De Sica in ritardo per i miracoli a Milano
“Totò il Buono” non sarà visto al Festival di Venezia
In fondo dispiace a De Sica di non portare a Venezia Totò il Buono (o "Miracolo a Milano” che sia). Ma non è colpa sua, quanto del tempo che gli stanno facendo perdere i «trucchi», che devono rappresentare nel film il miracolo della colomba e le sue conseguenze. Questi trucchi costano un occhio della testa e richiedono una pazienza e un tempo infiniti. Tre operatori hanno lavorato al film: Aldo, per la fotografia normale, Vaclav Vich per gli effetti speciali e W. A. Nedeman per questi trucchi. Il film è costato cinque mesi di lavoro ininterrotto fra Milano e Roma, e ora si trova al montaggio, e in «trucca», e cioè si procede alla sovrimpressione sulla pellicola dei miracoli. E, oltre all’esperto americano Nedeman, lavorano alla pellicola cinque specialisti inglesi di magie cinematografiche.
Vittorio De Sica è l’unico italiano che abbia vinto due Oscar a Hollywood. Il primo fu concesso alla produzione di Sciuscià, e il secondo alla regìa di Ladri di biciclette, ma una vera soddisfazione, un riconoscimento solenne, a casa sua, in fondo De Sica non l’ha ancora avuto. Il Festival di Venezia poteva essere l’occasione buona.
Può sembrar strano che De Sica impieghi il suo tempo a rappresentar miracoli dopo esser stato salutato in tutto il mondo come uno dei campioni del neorealismo italiano. Per nostro con to invece non c’è niente di più normale, sopra tutto per il fatto che al suo neorealismo non abbiamo mai creduto. Con questo: può far comodo usare questa parola, ma basta riflettere un momento che il padre (putativo) del neorealismo dovrebbe essere Cesare Zavattini per rendersi conto che mai termine è stato usato più a sproposito. Non ci sono film meno veristi di quelli ispirati da Zavattini da quindici anni a questa parte. Nè esiste in Italia uno scrittore che rifugga tanto dalla cronaca o dalla realtà come Cesare Zavattini. Tanto De Sica quanto Zavattini, se qualcosa hanno in comune, è proprio la fantasia che li riscatta, a un certo punto, dai neri avvenimenti impastati di terra e di sangue di questo secondo dopoguerra e che hanno ispirato una certa produzione sino a farla scadere a cattivo documentario. Si pensi, per esempio, alla storia del cavallo bianco in Sciuscià, e alla sua favolosa apparizione fra la nebbia, nel finale del film. O al pretesto della caccia alla bicicletta, che cuce insieme il romanzo picaresco, inverosimile e pieno d’invenzione, dei Ladri.
Quanto a questo Totò il Buono, che Zavattini scrisse per guadagnarsi il rispetto dei suoi figliuoli che non avevano mai letto una pagina dei suoi preziosi e minuscoli libri, potremo anche sbagliarci, ma a un certo punto rivela una parentela stretta con la Mappata dei Poveri di Salvatore Di Giacomo, e cioè l’enorme fazzolettone pieno di straccioni napoletani che ascende in Paradiso. Quando si pensi che l’orrore della realtà dello scrittore Zavattini arriva al punto che mai uno dei suoi personaggi si chiama Giuseppe, Mario o Antonio, ma sempre e soltanto Rok, Estrinseko, Mack, Swan e via discorrendo, tanti saluti al neorealismo. Si dirà: ma il punto di partenza, ma la tecnica, ma il particolare di questo cinema, son sempre nel vero, o nel verosimile. Certo, perchè questo è il linguaggio del film. Il cinema rende verosimile tutto, inventa con la fotografia. Quello che ha di più bello, il nuovo cinema italiano, non è già il fatto che riproduce la realtà, ma il senso di felicità, di scoperta e di freschezza che si accompagna a un racconto libero da ogni pastoia.
Totò il Buono è una favola. E’ la storia di un orfano che si chiama Totò (Geppa), adottato da una buona vecchina, Lolotta (Emma Gramatica). Il ragazzo è così buono, che la vecchietta, morendo, lo fa erede di un piccione bianco capace di fare miracoli. Totò organizza alla periferia di una grande città, che potrebbe anche essere Milano, un accampamento di straccioni (o «barboni»). Sono tutti molto buoni (specie Arturo Bragaglia, Erminio Spalla e Bertazzolo), meno uno, Ratti (Paolo Stoppa) che è naturalmente molto cattivo. A un certo punto nel terieno vago di questo villaggio di pezzenti viene scoperto il petrolio. Subito un riccone di nome Mobbi (Guglielmo Barnabò) compra il terreno e suo primo pensiero è di allontanarne la felice colonia di straccioni per sfruttare il petrolio. All’uopo si serve della connivenza del barbone cattivo e dei servigi di un corpo speciale di Guardie Mimetizzate (fra cui primeggiano il comico Rien-to e Checco Rissone). In breve i barboni vengono fatti montare alla chetichella su capaci camion ermeticamente chiusi, e avviati verso un nuovo villaggio, promesso da Mobbi. A questo punto il piccione miracoloso ( di cui si erano perdute le tracce) riappare. E Totò formula il desiderio di ascendere, lui e i suoi amici barboni buoni, in Paradiso. E’ la scena culminante del film, ed è stata girata in piazza del Duomo, a Milano. Cadono le pareti die camion e gli straccioni, a cavallo delle scope di centinaia di spazzine municipali, assurgono in cielo. Non è finita: perchè lassù si realizzano finalmente i desideri dei buoni. Un negro che amava una fanciulla bianca diventa bianco. La fanciulla (Elena Cambi) ha chiesto invece di diventare negra, per amore, e tale diventa.
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Vittorio De Sica è uno dei registi italiani meglio dotati. Dirige forse da una diecina di anni a questa parte, e a messo a frutto come pochi quello che ha potuto imparare in fatto di onesta tecnica artigiana, ritmo e cura del particolare, alla scuola di Mario Camerini. (Che è stata una scuola importante, da cui è uscita fior di gente). Di suo Vittorio De Sica ha portato al cinema un grande mestiere di -attore, un rispetto per le idee e la buona letteratura, e una vena di malinconia napoletana, um solidarietà con gli umili, i poveri, i diseredati, che non sono occasionali, ma che costituiscono, insieme con un’indubbia capacità di raccontare, la sua vera personalità. Come privato, Vittorio De Sica avrà le sue idee, in fatto di problemi sociali. Ma al cinema queste idee non si vedono o comunque non è per questo che i suoi film sono importanti.
«Potessimo avere qui Vittorio De Sica, a dirigere, magari un film sugli emigranti!». Parole press’a poco simili scrive Victoria Ocampo, la massima scrittrice argentina* sulla Prensa di Buenos Aires. Ma De Sica non ha tempo. Già si prepara a dirigere Umberto D., sempre dell’indivisibile Zavattini. Gli sembra d’aver disertato il teatro, e si volge indietro a rimpiangerlo.
Gian Gaspare Napolitano, «L'Europeo», anno VI, n.30, 23 luglio 1950
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Gian Gaspare Napolitano, «L'Europeo», anno VI, n.30, 23 luglio 1950 |