"Tiene" fame Gennaro Pasquariello, l'uomo dall'oro in bocca

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Gennaro Pasquariello, il celebre “dicitore” napoletano ormai ottantatreenne, si è rivolto ad un giornale per far sapere all'opinione pubblica il suo stato di miseria.

Napoli, luglio

Tengo fame, disse con un fil di voce Gennaro Pasquariello lasciandosi cadere affranto sulla prima sedia che gli venne a portata di mano nella redazione del Corriere di Napoli. Quelle due sole parole bastarono al vecchio «dicitore» per offrire ai cronisti che lo avevano visto comparire all'improvviso, bianco ed evanescente come uno spettro, un’ultima grande interpretazione della città che lo ha visto nascere, diventar celebre e ridursi allo stremo, nel volgere di ottantatré anni. A Napoli la fame non la si fa, e nemmeno la si sente; la si tiene, invece, con potestà assoluta e irrevocabile, perché quando la miseria ha deciso di bersagliare un individuo, gli entra nei visceri e lo rode dall'interno.

Nessuno avrebbe supposto che una tale sciorte nera potesse toccare anche a Gennaro Pasquariello, ritenuto dai suoi concittadini per oltre un quarantennio «l’uomo dall’oro in bocca», vale a dire un cantante cui bastava accennare una strofa per vedersi piovere addosso gragnuole di quattrini. Nel pomeriggio di martedì scorso, appena il quotidiano partenopeo ebbe divulgata la supplica di Pasquariello, con un titolo di prima pagina che suonava come un’invocazione a lenire una palese ingiustizia sociale, il Presidente Sceiba si affrettò a sottoscrivere centomila lire; i napoletani, invece, cominciarono cautamente a fare i conti in tasca al postulante. Un frettoloso passante sostò dinanzi al giornalaio di piazza Trieste e Trento solo il tempo necessario a sbirciare la notizia; poi riprese il cammino, borbottando: ’O viecchio tene voglia ’e pazzià.

Gennaro Pasquariello passeggia ancora per le vie del centro con un vistoso «tredici» portafortuna occhieggiante da una tasca del panciotto. Don Gennaro con le nipotine nel suo appartamento di otto locali arredato in stile liberty.

Avvenne quindi che la sottoscrizione registrò, in massima parte, le adesioni di grossi enti o di amici intimi del cantante, oppure di persone che non potevano, per motivi puramente formali, astenersi dal parteciparvi. Non figurarono nella lista degli oblatori l'impiegatuccio Gennaro Esposito o la maestà ’e festa Carmelina Zurri-zurri, che sono per la città autentici sismografi della commozione popolare. Prima di versare lacrime a vuoto, la media borghesia napoletana si era, dal suo canto, impadronita per un attimo di alcuni versi del più recente «cavallo di battaglia» portato sulle scene da Pasquariello, e aveva concluso: Mò, si arragiunammo, forse ’o fatto ce ’o spiegammo.

Furono così rivangati i piccanti episodi dell’esasperata tirchieria di Pasquariello: primo fra tutti, quello verificatosi nel lontano 1919, che determinò una clamorosa «rottura» fra il cantante e il poeta E. A. Mario. Don Gennaro aveva bisogno di una partitura della canzone E sbocciano le rose, e si era recato a chiederla a E. A. Mario, supponendo che questi (autore delle parole, nonché editore di versi e musica) volesse cedergliela gratuitamente; non poca fu la sua sorpresa quando l’autore del Piave gli chiese, quale corrispettivo della partitura, il versamento di cinque lire. Pasquariello estrasse di tasca la moneta e, con un gesto di soverchieria tipico dei guappi che egli tante volte aveva impersonato sulle scene, lacerò lo spartito in mille frammenti sotto gli occhi increduli dell’interlocutore. Per tutta risposta, E. A. Mario chiamò uno scugnizzo di passaggio e deponendogli le cinque lire nelle mani esclamò con enfasi: Guagliò, và t’accatta 'e semmente! Era quanto bastava per rompere un’amicizia che si protraeva, affettuosissima, da oltre un ventennio. Per tre anni il cantante spilorcio e il poeta malizioso si negarono perfino il saluto; caddero l’uno nelle braccia dell’altro quando E. A. Mario diede alla luce Canzone appassiunata, un’opera che divenne inseparabile da Pasquariello come la sfuggente bombetta e il minuscolo bastone di malacca.

La proverbiale avarizia di Pasquariello, che ha fatto sempre sogghignare i suoi denigratori, determinò il tracollo finanziario del cantante in questo dopoguerra. Sospettoso verso ogni forma d’investimento men che sicura, don Gennaro aveva tramutato i suoi risparmi (consistenti in poco più di cinque milioni, una somma iperbolica considerando i tempi in cui era stata raggranellata) in titoli di Stato. Quando sopraggiunse la svalutazione monetaria, Pasquariello si accorse di aver costruito un castello di sabbia. Ma la sua situazione non era ancora disperata. Al «fine dicitore» la Società degli Autori assegnò, tuttavia, in considerazione dei particolari meriti acquisiti nella lunga e gloriosa carriera, una sovvenzione mensile di ventimila lire, che egli percepisce tuttora; pare, inoltre, che un Istituto di previdenza gli corrisponda circa diecimila lire al mese.

«Gesù, e che altro vorrebbe?», si chiedono, indignati, i più decrepiti attori napoletani che battono le crociere della galleria, in cerca di una scrittura a ottocento lire il giorno. Il fatto strano è che anche i familiari di Pasquariello sono rimasti sconcertati per l’improvvisa «levata di scudi» del loro capostipite. In particolare il figlio Mario, direttore d'orchestra, residente a Milano con la giovane e attivissima prole (Gloria, insegnante; Genni, chirurgo; Elio, magistrato) non riesce a comprendere perché mai don Gennaro abbia deciso di bussare alla porta del Corriere di Napoli.

Forse Pasquariello si è ritenuto «tradito» dal suo pubblico. Proprio nelle scorse settimane Napoli si era impietosita appurando la disgrazia toccata a Mimi Ferrari, che ha preferito imboccare la corsia di una clinica anziché vedere ulteriormente schernita in piazza la sua gigantesca mole «antitelevisiva». A beneficio di Mimi Ferrari è stata organizzata in fretta una serata d’onore, alla quale hanno aderito entusiasticamente le migliori «voci» della città. Mentre tutto questo avveniva, nessuno mostrava d’accorgersi di don Gennaro, vecchio, ma che ancora si fiderebbe di dicere, se lo issassero a spalla sopra un palcoscenico. Pasquariello invano continuava a passeggiare per le vie del centro, col vistoso «tredici» portafortuna occhieggiante da una tasca del panciotto a quadroni; la gente o l'ignorava o lo riveriva come un rudere. Da notare che il vecchio dicitore si ritiene, non sappiamo con quanto fondamento, «imitato» proprio da Mimi Ferrari, che somiglia nella corporatura massiccia e nel gesto parco al Pasquariello dei tempi d'oro.

1954 07 18 Epoca Gennaro Pasquariello f3Immagini del tempo felice: Pasquariello nel 1920, durante il periodo del suo maggior successo. Il suo stile di dicitore era sobrio di gesti, anche per la sua corporatura mastodontica.

1954 07 18 Epoca Gennaro Pasquariello f4Don Gennaro intorno agli anni 1930-1935. Per dissimulare la pinguedine si confezionava egli stesso abiti stringatissimi che gli consentivano solo il gesto di portare la mano al cuore.

Ancora dieci anni fa, infatti, don Gennaro - che nell’adolescenza è stato sarto - mimetizzava la sua pinguedine dentro stringatissimi abiti confezionati con tocco sapiente da lui stesso; e non potendo muoversi a piacimento, se ne rimaneva impalato sotto la luce dei riflettori, avendo appena la possibilità di portarsi una mano sul cuore. Questa straordinaria parsimonia di movimenti, in parte voluta, in parte necessitata, aveva assunto le caratteristiche di uno «stile» contribuendo a portarlo in auge nella reputazione del popolino, ormai stanco di interpreti aggressivi e esagitati.

Un mese fa, anche la moglie ha lasciato don Gennaro, per sempre. Ai funerali, tranne il cantante Vittorio Parisi, nessuno dei vecchi amici si fece vedere, e nemmeno un ammiratore. Pasquariello cominciava a soffrire di solitudine. Ha strepitato, perché voleva vedere per l’ultima volta il suo nome «in ditta», presso l’opinione pubblica.

Luigi Forni, «Epoca», 18 luglio 1954 - Fotografie di Costantino Della Casa


Epoca
Luigi Forni, «Epoca», 18 luglio 1954 - Fotografie di Costantino Della Casa