La Rivista muore per non offendere nessuno
Le belle ragazze non la salvano.
Le riviste di questo autunno non hanno fino ad ora incontrato fortuna. Si sa quel che è accaduto al teatro Lirico di Milano alla prima di « Oklabama », allestita da Erminio Macario. Il pubblico aveva manifestato la propria scontentezza in modi diversi, tra l'altro indirizzando un caldo applauso a Wanda Osiris che si trovava tra gli spettatori. Poi la gente, prima che lo spettacolo fosse finito, incominciò ad andarsene; e Macario, dalla ribalta, invitava a rimanere. Deve essere stato un momento amaro per lui, abituato al successo. E l’idea che « Oklabama » potesse arenarsi dopo le prime repliche deve avergli procurato il brivido. Si diceva (e queste voci sono sempre vere, anche se non sempre sono esatte) che l’allestimento dello spettacolo era costato ventisei milioni, vale a dire un capitale che può essere recuperato soltanto se la rivista resiste all'incirca un anno. In quelle condizioni un insuccesso diventava un disastro.
Dopo, Macario è corso ai ripari, furono fatti dei tagli, molte grossolanità di linguaggio, troppo facili o troppo scurrili, vennero eliminate. Così sulle cantonate è apparso un manifesto nel quale si dice che la neve « Oklabama», riparate le avarie del viaggio inaugurale, ha ripreso a navigare in mare aperto. Già adesso il pubblico non diserta il teatro, col tempo si aggiungerà qualche quadro nuovo, e i venti o ventisei milioni non saranno stati sprecati.
Poi è vero che Milano in fatto di riviste ha i suoi partiti, numerosi e spesso più intransigenti dei partiti politici. Gli applausi non sono sempre disinteressati, e non sempre i dissensi nascono da una valuta zione serena. C’è gente, insomma, che alle prime rappresentazioni si dedica con spirito settario a ingrandire gli incidenti, approfitta del nervosismo degli attori e della duttilità del pubblico. Ne sa qualcosa Nino Taranto che l’anno scorso fece questa esperienza a proprie spese. La sua rivista non era peggiore delle altre, come l'ultima di Macario non è peggiore di tante che l’hanno preceduta.
Con tutto ciò, la prima di « Oklabama » deve essere stata un campanello di allarme non soltanto per Macario. E' lecito il dubbio che un certo genere di riviste volga rapidamente al tramonto, che anche spettatori distratti o desiderosi di distrarsi siano stanchi dei luoghi comuni, dei quadri esotici, delle scenette imbastite senza pretesto e di una coreografia che è divenuta fine a se stessa; stanchi perfino delle sfilate di tante belle ragazze che si assomigliano tutte e, quando sono di primo acquisto, non differiscono dalle compagne che le hanno precedute.
Quali sono le ragioni che hanno condotto la rivista in questo vicolo cieco, soprattutto nel Nord? Toccando argomenti come questo è ovvio tirare in ballo Aristofane, ne parlava già Leon Bluin a proposito delle riviste francesi del principio del secolo. Ma sta di fatto che dopo il 1945, passati i primi mesi in cui la rivista sembrò rinfrescata da uno spirito più libero e spregiudicato, s’è assistito a una rapida involuzione, quasi al proposito di non dar fastidio a nessuno e rendere lo spettacolo il più possibile scipito.
Si erano verificate, è vero, intemperanze di spettatori comandati. Tuttavia gli autori di riviste e gli attori non fecero nulla per difendere quello spirilo che sarebbe stato utile rafforzare. Cedettero ai primi contrasti. «Le sinistre divennero tabù, l’ironia e la satira si rivolsero contro la democrazia cristiana senza cattiveria, anzi in modo blando, e il pubblico si annoiava anche perchè sapeva che da quella parte non si sarebbe reagito. Cosi si scivolò su un terreno reazionario, esso pure di maniera, formale più che sentito; e con lo stesso formalismo ci si attaccò a terni di passaggio che potevano suscitare qualche facile consenso. Esistono spettatori i quali, applaudendo dalla loro poltrona una canzone su Trieste o una scena africana, credono di portare un contributo alla soluzione del problema giuliano o alla restituzione delle nostre colonie.
Finalmente ci si convinse che qualunque problema, anche minimo, infastidiva u pubblico, niente di mordente, nè un po’ di sale, nè un sospetto di nostalgia. Meglio puntare sullo spettacolo, sui costumi lussuosi, gli scenari complicati e le belle ragazze. Qualche aneddoto e qualche doppiosenso. questo fa sempre piacere. In tal modo si è veduto che le democrazie possono essere conformìste non meno delle dittature.
E adesso si incomincia a vedere che lo spettacolo ha un limite, che se venti ragazze splendenti o dieci quadri non bastano più, il problema non si risolve aumentando l'esercito delle ragazze nè il numero dei quadri. Si è fatto il vuoto. E se alcuni non se ne avvedono assistendo alle grandi riviste, non hanno più dubbi quando ascoltano le compagnie minori che si sono messe sulla stessa strada senza averne i mezzi. Le riviste del «Mediolanum » durano una settimana, e sono cosi povere da dar senso a uno spirito ginnasiale come è quello di Carlo Campanini. Questi spettacoli hanno tutto da guadagnare a ritornare indietro e a riconsiderare fatti concreti. C’è un esempio non privo di significato. La compagnia di « Sette giorni a Milano » recita con successo da un anno, attingendo periodicamente materia alla cronaca cittadina. E ci sono le compagnie del Sud, come fu l’ultima di Totò. Un attore che tien conto dello spettacolo e che per lo spettacolo rinuncerebbe ad Aristofane, ma che in nessun caso rinuncia al carattere di Pulcinella nè allo spirito di Pasquino.
Raul Radice, «L'Europeo», anno IV, n.43, 24 ottobre 1948
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Raul Radice, «L'Europeo», anno IV, n.43, 24 ottobre 1948 |