Vita di Angelo Musco
Con Musco il teatro siciliano è morto. Musco, può dirsi, non favorì lo sviluppo del teatro dialettale. In quanto, egli vivo. nessuno potè superarlo. Chi scriveva per il teatro siciliano doveva tener conto della personalità di Musco; e quindi piegarsi a fabbricare commedie con un mattatore al centro. Gli scrittori nuovi, pur di arrivare alla ribalta, tenuti per mano da Musco, trascurarono le ispirazioni spontanee e si ispirarono a lui uomo, a lui ro-tondetto. a lui dalla voce rauca e non seppero immaginare altro interprete se non lui.
Musco non era l'interprete del teatro siciliano. Musco era colui che aveva saputo portare per il mondo, col riso e col pianto, ognuno di noi, cosi come siamo, coi nostri impeti e coi nostri ardori, con quello che mostriamo e con quello che nascondiamo, soprattutto con la nostra sensibilità epidermica, con quell'istinto insopprimibile di discutere su tutto, di cercare e trovare di ogni cosa il lato grottesco. Incolto, riuscì ad accostarsi alle ispirazioni dell’arte, per le stesse strade percorse dall’uomo colto.
Musco è una forza della natura. E' esistito Musco come esiste il fiume che porta la piena alla foce, come cadde la pietra dall'alto della roccia, come si scatena la pioggia. Ma quel che appare miracoloso è come questo fiume sia riuscito da sè a costruirsi gli argini. Qui è il mistero di Angelo Musco. Afferrava il personaggio e lo violentava, lo piegava alla sua voglia al suo capriccio. Aveva trovato un'altra esperienza. un’altra occasione buona per evolversi.
Era Liolà perchè si sentiva in gola il canto del nostro contadino, perchè era giovani; e maschio, perchè era il gallo del pollaio. Era Ciampa perchè nella ingenuità della sua vena, riusciva a comprendere il dramma di Ciampa. Era Tot perchè era buono. Era Rosario Chiarchiaro perchè gli pareva logico e giusto che Rosario Chiarchiaro avesse il diritto di mangiare legalizzando il destino che gli impediva di sfamarsi.
Ma era anche mastro Austinu Miciaciu, era don Cola Dusciu, era padre Attanasio, era il nipote che attende l’eredità dello zio canonico — personaggi tutti senza problemi centrali — per quell’insopprimibile istinto che lo spingeva a mortificare le debolezze umane; quelle debolezze che si incontrano per strada tutti i giorni e che egli amava ridicolizzare perchè non le aveva: la saccenteria del ciabattino, l’irresistibilità maschia di Don Cola, la paura di padre Attanasio, l'ingordigia del nipote del canonico.
Farsa? Era vita. Uomini vivi voleva, non fantocci. Se gli avessero dato una commedia perfetta, con personaggi ideali, non avrebbe potuto recitare. Voleva crearselo lui il personaggio, sentirlo nascere dalle su? mani. Bastava che gli dessero i pezzi: teste, braccia, torsi, gambe. Al resto pensava lui, come lui aveva pensato un giorno a ricostruire i pupi sventrati nei combattimenti incruenti.
Musco veniva dal nulla. Veniva dalla strada. Veniva, come attore, dall'opera dei pupi. Veniva dalla più grande scuola della vita; vita libera. Libertà di andare, di venire, di tornare, di respirare. S’era incontrato col teatro fortuitamente. Non figlio di comici — suo padre era uno dì quei maltesi di cui parla Pirandello in una novella del «Viaggio» — non parente di gente di teatro, ma imparentato con tutti i pupi della storia dei paladini di Francia. tramite la passione che don Carmelo Sapienza, puparo catanese, seppe trasmettergli, quando a dieci anni lo incaricò della pulizia delle corazze è delle sciabole. Si può dire che allora egli non abbia più mutato la sua maniera di vedere la vita. Solo che quello che alle origini gli pareva naturale per ingenuità, gli parve infine per esperienza, la più saggia maniera di sentire e di rappresentare i sentimenti umani.
Animò ed agitò vuote casacche di uomini al disotto del comune livello della mediocrità, come se li tirasse per invisibili fili ingigantendone geometricamente i gesti e i sentimenti. Sbatacchiò, nei pochi metri quadrati di quell’opera di pupi che fu il suo teatro siciliano, leoni con voci di pecora e pecore con voce di leone, ma in fondo a tutti era un substrato di commovente umanità e di bontà senza limiti. Perchè il vero eroe era sempre lui, Musco trasudante e traboccante da tutti i pori dei suoi vuoti pupazzi.
Anche nel teatro di don Carmelo Sapienza, fra una scena e l'altra del duello tra Orlando e Rinaldo, prepotentemente sbucava per cantare e danzare. Quando sentì che i pupi di legno non bastavano più per il suo sangue, si fece attore. Dapprima non ebbe compagni. Fu quel che si direbbe un divo del varietà. Pochissimi conoscono questo lato di Musco.
Aveva l'osservazione pronta, acutissima. I tipi die portava sulla scena li rubava alla strada. Sono tipi di tutte le ore e di tutti gli angoli: il professore con gli occhiali, il frate, il cantastorie, il portatore d'acqua, l’idiota, il cieco, il tenore di forza. Egli compie profondi studi di psicologia appoggiato ai muri dell’l Università di Catania. Egli precorre se stesso, non ha modelli. Quando a Musco, che accanto a Grasso recitava a soggetto nella commedia dell'arte, capita tra le mani il primo canovaccio con una vera trama che gli consente di recitare, sia pure all’ombra del gìgante truculento, egli si slancia, si fa galletto. E l'attore eccezionale si rivela. Si rivela con l'acutezza della battuta comica nella «Zollara» famosa, in cui interrompe la tragicità, del momento nel quali Giovanni Grasso gravemente sentenzia : «Il sole di domani illuminerà uno dei nostri due cadaveri», con un «Compare e si chiovi?» (e se piove?), che lascia Grasso tramortito e fa torcere le budella al pubblico.
Si rivela con la potenza dell’interpretazione drammatica che fa dell'orbo di Nica un esempio inarrivabile. Si rivela con la comicità irresistibile nelle farse finali che fanno di Nicolino qualcosa di più del Felice Sciosciammocca napoletano. Nella farsa muschiana, contrariamente a quanto avviene in quella napoletana, non è la banalità della situazione che fa colpo ma la personalità del personaggio banale. Mastru Austinu che vuol dare a intendere in «San Giovanni decollato» di essere un professore di lingue in pensione, è capace di costruire, in buona fede, tutta una serie di arzigogoli; riesce insomma a fare mente locale, ma il sangue ciabattino gli sprizza da tutti i pori. Ed esplode quando s’accorge che un calzolaio tenta di far passare per buone un miserabile paio di scarpe mal costruite. Esplode, ma non perde il tono professorale nel famoso alterco in cui svela tutte le magagne della scarpa che ha il tacco «fausu». E per giustificare la sua sorprendente competenza rivolto al compare sbalordito esclama per convincerlo «Sa, noi queste operazioni le facciamo all’Università».
Bisogna riconoscere a Musco il grande merito di essere stato l’antidoto di Grasso. Il teatro siciliano è nato nell'opera dei pupi, in mezzo a un pubblico che partecipava direttamente all'azione intercalando battute, gridando, vociando, lanciando sul palcoscenico i berretti. E' evidente che gli attori per imporsi su un pubblico di tal genere devono alzare la voce, devono agghiacciarlo con la potenza dd gesto, con la violenza della parola, se vogliono ammutolirlo e legarlo al fatto scenico. Ecco come è facile intuire e comprendere Giovami i Grasso. Ecco come è possibile spiegarsi l'irruenza tragica che ruppe di schianto tutte le barriere, regionali, nazionali, continentali e divenne un fatto di importanza universale che portò perfino a Pietroburgo, dinnanzi allo Zar di tutte le Russie, quell'attore puparo primitivo e caldo, sbalordito di tutte le feste che gli facevano, delle pellicce che gli donavano, delle innumeri schiene prone al suo passaggio.
L’andare gridando per il mondo la lode all’omertà, alla coltellata, alla rissa, non era certo un cantare il profumo della zagara. Grasso fece del male alla Sicilia. Ma Musco fu il suo antidoto. Per mezzo di Musco si capì che la verità stava nel mezzo.
Gli valse la condanna che si portò sempre appresso del riso delle moltitudini. Ora in questo anniversario della sua morte, noi ci accorgiamo che egli è balzato oltre il magico cerchio della vita con uno sgambetto sulle sue agili gambe.
Giuseppe Longo, «Tempo», anno IV, n.71, 3 ottobre 1940
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Giuseppe Longo, «Tempo», anno IV, n.71, 3 ottobre 1940 |