un po’ di tutto: tragedia 2 commedia, musica e mimica, camorra e romanticismo Passavamo di paese in paese, camminando dietro ad un carrettino sgangherato tirato da un ciucciariello. Sul carrettino era caricato un pianoforte, e sulle stanghe del carretto sedevano la prima attrice, l’attrice giovane e la «romanzista» delle canzoni. Noi. uomini dietro, a piedi... Si arrivava nei paesi, e, dopo aver data una bella spazzolata alle scarpe, mi presentavo al sindaco per chiedergli l’uso di una sala qualunque dove poter recitare Quando non ce la concedevano — forse perchè eravamo troppo male in arnese — ci accontentavamo del vano di un portone, dell’atrio di una casa: ci bastava il cortile di una scuderia. Il palcoscenico lo montavamo noi, con qualche tavola chiesta a prestito da un falegname, o accostando i tavolini di una osteria. Una volta, in mancanza di cavalletti, collocammo le assi su un gruppo di botti. Dopo una tarantella le assi si erano spostate; e quando io salii sul palcoscenico per cantare, una tavola, che appoggiava appena appena sull’orlo di una botte, cedette. Cascai dentro il barile...».
Attori e cantanti lo amarono
A Napoli furoreggiavano le chanteuses francesi o pseudo francesi, e Pasquariello non riusciva a trovare un palcoscenico più solido di quelli istallati sui barili delle osterie vesuviane. Decise di tentar la fortuna a Milano e trovò una scrittura per il «variété familiare» — si chiamava proprio così — di un teatrino di via Unione, condotto da una certa vedova Verri. La paga era di cinque lire giornaliere, con l’obbligo, però, di consumare uno dei due pasti nella trattoria annessa al teatrino. Alla prova di «audizione» la vedova si mostrò molto perplessa. Diceva: «Come pretendete di farvi sentire con quel filo di voce mentre i camerieri servono i gelati e gli spettatori gridano per farsi portare una birra?». Pasquariello si raccomandò a San Gennaro, prima di venire alla piccola ribalta, davanti ai tavolini del caffè. Davanti agli occhi era un continuo passar di camerieri, e la vedova Verri, da dietro al banco. guardava con occhi severissimi, prevedendo la catastrofe.
«Cantai — dice — con tutto il cuore: ma i miei sospiri eran dedicati, soprattutto, alla paura di essere protestato. Mi vedevo già, all’indomani, ad aspettare un treno per Napoli, sotto la tettoia della vecchia stazione. Ma, mentre cantavo, mi avvidi che i camerieri non si muovevano più e che una signora, davanti a me, era restata col cucchiaino del gelato fermo a mezz’aria. Dopo lo spettacolo la vedova Verri, che era una brava donna, mi disse che, per tutta la durata della scrittura, mi offriva, mi regalava il secondo pasto della giornata...».
In poco tempo, in pochi mesi si era aperta la via dei trionfi. Alla sera, quando viene alla ribalta. Pasquariello riconosce qua e là, nel pubblico. Zacconi. Virgilio Talli, Oreste Calabresi. Ermete Novelli. Nel mondo del teatro si è sparsa la notizia che la canzone napoletana ha trovato il suo grande interprete. I primi ad amare Pasquariello sono gli attori di prosa: poi è la volta dei cantanti: Armando Falconi accompagna nel camerino di Pasquariello Gemma Bellincioni, a Montecatini sale a trovarlo Caruso, e, dopo cena, faranno a gara a chi «sospira» meglio, il più grande tenore di tutti i tempi e il piccolo baritonello napoletano che ogni tanto si aiuta col falsetto, e che non sa una nota di musica e canta tutto a orecchio. Ecco poi, in platea, Fernando De Lucia ed Arturo Toscanini; ecco, in camerino, il Conte di Torino. Arrivano i primi doni dell’«impresa» per le serate d’onore: ogni volta una medaglia d’oro accompagnata spesso da un biglietto da cento lire. «Un anno, di medaglie, ne ebbi trentasette, e da allora, non potendo più portarle tutte alla catena dell’orologio, mi comprai un piccolo forziere... Tito Ricordi mi portò una sera a cantar Marechiare da Puccini, e Puccini mi regalò un bastone con l’impugnatura d’oro zecchino... Una sera Tina di Lorenzo si staccò una bella spilla dal petto: perle e brillanti... Andai a Londra con Mascagni e Leoncavallo; Mascagni dirigeva la Cavalleria. Leoncavallo i Pagliacci. Io, all'Hippodrome, cantavo le canzoni: nessuno capiva una parola, ma era un particolare senza importanza. Tutte le signore inglesi cantavano allora le romanze di Tosti e avrei potuto fermarmi a Londra con Tosti e vivere solamente cantando ogni sera Marechiare...».
Erano ricordi di mezzo secolo prima, mormorati sfogliando vecchi album, o fermando gli occhi quasi ciechi su antichi «trofei» di lontane serate d’onore: bronzetti di donnine nude che lanciavano baci o di «pescatorielli» napoletani nello stile di Gemito. Il vecchio capiva che per una buona metà i nomi citati nei suoi racconti erano nomi ignoti al giornalista «settentrionale»: titoli di canzoni ormai diventate polvere nell’abisso del tempo. «Come passate le vostre giornate, Pasquariello?». Alla mattina andava un paio d’ore in chiesa: al pomeriggio arrivava, strascicando i piedi, in Galleria, a sentir le «novità», da vecchi amici sempre meno numerosi che. uno alla volta, la morte si portava via. «Alla mia età, cosa volete che faccia? Vivo suspiranno...».
Orio Vergani, «Corriere della Sera», 27 gennaio 1958
Orio Vergani, «Corriere della Sera», 27 gennaio 1958 |