Luisa Ferida, un tragico destino

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Spararono sulla mia Luisa che aspettava un bambino

1 - Valenti-Ferida: è l’ora della verità. La madre di Luisa Ferida ha rivelato per la prima volta dopo tredici anni il dramma della figlia, uccisa dai partigiani assieme all’uomo al quale stava per dare, con un bimbo, l’unica ragione di esistere.

«Non dovrei dir cosi, perché é stato lui che ha portato a morire la mia Luisa, eppure non ho mai conosciuto un ragazzo più buono e più generoso di Osvaldo. Era capace, in un minuto, di regalare quello che aveva guadagnato in un anno. E il giorno dopo di far debiti per dare ancora qualche cosa. Ha fatto del bene a tanti, ma chi te n’è ricordato? Hanno detto che era un bandito. Hanno detto che torturava la gente.» Lucia Manfrini parla lentamente, con voce sommessa, è un'anziana signora dal volto sofferente. «Li guardi», riprende, «erano tanto felici, quei due ragazzi.» Siamo seduti in una piccola disadorna stanza al pianterreno di una vecchia casa bolognese, al 17 di via Orfeo. Sulla parete di fronte a noi è appeso un curioso disegno, la caricatura di una giovane coppia che trascina un carretto carico di mobili e di masserizie. «Osvaldo Valenti e Luisa Ferida - è scritto dietro al disegno - con loro cani Fortunello, Dora e Barone Sliff, si sono trasferiti in via Severano al 35. Qui troverete il pane ed il sale dell'ospitalità. Roma, primavera 1942».

1958 03 30 Epoca Luisa Ferida f01Il 30 oprile del 1946, In via Poliziano a Milano, Osvaldo Volenti e Luisa Manfrini (in arte Luisa Ferida) furono abbattuti dal mitra dei podigiani. Valenti ero nato a Costantinopoli nel 1907, la Ferida a Bologna nel 1916. Innamorati, celebri, ricchi. essi sarebbero stati completamente felici se avessero avuto dei figli: ne ebbero uno, Kim (nella fotografia al centro), che però morì soltanto cinque giorni dopo lo nascita. Quando vennero uccisi, Luisa aspettava un altro bambino da due mesi.

«Erano altri tempi quelli», sussurra Lucia Manfrini. La guerra faceva sentire il suo peso anche sugli attori del cinema, ma per Osvaldo e Luisa, così popolari, così apprezzati dalle platee italiane, nulla o quasi nulla poteva dirsi cambiato. Innamorati profondamente uno dell'altra (lui della devozione di lei, lei della prepotente carica vitale di lui), Osvaldo e Luisa erano una coppia perfetta e la signora Lucia sarebbe senza dubbio stata completamente felice se, a quella perfezione, avesse potuto aggiungersi anche un matrimonio regolare. Questo, però, non era purtroppo possibile perchè Osvaldo aveva già sposato, diversi anni prima, una comparsa di Cinecittà.

Era una donna modesta, che tuttavia aveva saputo trovare il tallone d Achille di quell’uomo pronto a calpestare, per posa o per incoscienza, anche tutti i principi e i sentimenti meno quello dolce e antico della paternità. Per questo gii aveva fatto credere di aspettare un bambino e Osvaldo l'aveva sposata subito, senza chiedere altro. La menzogna era durata qualche mese. Poi Osvaldo aveva capito di essere stato ingannato, c proprio in quanto aveva di più caro. Non aveva detto nulla. Quella sera stessa s'era rifugiato in un albergo senza portarsi dietro nemmeno il pigiama e iI rasoio. Della moglie, della loro casa, dei suoi sogni, non era rimasta che quella delusione troppo amara. Erano stati mesi terribili. Poi il lavoro lo aveva ripreso, lo aveva salvato. E poi era arrivata Luisa, e con lei una esistenza nuova. Il piacere di sussurrare «Luisina» alla donna forte e scontrosa che a Cinecittà, tutti chiamavano «Ammazza cristiani». Per lei Osvaldo era ritornato allegro e fiducioso. Aveva ritrovato il coraggio di rimettere su una casa e di affezionarcisi. Per lui Luisa era diventata docile e semplice. E davanti alla felicità di tutti e due, Lucia Manfrini, la suocera mancata, aveva finito per accettare quella situazione diflicile.

«Andavamo sempre insieme. Grandi alberghi, sa, una vita di lusso. Io cercavo di tenere un po' d’ordine, almeno nei vestiti e negli appuntamenti che avevano. Nel denaro era quasi impossibile. Osvaldo e Luisa ? guadagnavano delle cifre favolose, ma spendevano tutto. E più per gli altri che per se stessi. Per questo avevano tanti amici...» C'è un po’ di amarezza nella voce della signora Lucia. Una vita di lusso, sregolata ed elegante, frequenti viaggi, contratti vantaggiosi, denaro. amici, pazzie, che cosa dovrebbe esserci di strano, trattandosi dei due attori più quotati dei cinema d’anteguerra? Il contrasto fra quel tempo e questo, fra lo sfarzo di tanti saloni e le quattro mura desolate di questa stanza - una macchia d'umido, un grosso filo elettrico pesante di calcina, che scende dal soffitto fino a un interruttore stanco - è troppo netto. Bisogna sentirlo dire, per crederlo, che una volta è stato tutto diverso, per quel due giovani innamorati e per questa povera donna che, di vivo, sembra avere soltanto i suol occhi scuri e profondi. «Alti e bassi ne avevano tanti, più di ogni altro», riprende la signora Lucia, «ma anche per loro doveva venire un giorno di gioia piena, di quelle che possono cambiare una vita, sa. Fu quando la mia Luisa si accorse di aspettare un bambino, ma davvero, non come quell'altra. Era l’unica gioia che ancora non avevano avuto, l'unica che non avrebbero potuto comperare. Osvaldo sembrava impazzito, faceva un mucchio di progetti e di buoni propositi. Debbo dire che era riuscito anche a cambiar vita, a mettere un po’ più giudizio: per lui questa era l’impresa più difficile.»

1958 03 30 Epoca Luisa Ferida f02La signora Lucia Manfrini, madre di Luisa Ferida, era di famiglia benestante. Perduti il marito nella prima guerra mondiale e la figlia nella seconda, la signora vive oggi sola a Bologna, in una casa modestissima. Ogni mese riceve 10000 lire di pensione come madre di una "vittima civile" di guerra.

Istintivamente la signora Lucia prende fra le mani una grossa bambola e l’accarezza. Un amico mi ha detto che glie l’hanno regalata delle buone persone, per colmare un po’ quella solitudine e che la signora Lucia l’ha chiamata Luisa. «Il bambino venne al mondo qui a Bologna, all’albergo Brun. Osvaldo era chiuso in una stanza al piano di sopra, non se la sentiva di veder patire qualcuno, uomini o bestie, si immagini poi trattandosi di Luisa. E hanno detto die torturava i prigionieri...»

La voce della signora Lucia ritorna subito calma. «Luisa soffrì terribilmente, fu un parto difficilissimo. “Lo faccio per te" diceva, e baciava la fotografìa di Osvaldo, povera creatura. Venne al mondo un bambino, lo chiamarono Kim, era molto bello. Kim restò in vita per cinque giorni, poi morì. Guardi.» Con le mani un po’ incerte fruga in un vecchio portafoglio, trova una piccola fotografia del bambino, me la mostra con lo stesso gesto di attesa di tutte le nonne dei mondo, quando vogliono i complimenti per il nipotino. Li faccio e lei sorride: in questa stanza vuota il presente e il passato, il possibile e l'impossibile si confondono così in fretta che vengono i brividi. Ho un elenco di domande da rivolgere alla signora. Gli interrogativi di una cronaca nera che ha mostrato improvvisamente il suo volto dietro lo schermo di una cronaca politica.

1958 03 30 Epoca Luisa Ferida f03Il comandante partigiano Giuseppe Morozin detto «Vero» (al contro, con i pantaloni da ufficiale). Questa fotografia fu scattata la mattina dal 3 maggio 1945. Poche ore più tardi, per ragioni che Morozin preferisce tacere, un gruppo di altri partigiani lo accolse a raffiche di mitra all'ingresso di Arzignano, suo paese d'origine. Marozin restò ferito gravemente ad una gamba e due degli uomini che erano con lui morirono. Poco dopo Marozin fu messo in carcere dalla polizia partigiana.

Qui le dimensioni della realtà hanno il valore di una bambola che si chiama Luisa e che tutte le sere va sotto le stesse coperte della signora Lucia, una povera donna malata e impaurita, eppure ancora lucida, fino all'ironia. «Non la invidio» mi fa, inaspettatamente, «perché è difficile cercare del nuovo in questa storia. Penso che sia anche pericoloso, se si vuole andare fino in fondo. Ma posso dirle qualche cosa che la interesserà, anche se mi fa tanto male parlarne.» Si interrompe un attimo, mi fissa negli occhi «Luisa aspettava un altro bambino, quando l'hanno ammazzata. Da due mesi. aspettava il bambino. Osvaldo lo sapeva. E anche quelli che l’hanno ammazzata dovevano saperlo. La Giustizia forse non arriverà mai a veder completamente chiaro, ma il rimorso... quello non li lascerà fino a quando vivranno. La madre di Luisa appare sfiduciata: non si fa più illusioni, forse ha troppa paura di farsene. Eppure, per la Giustizia, il «caso» Valenti-Ferida non è ancora chiuso, anzi può considerarsi appena aperto oggi, a tredici anni di distanza dalla tragedia.

Il 25 febbraio scorso, il giudice istruttore proscioglieva Giuseppe Marozin, il comandante partigiano che fece fucilare Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, affermando che egli agi in esecuzione di un ordine legittimo. Tale ordine sarebbe giunto al Marozin dal Superiore Comando del Comitato di Liberazione ed egli quindi non avrebbe fatto altro che renderlo operante. La sentenza, tanto più a cosi lunga distanza di tempo dalle giornate della Liberazione, era quasi scontata. L’uomo della strada, per istinto, diffida dei cavilli giurìdici e si affida intuitivamente agli aspetti più appariscenti delle cose: la divisa da tenente della X Mas che sicuramente indossava Osvaldo Valenti - chi non ricorda la tavola a colori della Domenica del Corriere che lo mostrava in questa divisa? - e la tenuta da partigiano di Giuseppe Marozin, comandante della Divisione Pasubio, erano due di queste cose appariscenti, in grado di spiegare automaticamente la sentenza di morte del 1945 e quella di proscioglimento del 1958. Tuttavia, gli uomini della legge debbono andare più in là delle apparenze. Il sostituto procuratore dottor Vitolo ha ravvisato, negli stessi atti che hanno indotto il giudice istruttore a prosciogliere il comandante partigiano, gli estremi di due delitti: omicidio volontario di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida e malversazione ai danni delle vittime per la scomparsa di gioielli e denaro di loro proprietà. Di conseguenza ha chiesto che il comandante partigiano venga rinviato al giudizio della Corte d'Assise.

1958 03 30 Epoca Luisa Ferida f04Il sostituto procuratore dottor Vitolo ha impugnato la sentenza con la quale il giudice istruttore proscioglieva da ogni addebito comandante partigiano Marozin: Valenti e la Ferida sarebbero stati derubati e uccisi e non giustiziati per veri motivi politici.

La questione, tradotta in termini semplici e brutali, si è così capovolta: Osvaldo Valenti e Luisa Ferida non sarebbero stati fucilati per un reato politico e i loro beni non sarebbero stati lecitamente confiscati come risultava dalla prima sentenza istruttoria, ma sarebbero stati derubati dei loro averi e quindi assassinati, con pretesto politico, perché la loro presenza era diventata un peso pericoloso.

Al suo prossimo passo, quando cioè l'appello del sostituto procuratore sarà stato accolto o respinto, la Giustizia farà conoscere quale di queste due impostazioni debba essere ritenuta lecita. Sul momento, a chi voglia cercare una luce di verità, o meglio di verosimiglianza in questa torbida e terribile vicenda, non resta che raccogliere, dalla voce dei superstiti, quegli elementi di confronto e di giudizio die il tempo, la paura e la malafede non hanno ancora cancellato.

Con questi intendimenti - come ci siamo rivolti alla madre dell’attrice - abbiamo suonato, l’altra sera, al cancello di una lussuosa villa, al 7 di via Randaccio a Milano. Qui abita, con la moglie e i figli, il comandante Giuseppe Marozin detto «Vero». Marozin ha quarantadue anni, ma ne dimostra più di cinquanta. E' alto, grosso, dai lineamenti marcati. I suoi occhi sono piccoli, chiari, mobilissimi. Mi fa sedere in una poltrona e, alle mie spalle, si piazza in piedi la moglie, una donna nera e agitata. Mentre Marozin parla, mi accorgo che la moglie gli fa dei segni. Nei momenti più difficili gli toglie direttamente la parola o gli anticipa le risposte. Da tredici anni, di giorno e di notte, quando capita, il telefono suona e vod misteriose minacciano morte all’uno e all'altra o a tutti e due. Non deve essere molto allegra questa vita provvisoria. Tredid anni fa Marozin era un giovanotto pieno di energia. Oggi è un vecchio stanco e pesante, che non dovrebbe né bere né fumare né ricordare. Un infarto cardiaco lo ha colpito l’anno scorso, immobilizzandolo per mesi e mesi. Ora ha ripreso a bere, vino denso in larghi boccali da birra. A fumare sigari tozzi e neri. E il telefono suona ancora, implacabile.

1958 03 30 Epoca Luisa Ferida f05Il comandante partigiano Giuseppe Marozin, oggi. Ancora giovane (egli ha da poco passato i quarant'anni) ha l'aspetto di un vecchio ed è gravemente malato. Abita in una villa, al 7 di via Randaccio a Milano, ha moglie e due figli. Ogni tanto il telefono dello villa suona e voci misteriose lo minacciano di morte. Tredici anni sono passati dai giorni della Liberazione, ma odio e risentimenti non si sono ancora placati: già allora, del resto, un gruppo di partigiani cercò di uccidere Marozin, che restò ferito ad una gamba, tendendogli, presso Arzignono, un’imboscata. Ancora oggi, camminando, egli zoppica leggermente.

«Non capisco, dopo tanti anni, come sia tornata fuori questa storia» mi dice bruscamente, «certo c’è sotto qualche cosa, ma non so cosa. Io ho eseguito un ordine del C.L.N. quando ho fucilato Valenti e la Ferida. Il giudice istruttore ha già riconosciuto la mia innocenza.»

«Ma lei crede» domando «che Valenti avesse realmente commesso delitti tali da giustificare la pena di morte?» « Era molto conosciuto. La sua divisa aveva un’importanza propagandistica. Per me non ne aveva altra. Del resto, quando l’ho fatto prigioniero per scambiarlo con dd partigiani, mi sono accorto che anche i tedeschi non lo consideravano gran che. I tedeschi, in guerra, sono gente che sa giudicare. Io personalmente ritengo che le colpe che gli hanno attribuito siano state tutte frutto delle sue vanterie. Era un guascone.»

«E questo basta per...?»

«No. Infatti io cercai di salvarlo. Fin che riuscii. A un certo punto non fu più possibile. La rivoluzione è come un’ondata, non ci si ragiona.»

«E la Ferida, che cosa ha fatto secondo lei?»

«Niente. Veramente niente. Ma era con lui. La rivoluzione...»

«É un’ondata che travolge tutti. Lei stesso, se non sbaglio...»

«Infatti. Il 3 maggio, quello che non erano riusciti a fare i tedeschi lo hanno fatto dei partigiani. Hanno sparato a me, capisce?»

«Il motivo?»

Marozin si rabbuia. Con le sue grosse mani gira e rigira il boccale del vino. La moglie si agita alle mie spalle, dirò che mi dà un certo disagio.

1958 03 30 Epoca Luisa Ferida f06Osvaldo Valenti ed Emma Gramatica in una scena del film La vedova, nel 1938. Valenti aveva iniziato la carriera cinematografica nel 1932. Laureando in legge, parlava correntemente sette lingue ed aveva un'intelligenza eccezionale. La sua ascesa fu rapida, i suoi compensi favolosi.

«E' una storia complicata, preferisco non parlarne.» La moglie si quieta, e provo una certa simpatia per lei. perché a questo punto è stata soltanto donna. Ho sentito dire, infatti, che quel giorno Marozin avrebbe voluto fare un ingresso trionfale ad Arzignano, suo paese d'orìgine, e che, a dividere questo trionfo, avrebbe voluto al suo fianco un’altra donna. Qui la storia si complica veramente, perché d sarebbe stato di mezzo un altro uomo: comunque le raffiche di mitra che falciarono Marozin e tre dei suoi (totale due morti e due feriti gravi) non ebbero orìgine passionale. In fretta e furia, riavutisi dalla sorpresa, gli uomini di Marozin lo caricarono su un’ambulanza e lo portarono a Milano.

Aveva una gamba fracassata. La compagna sarebbe restata al suo fianco fino all'ospedale. All'ospedale c'era la moglie. La moglie si sarebbe gettata - mi hanno detto - sulla rivale e l’avrebbe picchiata di santa ragione, restando padrona del campo. Questa sequenza mi passa davanti agli occhi in un attimo. É solo una parentesi.

«Quelli che mi hanno sparato e mi hanno fatto andare in prigione» continua Marozin «sono finiti male.» «Male?»

1958 03 30 Epoca Luisa Ferida f07Luisa Ferida e Gino Cervi in una pausa del film Anime erranti. Con Valenti girò film di enorme successo quali La corona di ferro, Un'avventura di Salvator Rosa, Fedora, Orizzonti di sangue. Iniziata la corriera a ventanni, nel 1935, aveva avuto, come Valenti, una costante fortuna.

Marozin è un uomo intelligente: sorride.

«Sono finiti a loro volta in prigione, naturalmente» precisa. «Ma debbo dire che prima di questo una squadrarcia arrivò qui in casa mia e mise tutto a sacco. Portarono via tutto.»

«C'era molta roba?»

«Si, c'era molta roba. Ma i bauli di Valenti e della Ferida non c'erano: lo scriva. questo.» Marozin parla di dodici grossi bauli, pieni di pellicce, vestiti e argenteria. I bauli scomparvero, ma con tutta probabilità non furono gli uomini di Marozin a farli sparire.

«Lo so. Del resto la sorella di Valenti ha fatto una Inchiesta e ha pescato qualcuno dei colpevoli. Parte della refurtiva credo che sia ancor oggi In tribunale. Ma non è questo che mi interessa. Mi interessa sapere dove sono finiti i gioielli della Fetida e di Valenti.»

Ho la netta impressione che questa sia la chiave di volta di tutta questa storia. Nel salotto c’è un silenzio teso, insopportabile.

1958 03 30 Epoca Luisa Ferida f08Osvaldo Valenti e Luisa Ferida a Bologna, nel gennaio del 1944. I due attori erano rimasti isolati per quaranta giorni in una baita nei pressi di Orvieto. In questo periodo Valenti non aveva ancora maturato la decisione di entrare nella “Decima Mas".

«Non li ho mai visti» scatta Marozin.

Ma ho l'impressione che, nonostante i gesti della moglie, abbia parlato troppo in fretta.

Giuseppe Grazzini, «Epoca», anno IX, n.391, 30 marzo 1958


Dov'è la lettera che Osvaldo mi scrisse prima di morire?

2 - Valenti-Ferida: è l’ora della verità. Da tredici anni la sorella di Osvaldo Valenti cerca la lettera che l’attore le inviò con la consapevolezza della ormai prossima line: ma una mano misteriosa ha fatto sparire il documento che avrebbe potuto fornire la chiave del tragico enigma.

Perché sono stati uccisi Osvaldo Valenti e Luisa Ferida? Dove è finita la borsa nella quale la Ferida aveva conservato, fino agli ultimi giorni della sua esistenza, un patrimonio di gioielli e di pietre preziose che oggi potrebbe essere valutato oltre quindici milioni? Dove è finita una somma in contanti che, allora, ammontava a 300.000 lire? Dove sono finiti dodici bauli nei quali i due attori avevano raccolto abiti, pellicce, argenteria di grande valore?

Quando ho posto queste domande a Giuseppe Marozin, il capo dei partigiani che fucilarono Valenti e la Ferida, ho avuto alcune risposte chiare ed Elitre meno chiare. Chiaro è stato il profilo psicologico che Marozin, buon conoscitore di uomini, ha fatto di Valenti, che aveva l'unica colpa di indossare l’uniforme della Decima Mas con una compiacenza dartagnanesca e velleitaria. Chiara, nella sua tragica semplicità, è stata la definizione che Marozin ha dato della Ferida: «Era una donna innamorata». Una donna, cioè, che giudicava assai più importante l’arte di conservare l'amore del suo uomo che non quella di fare le guerre e le rivoluzioni. E verosimile, se non altrettanto chiara, la spiegazione della loro morte: «Neppure i capi delle rivoluzioni possono fermare, talvolta, quelle forze che essi hanno condotto alla vittoria».

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Meno chiaro, invece, è stato il racconto del capo partigiano a proposito dei gioielli. Un racconto che riporto dal mio taccuino di appunti senza nulla togliere o aggiungere.

«Valenti e la Fetida me li trovai fra i piedi per. caso. In quei giorni cinque dei miei partigiani erano stati fatti prigionieri e volevo liberarli. Passando in bicicletta davanti al Continental, vidi Valenti in mezzo a diversi gerarchi italiani e tedeschi. In quel momento supposi che Valenti fosse una pedina molto importante: averlo nelle mie mani poteva rappresentare la salvezza dei miei partigiani prigionieri. Quando, però, andai a proporre lo scambio mi resi conto che Valenti era quotato assai poco. Anche per questo volevo salvare lui e tanto più lei, che non aveva fatto niente.»

«Avevano qualcosa del loro patrimonio, quando furono catturati?»

«Finirono nelle nostre mani praticamente nudi, non avevano niente.»

«Niente?»

«Sì, avevano pochi soldi, un 300 mila lire, mi pare, che del resto gli restituii in gran parte.»

«Si è parlato, però, di una borsa con dei gioielli.»

«I gioielli non li ho mai visti.» «Mai visti ?»

«Non ricordo bene, adesso. Mi pare che ci fosse una cassettina, ecco, con della roba cosi. Ma. guardi, erano quei vetri che mettono le ballerine, sa? Roba di figura ma di poco prezzo.»

«Non ne dubito. Ma dove sono andati, poi?»

«Una parte è stata restituita, credo, alla madre della Ferida. Il resto è andato a Milano. Comunque una cosa è certa, la scriva. Qui, in questa casa, non ci sono punti, né tutti, né un po’. E anche se ci fossero finiti, noti bene che il 3 maggio 1945 io sono stato ferito, purtroppo da altri partigiani, sono finito all'ospedale e poi mi hanno messo in prigione per sei mesi. Noti che, subito dopo l'attentato, una squadracela è piombata qui e ha saccheggiato tutto quello che c'era.»

1958 04 06 Epoca Luisa Ferida f2Celeste e Annunciata Rossi abitavano nella cascina di Monzoro da ventotto anni quando si trovarono ad ospitare Osvaldo Valenti e Luisa Ferida. Fu la signora Annunciata Rossi a custodire, nella sua cassaforte, i gioielli dell’attrice fino a quando non venne obbligata a sottrarli e a consegnarli ad alcuni partigiani.

Davanti alle pistole di Toni fuggirono venti uomini armati.

«C'era molto, qui?»

«No, non mi pare.»

La moglie di Marozin, che assiste al nostro colloquio pur senza aver partecipato direttamente alla vicenda, interviene: «C'erano i due milioni.»

«I due milioni è un'altra faccenda», risponde il marito. Si rivolge a me e spiega con calma: «Erano fondi del mio comando. Sapesse che vita era quella di trovare fondi per continuare a combattere».

«Immagino.»

«Quando non ce n'era più bisognava andare ad assaltare le banche. Quante volte abbiamo dovuto farlo. Ma ogni volta rilasciavo una ricevuta, e tutte le ricevute con la mia firma sono state riconosciute, a guerra finita. Abbiamo le mani pulite, lo scriva.»

«Lo scrivo.»

«Valenti e la Ferida sapevano che avevo una simpatia per loro: sul piano umano, naturalmente. Cercavo di riconoscere l'uomo al di là della divisa fascista. Del resto, anche Valenti aveva simpatia per me. Quando capirono die la loro sorte era segnata Valenti chiese di vedermi. Io gli ho fatto dire che era inutile. Non potevo far più nulla, era già la terza volta che mi chiedevano di fucilarli. Se avessi disubbidito ancora... insomma. o loro o me, ha capito?»

«Ho capito.»

«Allora, prima che li portassero via, Valenti si è tolto l’orologio e la Ferida un anello e li hanno dati a un partigiano perché me li portasse, come loro ricordo.»

«Avevano una fiducia cieca in lei, è cosi?»

«Infatti. Molta ammirazione.»

«Immagino che abbia conservato i doni di quel due infelici. Se è cosi gentile da mostrarmeli, fotografiamo questo anello e questo orologio.»

«Non ce l’ho. L’anello credo sia stato restituito alla madre della Fetida, il braccialetto l'ho dato a un partigiano quella stessa sera, non volevo tenerlo con me.»

«Braccialetto?»

«Si. l'orologio. L’orologio aveva un bracciale di platino, si, mi pare. Comunque, ho dato via subito tutto.»

«Perché?»

«Non lo so. Così.»

Un lungo silenzio è sceso fra I noi. In un angolo del salotto un grosso boxer brontola cupamente. Molti aspetti di questa storia mi risultano ancora incomprensibili. L'amicizia fra i due prigionieri e Marozin, per esempio. In punto di morte non si manda un regalo a chi ha ordinato l’esecuzione, a meno che non si abbia la coscienza precisa che costui - a sua volta -sia vittima di un ingranaggio inarrestabile. Il regalo fu mandato, è un episodio controllato, autentico.

Ma un esame sommario degli ultimi giorni di Valenti e della Ferida, dal 18 al 30 aprile del 1945, aumenta ancora le perplessità.

Valenti e la Ferida, finiti nelle mani di Marozin come ostaggi preziosi, non sono più tali perché i tedeschi hanno detto che «Valenti è un soldato inutile e la Ferida è soltanto un civile». Marozin riceve ordine - così afferma lui - da Sandro Pertini, allora membro del C.L.N. di fucilarli, ma tergiversa perché - così dice - non crede sfila colpevolezza dell’uno e tanto meno dell'altra. Valenti, dal canto suo, si è acceso di ideali rivoluzionari e aspetta soltanto che Marozin gli dia modo di compiere un’impresa leggendaria. A un tempo amici e prigionieri, Valenti e la Ferida vengono portati in una cascina, a Monzoro, presso Milano. La cascina è vigilata giorno e notte dai partigiani di Marozin ma, questo è singolare, non tanto perché i due pensino di fuggire, quanto perché altri partigiani non vengano a prenderli. Una sola spiegazione, fino a questo momento, è possibile: Marozin dovrebbe fucilare, per ordine superiore, Valenti e la Ferida, ma sa che non sono colpevoli ed inoltre prova una viva simpatia personale per tutti e due. Cerca, dunque, di proteggerli dagli stessi partigiani delle altre bande che potrebbero fare giustizia sommaria pensando esclusivamente all'uniforme di tenente della Decima Mas che Valenti ha indossato fino a pochi giorni prima.

Ma è questa la storia vera di quei terribili giorni?Per rispondere a questa domanda ho cercato la famiglia che viveva, tredici anni fa, nella cascina di Monzoro. Sapevo soltanto il nome del capofamiglia. Celeste Rossi. Celeste Rossi è morto non molto tempo fa, e gli altri di casa hanno lasciato Monzoro. La madre di Luisa Ferida, a Bologna, mi aveva tuttavia fatto il nome del genero dello scomparso, il signor Goglio, che abita a Milano in via Ippolito Nievo. È stato appunto qui che ho potuto avvicinare la vedova di Celeste Rossi, signora Annunciata, e il resto della famiglia.

«Stavamo a Monzoro da ventotto anni», mi ha detto la signora Annunciata. «La cascina era grande, ospitavamo spesso dei partigiani che operavano nella zona. Ce n’erano molti. Poco lontano da noi, ad Assiano, c’era un campo di rifornimento dove gli aerei alleati lanciavano viveri ed armi. Il 18 aprile, verso sera, arrivò un calessino. Si fermò in cortile, ne scesero quattro persone. Riconobbi il braccio destro di Marozin, Agnelli, e una partigiana amica di lui. Gli

altri due, un uomo e una donna, avevano dei grossi occhiali neri. Quando se li levarono riconobbi subito Valenti e la Ferida. Ricordo che mio marito mi disse: «È un ufficiale della Decima, si è messo nei guai con i tedeschi che adesso lo cercano per fargli la pelle e adesso si mette in altri guai con i partigiani. Chi glielo fa fare...». La signora Annunciata crolla il capo, come quando si parla di bambini terribili. «Mi faceva un certo effetto, aver davanti due attori che avevo ammirato tante volte al cinema. Andai da Valenti e gli dissi : “Lei è Osvaldo Valenti, vero?” “Si, signora” rispose lui “e questa è Luisa Ferida".»

«Erano gentili e simpatici» continua la signora Annunciata. «Vedendoli non si poteva credere che avessero fatto qualche cosa di male. Domandai a Valenti come mai si trovasse fra i partigiani. “Non sono partigiano, signora” rispose. “Sono soltanto italiano. È difficile fare una scelta.” “Ma lei è cercato dai tedeschi, se lo sanno, mi incendiano la cascina”.»

La signora Annunciata è vestita di nero, ha i capelli bianchi, gli occhi chiari, un viso dolce. A questo punto la sua voce si fa misteriosa, come quella della nonna che sta preparando l’ingresso del lupo nella sua favola antica.

«Dissi così per vedere come mi rispondevano», riprende, «e subito Agnelli mi rassicurò. “Stia tranquilla, signora” disse “anche se le incendiano la cascina, i signori qui hanno di che ripagarla.” Ricordo che si mise a ridere. Non mi piacque affatto. Pensai che a-vessero fame e preparai da mangiare. Fu una strana cena. Apparentemente erano tutti in armonia, scherzavano insieme. Ma sentivo che qualcosa non andava. Dopo cena, Valenti venne da me in cucina e mi consegnò una borsa a rete che conteneva un grosso pacco. “Mi dovrebbe fare il piacere di tenere questa roba” mi disse. “Ci sono 400.000 lire e i gioielli di Luisa. È tutto frutto del nostro lavoro,

è tutto pulito.” Presi la borsa, ero imbarazzata. Quando mi girai, avevo due partigiani davanti a me. Restarono immobili e io passai in mezzo a loro. Al piano di sopra avevamo una cassaforte a muro: vi misi la borsa e scesi con la chiave. Valenti era tornato in sala da pranzo. Gli andai vicino. “La cassaforte era vuota, adesso c'è soltanto la sua borsa. Questa è la chiave.” Ricordo che Valenti mi guardò e mi sorrise. “Le persone" mi disse “si conoscono subito. Tenga lei quella chiave, è come se la tenessi io.”

1958 04 06 Epoca Luisa Ferida f3Il conte Toni De Larderei (qui sopra, a sinistra) è il personaggio più romanzesco di questa vicenda. Tiratore infallibile, un giorno egli salvò, solo con le sue pistole, Valenti e la Ferida da venti armati che volevano linciarli. A destra è il genero della signora Rossi, il signor Goglio, anch’egli testimone del dramma.

«Il giorno dopo», riprende la signora Annunciata, «ebbi una prima conferma ai timori che avevo provato, istintivamente, fino dal primo momento. Uno degli uomini di Marozin prese in disparte mìo marito e gli fece un lungo discorso, ora minaccioso, ora amichevole, sempre confuso. In sostanza disse che mio marito, come padrone di casa, doveva ritenersi responsabile di quanto accadeva nella cascina e che Valenti e la Ferida avevano intenzione di scappare. Gli disse che sarebbe stato meglio per tutti se mio marito li avesse uccisi. Mio marito gli rispose che, se volevano ucciderli, dovevano portarseli via loro, e il discorso finì lì. Preoccupatissimo, mio marito andò da Valenti e in breve ebbe la certezza che né lui né la Ferida avevano alcuna intenzione di fuggire. “Ho dato la mia parola di ufficiale” gli aveva risposto Valenti “e non mi muovo. Marozin è un gentiluomo. Non devi aver paura per noi”. Con questa cieca fiducia Valenti e la Ferida rimasero nella nostra cascina, molto probabilmente senza nemmeno sospettare di essere prigionieri. Gli uomini di Marozin facevano una guardia stretta, ma poteva anche sembrare che li proteggessero da eventuali colpi di mano di altre bande, che forse avevano fiutato quella preda così ricca.»

«Una volta me la vidi brutta davvero, vi ricordate?» Il signorGoglio, che è intervenuto nel rac conto, è un uomo forte e ottimi Adesso tutti guardano lui. «Un pomeriggio», racconta, «al cancello della cascina arrivò una banda di quindici o venti partigiani. Dovevano aver preparato un colpo a sorpresa, perché in quel momento gli uomini di Marozin erano impegnati fuori. Cominciarono ad arrampicarsi sulla cancellata, gridando che volevano Valenti e la Ferida. Armati e imbestialiti come erano, chissà cosa avrebbero potuto fare: ma per fortuna, quel giorno, c’era il conte Toni De Larderei da noi. Lo ha conosciuto lei, Toni?»

«No, ne ho sentito parlare soltanto.»

«Toni era un ragazzo eccezionale. In nessun film western ho visto maneggiare le pistole come le maneggiava lui. Si divertiva a tirare un soldo in aria e a bucarlo: e non sbagliava mai. Corsi da lui come all’unica possibilità di salvezza. Toni dormiva. Si tirò giù dal letto con calma, mi domandò quanti fossero. Ricordo che prese le pistole, le controllò e venne fuori con me, come se fosse la cosa più naturale del mondo: non senza essersi fermato prima davanti allo specchio per vedere se aveva la lingua bianca. Si lamentava di aver digerito male, quel giorno. Uscì fuori da solo, a passi lenti. Quelli stavano già per scendere dalla cancellata. “Chi è che vuole morire per primo?” domandò, tranquillo. Aveva le due pistole puntate, era fermo come una statua. Ci fu un attimo di perplessità, e Toni fece ancora un passo in avanti. Un minuto dopo scappavano tutti come lepri. Per quella sera Valenti e la Ferida erano salvi. Ancor oggi mi domando se quella volta ho sognato.»

«Mi piacerebbe vederlo, questo Toni. Sa dov’è?»

«Toni è morto. Individui cosi non possono condurre la vita degli altri. Finita la guerra qui, era andato nell’Angola. Mi hanno detto che in due anni era diventato capo dell’esercito, o qualcosa di stille. Con un uomo come lui non ci sarebbe niente di strano: e in un Paese come quello, dove vivono varie milioni di negri con cinquantamila bianchi soltanto. È morto anno scorso, povero Toni»

«Toni sapeva la verità, su tutta questa faccenda», riprende la signora Annunciata. «Toni era un agazzo meraviglioso. Se ci fosse tato lui, il 26 di aprile, da noi... Quel giorno arrivò Marozin, chiamò Il mio povero marito e gli domandò i gioielli. “Tirali fuori e dammi la tua parola d’onore che non dici niente a nessuno’’ gli dise. Mio marito si rese conto che non c’era altro da fare e siccome a chiave l’avevo io, mi disse di obbedire. Andai su accompagnata da Agnelli Aprii la cassaforte. Presi la borsa di rete e ne tolsi il pacco: era una grossa busta rigonfia. In quel momento ebbi la percezione esatta che Valenti e la Ferida non avrebbero più rivisto l gioielli e che io non avrei più rivisto nemmeno loro. Domandai: “Volete proprio tutto?” Agnelli alzò le spalle. Allora tolsi 30.000 lire, un brillante e una spilla d'oro con su scritto Luisa, per salvare almeno qualche cosa. Avrei preso dell’altro, ma Agnelli mi tolse la busta dalle mani, bruscamente. Aprì la finestra della camera. Sotto c’erano due partigiani che aspettavano, con una macchina. Buttò la busta. Sentii la macchina che si allontanava. Allora scendemmo le scale, trovammo Marozin che stava scherzando con Valenti e con la Ferida. Quando ci vide si alzò in fretta, venne da noi e domandò a bassa voce: “Fatto tutto?". Agnelli accennò di si col capo. Allora salutò e se ne andò in fretta. Erano le dodici e trenta. Alle quattro rividi la Ferida. Mi disse: “Mammina, andiamo ad aprire la cassaforte. Marozin è stato tanto generoso con noi, vorrei dargli un anello come segno di riconoscenza".

«Mi sentii mancare. Risposi che mi avevano rubato la chiave. Allora Luisa andò a chiamare Valenti. Raccontai tutto e consegnai quel poco che avevo salvato. Da quel momento Valenti capi di essere stato tradito e di non aver più speranza. Luisa invece sperava ancora. Io, mio marito e i miei avevamo capito che non c’era più niente da fare per quei due infelici ed eravamo desolati. In serata arrivò Toni e gli raccontammo tutto. Ricordo di averlo visto impallidire. Mormorò: “Che vigliacchi", senza precisare chi. Ma lui sapeva certamente, perché non volle nemmeno entrare e cenare. “Vado a Milano a vedere cosa hanno fatto, tomo più tardi”, ci disse. Tornò a notte alta, lo aspettavamo con ansia. Non volle raccontarci nulla, ma era stravolto. “Chiamatemi alle cinque, torno giù e riprendo tutto.” Poi si accorse che avevamo paura e ci indicò le sue famose pistole schiacciando l’occhio. Ci sentimmo meglio. Il mattino dopo, appena arrivato a Milano, fu circondato da un gruppo di partigiani, arrestato e tradotto a San Vittore nonostante le sue proteste. Il destino di Valenti e della Rorida, ormai, era segnato.»

Un confronto anche sommario fra le dichiarazioni rese dal comandante Marozin e queste ultime della signora Rossi e del signor Goglio rivela sensibili differenze. Il nostro compito 6 stato quello di riportane quanto ci è stato dettò e non sta a noi andare più in là dei fatti. Un fatto, tuttavia, è anche quello che due rappresentanti della Legge, un giudice istruttore ed un sostituto procuratore abbiano ravvisato nella stessa storia e sulla base degli stessi elementi di giudizio due estremi cosi distanti come l'esecuzione di un ordine le-gii timo c la regolare confisca di un bene da un lato e il duplice omicidio volontario e l'appropriazione di gioielli e denaro dall’altro. Da questi due estremi sono conseguiti il proscioglimento di Giuseppe Marozin da ogni addebito e il ricorso avverso al proscioglimento. Dal ricorso è conseguita, logicamente, la richiesta di rinvio a giudizio davanti alla Corte d’Assise.

Perché il sostituto procuratore dottor Vitolo ha impugnato la sentenza del giudice istruttore ed ha riaperto, a tredici anni di distanza. un caso destinato ad avere così ampia ripercussione? Egli stesso, nel corso del colloquio che ci ha accordato, ha esposto alcuni elementi di diritto e di fatto che lo hanno spinto al ricorso. «Dall'esame obbiettivo dei fatti», mi ha detto il dottor Vitolo, «una prima domanda sorge spontanea: «notino politico o pretesto politico? In entrambi i casi è necessario il giudizio della Corte poiché, sul piano giuridico, non è ammissibile il proscioglimento per l’omicidio, anche se fosse determinato da motivi politici. Marozin stesso ammette», ha aggiunto il dottor Vitolo, «di aver preso i gioielli della Ferida e sostiene che si è trattato di confisca. Ma anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un assurdo giuridico. Il bene del condannato non può essere confiscato, se la provenienza di questo bene è legittima. E nessuno ha mai messo in dubbio che i beni di Valenti e della Ferida fossero fruttodella loro ben remunerata attività artistica.

Ma, anche in linea di fatto, lo svolgersi degli avvenimenti non può che aumentare le perplessità. Quando Valenti e la Ferida giungono alla cascina di Monzoro, Marozin appare loro amico e protettore. Arriva al punto di rifare una specie di processo sul posto, assumendo la parte del difensore, e il processo non conclude praticamente nulla a danno di Valenti. Improvvisamente i gioielli vengono fatti sparire, e con la frode, mentre una confisca regolare avrebbe dovuto essere operata alla luce del sole. Da quel momento i rapporti fra Marozin e i suoi ospiti-prigionieri cambiano radicalmente. Valenti e la Ferida vengono portati via da Monzoro, arrivano a Milano, Marozin non vuole più vederli e infine vengono fucilati. Tutto ciò è sintomatico. C’è un aspetto curioso», prosegue il dottor Vitolo, «nel quadro della prima istruttoria. Il Marozin, pur così incline a far giustizia sommaria di amici e nemici, avrebbe temporeggiato nel caso dei due attori perché soggiogato dal fascino di Luisa Ferida. Ritengo che questa variazione sia piuttosto romanzesca. È ora che la ricerca della prova in questo procedimento rientri nei limiti di una maggiore concretezza.»

A questa concretezza riconducono molte dichiarazioni rese in istruttoria dallo stesso Marozin e da alcuni testi. Il dottor Vitolo mi ha fatto rilevare, nel corso del colloquio, come Giuseppe Marozin si appropriò di un certo numero di automezzi che, protetti dalla targa della Croce Rossa, iniziarono una redditizia attività: quella della Cooperativa Autotrasjwrti Veneta, che sembra abbia fruttato utili ragguardevoli ai suoi soci. Nel quadro della prima istruttoria che pure è del tutto favorevole al Marozin, questa appropriazione è definita illecita e si rileva che il Marozin si considerava un capò assolutamente indipendente dalla stessa gerarchia della Resistenza al punto di «disporre della vita degli stessi partigiani con tanta leggerezza, di averne malamente giudicati e fatti fucilare tanti da essere stato dichiarato fuorilegge dallo stesso C.L.N. che aveva imposto il suo allontanamento dalla zona.

1958 04 06 Epoca Luisa Ferida f4La sorella di Osvaldo Valenti, signora Nelly Luciani. La notizia della tragedia la colse a Roma. Partì immediatamente e, raggiunta Milano con mezzi di fortuna, la coraggiosa signora riusci a identificare alcuni dei banditi che avevano rubato i dodici bauli pieni di pellicce, di vestiti e di molti oggetti preziosi di proprietà del fratello e di Luisa Ferida. Soltanto due di questi bauli poterono a quell’epoca venire recuperati dalla polizia e si trovano tuttora al Palazzo di Giustizia milanese.

Forse il mistero non verrà mai svelato

Come si vede la sezione istruttoria che dovrà ora accettare o respingere il ricorso del sostituto procuratore, si trova di fronte ad un caso assai delicato e complesso. Un caso, soprattutto, che troppo facilmente può condurre a parteggiare per l’uno o per l'altro dei personaggi investendoli di un significato che, in fondo, né l’uno né l’altro ebbero mai. Né Valenti che indossava la divisa della Decima Mas come avrebbe indossato il costume di D’Artagnan: perché il suo abito mentale era quello di un D’Artagnan; né Marozin che, con le stelle di capo partigiano sul petto, doveva conoscere il piombo e l’odio proprio dei partigiani.

Questa che abbiamo cercato di ricostruire è stata soltanto la storia di un uomo e di una donna: una storia a cui i ancora oggi, a tanti anni di distanza, mancano troppe parole e talvolta pagine intere. Riusciremo, un giorno, a leggerla tutta?

È molto difficile. Ad un certo punto si è portata nel dubbio anche la stessa fine dei resti delle due vittime. Una partigiana comunista, adesso diventata monaca, raccontò di aver visto i corpi di Valenti e della Ferida finire nell’Olona, subito dopo l’esecuzione. Eppure don Terzoli, un prete partigiano, accorse presso i giustiziati appena caduti sotto le raffiche dei mitra, amministrò loro i Sacramenti e ne scortò le salme fino a Musocco. La sorella di Valenti, signora Nelly Luciani, giunta avventurosamente da Roma a Milano per sapere la verità, riuscì a far aprire le bare e riconobbe entrambe le vittime. «Osvaldo era intatto, aveva una manosul fianco, dove gli avevano sparato gli ultimi colpi», mi ha detto. «Il suo viso era rivolto verso l’alto. Era ancora sereno e sicuro. Anche la povera Luisina, ho riconosciuto. Mi sa dire perché hanno cercato di farmi perdere anche il conforto di posare un fiore su quelle tombe?» Non ho saputo che rispondere.

"C’è troppa paura in giro, ancora adesso"

«Ma c’è di più. Qualcuno ha detto e scritto che Osvaldo e Luisa non sono mai stati fucilati e che vivono in Svizzera.Ricordo che una notte suonò alla porta della mia casa di Roma. Non lo avevo mai visto: era Giuseppe Marozin. Mi disse: “Ho sentito dire che suo fratello e la Ferida sarebbero ancora vivi. Vorrei avvertirla che sono certamente morti, ho dovuto farli giustiziare. Vorrei dirle che, se lei cerca i bauli da noi, sbaglia strada. Noi non abbiamo preso i bauli". Era pallido, nervoso. Mi domandò se lo odiassi, gli risposi di no. Io non odio nessuno: mi basterebbe soltanto che si sapesse la verità, e questo non sarà mai possibile del tutto.»

«Poche ore prima di morire», ha proseguito la signora Luciani, «Osvaldo scrisse una lettera indirizzata a noi. Posso dirle con assoluta certezza che era una lettera di molti fogli. La lettera fu consegnata ad un architetto, che ospitò Osvaldo e Luisa per ordine di Marozin nella stessa casa di lui in via Guerrazzi al 14. Da tredici anni io cerco di sapere dove sia finita quella lettera. Marozin mi ha detto di non averla mai vista. Tutti gli altri dicono di non sapere, di non ricordare. C’è tanta paura in giro, ancora adesso. Ormai non ho più speranza di trovare quella lettera, ma spero con tutte le mie forze che si sappia la verità: Osvaldo è stato ucciso per essere derubato, non perché si fosse macchiato di colpe. Lei crede nell’al di là? I morti ci guardano.»

Il discorso sta andando troppo lontano da noi. Anche qui ci sono molte cose da fare. Iddio non paga il sabato ma gli uomini, qualche volta, hanno pagato anche di venerdì

Giuseppe Grazzini, «Epoca», anno IX, n.392, 6 aprile 1958


Epoca
Giuseppe Grazzini, «Epoca», anno IX, n.391 e 392, 30 marzo, 6 aprile 1958