Marcello Mastroianni, la paura di essere divo

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Con i suoi 44 film, dopo il successo della “ Dolce vita” e quello che già si dice del “Bell’Antonio”, Mastroianni è ormai un attore arrivato: in questa intervista, sincera e spregiudicata, egli parla del suo lavoro e spiega perchè, nel cinema italiano, non si possa mai avere la sicurezza del domani.

1960 Noi donne Marcello Mastroianni f0Come uscito da uno degli enormi manifesti all’angolo della strada, Marcello Mastroianni mi viene incontro sorridendo nella saletta di un caffè romano: siamo amici da quindici anni, eppure avere un appuntamento con lui, di questi giorni, non mi è stato facile. All’improvviso, Marcello sembra diventato l’attore dei film «scandalosi»: è cominciato con La dolce vita, il film di cui ogni italiano al di sopra dei sei anni, forse, ha discusso; ora, continua con Il bell’Antonio, di cui si è già scritto tanto e che è incappato nella censura, senza una precisa ragione, come al solito. Strana sorte per un attore come Mastroianni, che il cinema italiano sembrava aver destinato senza speranza al ruolo di «bravo ragazzo», per via di quel suo viso aperto e onesto, da «uomo della strada». Un viso che avrebbe potuto costituire un efficace elemento di verità in film che rispecchiassero la vita italiana di tutti i giorni e che, invece, nella triste situazione della nostra cinematografia, aveva finito per obbligare Marcello a figurare in una serie di film (quarantaquattro, per l’esattezza) più o meno convenzionali, tra i quali spiccava solo qualche opera di autentico interesse. Ma in questo ultimo anno, il cinema italiano ha avuto una notevole ripresa e Mastroianni ha potuto finalmente interpretare ruoli intelligenti e interessanti, dimostrando — come già aveva fatto sulle scene teatrali — che la sua aria da «bravo ragazzo» può rendere anche più umani e veri personaggi tutt’altro che «ingenui». Ancora oggi, però, quel che è intelligente e interessante diventa facilmente «scandaloso» con il clima che circola in Italia — e questo spiega il fenomeno.

Marcello, tuttavia, non ne sembra affatto turbato — anzi. Come ogni attore serio, egli ha sempre aspirato a interpretare personaggi che abbiano qualcosa da dire: «In fondo — dice — è perfino più facile. Spesso il pubblico non capisce che un attore è tanto più bravo quanto più banale è il film che interpreta: sai, la vera difficoltà sta nel non fare la figura dello sciocco quando devi presentarti nei panni di un tizio che sembra venuto dalla luna. Viva la faccia di Marcello Rubini!».

Infatti, interpretare la figura del giornalista della Dolce vita è stato veramente importante per Mastroianni: lo ha cambiato perfino nel carattere. Quando, ancora fresco delle immagini del film, ho cominciato a porgli le domande per questa intervista, ne ho avuto la certezza: benché avesse già finito di girare anche Il bell’Antonio, Marcello Mastroianni si sentiva ancora Marcello Rubini. Il che dimostra come per un attore sia proprio il lavoro la parte più importante della vita: ed è per questo che, a me e a lui, è sembrato giusto parlare soprattutto di lavoro, invece di scantonare sugli episodi e i pettegolezzi di vita privata che, di solito, i giornali portano in primo piano, quando si occupano di un «divo» o di una «diva». Chi può negare che sia più interessante capire che cosa prova un attore quando pensa al suo personaggio o quando sta dinanzi alla macchina da presa, piuttosto che sapere quali cravatte considera più adatte, che tipo di donna preferisce, in che rapporti è con la sua famiglia?

Eccolo qui, Mastroianni, seduto accanto a me, con la sua aria un po’ indolente e un po’ preoccupata, pronto ad appassionarsi a una discussione eppure sempre sul punto di abbandonarsi al corso degli avvenimenti — le migliaia di battute che ha recitato, i diversi sentimenti che ha espresso, le situazioni che ha dovuto affrontare, sullo schermo e sul palcoscenico, nei panni dell’ufficiale zarista o dell’operaio americano, del metropolitano o del contadino, del ladruncolo o del giornalista, che traccia hanno lasciato dentro di lui? «E’ proprio come si racconta, sai... Ogni tanto mi è capitato di svegliarmi la notte e di chiedermi: ma insomma, io chi sono? E’ tutto un giuoco, come quando, da ragazzi, si fa a guardie e ladri — anche allora, se fai il ladro lo fai sul serio, rispettando tutte le regole», confessa.

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«Ma quando esci dal teatro o dallo studio cinematografico finisce subito tutto?».

«Eh, no, il giuoco continua. Finisci per sentirti un po’ nei panni del personaggio anche mentre vivi la vita di tutti i giorni. Del resto, questo aiuta, specialmente nel cinema. A teatro, ogni sera, tu "entri” nel personaggio con la prima battuta del primo atto e vai avanti finché non cala il sipario. Girare un film è diverso: ti capita spesso di riprendere oggi una scena che hai interrotto un mese fa — e devi riprenderla al punto giuste, con la stessa emozione, lo stesso tono di voce, la stessa espressione sul viso. E’ un lavoro d’istinto, quasi uno scatto automatico: tac, e riprendi dove hai lasciato. Come sarebbe possibile, se non ti sentissi costantemente nei panni di quel personaggio?».

«Ma la lavorazione di un film dura anche parecchi mesi...».

«Certo. Ma durante quei mesi si finisce per vivere quasi sempre con la stessa gente: il regista, gli attori del film, qualche amico che conosce la storia che stai girando... Anche quando non stai dinanzi alla macchina da presa, vivi nell’atmosfera del film. Naturalmente, parlo di film che appassionano, che hanno qualcosa da dire, e nei quali esistono dei veri personaggi. Altrimenti è ben diverso».

«Intervistando alcune giovanissime attrici, l’anno scorso — osservo — mi son sentito dire che, per loro, recitare dinanzi alla macchina da presa era come muoversi per le stanze di casa. Rifacevano se stesse e questo era tutto».

«Già — sorride Marcello — e, infatti, non cambiano mai. Anche a me è accaduto, qualche volta. E’ cosi si diventa un «tipo» e si finisce per interpretare sempre lo stesso ruolo. Ma il lavoro dell’attore è un altro. Vedi, io sono convinto che gli attori sono, in fondo, persone che non sanno vivere sul serio, che non hanno un carattere abbastanza forte. Cosi, sfuggono a la realtà vestendo i panni dei loro personaggi — è come vivere i propri sogni».

«E qual è il sogno che ti è piaciuto di più? Qual è, tra i personaggi che hai interpretato, quello che avresti voluto essere anche nella vita?».

«Il personaggio del Tram che si chiama desiderio; ma non quello che ho interpretato lo: quello che, in America, è stato interpretato da Marion Brando. Proprio perchè è il più lontano dalla mia vera natura».

«Già, infatti, è un duro» dico io e Mastroianni ride: gli piace prendersi in giro. «Ma, secondo questa tua teoria, un attore dovrebbe finire anche per innamorarsi davvero delle donne che ama sullo schermo...».

«Sarebbe un bel disastro!».

«Non credo, nel tuo caso!» ribatto io, pensando alle compagne di lavoro che Marcello ha avuto durante la sua carriera: da Sofia Loren a Michèle Morgan, a Marina Vlady, ad Anita Ekberg, a Maria Schell, Claudia Cardinale.

«Lascia andare! Ti dirò che, la prima volta che mi è capitato di trovarmi dinanzi alla macchina da presa, anch’io ho creduto che sarebbe andata a finire come dici tu. Facevo un provino, il mio primo provino, per un film di Emmer, al quale poi non presi parte. La mia partner era Lucia Bosè, quella ragazza deliziosa che tutti ricordiamo. Mi sembrò subito di esserne cotto: tra l’altro Io recitavo in abito da sacerdote — chissà, forse per questo il provino non andò come doveva! Comunque, la ” cotta ” mi durò quarantott’ore soltanto, per fortuna. Da allora in poi, è stato sempre meno emozionante. Certo, mentre reciti una scena d’amore, provi sempre un certo trasporto per la donna che hai vicino, specialmente se si tratta di un film "impegnato”, ma non si va più in là».

«Quindi è un giuoco anche questo. Anche i baci sono un giuoco...» dico io, pensando a quando, nel buio d’una sala, noi spettatori, mettendoci al posto dell’attore che vediamo muovere sullo schermo, sospiriamo di invidia.

«No, no, no, i baci sono veri. Ma è come fumare una sigaretta: ci si fa l’abitudine. D’altra parte, sai che anche per la tua compagna è cosi: conosci bene l’avversario. E, tutto sommato, finisci per preferire le ragazze che non hanno nulla a che fare col cinema. Può darsi che siano meno belle, ma in fin dei conti, sono più vere, più autentiche. Ciò non toglie che, per alcune attrici, io abbia una viva simpatia, una affettuosa amicizia, come per Sofia...».

Sofia Loren è legata ai primi film di successo di Marcello, a quel Peccato che sia una canaglia dopo il quale Mastroiannl divenne veramente popolare. Ricordando quel film, ci troviamo naturalmente a parlare degli inizi della sua carriera, prima nel teatro e poi nel cinema. Anche per me questi sono ricordi: eravamo tutt’e due studenti universitari e partecipavamo tutt’e due alla vita del Centro universitario teatrale. Marcello era allora un ragazzo un po’ scontroso, ma caro a tutti proprio per la sua generosità, la sua sincerità. E fu al Centro universitario teatrale che cominciò la sua carriera di attore con Libelei, prima sotto la regia di Pietro Masse-rano Taricco, poi di Carlo Di Stefano. Marcello era anche impiegato all'Eagle-Lion, una società cinematografica inglese: doveva guadagnarsi da vivere e lavorava sodo. Un bel giorno, un collega dovette subire un’ingiustizia: d’istinto, Marcello prese le sue difese e litigò con il direttore. Naturalmente fu licenziato.

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«Un bel guaio, date le mie condizioni economiche» mi dice. «Tu ricordi come andavano le cose. Ma fu anche una fortuna, credo: senza quel licenziamento, forse oggi sarei ancora dietro un tavolo d’ufficio». Ma a me torna in mente la sua espressione testarda, mentre per ore e ore, in casa di amici, provava la parte per le recite del Centro: no, era chiarissimo già da allora che sarebbe diventato un attore. Il suo vero lavoro era quello.

Attraverso Giulietta Masina, con la quale aveva recitato Angelica per il teatro universitario, Marcello ebbe la sua prima vera scrittura in compagnia con Besozzi e Carla Del Poggio, a 700 lire al giorno. «Fu il primo lavoro in una compagnia regolare e anche la mia prima vacanza. Era estate e girammo tutti i centri di villeggiatura della costa tirrenica, da Salerno a Sanremo: quanti bagni!» ricorda Mastroianni. «Il pubblico mi eccitava, ma mi chiedevo se qualcuno si sarebbe mal accorto sul serio di me». Qualcuno se ne accorse e fu un «qualcuno» importante: l’amministratore della compagnia diretta da Luchino Visconti. Marcello passò con Visconti a 2.500 lire al giorno: nella prima commedia, Rosalinda, diceva una sola battuta: ma poi venne Il tram che si chiama desiderio e Marcello ebbe la sua prima parte di rilievo.

«Le prove con Visconti erano dure» dice serio. «Di tanto in tanto mi sentivo chiedere, quasi con ferocia: ma chi t’ha messo in testa di fare l’attore?! Roba da sentirsi male. Ma poi c’erano anche le lodi, e, insomma, andò bene. Io cercavo di capire esattamente le indicazioni di Visconti e di ragionarci su — da allora, ho sempre fatto cosi. Per questo ti dirò che, la prima volta che mi trovai a fare del cinema, mi sentii a disagio. Era tutta un’altra musica. Non che andasse peggio, proprio il contrario. Mi mettevo davanti alla macchina da presa, pronunciavo le mie battute e mi sentivo dire che ero molto bravo: non ero abituato ad essere trattato così. Il film era Domenica d’agosto: anch’io, allora, rifacevo me stesso e me la cavavo».

«Vederti sullo schermo ti emozionava?».

«Sì e no. Forse mi faceva più rabbia che altro. Ero convinto di poter fare molto meglio, mi pareva di essere stato male utilizzato... Ero sempre piuttosto deluso, insomma».

«Poi, a uno a uno, sono venuti gli altri quarantatrè film e la tua delusione deve essere diminuita...».

«Già, tu lo dici come se si fosse trattato di una scala, un gradino dopo l’altro... Non è cosi, qui da noi, in Italia, non è affatto cosi. Si va a ventate e un attore non si sente mai sicuro».

«Ma tu, ormai, sei arrivato. Recentemente, un referendum ha rivelato che tu sei l’attore più popolare tra le ragazze italiane: il che non è poco. Puoi considerarti un divo, ormai...». Lo dico con una punta di malizia, perchè so benissimo che Mastroianni è tutto fuorché un divo. Ha sempre evitato accuratamente di mostrarsi tale: il segno più evidente è che i fatti della sua vita non hanno mai occupato le pagine dei rotocalchi.

«Guarda, ho fatto quarantaquattro film e non so proprio cosa potrà accadermi domani. Adesso tutti mi cercano, tutti mi vogliono — e questo è proprio quello che mi fa tremare. In questo mondo del cinema, le posizioni sono sempre fragili: cambia il vento e sei finito». Lo guardo incerto. Conosco bene la sua sincerità, ma questa storia della sua incertezza mi lascia un po’ incredulo. Marcello se n’è accorto. «Non mi credi?» dice. «Beh, ascolta: sai qual è stato il momento nel quale ho temuto di più di essere finito, di ”aver chiuso”, come si dice? Sei mesi dopo aver fatto Le notti bianche, uno dei miei film migliori, quello per il quale avevo avuto la segnalazione a Venezia. Nessuno mi cercava più, sembrava che non ci fossero più personaggi per me. Eppure, quel film l’avevo fatto con tanta passione, proprio perchè volevo fare qualcosa di serio, finalmente. E ora che c’ero riuscito, tutto sembrava finito. La famosa telefonata non arrivava più...».

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«Cos’è la famosa telefonata?».

«E’ la vita degli attori di cinema. E’ la telefonata del produttore che ti propone un contratto. Vedi, noi non abbiamo un’industria cinematografica seria, nella quale si possa fare una regolare carriera, da un film all’altro, sempre meglio. Si vive alla giornata, tutto è provvisorio: da un giorno all’altro, si decide di fare un film e non lo si fa più. E’ raro che si costruisca un film pensando a te...».

«Io so che Fellini, scrivendo La dolce vita, ha sempre pensato a te!» lo interrompo. «E’ vero, ma è un’eccezione. In genere, si trovano dei quattrini, poi si mette insieme una sceneggiatura, poi si cercano gli attori: se Tizio è libero, bene; altrimenti, si usa Caio. E’ questo il momento della telefonata...».

«Insomma, il telefono è quasi uno strumento di lavoro...» osservo, scherzando.

«Già, e per questo non hai mai la sicurezza che, fatto un film, ne farai un altro. Nè sai che tipo di film ti toccherà fare. C’è un modo di uscire da questa incertezza ed è quello di firmare un contratto per vari anni con un grossa casa di produzione (ne esistono ben poche). Ma questo comporta un altro grosso rischio: quello di avere le mani legate e di essere obbligato a fare magari due o tre film in serie, sempre con lo stesso personaggio, fino alla nausea. Il fatto è che, da noi, quello dell’attore di cinema non è ancora un mestiere vero e proprio: del resto, anche per il pubblico, l’attore non è un po’ uno che ha vinto al totocalcio?».

«Beh, devi ammettere che per alcuni tipi che vediamo sullo schermo è stato proprio così» dico io e Marcello sorride, senza pronunciarsi.

«Dunque, anche ad essere arrivati, non si finisce di aver paura?».

«Per me la paura aumenta addirittura, ti assicuro».

«Ma allora, tu preferisci il teatro?».

«Il teatro è senza dubbio tutt’altra cosa. E’ più solido, per cosi dire. E, infatti, io non l’ho mai abbandonato, nè ho intenzione di abbandonarlo. Vedi, ad esempio, l’attore di teatro recita finché sì regge sulle gambe ed è capace di pronunciare le battute — quanti attori sono morti sulla scena? Pensare di invecchiare sullo schermo è quasi impossibile...».

«In America è diverso, non è vero?».

«Forse sì. Certo, laggiù l’attore di cinema ha dinanzi a sè una vera carriera: vedi che ci sono attori come Gary Cooper che recitano da quando noi eravamo ragazzi. Forse impostano anche la loro vita in un modo diverso, perchè sanno di avere una diversa prospettiva... Ma da noi, tu finisci per abituarti a bruciare tutto quel che hai immediatamente, senza curarti di quel che verrà dopo, proprio perchè non sai se, dopo, verrà qualcosa. Se hai il vento in poppa, approfittane, finché sei in tempo!».

«E tu non hai mai tentato di andare in America?».

«Ti dirò che una volta ho avuto un incontro con un famoso produttore americano, Harold Hecht. Ci parlavamo attraverso un interprete perchè io non conosco l’inglese. Personalmente, mi disse, non aveva mai visto un mio film, ma di me gli aveva parlato il regista Cukor, che era rimasto colpito da Peccato che sia una canaglia. Comunque, fu una conversazione molto breve: io non sapevo l’inglese e, quindi, non c’era nulla da fare. Avevo quasi dimenticato tutto, quando. dopo un mese, mi giunse una lettera con una sola riga di testo: ”Si ricordi di studiare l’inglese - Harold Hecht”. Un bel tipo! Ti dirò che, recentemente, mi è tornata in mente la proposta di cui avevamo parlato: un film di David Lean su una storia di soldati in un campo di concentramento giapponese...».

«Il ponte sul fiume Kway!» esclamo, di istinto.

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«Anch’io ho avuto questo dubbio. Chissà, forse avrei dovuto fare la parte del giovane ufficiale che ha paura di usare il coltello. Quello è stato il mio solo incontro col cinema americano, comunque. Ma ti dirò che non ho rimpianti, finora. In fondo, sono anch’io un personaggio di questo cinema italiano e mi diverte l’avventura; temo l’incertezza, ma mi abbandono a questo vivere giorno per giorno...».

Ecco: questa sembra una battuta di Marcello nella Dolce vita, sembra proprio tirata fuori dal copione. Eppure so che pochi come Mastroianni sono seri nel proprio lavoro, so che a lui piace davvero recitare in film di valore: per fare Le notti bianche giunse a inventare un finanziatore, finché i milioni non si trovarono davvero; adesso, ha accettato il ruolo nel Bell’Antonio, rinunciando a offerte molto più vantaggiose dal punto di vista finanziario, perchè il personaggio lo interessava. Mastroianni rimane un attore cui piace soprattutto lavorare. E lo dice. «Questa è la mia vita. E’ dura, è faticosa, non so mai come andrà a finire, ma non la cambierei per nessuna altra al mondo. Dinanzi al lavoro, tutto il resto non conta...».

Ed è proprio per questo che, stringendogli la mano, mi sembra che il miglior augurio da fargli sia: «Buon lavoro, Marcello!».

Giovanni Cesareo, «Noi donne», 1960


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Giovanni Cesareo, «Noi donne», 1960