Mario Monicelli, un eroe del nostro tempo

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Se n’è andato uno dei più sapienti Artigiani del nostro cinema, grande narratore e appassionato testimone della cultura e dell’umanità italiane Quindici anni fa aveva scelto la militanza, di occuparsi del mondo e della vita, sposando battaglie che riteneva giuste: raccontare l'attualità e salvare l’arte.

Negli ultimi anni, ogni volta che gli si chiedeva un'intervista, Mario Monicelli poneva dei paletti: «Non vi siete stufati di parlare di cinema? Se volete parlare d'altro, sono felicissimo, se no lasciamo perdere». E «l'altro», per lui, era il mondo, la vita: dagli 80 anni in poi - verrebbe da dire: dalla discesa in campo di Berlusconi in poi, ma forse è solo una coincidenza... o forse no - Monicelli era diventato una specie di cronista, appassionato dell'attualità, affamato di tele e radiogiornali; ed era sempre pronto a commentare le nefandezze della politica e a sposare ogni causa che gli sembrasse giusta.

Come quando aveva partecipato, da cineasta «militante», ai documentari sul G8 di Genova (Un altro mondo è possibile) e sul Medio Oriente (Lettere dalla Palestina). Non e certo un caso die l'ultimo titolo della sua sterminata filmografia sia, paradossalmente, il suo primo documentario: Virino al Colosseo ce Monti, un'affettuosa ricognizione nel quartiere romano dove abitava da anni. E però, di cinema, bisogna pur parlare. Per sottolineare che Monicelli e stato un grande regista, oltre che un grande narratore e un appassionato testimone della cultura e dell'umanità italiane. Facciamogli un ultimo sgarbo: prendiamo I soliti ignoti, film del quale non sopportava più nemmeno il titolo, perchè sosteneva che troppi lo ricordavano solo per quello, o al massimo per La grande guerra o per L'armata Brancaleone - quando lui prediligeva altri titoli, magari meno fortunati, come Romanzo popolare o Speriamo che sia femmina, Non ti arrabbiare, Mario: ma prendiamo, per un attimo, I soliti ignoti. Ad esempio, la sequenza in cui entra in scena Tiberio, il fotografo con la moglie in galera e il pupo a carico interpretato da Marcello Mastroianni.

Mario, Capannello e Ferribotte lo vanno a cercare a casa: dal momento in cui entrano fino alla conclusione della scena, la macchina da presa di Monicelli segue i personaggi in un sinuoso piano-sequenza da far invidia ad Antonioni o ad Angelopulos. Oppure rivedete tutto lo «sgobbo», girato di notte in ambienti reali, con tagli di luce da film espressionista e la colonna sonora jazz di Piero Umiliani che entra ed esce di scena. Prendete il mirabile momento nel quale, mentre percorrono un lucernario, si accende una luce accecante sotto di loro e tutti restano lì, immobili e appollaiati, come pipistrelli accecati; mentre nel locale sottostante due innamorati imbecilli parlano di una certa Adelaide e si scambiano frasi come «ti butti avanti per non cadere indietro» degne, ancora, di un apologo esistenziale di Antonioni. Tutto questo per dire che I soliti ignoti è un film dai valori formali altissimi, ai quali contribuiscono gli sceneggiatori (Age, Scarpelli e Suso Cerchi D'Amico), gli attori e i tecnici. E lo stesso si potrebbe dire de I Compagni, della Grande guerra, dell'Armata Brancaleone - dove il contributo dello scenografo Piero Gherardi e fondamentale -, del suo seguito Brancaleone alle Crociate e di tanti altri film.

Insomma, Mario Monicelli era un grande regista. Uno dei più grandi del nostro cinema, senza nulla da invidiare a mostri sacri come Fellini e Visconti. La sua immensa professionalità veniva da lontano, in primis, dal suo «mestiere» di spettatore: Monicelli era uno dei pochissimi registi ancora in attività ad aver frequentato il rinoma muto a cavallo fra anni '20 e anni '30, e sosteneva che quella era stata la sua vera scuola. Negli anni 30 aveva realizzato i suoi primissimi lavori (I ragazzi della via Paal, Pioggia d'estate) e aveva cominciato a lavorare come assistente su set importanti, come Lo squadrone bianco di Genina. Nel dopoguerra era presto diventato uno sceneggiatore di punta del cinema comico, scrivendo copioni per Totò in coppia con Stefano Vanzina, in arte Steno, finche i produttori avevano chiesto ai due di occuparsi anche delle regie. L’esordio di Steno & Monicelli è epocale, perche Totò cerca casa (1949) è considerato il primo lavoro "neorealista» di un attore che in teatro sfiorava i deli del surrealismo. Due anni dopo, Guardie e ladri - ancora in coppia con Steno - è già un film maturo e dolente, in cui le maschere di Totò e Fabrizi vengono calate in un contesto sociale non molto distante da quello di capolavori coevi, come Ladri di biciclette e Umberto D. di De Sica. Quando lui e Steno vanno ciascuno per la sua strada, consci di poter raddoppiare lavoro e guadagni, Monicelli continua a lavorare con Totò regalandogli il bellissimo personaggio di Totò e Carolina; intanto scopre un feroce, gigantesco Alberto Sordi nel sottovalutato L'eroe dei nostri tempi, accoppia Mastroianni e De Sica nel delizioso Il medico e lo stregone e poi fa il grande colpo con I Soliti ignoti, primo ruolo comico di Gassman e pietra miliare della commedia all'italiana. Il resto è storia, del cinema e dell'Italia.

Alberto Crespi


Chiamatemi Mario! E seppellitemi ridendo

Via le istituzioni dai funerali vorrei che le cose fossero un tantino più modeste Meglio essere sepolto sotto una duna del deserto che sotto il Campidoglio.


Finchè sarà in vita De Oliveira non mi darò pace. Ha cinque anni più di me e fa un film ogni anno, per giunta invitato in tutti i festival. Capite, sarò sempre secondo! Lo voglio morto! Sì, sono invidioso, ma a ragione. Voglio morire sulla scena. Evitate quelle manifestazioni gigantesche che in passato sono state organizzate per personaggi come Togliatti o Berlinguer. Oppure, più modestamente, per Fellini, Mastroianni, Sordi. Salme esposte in Campidoglio e a Cinecittà con i carabinieri che regolano il flusso della gente che viene a curiosare. Insomma, vorrei che le coso fossero un tantino più modeste, e anche più divertenti, e qualcuno che potesse far sorridere le persone, senza la presenza di personaggi istituzionali. Ecco, via le istituzioni dai funerali.

Non voglio essere chiamato maestro. I maestri sono quelli che stanno tutti i giorni a scuola per insegnare ai bambini come si mettono le stanghe per scrivere. Poi e troppo abusato e altisonante, sono tutti maestri. Chiamatemi Mario! Dove voglio essere sepolto? Meglio sotto una duna nel deserto, che sotto una lastra in Campidoglio.

Nessuno lo salutò mai per primo
Non cedette mai ad una attrice
Non lesse mai «la Repubblica».
Non acquistò mai un cellulare.
Non bevve mai da un calice con lo stelo.
Dulcis in fundo, muoiono soltanto gli stronzi!

Comunque, io non credo che morirò. Certo è una possibilità, ma potrebbe non accadere.

Gli epitaffi

Quando in un cimitero a Palermo disse: «Io non morirò mai»

Le «ultime volontà» di Mario Monicelli e i suoi epitaffi, scritti da lui stesso. Il regista toscano aveva novantuno anni quando landò una scaramanzia in forma di questo appeto sulla gestione delle sue esequie e l'affidò allo stile passatista e nostalgico di Cipri e Maresco. I due registi lavoravano a una trasmissione televisiva e portarono Moniceli in in cimitero di Palermo per le riprese. Allora Moniceli asserì: io non credo che morirò. E aveva ragione. Non solo perché rimarrà nella storia e nel cuore di molti in tutto il mondo ma anche per in altro motivo. Perché ha scelto di morire da vivo e non da morto. Con un gesto tremendo come saltare giù dal quinto piato dell'ospedale. Avrebbe avuto un'alternativa? Se Mario Monicell avesse chiesto a un medico di potersene andare ancora cosciente e in libertà, avrebbe trovato qualcuno che lo avesse aiutato? Il nipote Niccolò lo ha ricordato ieri come «una persona che ha vissuto fino in fondo: ha fatto quello che voleva, come voleva e a differenza di altri, anche più volte nella vita». Lo ha fatto fino ala fine.

Mario Monicelli


La sua scelta. Una vita presa sempre di petto

Ha deciso lui come e quando andarsene. E così facendo, si e ringiovanito di 50 anni. Perché il suicidio non e un gesto da vecchi. Sono i giovani inquieti e disperati, solitamente, ad uccidersi. Lui, buttandosi da quella finestra, ha rimesso indietro l’orologio. Ora nessuno potrà dire: e morto un vecchietto, con tutto il pathos e la pietà che sono obbligatori in queste occasioni. Tutti dovranno dire: e morto suicida. È come se ci avesse costretto a commentare la sua morte senza smancerie. A essere duri, secchi. A usare parole sobrie. Molto nel suo stile, nel suo carattere.

Poteva anche non farlo. Attendere che la morte se lo prendesse. Sarebbe rimasto il grande Monicelli, uno dei più grandi registi della storia. Ma quest'ultima traccia d'inchiostro e proprio la sua firma, contiene tutta la sua ironia, la sua amarezza. Perchè diciamo la verità: a Mario, questa storia del vecchio «lucido», gli dava fastidio. Quando qualcuno gli diceva: ma come stai bene, che bella vecchiaia stai vivendo, si arrabbiava. Rispondeva che la vecchiaia in realtà e orrenda, che la vista sempre più debole lo mandava in bestia... Circa un anno fa mi disse: sai, Giovanni, io non riesco più a fare i gradini delle scale due alla volta, e questa cosa mi rompe terribilmente; perchè io, dentro di me, ragiono ancora con la testa di un ottantenne! Dal suo punto di vista, un ottantenne era un ragazzino, e questo la dice lunga sull'atteggiamento con cui Mario ha affrontato i suoi ultimi anni di vita. Era il contrario di un depresso: era attivo, si teneva in forma. Era stato capace di invecchiare da solo, di costruirsi una vita tutta sua. Credo che anche la sua uscita finale sia un gesto di libertà, un rifiuto di abbandonarsi alla disperazione. L'ultimo affronto ad una vita presa sempre di petto.

Giovanni Veronesi


La sua ultima burla. L'armata Brancaleone contro i tagli

Dal G8 di Genova alla Palestina, dagli interventi nelle scuole alla battaglia per la cultura: la sua militanza per salvare Vltalia da Berlusconi invocando la «rivoluzione»


L'ultimo film di Mario Monicelli è stato una burla, La nuova Armata Brancaleone, un corto di 4 minuti realizzato una mandata di mesi fa, con la collaborazione di Mimmo Calopresti in veste di sceneggiatole e di Renzo Rossellini come produttore. Una burla nel suo stile, però. Perchè quel piccolo corto e stato il più riuscito atto di denuncia contro i tagli del governo alla cultura che fin qui si siano visti A realizzarlo, infatti, sono stati gli allievi del Gne-Tv Roberto Rossellini di Roma, unica scuola in Europa dì questo tipo, per protestare contro la Gelmini che ha messo in ginocchio anche il loro istituto. E Monicelli con loro. Hanno annunciato alla stampa che proprio in quella sede si sarebbe visto «l'atteso nuovo film» del regista dell'Armata Brancaleone e via, il gioco e fatto. Quella mattina all'Istituto Rossellini non si riusciva ad entrare per la ressa di telecamere e giornalisti. Poi una volta proiettato il corto la «burla» si è svelata. La «nuova Armata Brancaleone» e questo governo che ha fatto a pezzi la cultura, d e stato detto. E grazie a Monicelli, per un giorno almeno, tutte le testate e i tg del paese hanno affrontato il tema dei tagli.

E lui lì, disponibile, sorridente come un amico di famiglia. Anche andare nelle scuole faceva parte della sua militanza, del suo impegno. Un impegno che si è fatto più esplicito a cominciare dal G8 di Genova quando firmò il film collettivo Un altro mondo è passibile, insieme al gruppo «cinema del presente». Poi seguì Lettere dalla Palestina nel 2002, sempre con lo stesso collettivo di cineasti (da Wilma Labatc a Citto Mascelli, da Ettore Scola a Giuliana Gamba) per denunciare ancora una volta la drammatica condizione di vita dei palestinesi. Il cinema e la politica sono state le sue due grandi passioni. E, soprattutto in questi ultimi anni, non c'era manifestazione o iniziativa di protesta contro governo e tagli alla cultura che non l'abbia visto protagonista. Un paio di anni orsono lo ricordiamo persino sul red carpet del Festival di Roma a volantinare. «Alla mia età che mi possono fare?» diceva ironico. Le sue interviste in tv, le sue invettive filmate durante cortei e manifestazioni, ormai popolano il web. Lo ripeteva sempre Monicelli sparando a zero su Mussolini e Berlusconi: «gli italiani vogliono da sempre che ci sia qualcuno a pensare per loro». Fino ad invocare «una rivoluzione che finalmente cambi le cose». E ancora «la speranza e una trappola inventata dai padroni». Lui di padroni, invece, non ne ha mai avuto. E pure la morte è stata una sua scelta.«L'idea e partita proprio da lui - spiega Mimmo Calopresti -. È sempre stato un uomo combattivo e anche negli ultimi tempi era sempre in prima linea nella lotta contro i tagli. Quella burla era serissima - aggiunge - ed era un modo da parte sua di essere sempre presente e vicino ai ragazzi. Anche nell'incontro con la stampa in quell'occasione dimostrò la sua combattività». Al confronto coi ragazzi, del resto, Mario Monicelli non si è mai sottratto. Anzi, fino agli ultimi tempi, si è sempre reso disponibile ad andare nelle scuole a parlare con gli studenti. A raccontare del suo cinema. Tra le ultime volte lo ricordiamo in una scuola media romana circondato da ragazzini festanti che avevano visto quasi tutti i suoi film e lo tenpe-stavano di domande personali e sulla vita come fosse il nonno di casa. Per poi salutarlo in coro sulle note di «Branca, branca, branca».

Gabriella Gallozzi


Rione Monti. Oggi in piazza cantando Bella Ciao

Il rione Monti piange la scomparsa di uno dei suoi figli più amari ed illustri: in via dei Serpenti e in via Panispema, il regno di Mario Monacelli, ogni bottega espone il lutto sorridente e sardonico del regista scomparso, che al suo rione aveva dedicato l'ultimo corto, Vicino al Colosseo... c'è Monti, applaudito anche dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, della stessa zona anche lui, «È stato tra le personalità più originali, operose e creative del cinema del Novecento - ha detto Napolitano - e sarà ricordato da milioni di italiani percome ha saputo farli sorridere, commuovere e riflettere». Ogni bottega, a Monti, e un dispensario di ricordi, aneddoti, che hanno avuto come protagonista Monicelli.

Pietro Secchiotti, il macellaio di via Panispema ormai conosciuto come Pol Pet (omaggio beffardo alla sua arte ed alla sua passione politica) dice: «se ne è andato così come ha vissuto: con gli attributi, perche ce ne vuole di coraggio per spiccare un volo così. Mario - continua Secchiotti - ha voluto dire a tutti: guardate, nella mia vita ho fatto sempre e solo quello che volevo e lo faccio anche alla fine». Un amico vero «per una persona sola come era Monicelli». Proprio questo e l'aggettivo che usa Pol Pet: «solo, ma non perche lo avessero abbandonato: lui è sempre stato una persona molto autonoma ed indipendente. Anche adesso, a 95 anni, scendeva di casa e con il bastone veniva da noi, in macelleria, dal fruttivendolo e dal barbiere. Una persona eccezionale con la quale parlavo di teatro, cinema, ma soprattutto di politica.

Ma lui e sempre stato molto più a sinistra di me: io vengo dal partito comunista e, in politica, mi piace vincere. Lui invece era sempre molto critico, non gli piacevano le regole. Attenzione però: era un anarchico, ma aveva un suo codice comportamentale e di valori molto preciso». Stamattina alle 10 il rione lo saluterà come fa quando se ne va chi ama: «in piazza canteremo tutti insieme Bella Ciao», spiega ancora Pietro Sccchiotti. Lo stesso commiato riservato ad Angelino, il clochard mono pochi mesi fa.

Valeria Trigo


Il suo socialismo: dalla parte delle lotte operaie

II film più «suo»? Forse fu «I compagni», che aveva come protagonista un generoso «agitatore» intellettuale, perché solo dall'incontro tra chi sa e chi soffre può nascere un progetto efficace di rivolta.

Quando si dice socialista, almeno in Italia si pensa da tempo a qualcosa di equivoco e di brutto, a retorica e opportunismo, a faccendieri e altri falsari, alla de-„ riva dei centrosinistra e al craxismo, a una parola e a un simbolo che hanno finito per significare il contrario di quel che avevano significato per più di un secolo.

Non si pensa ad Andrea Costa e a Filippo Turati, alle lotte operaie e contadine e artigiane (e maschili e femminili) dell'Ottocento e del Novecento, alla varietà di esperienze e propositi che furono della Prima e Seconda Internazionale e vennero avviliti e sconfitti dalla Terza e dal «pensiero unico» del marxismo scolastico (e ferocemente opportunista) del bolscevismo e del «comunismo reale», al sogno «proletari di tutto il mondo unitevi», all'idea di uno stato al servizio dei cittadini e non dei padroni, alla tradizione di un umanesimo che poteva essere sentimentale (perchè no, infine?) e che però sapeva allo stesso tempo essere durissimo, a Basso e Lombardi o anche a Pertini, bensì al trasformismo mussoliniano o all'assoluto squallore delle penultime e ultime «leve», agli esemplari ruffiani e comici che hanno usurpato una bandiera nell’ultimo trentennio, detto non a caso craxian-berlusconiano.

Ricattati a suo tempo dall'affermazione del Pci, che prometteva di più, il massimo (ma finiva in Urss per essere, come disse qualcuno, un cammino tortuoso e insanguinato dal capitalismo al capitalismo), e in Italia compiaceva la nostra tendenza a scindere idee e fatti, ideali e comportamenti, i socialisti avevano via via abbandonato

Non volle essere artista con la maiuscola ma artigiano con la maiuscola. Fu narratore di vizi e virtù reali

della socialdemocrazia sia gli ideali di fondo che la concretezza delle pratiche - che gli ideali vanno sempre commisurati e applicati alle necessità dell'epoca - dimenticando del tutto gli ideali e infognandosi del tutto nelle pratiche, sostituendo alla persuasione la retorica, l'accettazione della peculiare ipocrisia italiana del dire A, fare B e pensare C.

Di tutto questo so per lunga amicizia che Monicelli soffriva molto e s’indignava molto. Si definiva socialista, e il film di cui aveva più sofferto il (relativo) insuccesso fu I compagni, forse il suo film più suo, il film che raccontava le lotte operaie dell'Ottocento, un film corale ma che aveva al centro un bellissimo personaggio di un generoso «agitatore» intellettuale, perche solo dall'incontro tra gli intellettuali e gli oppressi, tra chi sa e chi soffre, e nato in passato e può ancora nascere un progetto efficace di rivolta.

Mario Monicelli soffriva molto della situazione presente, della deriva della sinistra, della viltà e ignobiltà dei suoi rappresentanti ufficiali. La sua «differenza» non stava nell'abilità a raccontare la commedia italiana (più e meglio di ogni altro regista, grazie anche all'apporto dei suoi sceneggiatori privilegiati Age e Scarpelli, grazie all’immensa capacità di trovare i ruoli giusti per gli attori

La sua «differenza» era nella sua lucidità. Credeva nella possibilità del cinema, della cultura, di renderlo migliore

fondamentali del nostro cinema, che gli hanno dovuto i loro successi più forti, da Totò a Fabrizi, da Sordi a Gassman, da Tognazzi a Mastroianni alla Vitti) o a raccontare la deviazione della commedia in tragedia (Un borghese piccolo piccolo è stato senz’altro il film più rivelatore e amaro sulle origini della nostra crisi e disfatta antropologica).

La sua «differenza» era nella sua lucidità, nel suo non lasciarsi incantare da nessuna mistificazione, nel saper vedere i difetti nazionali ma anche nel vedere la perdita progressiva dio quelle qualità che appena ieri facevano bello il nostro popolo. Era un socialista, e credeva nella possibilità del cinema, e cioè della cultura di massa intelligentemente praticata, di renderlo migliore. Come i migliori intellettuali e artisti socialisti del passato, credeva nella possibilità di aiutare lo spettatore comune a capir meglio il proprio contesto e se stesso, a veder meglio i propri limiti e le proprie menzogne, e li metteva in luce per poterli combattere, per aiutare a cambiare. Diceva spesso che, al contrario dei Fellini e Antonioni che si volevano «autori» a tutto tondo e rispondevano delle loro opere soltanto a se stessi, il fatto che registi come lui (e Comencini, socialista come lui ma più sentimentale di lui ) dovessero rispondere al grande pubblico di ciò che facevano li costringeva a un dialogo intenso e costante, e a spingere ogni volta verso un processo di consapevolezza di sé da parte del pubblico popolare, a spingere verso il suo miglioramento. Da educatori a tutto tondo, delle masse e non delle avanguardie.

Monicelli non volle essere artista con la maiuscola ma artigiano con la maiuscola, conscio che questa parola debba avere gli stessi meriti dell'altra, non volle essere cantore di virtù inesistenti ma narratore e analista di vizi e virtù ben reali, vedendo le virtù grandi e le virtù piccole non tra loro contrastanti ma rette dalle stesse finalità.

Goffredo Fofi 


L-Unità
«L'Unità», 1 dicembre 2010 - Foto Archivio Istituto Luce