Che cosa penso della censura
I nostri Gianfranco Calderoni e Stelio Martini hanno rivolto a Vittorio De Sica le seguenti domande: 1) Crede nella funzione della censura? 2) Così come viene esercitata oggi in Italia la censura risponde ai suoi scopi? Cioè: è valida moralmente, sana artisticamente, funzionale economicamente nei confronti della produzione? 3) Quali sono secondo lei gli scopi che persegue la nostra censura? E quali dovrebbero essere? 4) Il sistema della censura non preventiva permette maggiore o minore libertà al regista rispetto a quella preventiva? Preferirebbe quest’ultima? 5) Qualcuno dei suoi film ha particolarmente attirato l’attenzione dei censori? Quale? E perché? Le risposte sono integrali e testuali.
Credo nella funzione della censura : senza la quale, oltre tutto, io mi domando dove andremmo a finire nell’attuale persistente tendenza a trasferire sullo schermo, certa pornografia fine a se stessa che rifiuta qualsiasi giustificazione d’ordine artistico od anche semplicemente spettacolare. Non mi risulta, per esperienza diretta e nemmeno per casi occorsi a colleghi, che si siano verificate limitazioni di carattere artistico dovute a una censura troppo rigida o gretta. Ne deduco che la censura, in Italia, assolve ai suoi compiti naturali con saggio criterio e si rivela pertanto utile anche nei confronti della produzione. Beninteso di quella produzione che a sua volta concepisce il cinematografo come un fatto artistico-spettaco-lare, regolato pur esso dal complesso di norme morali che stanno alla base di una qualsiasi società moderna.
Con quanto ho detto, ho già indicato gli «scopi» della censura, che vertono principalmente sul piano morale. In quanto alle «mire», penso che si voglia alludere a quello che io preferisco chiamare soltanto «preoccupazioni» di ordine politico. E ritengo che anche da film in cui si riscontri una precisa istanza sociale, la censura non abbia da temere se nessuna ideologia di parte o spirito di fazione abbiano suggerito o condizionato l’opera. Ma, in tal caso, è la validità artistica della stessa che ne uscirebbe fatalmente diminuita; quindi un giudizio limitativo della censura andrebbe a colpire non la tesi politica ma la deformazione di una qualsiasi verità obbiettiva per finalità particolari che nulla hanno da spartire con l’arte. Evidentemente la censura non preventiva concede maggiore libertà al regista. Anzi le massime libertà. E’ sufficiente, a parer mio, che egli si attenga a questi due capisaldi: evitare l’immoralità per quanto possa sembrare prestarsi all’affermazione di una tesi morale o tragga giustificazione da circostanze e fatti che sono purtroppo non infrequenti nella nostra società; sdegnare ogni propaganda politica come quella che potrebbe anche servire una causa giusta ma, a ogni modo, si risolverebbe in una limitazione della propria ispirazione e autonomia artistica.
Per quel che riguarda i miei film, ho trovato nella censura la maggior comprensione anche nei confronti di «passi» che potevano offrire il destro, e purtroppo talora lo hanno offerto, a interpretazioni interessate, arbitrarie e cervellotiche, a vere e proprie «speculazioni» che mi hanno profondamente addolorato. Parlo della cen-is'iura italiana. Perché a quella americana non riesco a perdonare, a esempio, la richiesta di sopprimere in Ladri di biciclette, come immorale, la scena di Bruno che «fa pipi». Non ho voluto sottostare a questa imposizione anche se ciò è costato al film il divieto di programmazione nei grandi circuiti. Ho inteso cosi riaffermare la mia intransigenza d’artista e proprio nei riguardi di una scena, in certo senso, di contorno e che non consentiva «interpretazioni» di alcun genere. Soltanto, la scena mi piaceva, la sentivo vera, ingenua nella sua naturalezza, rispondente alla logica elementare del personaggio; né certo offendeva la morale, la morale cristiana, che è quella della nostra civiltà. Il sospetto che avesse a urtare un’altra «morale» (ma quale?) non poteva giustificare un compromesso cui altri compromessi ancora, alla stessa stregua, avrebbero fatto seguito, e avrebbero trasformato in «merce», cioè in qualcosa di adeguato ai gusti e agli umori del consumatore, un’opera creativa. Mentre questa, affidata al cromatismo di una tela, alle pagine di un libro, alle immagini di un film, piaccia o no, va sempre accettata nella sua integrità.
Vittorio De Sica, «Cinema», n.84, 15 aprile 1952
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Vittorio De Sica, «Cinema», n.84, 15 aprile 1952 |