Toccò a Scarpetta l'eredità di Pulcinella
Il grande attore comico napoletano, che creò la maschera di Don Felice Sciosciammocca, è stato commemorato con un'eccezionale rappresentazione del suo capolavoro “Miseria e Nobiltà”, alla quale hanno preso parte anche Eduardo e Titina de Filippo.
Veramente, s'era sempre saputo che Eduardo Scarpetta fosse nato nell'anno di grazia 1852, quando su Napoli e la Sicilia regnava Ferdinando II. E precisamente il dì 13 marzo. I festeggiamenti napoletani del centenario stabiliscono invece che l’anno di nascita del grande attore fu il 1853. D’altronde la cosa ha scarsa importanza. L'età degli attori (e, soprattutto, delle attrici) è sempre circondata di mistero. In questi giorni d'autunno, sulla facciata della casa di via Vittoria Colonna 4, di dove il magnifico Sciosciammocca sì parati per l’ultima passeggiata in carrozza fino al Cimitero dì Poggioreale, è stata murata una lapide con significante epigrafe dettata da Ernesto Grassi. E, su tale lapide, è scolpita la data del 1853. Dunque, Scarpetta nacque a Napoli negli ultimi giorni dell’inverno di un secolo fa.
Non controverso è, comunque, 0 giorno della prima rap-presentazione di Miseria e Nobiltà, la migliore delle opere di teatro di quel sapiente dispensatore' d'ilarità: Natale del 1888, 25 dicembre, teatro del «Fondo» (oggi Mercadante), Napoli. Tale commedia in tre atti, che valse al suo autore un giudizio insolitamente lusinghiero di Ferdinando Martini, è davvero degna di ammirazione. In essa Eduardo Scarpetta grandeggiava su tutti i compagni di recitazione. Di irresistibile buffoneria in ogni scena del lavoro, raggiungeva al finale del primo atto e nella scena del terzo con la domestica Bettina una superba intensità di vero umorismo. La potenza dell’interprete alleandosi alla bravura dello scrittore, ci spiega l'entusiasmo di Ferdinando Martini, che, dalle colonne della Nuova Antologia non esitò a dichiarare il primo atto di Miseria e Nobiltà «degno della firma di Molière».
Aveva cominciato presto, Scarpetta. La sera di Sabato Santo dei 1868, ai teatro San Carlino, nella Compagnia di Antonio Petito. Da pochi giorni aveva compiuto i 15 anni - (o 16?) - e, mingherlino e sparuto indossava un piccolo tight dalle corte falde, sotto il quale i calzoni a quadretti bianchi e neri facevano non ricca figura. La tuba della moda di allora e le scarpette lustre, piuttosto distanti dai pantaloncini corti e stretti, completavano l’abbigliamento.
Si recitava Cuntiente e Guaie, farsa in tre atti. E, all’ultimo atto, un fattorino di negozio di modista doveva uscire dalla bottega per fare una commissione a Pulcinella, amante del cuore della principale. Si imbatteva invece nell’altro amante della donna, il terribile guappo Don Michele Spaccamontagna, e questi gli chiedeva: - «Che imbasciata t'ha fatta Concetta?».
Risposta: «Nun’ o ssapite? Dice che voi non fate per lei e potete mettervi l’anima in pace!».
Tutto qui. Ma c’era stata una specie di congiura di palcoscenico contro l'adolescente debuttante, reo di non essere «figlio d’arte»; e il ragazzo Scarpetta non ignorava che Francesco Zampa, l’attore che impersonava i guappi, avrebbe fatto di tutto per farlo «impaperare». Infatti, lo Zampa si guardò bene dal rivolgergli la domanda prescritta e si limitò a fissarlo con aria di commiserazione Folla di comici fra le quinte a godersi il turbamento de! novizio e pubblico in sala sorpreso per quella scena muta.
L'esordiente non si perse di animo, andò risoluto incontro al guappo e lo interpellò: «Oh! Don Miché, state ccà?».
Il ghiaccio era rotto. Lo Zampa fu obbligato a rispondere.
«Sto ccà, si... Si può sapere che imbasciata t’ha fatta Concetta?».
Il ragazzo, pronto, sciorinò la sua battuta. La scena era finita. Il commesso aveva superata la prova. Ma il guappo ora deciso a farlo impappinare, e continuò «a soggetto».
«A me quest’affronto? A me? e tu m’o vviene a dicere? Mò te dongo nu paccaro e te faccio avutà tuomo tuorno per mzz'ora!»
Scarpetta non si smarrì; prosegui «a soggetto» anche lui: « Don Micché, oggi no, facitommello domani matina m’o aggio fatto colazione e me fate avutà ’o stommaco!».
Costretto a continuare, lo Zampa, rispose con un’altra tiritera: e la concluse agitando a mulinello il grosso bastone di canna da zucchero. E il fattorino, portando la destra alla tasca dei pantaloni, fece allora il gesto di trarre un'arma: «Fatti indietro, carognone! Se no ti foco!»
Buffe minacce del guappo e fuga. Solo in scena, padrone campo, il ragazzo avanzò alla ribalta e mostrò al pubico, che aveva preso ad applaudire, una pipa di terracotta con lunga cannuccia: «Cu na pippa ll’aggio fatto scappà!» Fu un successo strepitoso, finale della commedia, fu Pulcinella Petito ad accompagnarlo al proscenio, perché il pubblico lo acclamasse. Il ragazzino s'era rivelato attore nato. Da quella sera la vita di lui fu un seguitò di lieti successi.
L' arrivo di quel guaglione sul minuscolo palcoscenico del San Carlino significò la detronizzazione di Pulcinella. Scarpetta non doveva tardare a dar vita al personaggio di Don Felicello Sciosciammocca, destinato a succedere a Pulcinella, nelle simpatie degli spettatori; contava egli appena 23 anni, allorquando Antonio Petito moriva sul campo della sua gloria. La sera del 24 marzo 1876, l’angina pectoris fulminava il celebre attore, mentre egli rientrava fra le quinte al calare della tela sul terzo atto della Dama bianca:
«Altolà. La Dama Bianca non permette gli “acchiappabiminus”!» disse Petito la sua ultima battuta e rientrò barcollando tra le scene.
Il finale del primo atto di «Miseria e Nobiltà», il capolavoro di Scarpetta che è stato recentemente riesumato a Napoli da un complesso eccezionale di attori per commemorare il centenario delia nascita dei grande artista. Da destra: Eduardo de Filippo, Dolores Palumbo, Titina de Filippo, Enzo Turco e la De Pasquale.
“Muore un teatro”
Strappò quasi al compagno, di lavoro Di Napoli la sedia, e vi si lasciò cadere di peso, come le gambe più non lo reggessero. Sollevò con gesto rapido la maschera nera, e apparve la faccia cerea triste, che gli occhi appannati non riuscivano a illuminare d’un raggio di vita. Agitò convulsamente le mani, dalle labbra livide uscirono confuse parole smozzicate che nessuno comprese. Poi s'abbatté pesantemente sulle tavole del palcoscenico. Morto.
Mentre i compagni lo adagiavano su un materasso, nel mezzo della scena, il caratterista Santelia correva alla vicina farmacia S. Giacomo, alla ricerca di un salassatore; e Scarpetta, trafelato, saliva alla casa del medico curante Capparelli, amico personale di Petito. Il valente clinico scosse il capo:
«È inutile che venga. Povero Antonio, non lo troveremo vivo».
L’impresario Luzi, intanto, piangendo disperato sul corpo immoto di Pulcinella, diceva:
«Non è un uomo che muore, è un teatro. San Carlino è finito».
Era vero. Con la morte di Petito ebbe inizio la decadenza del teatrino di Piazza Municipio. (Nel vicino caffè del Molo, gli epigrammisti famosi avevano scritto sul marmo di un tavolino: «Diceva Pulcinella: il crepacuore - mi ucciderà se trovo un successore. - Al potere Nicotera è salito - Ed è morto di subito Petito». Coincideva la fine dell’indimenticabile maschera napoletana con l'ascesa al Governo di Giovanni Nicotera, della Sinistra parlamentare.)
Toccava però a Scarpetta di far rifiorire il piccolo teatro. Dopo varie vicissitudini,
il giovane attore otteneva, nel settembre 1880, di poter riaprire il San Carlino, debuttandovi con una sua compagnia: sua di lui, Eduardo Scarpetta. Quello che era stato il regno di Pulcinella, diventava il regno di Scioscammocca; alla maschera nera che copriva il volto di Petito si sostituiva la prodigiosa maschera viva del viso di Scarpetta.
Il primo grande successo lo ottenne con Tetillo, riduzione di Bebé di Hennequin e de Najac, che fu replicata por ottanta sere di fila, ossia per centosessanta volte, già che al San Carlino si davano due . recite al giorno. Seguirono Mettitene a fa’ l’ammore cu mine, versione napoletana di Fatemi la corte di Salvestri, e Due mariti imbroglioni, riduzione della commedia francese Domino rosa; e furono clamorosi successi. Scarpetta divenne di moda.
Venne poi la polemica Verdinois-Uda ad accrescere l’interesse del pubblico. I due più apprezzati critici drammatici partenopei, Federigo Verdinois del Corriere del Mattino e Michele Uda del Pungolo, polemizzarono a proposito di teatro regionale; e Scarpetta ne ebbe tutti i vantaggi. Uda - che esaltava il genere teatrale scarpettiano - ebbe la meglio nella polemica; e Verdinois, confessando la propria sconfitta, scrisse:
«Il trionfo è stato di Sciosciàmmocca. Mentre i critici si azzuffavano, combattendo ad armi scortesi, l’attore coglieva la palma della vittoria. Il che dimostra che, come una volta il teatro San Carlino era personificato da Antonio Petito, oggi si personifica in Eduardo Scarpetta. Ad una maschera se no è sostituita un’altra; a Pulcinella è successo Sciosciammocca».
Una rara fotografia di Eduardo Scarpetta col figlio Vincenzo, che poi volle continuare la grande tradizione paterna.
L'unico insuccesso
Tre anni appresso, il piccone distruggeva il regno. Un atto di vendita in data 28 marzo 1884 cedeva il piccolo teatro a una Società Immobiliare per 159 mila lire; e, pochi mesi più tardi, il San Carlino non esisteva più.
Dopo essersi trasferita al civettuolo teatro Fiorentini, ove i successi continuarono, lieti e costanti, la compagnia Scarpetta prese anche a girare: Palermo, Roma, Firenze, Bologna. Milano, Torino. Tutti i pubblici d’Italia salutarono con viva cordialità l’attore così simpatico, dalla comicità irresistibile. Nacque Miseria e Nobiltà, cavallo di battaglia del l’ammirevole Sciosciammocca. E venne poi Santarella più che riduzione vero e proprio rifacimento dell’operetta di Horvé Mammelle Nitouche, ove Scarpetta era un organista Celestino di prepotente amenità. Ebbe un tale successo Santarella, e gli incassi furono cosi pingui, che l’autore-attòre potè farsi costruire una villa sulla collina del Vomero, che chiamò appunto villa Santarella e sul frontone della quale era scritto: «Qui rido io».
Fu allora che Giovanni Bovio, l’insigne uomo politico, filosofo e artista, scrisse a Don Felice:
«Cosa debbo dire di voi? Nella storia del nostro teatro popolare non avete antecessori e non avrete successori, perché voi rappresentate la vostra spontaneità, cioè voi stesso, come siete nato fatto.
Chi vi imitasse farebbe contraffazione, e, se voi tentaste un altro tipo, riprodurreste voi stesso.
«Il pubblico cerca alla scena il carattere vivo, e voi tutto vivo gli date voi stesso.
«E possiate farlo per molti anni, giacché l’arte vostra aggiunge un filo alla trama della vita».
Continuarono, ininterrotti, i successi per Sciosciammocca. Bisognò arrivare alla famosa serata del 3 dicembre 1904, perché si registrasse un vero grande insuccesso.
La parodia della tragedia pastorale d’annunziana, Il figlio di Jorio, che causò tante beghe e tante liti, ottenne al teatro Mercadante di Napoli un insuccesso clamoroso. L’ambiente, sfavorevole all’attore, contribuì di sicuro all’esito cattivo; ma, certo, quel lavoro, che a Scarpetta era costato molta fatica, era ben misera cosa.
L’infausta rappresentazione, interrotta per i dissensi dell’uditorio, ebbe un seguito giudiziario. Il 10 dicembre. Marco Praga, direttore generale della Società degli autori, presentava querela contro
lo Scarpetta, asserendo che Il figlio di Jorio non era parodia, ma vera e propria contraffazione e riproduzione abusiva delle scene d’annunziane a fine di illecito lucro. I periti della Società autori - Roberto Bracco, Salvatore di Giacomo e Giulio Scalinger - furono efficacemente controbattuti da due illustri membri della Camera Alta, Benedetto Croce e Giorgio Arcolei, i quali sostennero validamente le ragioni dell’accusato, ottenendo dal Tribunale la assoluzione per inesistenza di reato.
Ma Don Felice Sciosciammocca fu veramente contristato da quelle peripezie giudiziarie. Ebbe torto egli à parodire La figlia di Jorio? A mio parere, sì.
Il lavoretto scarpettiano, oltre che di scarso valore letterario, è noioso; come può anche oggi constatare chi ne legga il non aureo libretto. Scarpetta, indubbiamente, amava la tragedia dell'Imaginifico; e chi ama un’opera d’arte non può scriverne la parodia.
Addio alla scena
Don Felice abbandonò le scene in ancor giovane età, a soli 58 anni, nel marzo 1911. Approfittando dell’andata in scena di una rivista nuova di Rambaldo, Cielo e terra, ne diresse le prove senza poi partecipare alle recite. Avvertiva talun disturbo, si emozionava più che non convenisse, una specie di malessere s’impadroniva di lui. Un clinico di fama gli consigliò di riposare, e l’attore colse l'occasione per cedere i panni di Felice Sciosciammocca al figlio Vincenzo.
Molti credettero che l’amore pel teatro lo avrebbe presto richiamato alle ansie e alle gioie del palcoscenico. Non fu cosi. La rivista di Rambaldo piacque moltissimo, si replicò per un paio di mesi consecutivi al teatro Bellini; l’erede Scarpetta, Vincenzino, bravissimo nelle scene musicali, ebbe un buon successo personale, sembrò che potesse prendere il seguito, continuare la carriera al posto del padre. Ma il grande Bovio aveva colto nél segno quando aveva sentenziato: «Non avete antecessori e non avrete successori: Chi vi imitasse farebbe contraffazione». L’eredità teatrale di Sciosciammocca era ben difficile. Con il cognome e con la compagnia, Vincenzino ereditava anche il repertorio. Ma, là dove suo padre era stato grande, egli si limitava a essere bravo. Tutta la vita artistica di lui fu accompagnata dall’ombra della grandezza paterna. Chi aveva idolatrato Eduardo, sopportava a malapena l'emulo Vincenzo.
Degno erede
A quasi tre lustri dall’addio alle scene (avvenuto alla chetichella, con una qualsiasi replica di O mieteco d'e pazze, al teatro Scannazaro) Scarpetta si spense, la sera del 29 novembre 1925, nella sua bella casa di via Vittoria Colonna a Napoli.
Erano al capezzale la moglie Rosa de Filippo e i figli Domenico, Vincenzo e Maria. Quest’ultima, la prediletta, doveva, molti anni dopo, scrivere un volume di ricordi, intitolato Felice Sciosciammocca, mio padre: libro che ha visto la luce solo tre anni or sono, postumo, curato dal consorte della cara Maria, lo scrittore di riviste Mario Mangini.
Particolare degna di nota: nel testamento, Don Felice Sciosciammocca chiese che i comici non seguissero il suo carro funebre. ( Ne aveva accennato le ragioni in una lirica, dedicata alla moglie e ai figli, scritta molti anni avanti: «Appriesso a me non voglio commediante - pecchè so sempre fàuze e cuollo stuor to - e ccierti vvote vanno appriesso a o muorto - redenno e rusecanno tutte quante...» Ma come si poteva far rispettare tale volontà? Gli attori che seguirono il feretro d Scarpetta furono centinaia.
La recita celebrativa di Scarpetta - con Miseria e Nobiltà, il capolavoro di lui - ha avuto, la sera del 1° ottobre un successo entusiastico, fruttando un incasso record, che sarà interamente versato agli attori bisognosi dimoranti a Napoli. Nonostante la mediocre opinione che il grande artista aveva dei suoi colleghi è lecito pensare che all’insigne commemorato, avrebbe fatto piacere di ascoltare le voci dei suoi interpreti. Perché tra essi, erano Eduardo e Titina de Filippo, legati al grande maestro da vincoli di parentela, da lui amatissimi. Egli li aveva visti esordire sulle scene, ancora bimbi, aveva dato loro consigli e suggerimenti, li aveva seguiti con tenero cuore, era stato tra le quinte a sorvegliarne i primi passi.
Per la prima volta, Eduardo de Filippo ha impersonato, nella recita eccezionale, Don Felice Sciosciammocca, il vecchio Scarpetta di solito alquanto burbero e aspro ne sarebbe stato gioioso. Avrebbe nell'omonimo Eduardo riconosciuto il degno successore.
Federico Petriccione, «Epoca», anno IV, n.159, 18 ottobre 1954
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Federico Petriccione, «Epoca», anno IV, n.159, 18 ottobre 1954 |