Approfondimenti e rassegna stampa - Eduardo De Filippo

Eduardo-De-Filippo



1936 Il Dramma Eduardo De Filippo introEccomi finalmente a casa mia, in riposo, dopo dieci mesi di teatro, 376 recito comprese le diurne domenicali, quelle delle altre feste o le mattinate di beneficenza. Trecentosettantasei rappresentazioni in dieci mesi: più di un anno nell'anno... Mi sembra quasi inverosimile trovarmi solo, alle nove e mezzo di sera, nello studio di casa mia libero da ogni impegno, padrone della mia volontà! Eppure non penso ad una gita, non ho progetti di andare a teatro; non desidero assolutamente di vedere un cinema! Perchè? Cosa aspetto in questo mio studio, dall'indomani sera della mia ultima recita a Roma? lo Io so. Aspetto il segnale che dia il «chi è di scena?!» il fatidico «Primo... secondo» che manda sù il sipario e scopre, per il pubblico, la realtà costruita e, per l'attore, la finzione reale.

Li aspetto ogni sera; li aspetterò sempre. Infatti mi circondo di mille volti. Con la mia immaginazione cerco di mettere uno spettatore in ogni piccolo angolo della camera... Eccoli seduti sul davanzale della finestra: altri dall'esteruo fanno a gomitate per guadagnare il posto migliore; hanno tolto persino gli sportelli alla libreria, e si sono seduti sugli scaffali al posto dei libri. Un altro è riuscito a rimpicciolirsi al punto da montare a cavalcioni su un piccolo elefante di bronzo, timbro da lettere che è sulla mia scrivania, e mi guarda. E quello clic mi guarda di più, ha negli occhietti nerissimi la gioia dell'ascoltatore felice, e attende; ma io guardo intorno, e non parlo... Non ho sentito il «segno» e non devo parlare. 

Quelli seduti sulla finestra sono impazienti, ed applaudono... ; applaudono anche quelli della libreria... Io guardo ancora intorno e non parlo ; non devo parlare. Un mormorio scontento parte dall'esterno della finestra...; quello piccolo a cavalcioni sull'elefante osa un fischio; ne fa eco un altro dal calamaio: è uno che «non ha pagato» che, pur di assistere a gratis, non ha badato all’umidità del posto. 

Ora il vocio è cresciuto, ed è proprio quello caratteristico del pubblico numeroso. Riconosco persino delle voci: tutti attendono impazienti. Io però non devo parlare. Ad un tratto squilla un campanello. Possibile? Sì, perchè tutto il pubblico intorno ha stabilito il silenzio dell'attesa. Il campanello squilla una seconda volta. Non c'è dubbio, è il «segno». Due colpettini all’uscio, è la voce della donna: — «Signore, il telefono». Io chiudo gli occhi per tentare di non disperdere la cara visione. Grido: — Non ci sono per nessuno! E poi che stupida siete? Il campanello che avete sentilo non è il telefono: è il «segno». 

— Ma signore! 

è il «segno». 

— Ma signore! 

— È il «segno»! 

La donna se ne va ed io provo a parlare, ma non posso. L'interruzione della cameriera fatalmente è stata come l'acqua sul fuoco. Ho riaperto gli occhi. Non c'è più un'anima... I volti sono scomparsi, la libreria è piena di libri, e gli sportelli sono a posto. Sul davanzale della finestra non c'è più nessuno, nemmeno quello piccolo a cavalcioni sull'elefante... Quello clic a non ha pagato» tutto bagnato d’inchiostro, cerca di fuggire ma non co la fa; ridiventa una goccia e ricade... 

* * *

Senza pubblico! Come può vivere un attore, senza pubblico? Però, il riposo è necessario per ritemprare le forze, e soprattutto per la preparazione di nuovi lavori da presentare: ed io preparo, studio, elaboro, e nel tormento assimilo tipi visti nella vita, che sono sempre più vivi di ogni fervida immaginazione. Ma stasera ho tanto bisogno di sentire il pubblico! Ah! quei due colpettini all’uscio. quanta gioia mi hanno distrutto! Se scrivessi? Gin il continuo stridìo della penna riuscirò ad avvicinarmi alla folla, a rivedere i mille volti? 

Mi proverò, e nel risentire io stesso quello che penso sarò una volta tanto spettatore di me stesso, perchè nella camera non c'è nessuno. 

Non vi annoierò, per lo meno non ne ho l’intenzione. Del resto, chi non vuole leggere si astenga: è padronissimo. Lo catalogherò fra quegli spettatori che abbandonano il posto prima della fine dello spettacolo. Non c’è attore al mondo che non sia stato vittima di questa specie di spettatore. Anch'io. Una volta l'eterno Tizio sedeva in una delle primissime file, abbandonò il posto olla metà del secondo atto di «Natale in casa Cupiello»; nell’alzarsi, naturalmente, non ebbe la delicatezza di accompagnare con la mano il sedile pieghevole; poi gli cadde di mano il portasigarette; nel raccoglierlo pestò un piede del signore accanto: disse: — «Scusate!», fece uno starnuto, e si avviò verso la porta di uscita con due o tre di quei colpettini di tosse confortabilissimi per chi ha bisogno di darsi un contegno disinvolto. A lingua nostra: naturale naturale... 

Evidentemente a quel Tizio, a Natale in casa Cupiello» non piaceva. Ed è mollo strano, perche, questo mio lavoro è stato la fortuna della Compagnia, dopo «Sik-Sik», s'intende. 

Ebbene la sua prima rappresentazione al Kursaal di Napoli; allora non era che un atto unico, ed è tanto strana la sua storia che vaio la pena di raccontarla. 

L'anno seguente, al Sannazaro, teatro della stessa città, scrissi il primo atto, e diventò in due. Immaginate un autore che scrive prima il secondo atto c, a distanza di ua anno, il primo. Due anni fa venne alla luce il terzo; parto trigemino con una gravidanza di quattro anni! Quest'ultimo non ebbi mai il coraggio di recitarlo a Napoli perchè è pieno di amarezza dolorosa, ed è particolarmente commovente per me, che in realtà conobbi quella famiglia. Non si chiamava Cupiello, ma la conobbi. È la definizione scolpita del carattere di quelle povere creature napoletane ai cui occhi il nostro sole fa risplendere persino le crude miserie della loro triste vita di tutti i giorni. Ed allora, per un bisogno istintivo di liberazione, vivono urlandosi, ferendosi a sangue giungendo fino all'odio, perchè il nostro sole ingigantisce anche la loro puerilità... Ma si adorano... Essi stessi non sanno quanto si adorano... 

Ora penso alle commedie nuove da rappresentare nella prossima stagione. Una delle primissime sarà «L'abito nuovo a di Luigi Pirandello; il Maestro volle accordarmi l’onore di col-laborarvi; ma di questo vi parlai tempo fa. Sarà senza dubbio un grande avvenimento d’arte, che, personalmente, ho voluto riservare al mio pubblico napoletano, che mi è raro più di tutti i pubblici d’Italia. Avremo Luigi Pirandello che palpiterà con noi, come per la prima del suo trionfante a Berretto a sonagli». 

Ernesto Murolo, il mio caro e geniale Ernesto, scriverà una commedia per noi: e sarà degna della sua firma. 

Ci rivedremo poi con Paola Riccora, che ci affiderà con cuore materno l’ultima sorellina di a Sarà stato Giovannino» e a Angelina mia!»: «Io e te», delicatissima e forte commedia, dove la tenerezza di donna è condotta al rigo finale dal polso fermo di quell'autrice pensosa che è la Riccora. 

Di Ernesto Grassi, di cui il «Teatro Umoristico» rappresentò con tanto successo a 24 ore di un uomo «qualunque», avremo una commedia ardita come il suo sguardo: patinata di quella Napoli che ha nelle sue fibre l'idealo dell’onore. 

Massimo Bontempelli ha lavoralo per noi, e con quanta gioia metterò in iscena il suo lavoro! Egli fu il primo a seguire passo passo le rappresentazioni del «Teatro Umoristico», e scrisse per noi fin dalle prime rappresentazioni, indimenticabili parole di incoraggiamento e augurio. Oggi, come convalida di questa sua ammirazione, mi ha consegnato il copione del suo lavoro : «La famiglia del fabbro» che Titina, mia sorella, ridurrà per il nostro teatro. Caro Massimo, quanto ti voglio bene: grazie! 

E poi, e poi io ho scritto due commedie che non hanno ancora il titolo; quello, potete domandarlo agli esperti, spesse volte si trova proprio all'ultimo momento. Posso darvi però il titolo di un altro mio lavoro in un atto: a La parte di Amleto»... 

Ma corno posso parlarvi dei miei lavori? Vi dico soltanto che vedranno la luce quest'inverno, c se andranno male, io dirò che li ha scritti Sik-Sik, quello che fa gli esperimenti e li sbaglia! Facciamo a a scarica barile», io e lui... 

Peppino già lavora intorno ad una sua commedia, e Titina è armata di calamaio e penna; ma non ne so niente ancora... Ingomma, tutti al lavoro; tutti alla ricerca di episodi, intrighi, tipi, vicende drammatiche, fittissima folla di fantasmi; naturalmente più pallidi di quelli dell'immaginazione reale e perciò più difficili ad acciuffare. — «Fatemi largo!» — grido, — e giungerò al debutto con lo stesso batticuore delle prime di tutta la mia carriera artistica. 

Recito da venticinque anni, e ne ho trentasei. È incredibile; ho già divertito due generazioni: gli ultimi dell’Ottocento, e i primi del Novecento. 

Pensate: qualche mese fa incontrai una giovanissima signora; conduceva per mano un bambino di tre anni; ebbi l'impressione di conoscerla; mi tolsi il cappello... Lei disse: — «De Filippo, è vero?... Io venivo tutte le sere al Kursaal; allora ero fidanzata. Si figuri, conosciamo tutti i lavori del suo repertorio». 

— «Scusi, signora, questo bambino è suo?». 

— Si. 

Dunque: terza generazione. Fra qualche anno, se incontrerò il loro gusto, reciterò anche per loro... Ed io sarò lieto di aver divertito nel 1914 i nonni, nel 930 i papà e le mamme e nel 945 (con l'aiuto di Dio) quei piccoli che mi sembra già di vederli e... perchè no? di averli già visti. 

Edoardo De Filippo, Napoli, agosto 1936 — XIV «Il Dramma», anno XII, n.235, 1 giugno 1936


1936 Eduardo De Filippo introUna bella sera, dopo lo spettacolo, un critico al quale mi lega un'amicizia fraterna, mi dice a bruciapelo: «Ma perchè non reciti Pirandello?». Lì per lì restai male. Il critico era Achille Vesce: che conosceva benissimo me e, quel che più conta, conosceva benissimo Pirandello. Eppure l’idea mi parve terribilmente audace, e decisi, almeno per un pezzo, di non farne niente.

Ma sì! Quell'interrogativo cominciò a picchiarmi maledettamente nella testa. Pirandello: ma che cosa? lo l'avevo già letto quasi tutto, più per mio diletto che per ambizione di calarmi, come dice il Maestro, in uno di quei suoi terribili personaggi. E ricordo ancora l'ansia, lo sgomento, la profonda emozione che provai assistendo a una recita dei Sei personaggi al «Mercadante», non so più quanti anni or sono.

Erano tempi di magra, quelli. lo recitavo nelle parti comiche che mi procuravano molti applausi e... quasi niente altro. Ma i Sei personaggi mi avevano letteralmente scombussolato.

Dopo tanto tempo, il caso, sotto le spoglie d'un critico drammatico, mi faceva imbattere, di nuovo in quei personaggi preoccupanti.

— Perchè non reciti Pirandello?

— Perchè... perchè...

— Ho capito: perchè hai paura.

— Paura no... ma... Eppoi, quale commedia?

— Comincia con Liolà.

Liolà! Quante ore, quante serate ne parlammo, ne discutemmo, ci litigammo sopra? Finalmente il giornalista la spuntò e, una sera, mi portò in palcoscenico Pirandello. Sissignori: in carne ed ossa, occhi sfavillanti e barbetta aguzza. Pirandello aveva assistilo alle mirabolanti imprese di quel Sik-Sik che una sera aveva fatto gridare alla Merlin: «Dai De Filippo, mai più : mi fanno ridere tanto che finirei col farmi venire le rughe!», s'era divertito come un fanciullo, aveva voluto conoscere Eduardo, Peppino e Titina, come si chiamava già da allora, ed era piombalo in palcoscenico per sapere di Liolà...

Poi venne la «prima» di Liolà. Fu una gioia grande per tutti! E Peppino, che ne fu il protagonista, fu ripagato da un successo clamoroso di tutte le ansie e la fatica di una interpretazione così densa di responsabilità. Ma l'appetito viene mangiando. E dopo Liolà è venuto Il berretto, e dopo il berretto eccoci a L'abito nuovo.

L'abito nuovo è una novella, io l'avevo letta, e quel suo disperato e inesorabile Crispucci m’era entrato nel cuore. Farne una commedia, fare «Crispucci», recitare una novità assoluta del maggiore autore teatrale dei nostri tempi era una cosa troppo bella. Ne parlai a Roma al Maestro. E l'idea fu accettata subito, con entusiasmo.

— Scriviamola insieme! — mi disse Pirandello.

Fu una doccia fredda. Mandai col pensiero un malinconico addio al povero «Crispucci». Scrivere insieme una commedia mi pareva un sogno pauroso. Ma Pirandello non abbandonò la sua idea. E il giorno dopo ero nel suo studio, seduto di fronte a lui con la penna fra le mani e le cartelle bianche davanti. Alto primo, scena prima...

Sarebbero necessarie un paio di pagine per raccontare tutti gli episodi del nostro lavoro. Mi limiterò a narrarvi come esso venne, disposto e compiuto. Il nostro grandissimo scrittore aveva abbozzato uno scenario generale dei tre atti: «Questa è la prima scena — mi diceva — e ne sono interlocutori l'avvocato Boccanera e. Luigino Minutalo. Boccanera deve dire questo, Minutolo deve rispondere questo. Adesso, parla tu, nel tuo dialetto, ed esprimi questi concetti».

Lui dialogava, a voce, in lingua, ed io traducevo, a voce, in napoletano. Quando eravamo d’accordo, quando cioè io avevo trovato il preciso equivalente vernacolo delle «battute» che egli diceva in lingua, si scrivevano quelle «battute» e si passava alla scena seguente. Così per quuindici giorni di fila, rileggendo ogni giorno le scene già concordate e scritte.

Talvolta io italianizzavo la mia parlata. E Pirandello, indignato: — Ma no, figlio, come le senti, come le senti, le «battute»: non tradurre! E io... non traducevo più.

Quindici giorni indimenticabili, lo faticavo come un cane a tenergli dietro. Ma quando si lavorava, l'uno di fronte all’altro, quasi dimenticavo di trovarmi vicino a una delle, più alte personalità del teatro di tutti i tempi. Ragionavo e colla-boravo con lui come se si trattasse di uno qualunque. Solo a tratti mi ricordavo che il mio compagno di tavolino era... Luigi Pirandello.

Questa è la grande sensazione che mi ha dato il Maestro. A stargli vicino, a far parlare in napoletano i suoi personaggi, a vederli vivere insieme, ogni minuto più intensamente, a scrivere vicino a lui. nessun timore reverenziale. Come fosse dei nostri, giovane, giovane, giovane. Ma ogni volta che tornava, nella sua grande casa di via Giuseppe Bosio, e leggevo la targhetta sull'uscio, nome e cognome, mi tornavano a mente le «battute».

Se non ve l’ho detto ancora, ai Sei personaggi non ci son più tornato. Quella sera, venni a casa con un nodo alla gola che non se n'è andato ancora.

Edoardo De Filippo, «Il Dramma», anno XII, 1936


1937 Il Dramma Eduardo De Filippo intro

Gino Rocca scrive che l'esperimento non è riuscito. Se Luigi Pirandello ci ha dato proficue e balenanti e vittoriose lezioni di coraggio, il mezzo migliore per rendere omaggio alla sua memoria, che rimane fulgida, è questo: proclamare senza reticenze commosse la verità. Crediamo che l'illustre scrittore recentemente scomparso dal coro degli umani, nui ancora vivo per la potenza della sua voce, non avrebbe consentito la rappresentazione di questo suo scheletro polveroso dopo di averlo rimirato nella cornice delle prime prove. Niente. Qua non esiste Pirandello, se non per un paradosso centrale che gli fu caro e che fece trionfare così Il piacere dell’onestà, come il Gioco delle parti e Diana e la Tuda ed altre significative opere.

E non esiste la colorita arte tutta scorci, baleni e tipici movimenti drammatici dei De Filippo.

Abbiamo assistito ad un saggio di collaborazione scomposta: ed abbiamo nitidamente veduto quanta importanza avesse il dialogo pirandelliano nel movimento, nella costruzione e nella soluzione delle scene — che erano problemi contesti e fissità inconfondibili ed inimitabili. Trarre da una favola di Pirandello un’opera di teatro non è dunque possibile se non con la penna di Lui, che ora s’è spezzata.

Questo Abito nuovo, infatti, nasce da una favola e da una traccia. E i De Filippo fecero miracoli. Ma la simpatia tutta cerebrale. che scaturisce da una opera pirandelliana compiuta, fa a pugni con quella che la concertazione dialogata sa creare in scena.

Edoardo de Filippo concertò l’opera senza la meraviglia dei propri abbandoni pittoreschi così eloquenti, legato ad un paradosso soltanto drammatico, polemico e pesante. Ebbe attimi di meravigliose risorse, specie nelle scene iniziali che segnano il profilo del tipo, ed in quella finale che lo fa stramazzare briaco al suolo quando vede il vestito sgargiante della propria moglie prostituta addosso alla figlia pura.

«Il Dramma», anno XIII, 1937


1937 Il Dramma Eduardo De Filippo intro 2

Edoardo e Peppino De Filippo hanno voluto dedicare una delle loro rappresentazioni, durante la stagione al teatro Quirino di Roma, a Ettore Petrolini: non commemorazione ufficiale — scrive Ermanno Contini — ma semplice, per quanto commosso e commovente atto di omaggio all’illustre attore romano il cui ricordo è ancora vivo nel cuore di tutti e la cui arte resterà ineguagliabile.

In uno degli intervalli dello spettacolo Edoardo De Filippo si è fatto alla ribalta e, avvertito come egli non intendesse parlare di Petrolini artista, troppo grande per poter essere degnamente rievocato da lui, ha detto che intendeva parlare soltanto di Petrolini amico: ed ha raccontato, con la vivezza di quel suo discorso facile e colorito, in qual modo fu spettatore dell'ultima recita di Petrolini.

Fu nella casa dell’attore già nudato e condannato. De Filippo aveva accettato di mettere in scena un suo lavoro, Benedetto fra le donne; ma poiché alle prove si era accorto di non riuscire a mettere su la commedia come avrebbe voluto non sapendo e non potendo uguagliare gli effetti che vi raggiungeva l’arte ricca e insostituibile dell'autore, aveva rinunciato all’impresa. E voleva dirglielo. Ma quando si trovò dinanzi a Petrolini, steso nel letto, ansimante per l’angina, esangue per il male fatale che lo distruggeva, non ebbe coraggio di dire la verità: comprese che sarebbe stata per lui una crudele delusione, quasi che non avesse voluto interessarsi alla sua opera. E disse solamente di aver cominciato le prove. Petrolini si animò, fu felice di quello che considerava un gesto affettuoso di cameratismo traverso il quale avrebbe potuto ancora parlare al suo pubblico e, acceso di passione, scese dal letto per far vedere al compagno come avrebbe dovuto recitare la parte del protagonista. E la recitò nella penombra della stanza per lui solo, forse anzi soltanto per si stesso.

Poi mostrò i bordereaux dell’ultima sua stagione al Quirino: incassi fortissimi testimoniatiti l’amore e l’interesse che il pubblico gli aveva portato fino all’ultimo spettacolo. Il pubblico! Era il suo grande amore e la sua grande passione, il suo solo rimpianto forse. E salutando l’amico che avrebbe dovuto sostituirlo nella stagione fissata per lui al Valle prima del male, gli disse : «De Filippo, salutami il pubblico». Questo saluto accorato e supremo del nostro caro, grande, indimenticabile Ettore, De Filippo ha portato agli spettatori del Quirino assolvendo il patetico incarico ricevuto. E nella sua voce tremava il pianto; come nei nostri cuori la commozione intensa e segreta per aver rivisto ancora per un istante, traverso le semplici e umane parole di De Filippo, l’immagine del grande, scomparso.

Gli applausi sono scrosciati vibranti alla fine del racconto e si sono prolungati per qualche minuto: essi salivano, oltre la ributta rimasta vuota, al di là del sipario chiuso, a cercare e a salutare colui che un crudele silenzio e un desolalo vuoto ha lasciato sui palcoscenici italiani.

Poi i De Filippo hanno recitato una Commedia dell’Arte, sogno perpetuo di Petrolini che da essa discendeva rinnovandone lo spirito e. lo splendore. E’ un atterello gustosissimo, improvvisato su di una vecchia trama, sera per sera. Gli effetti che questi grandi attori, i quali come Petrolini hanno il teatro nel sangue, hanno saputo ricavarne non sono dicibili: si è riso di battuta in battuta, di quel riso pieno e benefico che tutto fa dimenticare e tutto guarisce. Ingenua come vuole la tradizione, buffonesca, sorprendente, questa farsa è .lenza dubbio una delle invenzioni più riuscite dei De Filippo.

«Il Dramma», 1937


I De Filippo 1937

Da quando — circa due anni fa — i Fratelli De Filippo interpretarono il loro primo film, la loro fama di attori personali, originali, efficacissimi è enormemente cresciuta nell'estimazione del pubblico, cosi come la loro arte si è irrobustita, approfondita, raffinata. Ecco perchè il loro ritorno allo schermo costituisce un avvenimento che può davvero dirsi sensazionale ed il fatto di poterli vedere tutti e tre — Edoardo, Titilla, Peppino — riuniti in un film, è la maggior garanzia del successo.

Tutti conoscono la fortunata commedia di Paola Riccora «Sarà stato Giovannino! ». In quella chi andava per le peste era... Giovannino, eletto, suo malgrado, a capro espiatorio di tutto quello che succedeva in famiglia! Sullo schermo, e per merito della abilissima versione cinematografica, le cose cambiano un po’, gli intrecci si complicano, le trovate si moltiplicano, gli avvenimenti si succedono con ritmo più accelerato, i personaggi acquistano tutto il loro rilievo. Ed ecco perciò sbocciare la strana vertenza tra i Fratelli De Filippo: durante una festa di fidanzamento, la giovane e graziosa cameriera di Casa Apicella, cade svenuta; chiamato un medico, dopo ima rapida visita, dichiara che la ragazza è in istato interessante... La bomba scoppia con insolito rumore e due uomini, i De Filippo, dichiarano: « Sono stato lo! »...

L’appassionante interesse della trama movimentatissima, la varietà degli ambienti, l’abbondanza dei tipi, la ricchezza delle trovate, il succedersi delle sorprese, lo scoppiettìo di un dialogo vivo, aderente, sintetico, le molte risorse di una regìa sensibile e accuratissima e sopratutto l’incomparabile interpretazione dei Fratelli De Filippo, fanno si che Sono stato io! rappresenti una delle più brillanti affermazioni della cinematografia nazionale che viene cosi ad arricchirsi di un film bene ideato, ben diretto, benissimo interpretato, un film infine che diverte, commuove, convince. .

La «prima» ha luogo domani al Cinema Moderno.

«Il Messaggero», 21 dicembre 1937


1938 03 01 Il Dramma Eduardo De Filippo intro

I De Filippo sono tre e uno. (Fors'anche per questo raggiungono spesso la perfezione). Edoardo, Peppino, Titina usano regalare al pubblico innamorato una loro fotografia di gruppo, nella quale i due fratelli bilanciano, l'uno a destra e l'altro a sinistra, il sorriso della sorella, che è nel mezzo. Una specie di saliera. Gruppo familiare onesto, fotografia alquanto provincialotta, simpaticone, che essi distribuiscono a profusione, firmandola ognuno col proprio nome, agli spettatori ammirati. Fotografia borghese, ehe non ha niente che vedere colla loro arte, aristocratica e difficile. Né il pubblico potrà mai intuire, guardando queste tre brave persone in posa dinanzi all'obiettivo del fotografo per famiglia, la «prima qualità» della merce, la natura non comune cioè dei personaggi in questione, i quali hanno appunto questo di buono, che sono rimasti, nonostante il successo e i ditirambi, tre cari «guaglioni».

Edoardo è alto, magro, olivastro. Una grazia curiosa, una raffinatezza ignota a lui medesimo, un che di mansueto, di grave ne ingentiliscono i tratti. Peppino è piuttosto basso, pallido, irrequieto. Un naso a schizzo fra due occhi fermi, che bucano. Titina è tonda, bionda, serena. Il segno degli anni ne immalinconisce la bontà con un che di spaurito, di schivo negli atteggiamenti e nello sguardo.

Edoardo, uomo, interessa assai meno di Peppino. Titina, donna, non interessa nessuno. Senonché il primo ha qualità misteriosissime e profonde, radici sepolte in una sensibilità che per destarsi ha bisogno del tepore del palcoscenico, della luce delle ribalte, dell'odore delle scene, del fiuto del pubblico. Animale di razza. Conoscete la sua voce? Fumosa, sotterranea, malata. Non ho mai interrogato un sonnambulo, ma penso che debba parlare così.

Ora quella voce acquista in scena vibrazioni, echi, aloni nuovi, struggenti, che non ti sai spiegare. E così il suo volto. Egli recita spesso senza l'ausilio del trucco, e pur non avendo maschera risentita, aborrendo le smorfie artificiose, mantenendosi fedele a una linea di naturalo compostezza, il suo volto assume espressioni di rara bellezza. E' l'anima, che ora gli illumina il pallore delle gote scavate, ora gli scoppia negli occhi, ora lo lascia vuoto, smemorato, senza vita.

Il gioco di Peppino è invece più evidente. Di fronte alla spiritualità del fratello, la sua maniera, il più delle volte sbarazzina e farsesca, ottiene effetti teatrali clamorosi, ma assai meno rari. La sua arte ha più risalto quanto più enigmatico e raffinato gli si contrappone il fratello. Sono due strumenti di natura opposta, il più e il meno, e l'uno è spesso il commento burlesco — in jazz — della frase accorata dell'altro. Peppino, come entra in scena, ha il pubblico dalla sua. anche se non ha niente da dire. Avverti in lui il comico nato e lo senti anche se gli parli fuori del palcoscenico, per quel suo personalissimo modo di non star mai fermo, di sottolineare le tue parole, di impuntarsi negli interrogativi, di figgerti gli occhi in fronte e il naso, che pare che voglia forare. Edoardo no. Edoardo entra in scena quasi sempre inosservato e per molte battute non lo noti. Il suo fascino si sprigiona a poco a poco, per virtù di elementi imponderabili, sfumati. Se vai a trovarlo in camerino t’accoglierà seduto dinanzi allo specchio, affranto. S'accarezza lentamente i capelli, guarda altrove, assorto. La sua anima è pena. E la sua arte anche.

Titina sta fra i due col suo sorriso rappacificatore. Ma sa cogliere in Edoardo i frutti amari per poterne piangere, mentre le lepidezze e gli sberleffi di Peppino trovano in lei, quasi sempre, cembali per il rimbalzo chiassoso. Sono tre e uno, e il loro pregio maggiore è proprio d’aver saputo sintetizzare in unità le ricche e disparate qualità di ognuno.

Non si possono sentire senza pensare ad un'orchestra in cui tutte le voci si fondono in una sola frase. Ma quando ti sembra ad esempio che Edoardo sia il violoncello. Poppino la tromba e Titina la viola, ecco d'un tratto il primo passare sui toni del contrabbasso, il secondo del violino e la donna virgolare il discorso con strappi di trombetta. Un attimo, e tutto sarà rovesciato daccapo. Ora è Titina che s'abbandona alle languide scivolate del clarino, Peppino contrassegna coi sospiri del trombone ed Edoardo è tutto un fremente galoppante crescendo di timpani.

Non me li so figurare recitare da soli, non sono capace di immaginarmeli uno di qua e l’altro di là. Un De Filippo senza gli altri due ci farebbe forse l’impressione di quelle malinconiche e stonate trombe dì quartiere, che suonano a sera nei silenzi delle caserme vuote. Portavoce ridicole e strazianti della nostalgia dei consegnati.

Eugenio Brunetti, «Il Dramma», anno XIX, 1 marzo 1938


1942 Film Eduardo De Filippo intro

Ricordiamo la prima rappresentazione di «Non ti pago!» a Roma, al Teatro Quirino. La sala era piena fino all'inverosimile. Le «prime» e anche le seconde, e spesso anche le «ventesime» dei De Filippo sono così. Non a torto hanno chiamato i De Filippo gli eredi diretti della commedia dell'arte. Nessun attore italiano dopo Petrolini naturalmente, ha mai avuto altrettanto in possesso parte dell'improvvisare. Quando si parla di improvvisazione, di solito, si pensa ai lazzi obbligali delle maschere, a quei «generici» che furono anche raccolti in volumetti che servivano a crear la scienza agli interpreti minori delle maschere popolari. Ma recitare all'improvviso significa ben altro; significa saper creare un carattere, una situazione e talvolta un dramma, partendo da un canovaccio che svolge fatti comunissimi.

L'abilità creativa di Eduardo De Filippo è tutta volta al ragionamento, alla dimostrazione; Eduardo non si aggrappa soltanto al paradosso, non scaraventa la sua battuta tendente ad ottenere un effetto immediato. Egli si compiace invece della involuzione dimostrativa, ricerca una ad una le parole migliori, tenta addirittura di stabilire delle leggi. La sua forza è nell'essere in buona fede: è sincero, candido, con il candore vi attrae nelle spire del suo ragionamento e non riuscite ad uscirne più se non reagendo con una violenta risata. Ma ad
essere inguaribilmente ipocondriaci, e a non aver a disposizione il reagente del riso ci sarebbe da diventar pazzi che il ragionamento di Eduardo segue una logica tanto minuziosa e ferrea da rendervi persuasi della bontà di una tesi che voi sapete sballata a

Questo avviene in «Non ti pagol». Eduardo, esasperato dalla costante fortuna del suo impiegato al giuoco del lotto, ha visto nel suo ultimo colpo di fortuna un errore del destino, anzi un errore della «buonanima di suo padre» che volendo dare i numeri buoni ai figlioli li ha dati invece al commesso che ha preso in affitto la sua stessa casa. Il ragionamento non fa una grinza: il padre al buio non ha potuto vedere a chi si rivolgeva, ha chiamato il commesso «pieccerè» come chiamava il figlio; c'è stato un banale errore di persona, insomma Ed Eduardo ha come testimoni due persone scomparse da diversi anni ma che erano presenti nel sogno, si avviluppa nei suoi ragionamenti e l'ascoltatore, per quanto smaliziato, non può che convenire che Ha giocata del lotto è veramente sua e che l'iniquo commesso ha architettato un inganno per defraudarlo della sua legittima fortuna.

La strana logica di Eduardo è insomma la principale protagonista di questa commedia che è decisamente fra le migliori del repertorio dei due attori napoletani.

U. d. F., «Film», 1942


1942 08 31 Il Mattino Illustrato Eduardo De Filippo intro

Edoardo De Filippo ha uno strano fascino. Lo diresti un personaggio di Thackeray se, invece dell’abito del sarto napoletano Rubinacci, potesse improvvisamente andare in giro con la zimarra cara agli epigoni di Brummel. Alto di statura, un po' dinoccolato, dall'andatura stanca; ha un volto scarno e geometrico: pare una maschera cafra, sempre immobile, sempre impenetrabile che, a volte, deforma atteggiandola ad un sorriso strano, inquietante, riflesso. Quando parla sul serio, la sua voce assume un tono opaco, come un cielo nebbioso, a cui dietro però, a tratti, fa capolino il sole scialbo dell'ironia. Quando tace, è un perfetto oratore; ma bisogna aver l'orecchio esercitato ai suoi silenzi, spesso continui, che hanno il valore della sospensione d'animo, del vuoto.

Se tu riesci ad ascoltarlo, allora sei portate per la mente dei meandri del relativismo; i tuoi pensieri rischiano d'impagliarsi nel moto capillare dell'emozione, controllata a volte dalla logica, a volte abbandonata a sè stessa, come un fumo irrazionale».

Quanti anni ha dovuto lottare Eduardo per affermare anche sulla scena la pienezza di questa sua sconcertante personalità. Ricordo qualche tempo fa il suo primo personaggio: «Don Pasquale» nella «Rivista che non piacerà» di Michele Galdieri.

Il «compaire» di quel grosso spettacolo rambaldiano era un povero Cristo, un miope; aveva un abito liso verde, che molto contribuiva alla simbologia esteriore del «tipo». Eduardo s’era rivelato a sè stesso, alla sua umanità. «Don Pasquale» comparve più tardi in un altro grosso spettacolo, questa volta di Mauro. E fu una sera, durante una recita di questa rivista, che Eduardo incontrato il sottoscritto dietro una quinta del Teatro «Nuovo» di Napoli, lo prese sottobraccio e gli parlò, come ad un vecchio amico, del suo grande sogno: fare una compagnia.

L’anno dopo al «Sannazzaro» era avvenuto il miracolo: il «Teatro Umoristico»: Un’affermazione di stile e di personalità. I personaggi d’Eduardo cominciavano a vivere, ad entusiasmare. Quando l’attore compariva dinanzi al pubblico borghese di via Chiaia nelle vesti di «Giovannino» di Paola Riccora o in quelle di «Cimmino» di «Ventiquattr’ore di un uomo qualunque» di Ernesto Grassi, la platea elegante era pervasa da un intenso fremito. Anche se gli spettatori ridevano a quattro ganasce ai lazzi di «Don Rafele ’o trumbone», o di «Sik Sik», quel riso aveva sempre una strana risonanza d’inquietudine intellettuale. E giù, repliche su repliche a quegli spettacoli: la gente era affascinata, ferma come gli scorfani notturni nella zona smeraldina delle lampare di pesca. E quando l’incanto cessava, quando Eduardo «mezzo carattere» usciva a ribalta col suo risolino riflesso, «se ne cadeva ’o triato»!

Oggi Eduardo, attore nazionale, è più «blasé», più lento, più scaltro. Spesso s’abbandona al suol silenzi, che vorrebbero talvolta avere un carattere doloroso — chissà perchè! — ma che ad ascoltarli bene hanno il tono discorsivo di una vagheggiata stanchezza, di un sopore magico. E’ la realtà dell’uomo celebre, rimasta avvolta nei veli del sogno, che tende ancora a mete fatali. Eduardo è felice di rimanere solo nel suo camerino, ora. Non sopporta che la vicinanza di Armando Curdo, il suo fedelissimo ascoltatore, ed interprete. Ad un tratto suona il campanello - il segnale per l’uscita in iscena - e l’attore va, portando con sè il suo personaggio: uno, nessuno e centomila, che ha l’anima del «Ciampa» pirandelliano e il carattere di «Lucariello» di «Natale in casa Cupiello», la più perfetta creazione di Eduardo De Filippo.

Vittorio Viviani, «Il Mattino Illustrato», 31 agosto 1942


«Questi fantasmi» di Eduardo De Filippo

"Questi fantasmi" di Eduardo De Filippo è stato un successo clamoroso. Sopratutto dopo il secondo atto. La commedia, infatti, poeticamente si chiude al secondo atto, dopo quella corsa trafelata, quella carica sublime delle ultime scane e con quella battuta finale gridata da uno del sessantotto balconi del palazzo : «i fantasmi slamo noi !». Il terzo atto è un’aggiunta, non senza risorse e bravure, ma, come al solito, si avverte un ripiegamento sentimentale su una materia che è Invece venuta fuori con una miracolosa violenza inventiva, dove la personalità dell’autore nel momento stesso che si manifesta ed è riconosciuta, sembra retrocedere e scomparire dentro le oscure leggi ereditarie ed istintive di tutta una razza, di tutto un popolo, come il napoletano che ognuno dice di conoscere e di capire ma che Invece E)e Filippo sembra di volta in volta decifrare con una smorfia che ce lo fa misterioso come un popolo antico di cui la storia abbia lasciato pochi segni.

Autore dialettale, si dice e si disdice di De Filippo; e certo egli ha il torto per compiacenza sua e verso il pubblico di ripiegare spesso su quei motivi facilmente popolari che autorizzano poi a fare di lui come di altri, un dialettale. Come se, sopratutto per un autore italiano, la natura dialettale non fosse la condizione che gli consente di sopportare vittoriosamente, senza esserne intimidito, la lingua italiana. Non è un paradosso. Da noi, chi non è dialettale, è accademico. Se dietro uno scrittore italiano non è possibile aprire il paesaggio di una sua regione, lombarda o siciliana, il suo linguaggio allora è convenzionale e la sua incentiva è retorica.

Se queste cose, accennate tanto in fretta, sono ovvie se si parla di un narratore o di un poeta, se si viene poi a parlare di uno scrittore di teatro si può affermare — anche semplicisticamente — che non c’è teatro se non c'è dialetto (si capisca in quale senso severo, non dilettantesco, si allude qui ad una origine dialettale di un mondo di teatro). Tanto per intenderci : Pirandello non scapita, se lo si dichiara «siciliano». Non per niente l'aria leggera e perduta di alcune sue traslazioni metafisiche sappiamo di doverle ricercare nella Magna Grecia. Oltre al fatto, che le sue commedie più durevoli restano quelle di ispirazione paesana.

Tornando a De Filippo, si sa come cominciano e come finiscono questi discorsi. I limiti di De Filippo crediamo in fondo di conoscerli. Ma non le sue risorse. Sono risorse cosi segrete e cosi profonde, che, malgrado i limiti, oggi De Filippo rischia di essere l'unico scrittore italiano di teatro.

Questi fantasmi è una commedia carica di situazioni. Qualcuna è facile, scopre una sua origine di meccanicità teatrale. Non importa. Il gioco di teatro, come c’è in questi tre atti, scatenatissimo nel secondo, è andato perduto nei più. Ho il coraggio di dirlo : è uno scatto, qua. le si ritrova molte volte in Garcia Lorca. Ma Lorca è dialettale. Come De Filippo è spagnolesco.

Giancarlo Vigorelli, «L'Europeo», 1946


1947 12 14 L Europeo De Filippo intro

Peppino De Filippo non ama la critica, o meglio sembra dare la preferenza a un critico solo: il pubblico. E' questo un altro dei tratti che lo distinguono da Eduardo. Quando Eduardo, rappresenta una commedia nuova, scritte da lui stesso (è ormai difficile che rappresenti commedie nuove d’altri autori), tutto è predisposto in modo di creare un avvenimento teatrale anche riguardo alle forme. Eduardo ambisce tutti i crismi; autore e attore, benché la sua origine dialettale e l'indole personale lo portino a tenere nella massima considerazione la sovranità, popolare, non ammetterebbe d’essere giudicato da una diecina di critici secondari. L’anno scorso, alla prima di Filumena Marturano, dopo il secondo atto ebbe il piacere di farsi fotografare nel suo camerino insieme a quasi tutti i critici milanesi Da Simoni a Campanile, quelle fotografie rappresentavano un giudizio avanti lettera. Peppino, invece, da un paio d'anni, rappresenta le sue commedie nuove in serate nelle quali in altro teatro venga rappresentata una novità più importante. Non è difficile rimandare uno spettacolo di ventiquattr'ore, o intendersi con la direzione di un teatro. Evidentemente la coincidenza è creata di proposito.

Peppino sa che le sue commedie non reggono a un vaglio rigoroso, e sa che i sostituti dei critici più che esprimere un giudizio si attengono alla cronaca della serata. E' quel che basta. Il suo pubblico gli è fedele, composto di gente alla buona che va in teatro per veder lui, sicura di vederlo alla ribalta per tre quarti della commedia e disposta ad attenderlo pazientemente ogni volta ch’esce di scena. E' un pubblico che non si domanda nemmeno se la stessa commedia recitata da un altro attore, gli procurerebbe altrettanto diletto. Così è accaduto dall'ultima sua commedia Il bandito sono io. E' una farsa della quale i giornali si sono occupati pochissimo. Andò in scena, annunziata all’ultimo momento all’Olympia di Milano, la stessa sera, in cui all’Odeon andava in scena una novità di Géraldy annunziata da una settimana. Anche ai critici dei settimanali la cosa sembrò di poca importanza, ma la farsa si rappresenta da quindici sere e andrà avanti per un pezzo. C’è dentro di tutto, lazzi antichi, situazioni acquisite, battute nemmeno sempre rivestite a nuovo. Ma la vivezza di Peppino è tanta che nessuno ci pensa. E del resto è ammissibile anche un teatro scacciapensieri.

E' ammissibile soprattutto per gente che pensi poco, ma intanto la rivalità Eduardo-Peppino continua. Bei tempi, quelli dei primi De Filippo. Non erano Eduardo, nè Peppino nè Titilla, ma tutti insieme. Si sapeva che i tre fratelli avevano caratteri difficili, che fuori del teatro non erano divertenti e allegri come apparivano sulla scena, e per averne conferma bastava incontrarli dopo la recita in qualche casa amica. Peppino stava seduto ore ed ore su un divano, con repressione di uno il quale non si avveda della gente che gli si muove attorno. Eduardo non stava mai fermo, ma era difficile vederlo sorridere, e dai muscoli della sua faccia in continua vibrazione si diffondeva una penosa inquietudine. Titina, o era assente o aveva l’aria aggressiva. Sul palcoscenico, tuttavia, quel trio era perfetto. Tanto perfetto che anche adesso, nelle belle commedie di Eduardo, c’è sempre una parte per Peppino, recitata da altro attore e che invece si vorrebbe vedere interpretata da lui.

Cominciò Titina ad andarsene con Taranto. Lasciò il teatro per la rivista, e la distinzione era più che altro formale. Nelle riviste di Taranto la commedia ha gran parte, e nella recitazione dei De Filippo sono sempre presenti tanto l’eredità di Scarpetta quanto la memoria dei loro inizi che sono legati all’avanspettacolo e al caffè-concerto. Le farse di Peppino, in questo senso, significano appunto un ritorno allo stile dei primi tempi. Dopo un po’ d anni anche Peppino e Eduardo si divisero e gli appassionati del loro teatro pensarono con rammarico che non avrebbero più potuto riascoltare Natale in casa Cupiello. Eduardo si riuniva a Titina e la ricollocava in primo piano, ma l’antagonismo con Peppino s’inasprì, si esasperò, diventò, dicono, cattivo. Entrambi napoletani, entrambi autori di commedie, entrambi portati alle parti comiche (benché la sensibilità di Eduardo sia più ricca e profonda), pur contrastandosi cercarono di distinguersi imo dall’altro. Il dispetto indusse Eduardo a privarsi perfino del cognome che da tempo ha cessato di figurare nei manifesti delle sue compagnie: tanto lo conoscono tutti. Necessità pratiche indussero Peppino a rinunziare al dialetto napoletano e a circondarsi di attori che recitano in lingua. Ma anche questa rinunzia non ha niente di concreto. Le compagnie di Peppino e le sue commedie, sebbene tradotte in lingua italiana, rimangono tipicamente dialettali.

Il dissidio è profondo e non si sa quando nè come potrebbe aver fine. Esso mette a dura prova i rappresentanti del Reame di Napoli che sono numerosi in ogni città d’Italia. Nessuno vorrebbe dare la preferenza a uno dcji due fratelli; tutti si comportano con Eduardo badando di non offendere Peppino, e con Peppino in modo di non urtare la suscettibilità di Eduardo. A Milano, maestri di questa pratica sono don Peppino Somma e i fratelli Petriccione, Per essi vedere i De Filippo riuniti in una sola compagnia sarebbe un grande avvenimento e sicuramente in segreto sperano che ciò accadrà. Ma quando i piatti sono rotti è difficile riaggiustarli.

Raul Radice, «L'Europeo», anno III, n.50, 14 dicembre 1947


1948 12 26 L Europeo De Filippo intro

Quando si seppe che Eduardo De Filippo avrebbe rappresentato la sua nuova commedia «Le voci di dentro», alcuni credettero che si trattasse ancora della «Grande magìa» annunziata un mese fa, agli inizi della stagione al Nuovo di Milano. Eduardo poteva averle cambiato il titolo. Invece si trattava di una commedia ancor fresca di inchiostro; anzi, quando l'annunzio fu dato, non ancora finita di scrivere. La commedia fu rappresentata la sera di sabato 11 dicembre, l'ultima scena fu scritta nella mattinata e provata dagli altri attori per la prima volta nel pomeriggio. Del resto, di tutta la commedia, fino a una settimana prima non esisteva una parola scritta. Qualcuno, sabato scorso, si domandava il perchè di tanta fretta; e pensava che «Le voci di dentro» avrebbero potuto giovarsi di altri sette giorni di lavoro. E’ facile vedere in queste bravure chi sa quale impazienza, o magari un eccesso di fiducia nelle proprie forze. Comunque la faccia di Eduardo, più mobile del solito, e i suoi occhi allucinati, non dicevano, niente di simile. Se mai vi si leggevano qualche traccia di fatica e la volontà tesa a superare quest’altro ostacolo; ma anche, per quanto dominati, il timore e forse il panico. Tanto più dopo il primo atto, accolto con una freddezza della quale Eduardo attore non doveva nemmeno ricordarsi. Il sipario si aprì soltanto due volte, davanti a un pubblico duro e immobile. Applaudivano in pochi, anzi pochissimi; e il giornalista napoletano Peppino Somma tentò inutilmente di provocare una terza chiamata.

La realtà, infatti, era diversa. La nuova commedia era stata scritta come rimedio a un incidente della Compagnia. Titina, che nella «Grande magìa» ha una parte notevole ed è comunque insostituibile, ammalatasi al principio della stagione, aveva ricominciato a recitare da un paio di settimane. Il pubblico avrebbe dunque potuto ascoltare la novità attesa. Senonchè Titina, avendo troppo fidato nelle proprie forze, fu costretta a interrompere una seconda volta le recite e fu mandata dal medico a finire la convalescenza al mere. Da quel momento Eduardo si pose il problema di rappresentare una commedia nuova in cui Titina non avesse parte. Scrittore fertile e uomo di talento, la scrisse egli stesso.

«Le voci di dentro» è dunque un lavoro nato dall’occasione in un’epoca in cui l’occasione sembra dimenticata e contraria all’arte dello scrivere, benché da essa in passato siano derivati alcuni capolavori. Che poi la commedia sia stata scritta in pochi giorni, nemmeno questo è un fatto nuovo, il casi di autori drammatici che si mettono a tavolino quando la commedia è già interamente pensata, sono frequenti. Marco Praga diceva di aver scritto «La porta chiusa» in otto giorni, e i primi due atti della «Moglie ideale» in due notti. Meno usuale è il caso di un autore che di giorno scrive una commedia e di sera ne recita un’altra.

Non è improbabile che Eduardo De Filippo debba in seguito modificare qualche parte della commedia, e rimetter mano al primo atto che è il meno attraente ed anche il meno chiaro. Ma certo non modificherà il secondo atto, nel quale l’invenzione è ricca e sorprendente e che suscita un entusiasmo non diverso da quello del secondo atto di «Questi fantasmi» o del primo di «Napoli milionaria».

«Le voci di dentro», come almeno quattro delle commedie precedenti, confermano che Eduardo ha abbandonato il bozzetto senza tradire il dialetto che fa tutt’uno con la sua indole. Certo può parere detteranno che un tale, dopo aver sognato un delitto ed essersene immedesimato al punto di denunciare i presunti assassini, debba poi convincersi che in sostanza il suo sogno era esatto nonostante l’assassinato sia vivo vivissimo e nessuno dei colpevoli abbia mai pensato di ucciderlo. E’ letterario, ma non per questo impopolare. Popolarissimo, poi, è il pessimismo di cui Eduardo da qualche anno si è fatto banditore, e molto dialettali le conclusioni morali delle sue commedie.

A questi moralismi, alcuni preferiscono che farse di una volta. Ma le ricordano poi bene? E non trovano nessun nesso, tra l’estro di allora e l’immaginazione d’oggi che fa di Eduardo un commediografo singolarissimo, per non dire unico?

Raul Radice, «L'Europeo», anno IV, n.52, 26 dicembre 1948


1949 11 19 Cine Sport Napoli Milionaria intro

«CineSport», 19 novembre 1949


1950 01 01 Il Dramma Eduardo intro

1950 01 01 Il Dramma Eduardo f1Davanti ad un albergo rivierasco, una sera d’estate, gli allegri villeggianti si riuniscono per assistere ad uno spettacolo di illusionismo. «Artefice magico» non sarà stavolta il povero Sik-Sik, manipolatore da suburbio, ma un tal «professore» Otto Marvuglia, disperato come l’altro, ma di lui più evoluto nella frode prestidigitatoria, e capace in sua dialettica, pur di avvolgere di nebbie iridescenti le proprie magagne, di discettare di «Finzione e realtà» in senso metafisico. Ma non basta. Allorché, come avviene davanti all'albergo, l'imbroglio consiste nel favorire da mezzano la fuga dì un’adultera, il «mago» non esita a spingere le cose agli estremi, e fa di tutto per convincere Calogero Di Spelta, consorte dell’infedele, di un fatto inaudito : egli, il professore, ha fatto passare la donna dal sarcofago egizio nel quale era stata rinchiusa da spettatrice a di buona volontà», in una cassetta delle proporzioni di un’urna cineraria. E Calogero Di Spelta ci crede.

E’, quello della donna nella cassetta, l'elemento nucleare poetico della più recente commedia di Eduardo, a Non aprire se non hai fede!» avverte l'illusionista. «Se apri quella scatola senza credere, fermamente credere, di trovarvi dentro tua moglie, la donna che ami non la vedrai mai più». Suggestione? Autorità fìsica del «taumaturgo»7 Timore ancor vago, ma non per questo meno ottenebrante, di averla perduta sul serio e per sempre, quella donna della quale Calogero s era dovuto confessare geloso, e forse non a torto? Sta di fatto che il marito abbandonato porta con sé la scatola, piccola, s’è detto, come l’urna d’un sogno. E non l’aprc. Ed informa la propria vita alle teorie del ciarlatano che egli ha assorbite come altrettante verità, e cioè che tutto a questo mondo altro non sia che illusione rappresa in cose, figure, eventi, amore e morte. Ve n’è davvero abbastanza per essere trattato da pazzo. e tale senz’altro è classificato il Di Spelta dai parenti, ipocriti e non disinteressati, a cominciare dalla madre. E Calogero invecchia rapidamente; e vaneggia, sia pure in chiave di grottesco, di Forma e di Vita, di Apparenza e di Realtà. A segno che. pietoso, l’alchimista di illusioni favolose Otto Marvuglia, il poveraccio che in sostanza s’è attaccato egli stesso a quelle idee per illudersi di vivere un poco anche lui, risolve di rompere l'aberrato incanto e ricondurre al marito la peccatrice che frattanto s’è pentita. E, difatti, gliela riconduce. Ma l'uomo crudelmente giocato preferisce restare nell'illusione, e nell'illusione trovare la salvezza. Fra tanta foschia di truffe e raggiri, egli ha conservato una sola chiarezza baluginante in fondo all’anima: il suo amore. E così vuol tenersi la donna morta ormai per lui : nella piccola bara istoriata di specchietti catarifrgenti, quella scatola che egli stava per aprire impaziente, nel momento in cui la moglie realmente gli era apparsa, ma che non aprirà mai più, fin che vivrà.

La più recente ed elaborata commedia di Eduardo De Filippo è questa, e non v’è chi non avverta in essa, trepido, e, fra tante invenzioni ridanciane, castissimo, un palpito di sensi squisiti. Non v’è. insomma, chi non vi senta soffrire, ciascuno a suo modo, degli esseri umani. Bisogna riconoscere che la gravità dell’assunto è tale che ad enunciarla cosi, con tanta naturalezza . al mezzo di scene che non mancano di contrasti umoreschi, ci vogliano la franchezza, la tecnica ed anche l’autorità che Eduardo De Filippo ha saputo conquistarsi presso il pubblico, in vent’anni. con la sua arte di autore e di interprete. E il pubblico l'accetta, impressionato.

Senonchè chi scrive queste note dopo la rappresentazione stima utile ed opportuno fissare un concetto che da tempo gli urgeva nella mente. Non si tratta di un rilievo formale, ma, come vedremo, di una constatazione di superamento, il quale superamento già non manca di incidere su parte delle commedie di Eduardo, da Questi fantasmi in poi. Fermo restando il valore intrinseco di La grande magìa, del resto riconosciuto ed esemplificato più sopra, lo spettatore attento e puntuale ch’io ardisco reputarmi non può fare a meno di porsi la domanda: Perchè mai la storia del professor Marvuglia e di Calogero Di Spelta è espressa, spessissimo nelle parale, e sempre nelle intonazioni, niella recitazione e persino nei silenzi, in dialetto napolitano? Volessimo prender le cose sottogamba, che non sarebbe giusto; non ci trovassimo di fronte ad un fenomeno d’arte che va coscienziosamente valutato ed approfondito; tot pigliasse, in brevi termini, vaghezza di celiare, diremmo che non è facile esprimere in dialetto l'equivalente drammatico di un problema cartesiano, giacché, al finale della commedia, Calogero Di Spelta ch’era giunto a dubitare della sua propria esistenza, si accorge di esistere, e lo dice, appunto perchè si sorprende a pensare. Ma non è di questo, che si tratta : l'intuizione pura può benissimo, ancorché non lo premediti, slanciarsi ad incentrare Cartesio. Il problema è un altro, ed è tecnico. Il linguaggio dialettale, quando non sia infantilmente fiabesco com’era in tante fantasmagorie del vecchio «San Carlino», presuppone il realismo più vero e più assoluto: quello della semplice, innocente verità. Ed è tale, altresì, da produrre all’impensata la sgradevole frizione della «battuta» facile, nel caso particolare inevitabile, con rimozione di una vicenda che malgrado le sovrastrutture è, e resta, dolorosamente umana. Calogero Di Spelta, un ometto un tantino automatico, ma in definitiva normale, soggiace all’illusione che gli è propinata dal Marvuglia, il quale ultimo non è un simbolo, ma realisticamente un povero diavolo che spiffera grandi case senza saperlo, ed anzi è convinto di giocar la «solita patacca» ad uno scempiato. E Di Spelta, che scempiato non è, gli crede, cesi come il protagonista di Questi fantasmi, il quale la sapeva lunga sulla vita e su gli uomini, e lo proclamava, credette alla storia del munifico spettro due gli infilava nottetempo fior di biglietti da mille nella tasca del pigiama. Ora tutto questo è surrealismo bell’e buono, ed il surrealismo abbisogna di messinscena, di ambientazione, di recitazione, di sostanza surrealiste, altrimenti lo spettatore può chiedersi sia di fronte al protagonista di Questi fantasmi che crede al fantasma, sia di fronte a quello de La grande magìa che crede alla donna nella scatola : «Com’è, che ci crede» ?

Eduardo De Filippo, che, per essere un uomo di teatro come pochi, è anche, a tempo e a luogo, vigile spettatore di ss stesso, ha preveduto l'eccezione potenziale, tanto che al terzo atto ha voluto lievemente stilizzare la scena. Ma l'uditorio quell’accezione non l'ha fatta: ha creduto all’autore, il quale è degno in tutto della fede del suo pubblico, e gli ha creduto sulla parola. Il successo infatti è stato schietto e cordiale. L’autore-interprete è stato pari alla propria forza. Messo da banda se stesso, por gusto o per civetteria, nei primi due atti, ha recitato nel terzo con calma, ma con un’intensità interiore di rara efficacia. Pittoresco, 'torbido, sfrontato, e, a volte, sgomento come doveva, Pietro Carloni, il quale si è tenuto con bravura e con lealtà nello spirito della commedia e del personaggio di Marvuglia. Perfetta Titina nella parte di Zafra compagna del «professore» e sirena incantatrice in disarmo: verso il finale, quando si comincia a ragionare di cose trascendentali, fa una faccia di chi non capisce niente ch’è una delizia. Commovente la Rosita Pisano nell'ombrettina 'diafana della giovanetta malata; bene il Giuffrè che s’è meritato un applauso a scena aperta nel «croquis» del brigadiere siculo che se ne lava drasticamente le mani. A posto da bravi Salvatore Costa, l’Amato, la Gore, Vittoria e Clara Crispo, il Donzelli, come ogni altro.

Ernesto Grassi, «Il Dramma», 1 gennaio 1950


1950 02 05 L Espresso Eduardo De Filippo intro

ROMA, gennaio

Eduardo De Filippo, da quando è a Roma, vive quasi appartato. Chi voglia vederlo deve andare a trovarlo in camerino tra un atto e l’altro delle sue commedie, oppure all’ora di pranzo ille Grotte del Piccione dove si trattiene brevemente. Eduardo è sobrio, e consuma un pasto regolare soltanto dopo la recita. Nelle ore che gli lasciano libere le prove e gli spettacoli, lavora. Scrive dovunque si trovi, ma di preferenza nel piccolo studio dell’appartamento che ha affittato al piano terreno dell’Albergo Ambasciatoli. Sempre assorto, con le mani scosse da un tremito leggero e i muscoli della faccia mossi da una contrazione continua, Eduardo prende appunti per le sue commedie, annota quattro versi in dialetto napoletano, scrive una variante per il film del quale sta preparando il soggetto. Questi sono i suoi anni fecondi.

Eduardo è un lavoratore rapido; d’abitudine incomincia a scrivere soltanto quando l’argomento, si tratti di una commedia o di una lirica dialettale, ha già preso corpo nella sua mente; molte delle sue commedie furono scritte in pochi giorni. Scrisse in una settimana «Le voci di dentro». quando si trattava di rimediare al vuoto creato da una malattia di sua sorella Titina. E in pochi giorni ha adesso scritto una commedia in lingua, non per sè. ma per una normale compagnia di colleglli disposti a recitarla in italiano. E’ una commedia della quale non è ancora fissato definitivamente il titolo, ma che potrebbe intitolarsi «Andiamo a spasso nel sogno». Tratta della vicenda d’amore di due coniugi, uno dei quali avvertendo la delusione dell’altro tenta di risuscitare i modi e le parole dell’epoca dei primi incontri. La tendenza alla sottigliezza che Eduardo ha recentemente dimostrato anche nella «Grande magia» è in questi tre atti più evidente. In essi egli arriva a cancellare la presenza fisica dei protagonisti, dei quali a un certo punto si odono soltanto le voci, la cui intensità dovrebbe essere commentata da due cerchi di luminosità variabile.

Con questa commedia, della quale non è ancora stabilito quando e da chi verrà rappresentata, Eduardo fa il primo grande passo fuori del dialetto. Ma lo fa in un momento in cui la poesia vernacola tenta insistentemente la sua vena: componimenti legati uno all’altro, tutti riferiti ad un unico argomento sessuale. Una materia scabrosa, che Eduardo esprime senza compiacenze, con accenti amari e malinconici. De Filippo preferisce gli endecasillabi e tutti i suoi componimenti sono rimati.

Finita la stagione all’Eliseo, Eduardo prenderà parte al film che è stato desunto da «Napoli milionaria» e del quale ha personalmente riveduto il soggetto. Intanto scriverà una commedia nuova (la sua commedia dell’anno prossimo) che egli e la sua compagnia reciteranno in prima assoluta al Festival internazionale del Teatro organizzato dalla Biennale di Venezia. Della commedia, che è di argomento comico sarà rappresentata alla Fenice di Venezia per quattro sere, nel mese di luglio, poi portata in giro in autunno nei teatri delle altre città.

Eduardo De Filippo CC Filumena Marturano

Nella fotografia: Regina Bianchi e Eduardo De Filippo in Filumena Marturano, Rai TV 1962

«L'Espresso», 5 febbraio 1950


1950 03 01 Il Dramma Eduardo De Filippo L intro

Questa la più recente, elaborata, discussa, esaltala ed anche sconcertante commedia di Eduardo De Filippo, di maggior autore che abbia oggi l'Italia. E questa affermazione valga non per sminuire gli altri, ma perchè Eduardo è il solo — tra tutti i nostri commediografi — ad avere risonanza internazionale, ed ogni sua nuova opera è attesa, richiesta, tradotta, rappresentata da varie altre Nazioni. «La grande magia» è la commedia più cara al cuore di Eduardo, perche in essa il grande attore-autore vi ha riposto l'illusione: quella di tutti gli uomini, e soprattutto la sua, di Eduardo; con questa commedia, Eduardo — bene o male che sia — ha tentato il suo volo, si è sganciato dal teatro dialettale, dal realismo vero ed assoluto che questo comporta, dalla verità semplice e innocente, dal linguaggio che deve restare nel suoi termini precisi. «La grande magia» segna una svolta nel teatro di Eduardo: è il primo passo verso quella concezione eduardiana che tutto, a questo mondo, non è che illusione rappresa in cose, eventi, ligure, amore e morte.

«Il Dramma», 1 marzo 1950


I giorni pari e quelli dispari nelle confessioni di Eduardo

I progetti per il teatro e per l'attività cinematografica. L'opinione di De Filippo su «Letteratura e vita nazionale» di Gramsci

Roma, 23 marzo 

E' la seconda volta che incontro Eduardo. La prima fu due anni fa circa, quando Massimo Bontempelli volle leggerei, a Eduardo, a Guerrieri e a me, l'ultima commedia che aveva scritto, Innocenza di Camilla. 

Adesso Eduardo abita al primo piano dell'Albergo Ambasciatori, in via Veneto. In questi ultimi tempi il nome di Eduardo ha finalmente ricevuto il riconoscimento che si meritava. Dopo il film tratto da Napoli milionaria, film che ha ottenuto grande successo in tutta Italia (anche se il solito immancabile deputato democristiano è intervenuto protestando

— con malinconica piccineria 

— che il buon nome di Napoli ne veniva diffamato), è ora la volta del successo del libro che Einaudi ha stampalo e che raccoglie, sotto il titolo di Cantata dei (fiorili dispari, le prime sci commedie scritte da Eduardo dopo la guerra, dal '45 al '48: Napoli milionaria!, Questi fantasmi, Filumena Marturano, Le bugie con le gambe lunghe, La grande magia c Le voci di dentro. Restano fuori quelle precedenti, che usciranno col titolo di Cantata dei giorni pari, e le nuove La paura numero uno, che sarà rappresentata a Roma prossimamente, e Mia famiglia. 

M'informo intanto su questa faccenda dei giorni pari dispari. 

«Questi sono giorni dispari, amico mio — risponde Eduardo — qui ci stanno un sacco guai, i conti non tornano, non « si combinano ». Quegli altri, quei tempi di incoscienza «di falsa tranquillità, quelli erano giorni pari. Quante commedie si vedono oggi, rimaste ai giorni pari!». 

Comincia a leggermi quello che ha scritto della nuova commedia, Mia famiglia: lo ambiente, i personaggi principali. E' una storia familiare nella quale Eduardo, a quanto ho potuto capire, vuole rappresentare attraverso il contrasto fra la vecchia generazione e la nuova, fra un padre che regge con autorità il suo potere tradizionale e i figli che vi si ribellano, l’urto che scuote il mondo, l'incomprensione da parte di coloro che detengono il potere, in tutti i sensi, verso coloro che desiderano una vita nuova, più giusta, più felice. 

Qualcuno — dice Eduardo — mi ha fatto l’onore di paragonarmi a Pirandello. Si intende che io sono orgoglioso di questo accostamento. Bisogna, però, tenere ben presente la differenza tra il mio modo di vedere e quello di Pirandello e soprattutto tra la realtà oggettiva del mondo pirandelliano c del io. Pirandello è vissuto in l’epoca di crisi, in un’epoca che ha visto il declino e l’abbandono. da parte degli uomini, dei loro migliori ideali. Noi oggi viviamo in un’epoca diversa. Ci stiamo risollevando, materialmente e moralmente, siamo più esperti, abbiamo imparato a difenderci, ci conosciamo, siamo ormai in tanti a volere una vita migliore. crediamo di nuovo in qualche cosa. Io credo nell'uomo — e qui Eduardo sottolinea con forza la sua affermazione — credo nell'uomo ostinatamente, profondamente. e credo nella sua fondamentale rettitudine, nel bisogno sincero, leale, di migliorarsi, di vivere una vita più civile. Credo che una fiducia negli uomini sia necessaria. se non vogliamo fare addirittura bancarotta. Perciò io non ho lo scetticismo di Pirandello ».

«Circa quel tanto di "filosofia", di dialettica, che c’è nel mio teatro e per la quale appunto è stato fatto il nome di Pirandello, credo che bisognerebbe leggersi quello che scrive Gramsci, nel volume ora pubblicato da Einaudi. Letteratura e vita nazionale, a proposito del « pirandellismo », e constatare come crolli quel castello critico costruito, sembrava, così solidamente ». 

Chiedo ad Eduardo un giudizio d'insieme sul libro di Gramsci. 

L'ho letto d'un fiato. E' un libro sorprendente. La capacità di sintesi e l'acutezza del pensiero di Gramsci sono tali che le sue note e i suoi appunti, letti oggi, malgrado gli anni di distanza, o forse proprio per questa distanza, acquistano una prospettiva di definizione precisa, di giudizio assai più eattuale di quello di tanti altri critici contemporanei. Quello che ha scritto intorno a Pirandello, alla poesia e alla letteratura dialettale, a tanti attori e attrici alcuni di loro sono già scomparsi dalla scena), è un ritratto così indicativo e preciso da farci ben comprendere quale fosse la sua natura di studioso e di critico veramente "moderno”». 

Eduardo sente in Gramsci un alleato. Eduardo si lamenta che tanta parte della poesia del teatro dialettale non abbia la dovuta considerazione nelle storie letterarie: nomi come Di Giacomo, Bovio, Murolo, Capuana, entrano dalla porta di servizio in tanti libri presuntuosi, quando « dovrebbero avere l'onore della carrozza e del cocchiere in livrea! ». 

Per chi non lo sapesse conviene ricordare che anche Eduardo è poeta. Proprio in questi giorni sta correggendo le bozze d’un volume di versi che usciranno, sotto il titolo Il Paese di Pulcinella, presso l'editore Casella di Napoli. 

Poi mi racconta qualcuno dei suoi progetti di cinema: dovrebbe fare, sembra, tanto Questi fantasmi! che Filumena Marturano, in film, ma sono progetti non immediati; altri invece trarranno dalla sua commedia La paura numero uno, un film, con Totò protagonista. La cosa non lo rende molto felice, ma lui ha la sua commedia nuova da scrivere.

«Questo qui — dice alludendo a un personaggio della sua commedia nuova, un tipo di professore mezzo scimunito, che tutti trattano come guaglione — questo qui è un tipo che mi viene bene assai». E ride piano, mettendosi a leggere a bassa voce tutta la didascalia che disegna il personaggio.

Luciano Lucignani, «L'Unità», 24 marzo 1951


Eduardo De Filippo non vuole essere aiutato dallo Stato

Roma, luglio

Mai come quest’anno le compagnie di prosa hanno avuto fretta di mettersi in vacanza. Eduardo De Filippo ha terminato la sua stagione il 23 giugno e l'Eliseo ha chiuso le porte. Lo avevano preceduto il Quirino e il Valle. Chiuso il Teatro delle Arti, chiusi l’Ateneo e i Satiri, soltanto il Sistina rimane aperto per qualche spettacolo di rivista. A Milano la situazione non è molto diversa: una sola compagnia di prosa, quella dei Micheluzzi, al Teatro di via Manzoni; quattro compagnie di riviste all’Odeon, all’Excelsior e al Mediolanum.

Chi avesse voglia di ascoltare una commedia dovrà forse aspettare il mese di settembre. L’ipotesi può sembrare superflua. Incassi alla mano, tutti son pronti a giurare che le commedie non vuole ascoltarle nessuno. Trattandosi di una attività sovvenzionata, non si poteva arrivare a risultati più squallidi.

La polemica sulle sovvenzioni si è riaccesa anche recentemente nei giornali politici. E’ un argomento che si presta allo spirito di parte, che ogni volta chiama in causa la direzione generale dello spettacolo, e al quale partecipano tutti, capocomici, impresari, autori, critici e registi. In generale ognuno considera il problema dal proprio angolo personale. Tutti accaniti nel dirne male, nessuno pensa che le sovvenzioni debbano essere abolite. Nessuno si domanda per quali ragioni fino a circa il 1923 il teatro drammatico fu industria o attività privata, e la scelta degli attori, del repertorio e dei teatri, la durata delle formazioni, il giro delle piazze, erano studiati nei modi propri di tutte le attività che non chiedono nulla allo Stato. Di quella consuetudine, oggi divenuta impossibile, esiste un esempio superstite. Eduardo De Filippo non usufruisce di nessuna sovvenzione. Fatta eccezione per casi rarissimi, da anni rappresenta un solo autore italiano, se stesso; da solo sceglie gli attori, stabilisce il repertorio, impegna i teatri} rispettati i contratti, comincia e finisce quando gli pare. E' un caso di attività legittima, indipendente e redditizia.

Eduardo è una eccezione. Ma il suo caso oltre tutto dimostra che il pubblico non diserta le platee di proposito. Questo lo sanno anche la Morelli e Stoppa, Cervi e la Pagnani, Ricci, Guido Salvini, il Piccolo Teatro di Milano. A nessuno t mancato il concorso degli spettatori.

Perché dunque tutte le iniziative hanno un respiro cosi corto? Lasciando da parte i pessimi e i mediocri, la ragione sta nel fatto che anche i buoni ogni volta devono ricominciare da capo. Qui si entra nel vivo del problema. Ammesso che ii teatro non basta a se stesso e che per vivere gli occorre il concorso dello Stato, si vorrebbe che lo Stato facesse una distinzione precisa tra buoni e cattivi. E’ possibile? La direzione del teatro a suo modo e in certi limiti qualche distinzione la fa. Ma non si può pretendere dallo Stato l’esercizio di una critica estetica, che tra l’altro equivarrebbe ad una imposizione. Trattandosi di erogazioni la direzione consulta i suoi organi e imbastisce un regolamento. Poi lo applica. E’ naturale che sia protezionista rispetto alla produzione, e assistenziale rispetto agli attori. Tuttavia un sistema simile giova davvero, o alla lunga i primi a risentirne non saranno i protetti e gli assistiti? Quando il dilagare delle formazioni senza senso e la rappresentazione di commedie insignificanti avranno ancor più disavviato il pubblico a cosa avrà servito l’erogazione di tanto danaro?

Nonostante la buona volontà dello Stato le sovvenzioni sono inefficienti per un vizio d’origine : venendo incontro alle necessità di un mercato povero, praticamente diventano uno sperpero. E' un aiuto a singhiozzo del quale non rimane assolutamente nulla e che non può tenere conto dei fenomeni esterni, primo fra tutti la crisi di produzione che affligge il teatro in ogni parte del mondo.

Esiste una soluzione? Esiste, e andrebbe affrontata con coraggio. I milioni che lo Stato spende annualmente oer il teatro non sono quanti si dice. Si tratta comunque di un ammontare ragguardevole, al quale potrebbero essere aggiunte le somme che gli enti turistici o comunali spendono nei mesi estivi per gli spettacoli all’aperto. Occorre evitare la dispersione di tali somme e incanalarle verso un fine unico. Ciò che viene speso ogni anno per lo spettacolo è sufficiente a dar vita a un teatro di Stato con una sua sede in almeno tre città. Vorrebbe dire disporre di tre compagnie numerose nelle quali potrebbero essere impiegati stabilmente o a turno la maggior parte degli attori, poter raccogliere nei magazzini del teatro il materiale che adesso scompare alla fine d’ogni stagione e che nel giro di pochi anni costituirebbe un patrimonio ingente, dare a quei nuclei fissi la possibilità di riprendere spettacoli spesso eccellenti che le condizioni attuali non consentono di riallestire, promuovere il loro affiatamento e favorire i loro scambi da città a città. Vorrebbe dire infine avere la possibilità di provvedere un repertorio scelto attingendo ai testi di ogni epoca e paese. Nei periodi in cui il teatro segna il passo nulla giova alla sua rinascita quanto i grandi esempi del teatro passato.

Raul Radice, «L'Europeo», anno VII, n.20, 8 luglio 1951


Nella poesia di un uomo di teatro si è tentati di cercare i «personaggi», perchè no?, come Filomena Marturano. Ma Eduardo poeta, i suoi personaggi li fa agire come le figure corali da quel grande palcoscenico che è la sua Napoli

1951 10 15 Il Dramma Eduardo De Filippo introLeggo i versi napoletani di Eduardo De Filippo pubblicati da Gaspare Casella, vado con Eduardo di pagina in pagina, infilo tra i fogli un pezzettino di carta per ritrovare poi, quando scriverò, il verso e la strofa che mi saranno sembrati più tipici: vado ogni tanto alle pagine di fondo, a cercare nel «glossario» curato da Giulio Caizzi, un significato che mi sfugge, e dentro me penso che Giulio Caizzi dev’essere molto ottimista in fatto di conoscenza del napoletano da parte di chi non lo è, perchè troppe volte la ricerca è vana, e resto impicciato sulle soglie di un verso, e inciampo in uno scalino o metto il piede in fallo... Non voglio lasciarmi prendere al laccio dalla «canorità» dialettale, che quasi quasi, in certi momenti, induce a leggere quasi canticchiando, vestendo le parole con le note di qualche canzone richiamata all’orecchio dall’analogia dei metri. Quanto più caro è l’incontro con un poeta nuovo, quanto più questo poeta ci è noto attraverso altri aspetti dell’arte sua, quanto più, come nel caso di Eduardo De Filippo, ci può sembrare addirittura di udire, sommessa, la sua voce aggiungere colore ai versi, tanto più mi sembra di dover andare cauto e diffidente, e di dover cercare di trasferirmi nell'animo di uno che questo libro debba leggerlo, che so, fra cento o duecento anni, dopo averne pescata una copia rara, che so, magari da uno dei vecchi librai del mezzo antiquariato di via Costantinopli. Attento — mi dico mentre sto con la matita e il tagliacarte in mano — alle simpatie; attento alla facile adesione; attento a non lasciarti prendere in un giro affettuoso.

In un foglietto ho segnato il numero di una pagina. Riapro il volume a pagina 104. La poesia si intitola: Jamme guaglione! Ecco due quartine:

E’ l’aria ca mantene stu paese - chell'aria ’e mare ca te dà sostanza - e nun te fa pensa c' 'a fin' 'o mese - vene chillo ca cerca, pecche avanza - Che vulimmo mangià? - Mo t’o dich’io, - Leval’ ’a miezo chistu: «che vulimmo». - «Voglio» sta for’ a porta. A nomm’ ’e Dio, - a Napule se dice: «Che putimmo».

Voler mangiare non vuol dire poter mangiare, e soprattutto mangiar quel che si vuole. Del resto, non è la Napoli affacciata a Santa Lucia con le finestre dei suoi grandi alberghi che ha fatto scrittore di teatro — e certamente il più vivo e più trepido di tutti — l' attore Eduardo De Filippo, così come non è lei che lo ha fatto attore e che lo fa oggi poeta: non è la Napoli dei viaggi di nozze e dei turisti. Mi pare di aver letto attentamente: Posillipo non è mai nominata in queste poesie e poemetti e canzoni, e nemmeno Santa Lucia e nemmeno una sola barca, e nemmeno la Luna e il Verniero. Una sola volta Eduardo dà un’occhiata in su, al castello di San Martino, ma nemmeno una volta si smemora nel panorama che, dalla trattoria dei «Promessi Sposi», piaceva tanto a Salvatore Di Giacomo. Conventi? Nessuno. Una sola volta, di scorcio, si vede un carcere, e si intravede il seggiolone di un giudice. Non si incontra nemmeno un guappo, di quegli cari alla bella drammatica musa di Ferdinando Russo.

La più sottile nota della sua poesia teatrale Eduardo l'ha toccata, in Questi fantasmi, nella scena del balcone, quando il povero diavolo che s’è adattato a vivere in una casa dove «si sente» se ne viene, squallido dopo le notti di paura, a farsi una tazza di caffè al balcone. Anche qui, nelle poesie, il tema del balcone è dominante. Il poeta parla (Stammatina) di un risveglio sereno dopo un impreciso corruccio notturno. E’ andato ad aprire il balcone con mia scarpa sola, infischiandosene della «dignità» ; e adesso è lì, seduto dietro alla ringhiera, e la sua donna gli porta il caffè, e tutti e due, lavati dall’aria fresca del mattino, non hanno nulla più da rimproverarsi, e guardan su, verso San Martino, dove il cielo è senza una nuvola. Sotto al piede nudo Eduardo sente il fresco-della pietra, ’o frisco d’’a pietra: un’impressione quasi pastorale di felicità che meglio e più semplicemente non potrebbe essere riferita.

Nella poesia di un autore di teatro si è tentati di cercare i «personaggi», perchè no?, come Filumena Marturano. Ma Eduardo poeta i suoi personaggi li fa agire come le figure corali di quel grande palcoscenico che son le strade, i vicoli, i balconi di Napoli: e quando parlano e dialogano è a mezze parole, a confessioni appena accennate, e quello che soprattutto parla, stando al centro di questo carosello più crepuscolare che festoso, più patetico che ilare, è lui, il personaggio che non ha nome e che si ferma a veder passare i tre bambini riparati sotto allo stesso ombrello (Tre ppiccerille — sott’ ’a nu mbrello: — due bruttulille — n’ato cchiù bello. — Quello cchiù bello — purtav' ’o mbriello — a rras’ ’e cappiello) o che racconta la storia dell’orologio d’oro del povero esattore o quella delle ccascie ’e muorte americane, o della gatta randagia, ma che soprattutto ascolta la voce lontana di se stesso fanciullo, al tempo in cui i bambini sono tutti eguali, e tutte eguali le loro calligrafie e le loro illusioni, e non si capisce perchè la vita debba poi tutto trascolorare deformare e appassire.

Di pagina in pagina, di questo Paese di Pulcinella le citazioni non finirebbero mai. Ma, a chi voglia conoscere la storia di Vincenzo De Pretore, mariolo napoletano, protetto da San Giuseppe, bisogna dire che le citazioni non basterebbero mai, perchè si tratta di un poemetto che va letto tutto e che onora non solo la poesia napoletana, ma l’intera poesia italiana, da esser collocato, mi sembra, nel piccolo gruppo delle piccole opere perfette che una generazione può dare a specchio della sua melanconia, dei suoi drammi e della sua fede anche attraverso l’allegoria e il sorriso della fiaba. Collochiamo Vincenzo De Pretore napoletano accanto al vagabondo ungherese Liliom. La grazia ha veramente toccato parimente in fronte il «mariolo» di Molnar e il «mariolo» di De Filippo.

Orio Vergani, «Il Dramma», 15 ottobre 1951


I due matrimoni di Titina

«Filumena Marturano» è una delle commedie più applaudite di Eduardo De Filippo. Come è noto in essa sono rappresentati i casi di una donna del popolo napoletano, ex-prostituta, vivente da trent’anni con uno dei suoi tanti amanti, l’industriale Domenico Soriano. Questo ultimo, egoista, fannullone e donnaiolo, vorrebbe disfarsi di Filumena ormai vecchia e sposare una bellissima e giovane straniera. Egli non esita a invitare la futura sposa nella casa dove convive con Filumena che in tali occasioni fa passare per sua governante. Ma Filumena para il colpo dandosi per moribonda: con macabra finzione si fa sposare in extremis dal commosso amante; quindi, una volta partito il prete salta più viva che mai dal letto di morte, decisa a sostenere d’ora in poi l’agognata parte di signora Soriano.

Ella spiega anche all’allibito industriale il perché della commedia: ha tre figli, nati, come si dice, dall’amore, e vuole che cessino di essere figli di nessuno e acquistino un nome, quello, appunto, di Soriano. Ira dello industriale, scenate, avvocati Filumena, forse per fierezza forse per calcolo, accetta alla fine l'annullamento del fraudolento legame matrimoniale e va a convivere con uno dei tre figli, un povero operaio. Ma con Filumena, dalla casa sontuosa di Domenico Soriano, esce anche la vita: vanno via le domestiche, solidali con la vecchia padrona, va via il fedele cameriere non senza impartire, prima di andarsene, una lezione di morale all’attonito padrone. Domenico Soriano comincia a sentire rimorso della propria durezza e del proprio egoismo, tanto più che i rapporti con la futura moglie non vanno bene, che gli mancano le vecchie cordiali abitudini di un tempo e che, infine, Filumena abilmente gli ha fatto credere che uno dei suoi tre ragazzi è figlio di lui. Pur di sentirsi chiamare «papà», Soriano risposa, questa volta sul serio, Filumena.

Nella commedia, come anche nel film che Eduardo De Filippo ne ha tratto, il carattere più complesso e più vitale è quello della protagonista insieme furba e generosa, calcolatrice e ingenua, ma. come appare, soprattutto ottima madre. E' un personaggio autentico, per nulla sentimentale, frugato con fermezza talvolta brutale, ravvivato da notazioni di un realismo originale (gli occhi asciutti di Filumena che piangono soltanto nell’ultima scena, quando essa è ormai sicura del fatto suo). Il personaggio dell’industriale non è meno vero: chiunque conosca Napoli e certi suoi ricchi oziosi, vi riconoscerà un tipo assai diffuso. Senonchè in questa figura il segno di De Filippo è meno fermo, più indulgente e più generico.

Eduardo De Filippo è regista come è commediografo: senza sussidi letterari o culturali, senza ricerche di stile, per originaria forza d'istinto. La sua regia, come già in Napoli milionaria, rivela una solidità artigiana, forse in qualche punto semplice fino alia rozzezza, ma efficace. La casa dell' industriale, per esempio, caratteristica casa di ricco napoletano, non è un fondale di teatro ma è sentita e descritta dalla macchina da presa con effetti talvolta sorprendenti. In scene o meglio scenate come quella che fa affacciare tutti gli inquilini del caseggiato, De Filippo oltrepassa di molto la pittura di genere. L’interpretazione di Titina De Filippo è da grande attrice. Ottima quella di Eduardo e di tutti gli altri.

Alberto Moravia, «L'Europeo», anno VII, n.49, 5 dicembre 1951


Matrimonio quasi segreto in Municipio

Nozze in punta di piedi del comico Eduardo De Filippo

La cerimonia nell'intervallo di mezzogiorno presenti soltanto i due testimoni - Le lenti scure della sposa e il sorriso dell'attore - Un'orchidea offerta in macchina

«Stampa Sera», 3 gennaio 1952


Cinema o teatro, questo è il problema

De Filippo, uno, due e tre

La pace è tornata nella famiglia De Filippo

Come i letterati del nostro Rinascimento, che avevano due anime, una per la cultura ufficiale, il latino, ed una per il volgare (intendiamoci: il «volgare illustre» di Dante), molli nostri attori moderni uniscono l'attività teatrale, più ristretta e più... aristocratica, a quella più... democratica del cinema. E generalmente sullo schermo un Attore di teatro ha una personalità diversa, direi quasi che è complementare a se stesso: ciò dipendo dalla differenza fondamentale delle due arti, dei due diversi sistemi di «lavorazione». 

Intervistare un attore del tipo di Peppino De Filippo è sempre una novità ricca di imprevisti. Ce lo figuravamo diverso da come è nella realtà. Il discorso cade naturalmente sul teatro e sul cinema. Anche lui fino od ora ha alternato la scena alla macchina da presa, riportando «grandi successi in ambedue i campi. Chiediamo al simpatico attore se gli è piaciuta In parte affidatagli in Ragazze da Marito a fianco dei due fratelli, con cui non lavorava più da molti anni. 

In questo, che non vuole essere un film comico, Peppino ha il ruolo di un invadente traffichino che convince il cavalier Oreste Manilio (Eduardo) a mettere da parte la sua intemerata onestà di funzionario dello Stato, per fare quattrini in poco tempo e accasare finalmente le tre figlie. Tltina (Agnese) è naturalmente la moglie di Eduardo e, restando nel personaggio che si è creato a teatro, tanto briga e tanto si dà da fare, che riesco nel suo intento di madre e, fingendo perfino di affogarsi, finisce col piazzare le graziose zitelle. 

I tre De Filippo stanno bene insieme. Anche se hanno un temperamento artistico diverso fra loro, Eduardo con quella sua maschera amara Petrolini napoletano, Peppino con quel suo petulante «savoire faire» partenopeo che non si perde mai di coraggio, Titina con quella sua patetica e vivace saggezza da popolana un po’ arrogante e attaccabrighe, i De Filippo sono una triade che non si dovrebbe più scindere. «Separare non bisogna». 

In questi giorni è stata data a Parigi Filumena Marturano: il dialetto ha superato i limiti regionali e nazionali ed è diventato mezzo di scambio culturale. Il dialetto napoletano è il caso-limite del vernacoli: con i De Filippo sta assurgendo al ruolo di vera e propria «lingua». E infatti anche in Ragazze da Marito Peppino resta l’eterno napoletano che si infila dappertutto; come in Signori in carrozza e in altri film. Eduardo invece è un sottile pessimista ammantato di antico umorismo partenopeo, è il povero Travet che, trascinato dalle circostanze e dalla legge inesorabile della vita, si ribella e compie una disonestà che gli tormenta la coscienza, fino a che non si acquieta nella riparazione. 

Eduardo ha voluto fare, con questo suo ultimo Ragazze da Marito, un film patetico, nonostante i molti spunti comici, un film da meditare e non da ridere soltanto. Questa, è la sega dei film drammatici e sentimentali. Dopo una valanga di film comici, forse per reazione, ci sono attualmente in cantiere ben 44 film drammatici. Quest'anno ci sarà poco da ridere! Per quanto riguarda il «genere» dialettale il pubblico ò abituato alla corposa e oraziana comicità di Fabrizi e alla saettante e fescennina ilarità di Totò: tutto ciò che è napoletano gli richiama alla mente i lazzi di Pulcinella e l'umorismo spregiudicato dei mimi di Mergellina. 

Invece Eduardo è un attore drammatico, nonostante la sua «verve» napoletana. Strano destino quello di certi attori, che nel momento in cui vi fanno sorridere vi fanno anche spremere qualche furtiva lacrima. Certo l’Eduardo di Questi Fantasmi e de La Paura Numero Uno è diverso dall'Eduardo di Marito e Moglie. Ma Napoli Milionaria è egualmente efficace a teatro e al cinema: lì il comico sfocia inevitabilmente nel drammatico. Il cinema ha attratto molti attori dì teatro: oggi numerosi nostri «divi» da Gino Cervi ad Aroldo Tieri, da Carlo Ninchi ai De Filippo, sono anche i più quotati attori del teatro italiano. 

E non si contentano di fare gli attori: vogliono essere anche i registi dei film che interpretano. Forse è una legge di compensazione: mentre a teatro chi conta è l’attore, oltre naturalmente al copione, e alla capacità singola di comunicare direttamente con la platea, al cinema chi «comanda» è il regista. Molti attori, da Charles Chaplin a Laurence Oliver hanno fatto ì registi di se stessi. In Italia abbiamo molti attori-registi, da Fabrizi a De Sica a Cortese. Ed Eduardo corona degnamente la lista. 

Bartolomeo Rossetti, «Film d'oggi», 19 novembre 1952


Perchè Eduardo non recita da un anno?

Ha la sensazione, egli dice, di essere al centro di un “successo inglorioso”

Roma, gennaio

Ho chiesto a Eduardo De Filippo la ragione della sua assenza dal palcoscenico, che dura da più di un anno. Ha risposto: «Faccio la prova generale della mia morte». Eravamo nel suo studio al settimo piano di una casa di via Flaminia; una stanza poco più grande della cabina di un transatlantico, con una finestra che inquadra i pini dei Parioli; uno scrittoio piccolissimo, e sullo scrittoio un lume ottocentesco dal quale pendono quattro rosari.

Eduardo aveva appena ricevuto da Parigi una lettera che lo invita ad assistere alla centesima rappresentazione di Filumena Marturano di cui è interprete Valentine Tessier. A Zagabria hanno tradotto Napoli milionaria, a Monaco di Baviera si sta per allestire La grande magia; Le voci di dentro e Questi fantasmi continuano ad essere rappresentate in alcuni paesi dell'America del Sud. (Una volta Ruggero Ruggeri gli disse : «Beato lei che le commedie le scrive da sé). Ma tutto questo non toglie a Eduardo la sensazione di essere al centro di un «successo inglorioso».

Tutte le volte che ha smesso di recitare, nessuno, fuor che i critici, gli ha domandato perché non rifacesse compagnia. Non ha mai avuto premi o sovvenzioni, né come attore, né come commediografo (in questi giorni, anzi, si è dimesso dal sindacato degli autori drammatici). E quando decise di ricostruire con i propri mezzi il teatro San Ferdinando di Napoli colpito dalle bombe, non potè usufruire della concessione dei mutui che un decreto del 1946 prevede per gli edifici distrutti dalla guerra. C’è di mezzo la clausola di pubblica utilità, dalla quale i teatri sono esclusi. «Se i teatri non sono di pubblica utilità», dice Eduardo, «che cosa ci stiamo a fare io e quanti in Italia, direttamente o no, si occupano dello spettacolo?».

Ma la domanda che più lo assilla è un’altra, e riguarda la sorte del dialetto: «Come finirà?». Quando arrivarono a Roma per la prima volta con la loro compagnia, nel 1930, Eduardo, Titina e Peppino furono accolti con diffidenza. Ottennero a fatica il Valle, gli impresari facevano ad essi credito per appena una settimana. Nuovi al pubblico romano, recitarono invece quarantacinque giorni consecutivi con una lunga serie di teatri esauriti.

Era cominciato il grande successo. Ma di lì a pochi anni si accese l'ostracismo ai dialetti e alle forme dialettali. Non si arrivò a impedire la rappresentazione di commedie siciliane, napoletane, genovesi e venete etra le ultime alcune erano di Carlo Goldoni), ma invalse l'abitudine di considerarle con sopportazione. Simile indirizzo doveva lasciare una traccia, un’ombra che nemmeno oggi si può dire interamente cancellata. Eduardo se la sente sulle spalle, vede gli attori dialettali disperdersi uno alla volta, finire nelle compagnie di rivista o in compagnie normali nelle quali si sentono spaesati: «Se nel 1930 non mi avesse arriso il successo del Valle, anch'io probabilmente avrei rinunziato al dialetto. Sarei diventato un mediocre attore italiano».

La «prova generale», di cui Eduardo parla, non lo ha però costretto all'ozio. Ha fatto del cinema (lo fa tuttora), ha messo insieme un secondo volume di versi, ha portato avanti. Impegnando tutti i suoi guadagni (un numero imprecisato di milioni), il teatro San Ferdinando che sta per essere finito, e del quale sarà il solo proprietario. Ma, volendo inaugurarlo con Titina nell’autunno di quest’anno (è un teatro di milletrecento posti), si è dato soprattutto pensiero di rinnovare il repertorio ed ha scritto tre commedie nuove.

Della prima, che si intitola Mia famiglia, L’Europeo ha già informato i lettori. Il tema generale si è tuttavia arricchito. Nel quadro che essa prospetta (da una parte le troppe responsabilità che gravano sul padre, dall’altra la crescente distrazione della madre e la maggiore indipendenza del figli) si è inserito il tema scottante della inversione sessuale. Eduardo, arrivando a conseguenze estreme, nel fenomeno dell'omosessualità vede addirittura il pericolo di una nuova guerra.

La seconda, intitolata L’arte della commedia, è divisa in due parti e si svolge nella prefettura di una provincia secondaria, dove un attore dialettale viene a diverbio col prefetto al quale aveva chiesto invano di avallare la propria fatica onorando della sua presenza la recita serale. L’attore si allontana minacciando di mandare in prefettura tutti gli attori della compagnia, ognuno dei quali protesterà per proprio conto. Da quel momento il prefetto è tormentato dal dubbio. Ad ogni persona che gli si presenta durante la giornata egli si domanda se i casi che gii sono prospettati siano veri, o non piuttosto inventati da un possibile attore. Perfino davanti a un suicida il rappresentante del governo dubita che si tratti di finzione. L’attore è richiamato per dire se in quel tizio riconosce un collega, ma la sua risposta è ambigua: «Se lei non sa distinguere chi di noi è attore e chi non lo è». dice al prefetto, «significa che siamo grandi artisti. Venga alla rappresentazione >.

L'ultima commedia. Oli esami non finiscono mai, è in diciotto quadri. Narra la vita di un ragazzo dal momento in cui egli festeggia il conseguimento della propria laurea, fino alla morte che lo coglierà molti anni dopo. Tutto nella sua vicenda è esame: prima da parte del futuri suoceri, poi della moglie, degli amici di casa, dei figli, dei conoscenti (c'è anche un «esame del cornuto»), infine del medico e del prete. E’ un esame finale? No, poiché il sacerdote rammenta al morituro quale altro rendiconto lo aspetta nell’aldllà.

Delle tre commedie, Eduardo racconta anche i particolari minimi; soltanto, ogni poco si interrompe per contrarre le mascelle e chiedere a se stesso: «Come finisce questo dialetto?».

Raul Radice, «L'Europeo», anno IX, n.4, 22 gennaio 1953


Questi fantasmi di De Filippo dal Teatro al Cinema

G. D'Eramo, «Epoca», 1954


Esistono i fantasmi?

La nota commedia di Eduardo De Filippo «Questi fantasmi» appare in questi giorni sugli schermi cinematografici

Giovanni D'Eramo, «L'Europeo», 1954


Inaugurato a Napoli il nuovo «San Ferdinando» - Una «antologia mimica» di Eduardo

«Corriere della Sera», 22 gennaio 1954


«Palummella» di Antonio Petito al nuovo teatro San Ferdinando

«Corriere della Sera», 23 gennaio 1954


Tutti i personaggi di Eduardo sulle scene del San Ferdinando

Il Teatro San Ferdinando ricostruito a Napoli da Eduardo De Filippo, il quale ha impedito che sull’area dell'edifìcio distrutto sorgesse una sala cinematografica, sorge nel mezzo della Sezione Vicaria, un quartiere popolare assai povero. La sera della inaugurazione tutti gli abitanti del quartiere si erano radunati sulla piazza e sulle strade che circondano il teatro. E sì comportavano come non si comportano i poveri di nessun'altra città. Perché gli invitati erano tutti in abito da sera, quanto più le vesti e le pellicce delle signore apparivano sfarzose, tanto più la folla applaudiva. Era un modo di partecipare alla festa e forse di mostrarsi solidali con Eduardo che dei suoi nuovi vicini si era guadagnato l'animo mediante un cartello appiccicato ai muri.

Occorre tener presente che il vecchio «San Ferdinando», pure avendo avuto origini illustri ed essersi disputato col «San Carlo» la presenza della Corte borbonica, prima di crollare sotto i bombardamenti dell'ultima guerra era stato per quarantanni il feudo di Federico Stella che aveva conquistato il pubblico plebeo rappresentando i drammi più vistosi del «basso romanticismo». Opere come Tenebre d'amore, Il pizzaiolo del Carmine e Ciro il gobbo accendevano la fantasia popolare. E non era raro il caso di spettatori la cui partecipazione arrivava al punto di prendere le parti del personaggio innocente avvisandolo del luogo in cui si trovava il tiranno o l’assassino.

A un pubblico di quel genere non occorreva un locale elegante. Ed era naturale che il nuovo «San Ferdinando», edificato senza economie, lo intimorisse. Soprattutto intimoriva le persone che, ferme davanti all’ingresso, leggevano sul manifesti i prezzi stabiliti per la serata inaugurale. La loro borsa non poteva arrivare a tanto. Eduardo lo seppe, e il giorno dopo fece affiggere un cartello nel quale si esprimeva in dialetto. Rivolgendosi ai «napulitane belle» li assicurava che il teatro era a disposizione di tutti, e che tre volte alla settimana avrebbe venduto i biglietti a seicento, quattrocento e duecento lire. In cambio chiedeva ai genitori che ammonissero i ragazzi di fare attenzione, quando tirano l sassi, alle lampade dell’entrata; e di non sporcare con il carbone i muri rifatti a nuovo.

Lo ascolteranno. Il teatro, la cui inaugurazione è avvenuta in due serate consecutive, è bello e capace: dispone di un magnifico ridotto a due piani, di un palcoscenico perfettamente attrezzato, di una platea a scalinate, di una fila di palchi e di una grande galleria, È moderno, ma le sue linee architettoniche rispettano la struttura ottocentesca. Si capisce che nella serata del 21, dopo un discorso di Sinibaldo Tino, Eduardo abbia voluto narrare in quali condizioni di spirito si decise a ricostruirlo impegnandovi i guadagni di molti anni, quanti ostacoli dovette superare e quali affanni vincere prima di arrivare alla fine.

Ed ecco l'attore, dalle vicende recenti, risalire alle proprie origini e rinarrarle in un «recital» che gli ha consentito di risuscitare rapidamente i tipi più noti da lui creati. Sullo sfondo di un camerino «risica tei lo», Eduardo è stato di volta in volta il cantante di caffè-concerto, Sik-Sik, lo spazzino Vincenzo Esposito, il venditore di cravatte, il tranviere di Napoli milionaria. A un certo punto Eduardo parve non reggere agli applausi. Si sedette sul cupolino del suggeritore e disse: «Eppure non sono ancora vecchio». Indicò Titina, che sedeva in un palco e alla quale il pubblico ri volse un’altra ovazione. Indicò suo figlio Luca, che a cinque anni già si rivela un mimo sorprendente. «Di solito gli attori», concluse Eduardo, «desiderano che i loro figli diventino ingegneri o avvocati. Io spero che Luca diventi attore».

La sera dopo è stata rappresentata La Palummella di Antonio Petito, commedia che ha ottant’anni, con la quale Eduardo inizia il riassunto storico del teatro napoletano di cui il nostro giornale già diede conto. Palummella è una commedia assurda e movimentata, nella quale i principi si fingono camerieri ed i plebei pretendono di passar per nobili, dove a un certo momento uno straccione recita la parte del grande ammiraglio e un paio di baroni si rivelano per quel che sono: cucinieri che hanno rubato un servizio di argenteria.

Questa buffoneria gira attorno ad un paio di matrimoni, condita dai lazzi di Pulcinella e dalle lepidezze di Felice Sciosciammocca. Ma dai saloni fastosi, che Eduardo ed il regista Antonio Viviani hanno immaginato con gran gusto, la commedia ha il merito di scendere in piazza. Il secondo atto attinge vita dalla freschezza popolana e ha movimenti di opera buffa che culminano in una deliziosa gara canora durante la quale una trentina di personaggi si impegnano a sopraffarsi.

Palummella è recitata con intelligenza, bravura e schiettezza da Eduardo, Tecla Scarano, Tina Pica, Rosetta Dei, Thea Prandi e Jole Fierro, Ugo D'Alessio e Amedeo Girard. Con essi collaborano un'altra dozzina di attori.

Alla fine dello spettacolo l’ultimo Pulcinella superstite, il settantottenne Salvatore de Muto, ha simbolicamente consegnato a Eduardo la maschera di cuoio nero, secondo la tradizione del «San Carlino». «Per cient'anne» erano le parole che una volta accompagnavano il rito.

Raul Radice, «L'Europeo», anno X, n.5, 31 gennaio 1954


Non abbiamo capito la commedia di Eduardo

Una delle rubriche che la Televisione rifila all'innocente clientela si intitola Entra dalla comune. Per coloro che non conoscono certi segreti diremo che si tratta d'una rassegna teatrale: tutti i martedì, alle diciotto, si informa sull'operosità della Scena nostrana, sugli spettacoli che stanno per essere lanciati, sulle «prime» appena sfornate, sui propositi che bollono in pentola. Naturalmente, le ribalte delle quali ci si occupa sono quelle milanesi e romane; dei fiaschi, valgano o non valgano ima postilla, non si discorre mai, forse si pensa che le serate burrascose le organizzi Pajetta.

Le rappresentazioni che vengono illustrate hanno, si intende, la morale a posto; ^ramoso come è d'invigorire la salute delle nostre anime, il comando supremo dell'organizzazione obbliga la rubrica a scegliere col massimo rigore, per carità, che il focolare domestico non si turbi, il riassunto di certe commedie potrebbe mettere in ten-t azione, potrebbe provoca re il desiderio d’assistere alla recita. Bisogna sapere, per farsi un’idea esatta di certe cose, di certi zeli, che tutto, per i pii gerarchi, è infernale : finchè la Traviata di Verdi (no, non vi raccontiamo favole), anche quella Traviata che lo scorso dicembre dovettero lasciar trasmettere per evitare una bufera di sarcasmi.

Inutile dirvi che in Entra dalla comune si interrogano autori, attori, cantanti, direttori d’orchestra, registi, impresari; inutile aggiungere che si offrono al pubblico nobili confessioni, chiacchiere delicatamente spiritose, progetti che mirano severamente all'arte e ai sussidi minstertali, romanze pudiche, sonate al pianoforte, dialoghi tratti dai nuovi, e non allarmanti, copioni. Inutile poi precisare che la critica è affidata a uomini sicuri; qui a Milano, per esempio, chi ha il compito di commentare la Prosa è un dotto dell'Università Cattolica, un poligrafo austero, uno storico del teatro al quale dobbiamo una dozzina di volumi che hanno il lieve torto d'essere pesantemente ermetici, un drammaturgo che va ora stampando i suoi testi mai accolti dal palcoscenico, sono una trentina. Badiamo: un erudito autentico, non una specie quell’enciclopedico che deizia i telespettatori con una rubrica di genere vario (enciclopedico gaiamente famoso per avere scritto in un saggio su Ladislao re di Napoli questa frase, «lo stato della situazione era gravissimo» e per avere parlato, in un altro libro, di Goetz von Beriichingen, protagonista di un dramma di Goethe, e di Wallenatein, protagonista di una tragedia di Schiller, come di due letterati che Mazzini voleva tradurre).

E' stato appunto il recensore ambrosiano di Entra dalla comune a definire grandissima, enorme, la nuova commedia di Eduardo de Filippo. Mia famiglia. Grandissima, enorme? Ed Eduardo, intervistato subito dopo : «Non posso che approvare. il professore ha capito. Lui, si».

Eduardo non manca di modestia, ma il nostro cervello manca, evidentemente, di qualche rotella: per noi infatti il nuovo prodotto è retorico assai, assai scombinato. Pronti a riconoscere che i tre atti grondano moralismo; pronti ad affermare che il capofamiglia Alberto Stigliano è un predicatore spesso divertente; pronti ad ammettere che certe figure secondarie son disegnate con vena estrosamente umoresca, non possiamo non notare la gracilità e il convenzionalismo dei personaggi che l'autore avrebbe dovuto chiarire, sviluppare, col maggior impegno: quella Rosaria, quel Beppe, quel Corrado, giovani del nostro tempo.

L'opera, che mette in mostra un genitore alle prese con lo stordito novecentismo della consorte, dei figli, del prossimo genero, non tien conto d una particolarità : nei copioni dedicati ai padri che non riescono a farsi comprendere, alle madri improvvide, ai rampolli che vogliono vivere a modo loro perché sono un'altra epoca, dovrebbero contare soltanto i rampolli. La polemica dei padri non ci preme, la sappiamo a memoria; è l'indole dei ragazzi che ci interessa, è il mistero di quella sensibilità che ci attrae. Inquietudini, bizzarrie, cinismi, spudoratezza...; ma Eduardo ha tirato via. non d ha lavorato su. Perché? Per ottimismo, non per nulla la chiusa accomoda tutto. E' il senso della vicenda: come sempre, la saggezza dei padri resta e la follia dei ventenni passa. Umano, veramente umano, é chi ha i capelli grigi.

Mia famiglia tiene il cartellone da tre settimane. So non sbagliamo, se abbiamo capito bene - almeno questo, no? -, Eduardo recita da quel prodigioso attore che é.

E. Ferdinando Palmieri, «Epoca», 1955


Ritorno di Scarpetta

Eduardo ha riportato sulla scena a Milano la chiassosa malinconia di “Miseria e nobiltà”

Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta, che riappare all'"Odeon" con un altro illustre Eduardo, è una farsa del minore teatro napoletano, scritta e rappresentata nel 1888. Di un teatro "contaminato" che si sovrappose a quello glorioso delle maschere e di Pulcinella. Eduardo De Filippo ha voluto, nel suo nuovo San Carlino, ritorcere i fantasmi della grande maschera e quelli di piacevole gusto popolare, popolare cioè a dire nei tipi rappresentati, non nelle vicende pastose e intricate, di evidente derivazione dalla "pochade", e, se vogliamo, anche da un superficiale goldonismo. Dagli umori della Commedia dell'Arte al "postiche" orecchiato dalle operette. Questo minore teatro dialettale cresce, nella storia delle scene, in virtù di grandi attori popolari, più che per la validità dei testi, per affondare alla scomparsa di quegli dèi paesani e mattatori. Tale la sorte di certo teatro veneto, milanese, genovese, siciliano. Con Angelo Musco, per esempio, è svanito un teatro siciliano (quello di Martiglio e di altri minori) che sembrava potersi tramandare e durare. Miseria e nobiltà appartiene, purtroppo, a questa zona dell’immaginazione teatrale, affidata per la concretezza figurativa alla forza creatrice delle parole del dialetto.

Eduardo, il De Filippo, un maggiore, che viene da altri rami tradizionali, ha voluto scendere da Le voci di dentro o da Filumena Marturano per infilare l’abituccio magro e nodoso di Felice Sciosciammocca, il "tipo", che fa centro in quasi tutte le commedie di Scarpetta. Don Felice, balordo e furbo, disonesto e senza peccati, era pur sempre, se possiamo dirlo, una maschera camuffata; un uomo dai grovigli comicamente meccanici, la tristezza, la paura, l’orgoglio, la tragedia, che fa ridere. In Miseria e nobiltà chi muove gli scenari d’un inferno casalingo è la fame, fame detta, coniugata in tutte le forme verbali, colorita attraverso organi intatti di masticazione e digestione immaginaria, la secolare fame del popolo, divenuta letteraria e ridevole attraverso la Commedia antica e dell’Arte. Fame napoletana, anche; giocata con l’imbroglio e la vernice del "vaudeville". Poveri che si travestono da aristocratici per aiutare un matrimonio lottato, e che avranno quale ricompensa qualche grasso pranzo. Le variazioni comiche sono affidate alla flessibile mimica degli attori. Il primo atto (il migliore, secondo la critica del tempo), è senza dubbio, quello che bene ripropone la testimonianza della genialità scarpettiana, e la sua carica comica. Ed Eduardo De Filippo con la sua arte — e la sua regia — e i suoi attori, ha in questo primo tempo, dato un’immagine sensibile e crudele della "fame" che, come in un miraggio, sta per essere calmata da un pranzo autentico, preparato improvvisamente da cuochi enormi e silenziosi. Davvero degna di Charlot la marcia di avvicinamento fatta da quella schiera di "patiti” increduli* spostandosi, sulle sedie, a poco a poco, verso la tavola fumante. Il resto si muove a sbalzi, con ruote arrugginite negli ingranaggi comici intemazionali; e solo gli attori lo completano con la loro fantasia e personalità. Sciosciammocca ha fatto ancora ridere le platee italiane per grazia di Eduardo e della sua Compagnia, che ha nomi come Ugo D’Alessio, la Palumbo, la Crispo, l'Ascoli, la Danieli, la Gherarducci, la Conte, il De Martino; e non dimenticheremo il ragazzo Nino Veglia, applaudito a scena aperta.

Salvatore Quasimodo, «Tempo», 1955


1955 02 06 Vie Nuove aX n6 Eduardo De FilippoLa «novità» che Eduardo ha presentato in questi giorni a Roma, all’Eliseo, era, se non ci sbagliamo, un progetto di qualche anno fa, dei tempi ancora de La paura numero uno, la bella commedia sulla psicosi bellica. Ma il tempo non è passato inutilmente; nel senso, vogliamo dire, che l'spirazione di Eduardo da quel momento ad oggi è notevolmente cambiata, diremmo quasi sostanzialmente-modificata. Mia famiglia è sempre uno dei pezzi migliori del nostro teatro, in questa stagione poi, senz’altro il migliore, ma non c’è più il bel clima «critico» sotto vesti patetiche, che c’era in Filumena Marturano, in Questi fantasmi, e nelle altre straordinarie commedie del tempo. La famiglia che lui qui ci presenta è ciò che tradizionalmente, meglio ciò che convenzionalmente siamo abituati a considerare la «famiglia del dopoguerra»; ragazze dedite allo esistenzialismo e ai loro rappresentanti, giovanotti che s’avviano alla carriera cinematografica attraverso moderni sistemi di «collocamento», mogli giocatrici e, per finire, stavolta un padre speaker della radio, che è una professione non proprio standard, ma che qui assùme invece il valore d’una stranezza convenzionale, appunto. In questa famiglia ne succedono di tutte, e di gravissime per la buona condotta d’una famiglia, finché tutto se non s’accomoda, s’avvia felicemente ad accomodamento.

Si disilludano coloro che ci hanno seguito fin qui; non è proprio il lieto fine a darci noia ; non vorremmo vedere questa famiglia «borghese» finire ai margini della società, travolta dalla sua stessa corruzione, anzi. Un lieto fine può in qualche caso essere un buon contributo al «realismo», vuol dire che lo autore ha fiducia in un risultato positivo della crisi che l’ha impressionato ; e implicitamente dando questo risultato cerca le vie attraverso le quali esso potrà, nella realtà, realizzarsi. L'autore porta in tal modo il suo grande contributo non soltanto all’indagine dei problemi della sua società, ma ne anticipa le soluzioni, ne vede le conclusioni. Per tutto ciò è necessario, allo scrittore realista, che i suoi personaggi siano tipici, cioè che essi si comportino, nelle circostanze da lui addotte, in maniera cosi caratteristica da illuminare, col loro comportamento, tutta quella zona che altrimenti resterebbe indistinta, dei loro rapporti, della loro condizione, delle loro abitudini, dei loro vizi e delle loro virtù. Questo è ciò che non ha fatto Eduardo in quest’ultima commedia: i suoi sono dei personaggi «eccezionali» in una situazione «eccezionale».

La critica è stata divisa su quest’ultima fatica del maggiore scrittore teatrale che oggi noi possediamo; ma faccia attenzione il nostro caro amico, e badi a capire se coloro che una volta si preoccupavano del suo «pessimismo» non siano per caso gli stessi che oggi gioiscono del suo «ottimismo» e viceversa. Naturalmente, esecuzione di gran classe.

Luciano Lucignani «Vie Nuove», anno X, n.6, 6 febbraio 1955


Da Eduardo a Kafka al nuovo Gerolamo

Vice, «Epoca», 1958 - Eduardo De Filippo


Bravo Eduardo ma per due atti

E. Ferdinando Palmieri, «Epoca», 1956 - Recensione della commedia Bene mio e core mio


Galleria del teatro - Eduardo

«Momento Sera», 21 novembre 1958


Le strade dei De Filippo conducono a Scarpetta

Peppino De Filippo ha festeggiato a Roma, convitando un gruppo di amici, le sue nozze d’oro con il teatro. La notizia, a prima vista, potrà sembrare sorprendente: cinquantanni di palcoscenico per un attore il cui atto di nascita ne denunzia pochi di più. Ma una volta, quando la famiglia dei figli d’arte era ancora prosperosa, essere portato sulla scena in fasce era cosa normale. E magari ci avranno portato anche Peppino, ma a lui interessa non già la sua prima apparizione in pubblico, quanto il ricordo della prima parte attribuitagli di proposito.

Nella ricorrenza del centenario della nascita della Duse si è insistentemente ricordato che Eleonora fu mandata alla ribalta per la prima volta all’età di cinque anni: le era stato assegnato, in una riduzione dei Miserabili, il personaggio di Cosetta. Anche Peppino doveva avere a un dipresso quell’età allorché assunse, se non andiamo errati, la parte del ragazzino Peppeniello in Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta. Quanti lo avevano preceduto in quella parte che Scarpetta aveva concepito per suo figlio Vincenzino? In cinquant'anni di palcoscenico, la cui prefazione fu dettata da Benedetto Croce, Scarpetta scriveva: «E chiudo questa rapida rassegna con Miseria e nobiltà, la quale se mi costò molta fatica, mi ricompensò anche largamente in applausi, lodi e quattrini. Per questa commedia ho avuto e avrò sempre una speciale predilezione, non solo perché credo che sia la migliore delle mie produzioni originali, ma ancora perché mi ricorda una data assai cara e dolce al mio cuore: il debutto di mio figlio Vincenzino. In quel bambino io mi rivedevo e mi ritrovavo perfettamente. Oltre alla somiglianza del volto, io sentivo in lui il suono della mia voce, e spesso mi riconoscevo nei suoi gesti». Poi: Invano cercai una particina per lui nelle mie vecchie commedie e riduzioni. Il mio amor proprio e la mia vanità di padre mi consigliarono infine di scrivere una commedia apposta per lui: una commedia dove egli avrebbe potuto emergere anche in una particina».

Questa fu la genesi di Peppeniello, del quale divenne subito popolare la frase: «Vicienzo m’è pate a mme!». Scarpetta, a tal proposito, così conclude: «Molti ricorderanno ancora il garbo, la verità e lo spirito coi quali il piccolo attore la profferì, attirando, tutt’a un tratto, sopra di sé l’attenzione del pubblico. Un lungo e sonoro scroscio di applauso l’accolse e mentre il povero piccino, mezzo smarrito e tremante, rientrava di corsa fra le quinte, cadde fra 'due braccia che lo stringevano forte forte sul cuore coprendogli il volto di lacrime e dì baci. Chi potrebbe ridirvi la emozione profonda provata da me quella sera? Vi confesso francamente che non mi aspettavo quel successo; e che quando fui obbligato ad accompagnare mio figlio alla ribalta, tremavo più di lui, di tenerezza e di gioia. La sera del 7 gennaio 1888 resterà eternamente scolpita in fondo al mio cuore».

Quanti piccoli attori, dicevamo, assunsero quella parte prima di Peppino? E quanti vi si cimentarono dopo di lui? Ricordiamo il nome di Stefano Brandi, che tra un po’ d’anni vorremmo veder celebrato, ed è forse il Peppeniello più recente (1953). Peppino De Filippo comunque, abbia o non abbia ricalcato le orme di Vincenzo Scarpetta, è partito di là: né mai sapremmo dimenticarlo. La sua evoluzione, la corposità, la violenza espressiva ch’egli ha via via acquistate, si innestano su una tradizione fulgida e inconfondibile alla quale egli è rimasto spiritualmente e fisicamente fedele.

E tuttavia non è detto che dallo stesso tronco, sempre, si diramino strade identiche. Se, dopo aver ricordato il cinquantennio di Peppino, sentiamo di dover trasferire il discorso non tanto su Eduardo De Filippo attore quanto su Eduardo commediografo, ciò non dipende dal rimpianto (a nostro parere «antistorico», e ne abbiamo più volte esaminate le ragioni) che taluni tuttora alimentano nei confronti del primo Teatro umoristico «I De Filippo», e nemmeno da un accostamento d'occasione ma da una realtà cronachistica di fatto, in questi giorni essendo riapparse nei teatri romani, a cura dello stesso Eduardo, due sue commedie che da tempo egli non rappresentava: La fortuna con la effe maiuscola, scritta in collaborazione con Armando Curcio nel 1942, e Le bugie non le gambe lunghe che sono del 1947 e cronologicamente si inseriscono tra Filumena Marturano e La grande magia.

L’avvicinamento delle due commedie, sia o non sia volontario (e probabilmente non lo è), è a parer nostro chiarificatore. Delia Fortuna con la effe maiuscola. che si rivela ancor oggi viva e vitale nonostante il gusto un po’ troppo geometrico della composizione, e alla quale Eduardo ha conferito un finale di qualità quasi cinematografica ma non per questo gratuito, scrivevamo altrove: «La commedia sta al confine tra quelle che furono le farse dei De Filippo (nelle quali alcuni vedono tuttora una stagione genialmente felice del teatro partenopeo: felice ed armoniosa) e il teatro di Eduardo iniziatosi tre anni dopo con Napoli milionaria! Teatro, quest’ultimo, altrimenti consapevole, cioè concepito e portato avanti con una asciuttezza e un vigore grazie ai quali anche i movimenti farseschi assolvono funzioni precise, laddove un tempo parevano esaurirsi in se stessi».

Con altre parole, nella Fortuna con la effe maiuscola, che già ha pretese non ingiustificate di commedia vera e propria, insieme a una fondamentale malinconia, tanto più desolata quanto più si riveste di dolcezze irridenti, avvertiamo non si dice una ricerca di effetti (del resto legittima) ma un calcolo di natura artigianesca che rimane tale anche se a non pochi parrà invidiabile. Ascoltandola, via via scopriamo una preventiva destinazione del meglio che la commedia comporta: un meglio equamente distribuito tra i personaggi principali, quando non si voglia dire tra attori perfettamente individuati. Scene godibili, che tuttavia nqn riescono a fare dimenticare entro quali strettoie la vocazione espressiva di Eduardo si dibatte per molti anni.

Con ciò non si dice che quei vincoli, almeno per un ceno tempo, egli non li abbia voluti e magari amati. Si intende tuttavia ribadire che la maggiore ampiezza del teatro di Eduardo comincia dal momento in cui da quei vincoli il commediografo si sentì liberato. È un trapasso del quale, se ancora ne avessimo avuto bisogno, Le bugie con le gambe lunghe ci danno la esatta misura. Quell’ingenuo Incoronato così sperduto nel mare delle menzogne convenzionali che i suoi simili hanno tutto l’interesse a portare avanti come altrettante verità, è sì un ritratto di Eduardo, lui pure partito dal Peppeniello di Miseria e nobiltà, ma è insieme una struggente immagine della solitudine contemporanea.

Raul Radice, «L'Europeo», anno XIV, n.52, 28 dicembre 1958


Eduardo De Filippo ultimo Pulcinella

Interpretando ancora una volta la famosa maschera popolare in un film su Ferdinando re di Napoli, Eduardo si mantiene fedele alla sua parte di paladino dell'uomo della strada, vessato dai soprusi dei potenti.

Napoli, ottobre

Eduardo De Filippo è stupìto che la sua lettera aperta al Ministro Tupini sulle pessime condizioni del teatro italiano abbia suscitato tanto scalpore. In sostanza, non ha fatto che ripetere in forma più estesa ciò che va dicendo ormai da anni, con identica amarezza. Ma, comunque vadano le cose, ed è piuttosto pessimista, Eduardo è deciso a tener duro. Altri ogni tanto minacciano, di andare a lavorare all’estero; lui minaccia. al contrario, di continuare a borbottare in Italia Nella sua roccaforte del teatro S. Ferdinando, dove è ora tornato con la sua Compagnia, Eduardo si sente signore e padrone, sia pure con qualche milioncino ancora da pagare coi personali proventi attuali e futuri. Qui, nel cuore di Vicaria, egli è tra la sua gente, gente che gli vuol bene e che lo capisce veramente, come lui la capisce. Non a caso, ricostruito il teatro col suo denaro, lo inaugurò la sera del 22 gennaio 1954 con la vecchia commedia di Antonio Petito La Palummella zompa e vola. «Eduardo fa rivivere Pulcinella», si scrisse.

Eduardo De Filippo CC Pulcinella

E il quasi ottantenne Salvatore De Muto, considerato l'ultimo Pulcinella del teatro napoletano, gli consegnò la «maschera» di cuoio del personaggio rinnovando il rito dell’investitura come anticamente avveniva al Teatro San Carlino. «Pe’ cient'anne», per cento anni, gli disse. Era la formula dell'investitura. Da allora Eduardo ha fatto più volte rivivere questo personaggio all'apparenza bufTo, nella sostanza simbolo ed espressione dell'animo popolare. In una sua nuova commedia (ma sono cinque anni che la scrive e la riscrive, la cambia e la lima) gli ha dato un figlio il quale, vergognandosi d'essere un Pulcinella, cerca invano di disfarsi ai tale sua personalità e, quando alla fine ci riesce, non è più nulla. Una commedia che si potrebbe dire una parabola del tradimento che il popolo fa a volte della propria anima. Forse, tanto spesso annunciata, quest’anno si deciderà a rappresentarla.

Intanto, fra una recita e l’altra. Eduardo sta interpretando Pulcinella in un film, Ferdinando, re di Napoli, diretto da Gianni Franciolini. Questo Pulcinella è la voce del popolo che critica il re Borbone alla vigilia aella «liberazione» da parte delle truppe napoleoniche del Generale Championnet. Le sue «pulcinellate» al teatro San Carlino sono commenti satirici ai fatti del giorno, gli sfoghi coloriti della gente comune, ansiosa di giustizia contro un potére autoritario e vessatorio, contro le tasse, contro i soprusi della corte...

Roba d'altri tempi? Eduardo sorride, al solito amaro e allusivo. Forse rivede con la mente Salvatore De Muto che gli consegna la maschera di Pulcinella e gli dice: «Pe' cient’anne». Quasi a rafforzare il suo legame con la tradizione del personaggio porta, sotto la bianca casacca, una maglia, rossa come quella che portava Petito per ordine del medico.

D.M., «Epoca», anno X, 18 ottobre 1959


Eduardo De Filippo vi presenta Rosa Priore

«Noi donne», 1960 - Eduardo De Filippo in "Sabato, domenica e lunedi"
Parte 1 - Parte 2 - Parte 3 - Parte 4 - Parte 5 - Parte 6 - Parte 7


E' morta pensando al suo papà

Luisella De Filippo, la figlia decenne di Eduardo, è morta come si moriva una volta, quando la scienza non aveva fatto i progressi odierni e quando molte malattie conservavano ancora un che di misterioso e inspiegabile che terrorizzava. Fino ad un'ora prima di morire Luisella De Filippo era vispa, sorridente, allegra come tutti i bambini che sono in vacanza tra le nevi del Terminillo. Era un po’ dispiaciuta che la mamma fosse dovuta andare a Roma per un giorno, era un po' contrariata perché il fratellino Luca, di un anno più grande di lei, le aveva vinto quel pomeriggio tutte le partite a calcetto, ma a parte questo non avvertiva alcun malessere o dolore. Chiacchierò un po' con la proprietaria dell'albergo che ormai la conosce da anni, rimase seduta accanto alla stufa completando qualche schema di parole crociate e scrisse una letterina a papà. Poi si alzò improvvisamente come irrequieta, si allontanò dalla stufa perché sentiva un gran caldo e si avvicinò ad una finestra del salone: per qualche secondo rimase a guardare la notte che scendeva sulla montagna bianca.

«Ho paura di sentirmi male» confidò ad uno dei proprietari dell’albergo, «vorrei che la mamma fosse qui.» Sedette silenziosa, composta, come una persona grande che non voglia dare troppo disturbo, e la cosa insospettì qualcuno. «Ho un gran caldo alla testa» disse ancora. In casi del genere si pensa ad una indigestione, ad una febbre improvvisa, ad una infreddatura. «Ora chiamiamo il dottore», le dissero. Luisella De Filippo ebbe un mezzo sorriso e si sdraiò cercando in questa posizione un po’ di conforto. Poco dopo fece sentire ancora la sua voce, già stanca e spaventata : non ci vedeva più. Socchiuse gli occhi e rimase cosi in silenzio per qualche minuto: credettero che si fosse addormentata ed era invece morta. Per questo, anche se la medicina parla oggi di embolia cerebrale. La piccola De Filippo è morta come si moriva una volta, senza una ragione plausibile (ammesso che per ogni morte si possa avere una ragione plausibile) e senza dare a chiunque il tempo di realizzare la gravità del suo male.

Ed è morta nel modo, in fondo, più penoso per un bambino, cioè da sola, lontana dalla madre che era scesa in città per un banalissimo motivo e dal padre che stava preparandosi al suo spettacolo serale del teatro Quirino. È morta senza poter trovare in un bacio un attimo di sicurezza e di conforto, senza poter stringere una mano protettrice e calda di affetto. Questo pensiero ossessiona ora i suoi genitori che appena due mesi fa avevano deciso di separarsi dopo dodici anni di serena convivenza. Si sono ritrovati muti e affranti davanti al corpo esanime della loro bambina ed hanno avuto soltanto la forza di piangere, il viso scavato dal dolore, gli occhi segnati dall'insonnia. la lingua paralizzata dalla disperazione. 

«Un uomo finito, un attore finito, uno scrittore finito» dice Eduardo De Filippo, «non avrò più la forza di far ridere il pubblico, la mia vita è spezzata, la mia carriera è finita, il telone è calato, le luci si sono spente. «Ha l'aria di uno spettro, i capelli sconvolti, le mani tremanti, l'occhio quasi ebete, perduto lontano ancora in qualche dolce ricordo della sua bambina perduta. Perché Luisella era letteralmente la «cocca di casa» con quel suo visetto da scugnizza napoletana e quel suo sguardo un po' melanconico, con quella sua aria di gattina pigra e quella sua straordinaria inventiva che le permetteva di creare su due piedi fiabe meravigliose, racconti fantastici, storie divertenti e verosimili.

Aveva soltanto dieci anni, Luisella. e scriveva già moltissimo: racconti, novellette, commediole per i suoi piccoli amici (che si piccava di mettere qualche volta anche in scena, amorevolmente assecondata in questo da Eduardo) e lunghe, lunghissime lettere divertenti e affettuose al padre. Era una vecchia cara abitudine che rappresentava forse la maggiore e più comprensibile debolezza dell'attore. Il quale toccò il cielo con un dito il giorno in cui la Televisione trasmise e premiò un lungo racconto di Luisella intitolato "Lo scoiattolo furbo". In quella occasione le aveva scritto: «Io ti bacio le mani che sanno scrivere cose cosi belle».

Per la festa della Befana Luisella aveva preparato una grossa sorpresa per la mamma : vestirsi da vecchia e recitare una specie di atto unico; per ottenere un successo maggiore aveva organizzato tutto in segreto, con l'aiuto e la complicità dei proprietari dell'albergo. Al papà aveva riservato invece qualcosa di più, una lunga lettera, una delle sue strambe e affettuosissime lettere. E se la morte le ha impedito di mettere in scena la buffa recita della Befana, appena un’ora prima di spirare Luisella è riuscita a completare la sua letterina. Ci ha scritto sopra semplicemente «per il mio papà» e l’ha tenuta stretta fino all’ultimo nella sua piccola mano che già cominciava a tremare e diventava fredda. Quella lettera, ancora chiusa ma bagnata di lacrime e dolore, è ora nelle mani di Eduardo che non sa decidersi ac aprirla. «Lo farò più avanti» , balbetta, «quando comincerò realmente a rendermi conto che Luisella non c’è più: è la sua ultima lettera, ca pite? E ho bisogno di sapere che questa corrispondenza non è finita.»

E dal suo sguardo velato di pianto non si capisce se vorrà tenere solo per sé questi piccoli capolavori di letteratura precoce, o, quando il tempo avrà attutito il suo dolore, li riunirà in un volumetto come estremo, carissimo omaggio alla sua scugnizza napoletana dagli occhi malinconici.

«Epoca», anno XI, n.485, 17 gennaio 1960


La tortora in casa De Filippo

Al funerale della sua bambina, perduta in circostanze così drammatiche e repentine, Eduardo De Filippo è apparso con un volto di pietra, in cui il dolore aveva l'intensità di una maschera tragica

Roma, gennaio

E' una piccola grande storia quella di Luisella De Filippo, una bambina di dieci anni alta come un giunco, bella come sua madre, intelligente come suo padre, tenera come una tortora.

La storia di Luisella De Filippo incomincia poco più di dieci anni fa. quando la bambina non era ancora nata e suo padre pretendeva da Thea Luisella, proprio Luisella.

«Tu mi devi dare una bambina» insisteva Eduardo con la moglie, prossima al parto, «Il maschio ce l’ho. Se me ne darai un altro prenderò gravi provvedimenti».

Tra lo scherzo che in Eduardo prende una voluta forma di estrema serietà e l’ansia di Thea che voleva accontentare il marito, nacque Luisella, la tortora di casa De Filippo. E così la famiglia fu al completo, con Luca che ora ha undici anni e Lella che non c’è più.

La vita di Eduardo mutò dalle radici dopo la nascita dei due figli. Il nomade pensò alla casa e volle per i suoi bambini una casetta al mare sopra uno scoglio solitario e la bella casa romana dell’Appia Antica nella quale la cosa più commovente, nella già commovente dimora di un artista, è una grande fotografia che Eduardo ha dedicato ai figli. Gli itinerari dei bambini furono stabiliti nel triangolo che va dall’Isola della Formicola, di fronte a Positano, a Roma, al Terminillo. Le evasioni erano rappresentate da piccole parti che Luisella recitava raramente accanto o suo padre con una bravura degna delle grandi tradizioni dei De Filippo.

No, una bambina felice di dieci anni non ha storia. E la storia che s’intesseva con ogni riguardo intorno a lei non aveva alterato, in Lella, l’espressione d’ingenuità inumana che nobilita tutti i bambini.

Per la felice concomitanza di qualità che facevano di Lui-sella una bimba veramente eccezionale, i suoi genitori erano molto orgogliosi di lei e suo padre intratteneva volentieri gli amici con il racconto di un tema straordinario svolto dalla figlia nel quale si raccontava di uno scoiattolo ladro i cui furti erano gratuiti poiché non poteva mangiare la refurtiva per la sua mancanza di denti.

Tutto avrebbe dovuto andare avanti così, nell’ordine naturale delle cose. Ma di colpo l’ordine è stato sovvertito. La mattina del 4 gennaio Thea De Filippo, costretta a recarsi a Roma per affari urgentissimi lasciò i bimbi al Terminillo in accurata custodia. ordinando che non uscissero dall’albergo durante le poche ore della sua assenza. I bambini, infatti, rimasero a giocare nel salone.

Verso le sei del pomeriggio Luisella accusò un grande malessere. Una vampata di caldo, disse, che le torturava la testa. La piccola fu deposta sopra un divano, in un salottino meno riscaldato. Ma il malessere fu di breve durata e presto Luisella ritornò ai suoi giuochi. Il male era passato e la bimba, con frasi colorite, ne raccontava i misteri. Dopo pochi minuti la sua felicità fu interrotta per sempre. La vampata era ritornata e un medico accorse immediatamente a portare il suo soccorso. La bimba fu trasportata nella sua stanza, venne sottoposta alle iniezioni del caso e le si praticò anche la respirazione artificiale. Fu inutile. Dopo pochi minuti un'embolia aveva strappato Luisella alla vita.

Thea, intanto, era sulla strada del ritorno. Eduardo si preparava per la sua recita serale.

All’arrivo al Terminillo, Thea capì dall’espressione dei proprietari dell’albergo, i signori Zamboni che i bambini De Filippo chiamavano ”zii”, che era accaduto qualcosa di grave, ma non poteva pensare a una sciagura così terribile. Forse la disobbedienza ai suoi ordini era stata causa di una caduta sulla neve?

La notizia ”dell’aggravamento” della bambina è arrivata in teatro a Eduardo che dalle sei del pomeriggio continuava a telefonare al Terminillo per chiedere quale fosse la natura del male di sua figlia e quali, in realtà, fossero le condizioni di Luisella.

Soltanto un'amica di famiglia si recò, finalmente, a parlare con l'attore al teatro Quirino.

«Luisella è molto, molto grave, quasi senza speranza» gli disse quando la piccola era già morta.

L’artista decise allora di partire immediatamente e dette ordine di sospendere lo spettacolo. Un attore si recò sul palcoscenico e parlò piano a uno dei colleghi il quale, con voce turbata, disse agli spettatori che la rappresentazione doveva venir interrotta per cause gravissime.

«Cosa è successo?» gridò dalla platea il direttore del teatro.

«E' morta la bambina di De Filippo» gli fu risposto dal palcoscenico con un filo di voce.

Durante la corsa in automobile, nella notte, l’amica disse a Eduardo la verità. Lo incontro con Thea fu senza parole. Un lungo abbraccio silenzioso. rotto dai singhiozzi della madre. Da quel momento Eduardo non ha più parlato.

Il giorno seguente Eduardo ha voluto mettere lui stesso la bambina nella bara e l’ha adornata di garofani bianchì, candidi come il vestitino della Prima Comunione del quale lui e Thea avevano rivestito il lungo corpo sottile della figlia.

Il giorno dell’Epifania, il triste corteo è partito nelle prime ore del giorno verso Roma dove, nella chiesa di San Sebastiano sull’Appia Antica, si doveva celebrare il funerale di Lella. Lì attendevano le piccole compagne di scuola di Luisella; lì, prima dell'ora stabilita, si era radunata una commossa folla di amici, ministri, autorità, attori, registi e le compagnie dei due De Filippo al completo. Peppino era accanto a suo fratello, in lacrime, mentre Eduardo opponeva al destino un volto di pietra, scavato da un dolore più tragico di una maschera greca. Mancava Titina, la zia amorosa di Lella, la quale, senza più forze era dovuta rimanere a letto a causa dello choc che le aveva causato la morte della nipote.

Sotto questo nuovissimo sole romano si stendevano infinite corone di fiori bianchi. Lo spiazzo antistante la chiesa ne era ingombro, la strada ne era pavesata per un. lunghissimo tratto. Un’immensa fascia di lillà bianchi recava la scritta ”A Luisella il suo papà”. Fiori bianchi anche da Thea, la quale singhiozzava sommessamente sotto un fitto velo nero.

Era il giorno dell’Epifania, il giorno dei doni, della gioia dei bambini. Eduardo stringeva con la mano dentro una tasca della giacca l’ultima lettera di Luisella; la letterina con la quale la bimba chiedeva i regali al suo papà. La piccola De Filippo è stata sepolta nel cimitero di Roma, nella tomba di famiglia accanto alla nonna della quale portava il nome. E quando i suoi genitori sono usciti dalla chiesa, dietro il feretro, nessuno ha osato intaccare con una parola il loro dolore fatto di silenzio e di sgomento.

Egle Monti, «Tempo», anno XXII, n.3, 19 gennaio 1960


Eduardo: la televisione alleata del teatro

La televisione ha chiesto a Eduardo De Filippo di approntare una serie di recite per il secondo canale. Si tratta di una decina di sue commedie. Vorrei sapere dallo stesso De Filippo se, nel mettere in onda le sue commedie, incontra particolari difficoltà dovendo servirsi di un nuovo mezzo espressivo. (L. Stefano, Napoli)

Quando mi sono accinto a ridurre per edizioni televisive alcune mie commedie, temevo e non mi nascondevo le difficoltà che mi aspettavano al varco. All’atto pratico le mie previsioni erano forse più nere di quanto si stia dimostrando la realtà. In qualunque forma del nostro lavoro, le situazioni difficili da risolvere e superare non mancano certamente mai, ma debbo dire che, ili certi casi, questo nuovo mezzo espressivo, lungi dal crearmi degli ostacoli, si è dimostrato invece un ottimo alleato.

Per esempio, il mezzo televisivo « risolve » certe situazioni in un modo migliore di quanto le risolva il teatro tradizionale: in un primo luogo la scena acquista maggior vivezza, attraverso una ricchezza di particolari che in teatro possono più facilmente sfuggire, quando poi non siano del tutto improducibili; inoltre, attraverso lo schermo televisivo si possono sottolineare alcune determinate battute che, con altri mezzi scenici, ottengono un risalto minore. Naturalmente la mia esperienza di regista cinematografico mi è stata molto utile in questa nuova attività.

In quanto all’ipotesi, formulata da molti, che una commedia originariamente scritta per il teatro possa essere falsata nel suo successivo adattamento televisivo, ritengo che essa sia teoricamente accettabile. Sta ai tecnici, in primo luogo a) regista e allo sceneggiato-re, lo scongiurare questa eventualità, attraverso uno studio e una elaborazione seria e approfondita dell'opera che stanno trattando.

Eduardo De Filippo, «Epoca», 1961


Allarmanti notizie sulla salute dell'attore

Eduardo ha solo l'influenza ma ha disdetto ogni impegno

De Filippo, 75 anni, è ricoverato in una clinica romana per un periodo di riposo. E’ stato costretto a rinunciare alla stagione teatrale

Eduardo sta proprio male? Quando lo chiedo, all’indomani delle notizie sull'indisposizione che è stata la causa ufficiale del ricovero in una clinica privata, in cima al poco verde di Monte Mario a Roma, l’avvocatessa De Simone, napoletana come l'attore, e sua agente oltre che fedele amica da molti anni, sembra imitare leggermente la voce, nell'inflessione dialettale: «Macché male, ’na influenza come ce ne stanno tante che s’è missa ’n capo di farsi chiamà bronchite». Poi, prosegue pianamente, dicendo che Eduardo abita solo nella sua bella e piccola casa di Roma; è amico del proprietario della clinica; quando ha poco più di un raffreddore, si fa assegnare una stanza e vi si trasferisce, soprattutto per comodità.

Un trionfo in televisione

I giornali l’hanno presa, invece, sul drammatico, in alcuni casi persino sul tragico. Ma la stanchezza impedirà l’inizio della stagione teatrale del grande autore-attore napoletano che di solito è assai lunga. Non avranno luogo le recite di «Natale in casa Cupiello» previste a Roma, Firenze e Napoli, e forse — erano in corso trattative — a Milano dove Eduardo è incomprensibilmente assente da anni. Solo la stanchezza? E’ lecito chiedersi al di là di tutte le assicurazioni date e anche delle amichevoli premure di chi smontando il clamore probabilmente eccessivo della stampa, non riesce a convincere del tutto, sia per la faccenda della rinuncia alla stagione (e non è una cosa da poco, se si pensa a ciò che significa sul piano degli impegni presi e degli incassi prevedibili, sempre rilevanti), sia per il ricordo ancora recente della sospensione nel marzo del 1974 delle rappresentazioni dell'ultima novità di Eduardo, «Gli esami non finiscono mai» (l'autore ne sta scrivendo un'altra ma non l’ha ancora finita).

Perché quella sospensione? L'affaticato Eduardo, che ha passato i 75 anni (essendo nato il 24 maggio del 1900), fu sottoposto ad un delicato intervento chirurgico durante il quale gli venne applicato un «pace maker» per stimolare il battito cardiaco, apparecchio che Eduardo porta anche adesso con la massimo disinvoltura. Da allora in poi, l'attenzione sulla salute dell’attore si è fatta più minuziosa, quasi morbosa, si teme per qualche sorpresa. Ci si domanda come farà a portare a termine i gravosi programmi per la televisione, se e come riuscirà a far partire la nuova scuola di teatro a Firenze per la quale sono stati trovati finalmente i finanziamenti, eccetera. Eduardo, in tutto questo, mantiene una calma olimpica, i suoi calcoli razionali non perdono un colpo. La televisione? Ecco, infatti, che ogni settimana, attesissime, vanno in onda le registrazioni delle sue commedie, dopo che tempo fa erano andate quelle di Scarpetta da lui dirette e interpretate. All’«Arte della commedia», che è del '65, farà seguito sette giorni dopo la già citata «Gli esami non finiscono mai», che è del '73. Milioni di persone, davanti al video, avranno avuto modo così di vedere ciò che hanno visto in pochi grossi centri. A Eduardo dà fastidio ogni riga stampata che non riguardi strettamente il suo lavoro e la sua instancabile presenza di intellettuale impegnato nei fatti: le poesie che ha scritto, quasi a braccio, per la morte di Pasolini. Lo importuna il pettegolezzo e il gusto della indiscrezione, come l’eccessiva complimentosità. E non soltanto sui giornali.

Eduardo De Filippo CC Old

Non che a Eduardo il consenso dispiaccia, anzi il teatro lo fa anche per questo. Ma la sua fortuna è legata da sempre al fatto che ha cercato il consenso soltanto a certe condizioni, senza mai tradire il suo personaggio, e, come dire, la sua visione del mondo.

Accusato da Dario Fo di gabellare per teatro popolare un teatro che si fonda ed è destinato alla borghesia, e in particolare alla piccola borghesia, Eduardo gli risponde in realtà con un teatro che conquista tutti perché parla dei sentimenti e dei problemi comuni. Accusato da qualche critico di avere «troppo» successo, Eduardo risponde con il suo passato che non è stato facile, né gli ha garantito subito quella popolarità che ha avuto poi con pieno merito. Non è questa la sede per un ritratto biografico dell'attore ma, per sottolineare che cosa è per la cultura e non quindi esclusi-
vamente per il teatro, basterà ricordare che egli è nato in pratica sul palcoscenico come figlio d'arte e, dapprima con i fratelli Titina e Peppino, e da solo successivamente, ha saputo dimostrare che il lavoro in teatro — sul palcoscenico — può diventare un rapporto molto fecondo con la storia, gli avvenimenti, le emozioni. Seguendo passo passo un itinerario ormai lungo di testi scritti in tanti anni, all’inizio persino sotto pseudonimi, si può con facilità rendersi conto di quanto l'opera eduardiana sia stata vicina ai mutamento delle situazioni e come le abbia sapute registrare, con ironia e con gusto del paradosso.

Italo Moscati, «Epoca», n.3, 22 gennaio 1976


Ci scambiavamo cappotto e pelliccia

di Eduardo

Eravamo coetanei, ci conoscevamo sin da ragazzi. Totò aveva appena due anni più di me, ci stimavamo e ci volevamo bene. Lo chiamai a «Napoli milionaria» il film col quale si affermò definitivamente: avevo spezzato in due la mia parte, la parte che ho nella commedia omonima, per dargli un ruolo adatto. Era cosi felice di venire a lavorare con me, che venne per niente, gratis (i film allora, nel 1950, noi potevamo farli soltanto in grande economia).

Una volta che mi ammalai, mi sostituì, permettendo alla nostra compagnia di mantenere gli impegni. Eravamo a Palermo, nel '21-'22 io recitavo al Teatro Olimpia, un teatro in legno, che ora non c’è più, sulla via Roma, allora abbastanza importante e frequentato; Totò lavorava in un Varietà al Kursaal; stavamo ad abitare in una stessa pensione, in via Camperio, mi ricordo ancora. A quell’epoca mi ero comprato per duemila lire una pelliccia di castoro, col grande bavero lungo e l’interno di castorino, l'avevo acquistata dalla padrona di una pensione, che se l'era tenuta come pegno di un cliente che non si era fatto più vivo dagli anni della guerra. Ce l'avevano anche Ruggero Ruggeri, Antonio Gandusio e i più famosi attori del varietà. La voleva anche Totò, una pelliccia del genere, ma non ce l'aveva. Se la voleva comperare da me e mi propose di darmi in cambio mille lire e il suo cappotto, un bel cappotto di vigogna blu con le maniche a forchetta, come usava.

Io allora, che non avevo cappotto, presi il suo, me lo misurai, stava bene, e gli proposi di scambiarci gli indumenti: quando gli prestavo la mia pelliccia lui mi dava in cambio il suo cappotto, e facevamo entrambi bella flgura.

Proprio in quel periodo mi ammalai di reumatismi, e Totò che aveva finito il suo ingaggio al Kursaal, mi sostituì al Teatro Olimpia nella commedia napoletana che stavamo recitando. E quando la notte ritornava in pensione dopo lo spettacolo, mi faceva le pezze calde col ferro da stiro, e poi con quelle mi fasciava le braccia colpite dal reumatismo. Poi recitava e cantava le «macchiette» solo per me, me ne ricordo una in particolare. «Il portavoce»: allungava il collo, si dimenava nella mossa del cavallo: io ero veramente un suo ammiratore e distinguevo bene, oltre lo straordinario allucinante personaggio, la precisa intensa satira mimica muta.

Eduardo De Filippo, «Paese Sera», 17 aprile 1977


Eduardo: «quella volta che Totò mi tolse il saluto»

L'attore ha consegnato i Globi d'oro a Comencini, Sordi e Ornella Muti.

ROMA

Invitato a presiedere alla consegna del Globi d'oro e ad assistere alla proiezione di Napoli milionaria (film di recente ristampato dalla Cineteca Nazionale), Eduardo De Filippo è stato il mattatore dell'annuale appuntamento promosso dall'Associazione Stampa Estera.

Nell'introduzione del suo film Eduardo ha ricordato che per Napoli milionaria i bassi e i vicoli di Napoli vennero ricostruiti negli stabilimenti romani della Farnesina. Per le riprese — sottolinea — avevamo utilizzato 130 abitanti dei vecchi vicoli di Napoli che avevamo scritturato come comparse. Allora il cinema era libero e il regista non era assillato, come accade adesso, dai produttori. Io mi accostai al cinema perché mi dava fastidio vedere come gli attori in teatro aggiungessero ogni sera qualche battuta non prevista dal copione. Io pretendo che il testo venga rispettato: gli attori non vanno sempre d'accordo con il copione. Nel cinema invece una volta girata una scena come voglio io, l'attore non ha più la possibilità d'intervenire».

«Totò — aggiunge Eduardo — dopo aver visto Napoli milionaria mi tolse il saluto perché nel montaggio gli avevo tagliato tutte le mossette che lui era abituato a fare in palcoscenico. Ma quando si accorse del successo, volle che gli fosse regalata una copia del film che ogni sera proiettava agli amici». [...]

e. b., «La Stampa», 18 febbraio 1983


Eduardo: «Totò l'ho frenato, Welles è il mio maestro»

Così ha confidato il grande attore-autore atta cerimonia dei «Globi d'oro» a Roma

ROMA

La consegna dei Globi d'oro, i premi dati dalla Associazione della Stampa estera in Italia per il nostro cinema della stagione 1981/1982, è avvenuta a Roma nell’Aula Magna del Centro Sperimentale di Cinematografia. La cerimonia sotto gli auspici del Ministero del Turismo e dello Spettacolo e con la collaborazione dell’A.N.I.CA. e dell’Ente Autonomo di Gestione per il Cinema, si è svolta in un clima sereno.

Introducendo la cerimonia e sottolineando la forzata assenza del Ministro dello Spettacolo Nicola Signorello, che dal capoluogo piemontese ha inviato un telegramma, il presidente del Centro Sperimentale Giovanni Grazzini ha ricordato gli spettatori giovani e inconsapevoli che credevano nel cinema e che la morie ha colpito mentre, con la scelta di un pomeriggio di svago, testimoniavano «quella sfida contro la morte che è il cinema». Dennis Redmon, il presidente della Stampa Estera, ha poi spiegato che a votare per i Globi d'Oro sono giornalisti di Paesi diversi, corrispondenti da Roma per testate disseminate in tutto il mondo. [...] Il momento più atteso della manifestazione è stato il discorso fatto con accenti partecipi e prodigiosamente memori da Eduardo De Filippo al quale è stata consegnata una pergamena speciale e di cui si è vista, promossa dalla Cineteca Nazionale, la proiezione del film «Napoli milionaria» (1950) tratto dalla sua omonima commedia e interpretato da Leda Glori, Totò, Titina De Filippo.

Abbiamo avvicinato il senatore Eduardo subito attorniato dai giovani allievi del Centro che intendevano sottoporlo a un fuoco di fila di domande, e gli abbiamo chiesto di ricordare la lavorazione come regista del film di cui l’allora direttore di produzione Luigi De Laurentiis aveva in precedenza narrato numerosi aneddoti.

— Qual è stato, Eduardo, il suo rapporto come regista e autore con la cinepresa?

«Desideravo — ha risposto De Filippo con l'arguzia di sempre — fermare sulla pellicola le parole delle mie commedie, che i teatranti mutavano spesso nel corso delle recite. Pensavo: 'Con il cinema nessuno mi potrà gabellare: fisserò per sempre i miei dialoghi'. Per 'Napoli milionaria' lavorai con lo sceneggiatore Pietro Tellini e con Arduino Maturi e i produttori, proprio perche non ero affermato come regista, mi concessero fiducia. In seguito le cose cambiarono e io mi allontanai dalla trappola del cinema»,

— Come si svolse il suo rapporto con Totò attore?

Eduardo, intorno al quale si era nuovamente formato un capannello di studenti, ha imitato i versi e la mimica di Totò e ha detto: «Cercai di frenare i vezzi espressivi del comico e girai sempre due scene: una come la voleva Totò e una come la volevo io. In fase di montaggio eliminai le sue sequenze e scelsi quelle che io gli avevo ordinato. Dopò la proiezione, Totò se ne andò senza salutarmi e me ne volle a lungo, ma in seguito al grande successo della nostra pellicola il suo atteggiamento mutò e forse anche la sua recitazione divenne più controllata. Insieme abbiamo portato Napoli prima a Roma e poi nel mondo. Ricordo i 'si gira’ e i teatri della Farnesina dove avevamo ricostruito i bassi partenopei cosi bene che i 100 napoletani scritturati, vedendoli, decisero che avrebbero voluto abitare tra i fondali e non nelle camere d'affitto».[...].

Giovanna Grassi, «Corriere della Sera», 18 febbraio 1983


1984 11 02 Corriere della Sera Eduardo De Filippo morte 1

ROMA — Eduardo De Filippo, l'ultimo gigante del teatro, è morto l’altra sera alle 22.50 nella clinica Villa Stuart, dove era ricoverato da alcuni giorni. L’attore è stato stroncato da una insufficienza renale acuta all’età di ottantaquattro anni. Era infatti nato a Napoli il 24 maggio del 1900. Lascia la moglie Isabella e un figlio, Luca, a sua volta attore, che proprio domani sera, il giorno dei funerali, riprenderà le recite interrotte di una commedia del padre, «Chi è più felice di me».

Attore dall’età di quattro anni, Eduardo ha scritto decine di testi teatrali e ha interpretato numerosi film ricavati dalle sue commedie. Nel 1981 è stato nominato senatore a vita. La salma di De Filippo è stata trasportata dalla clinica a palazzo Madama, dove è stata allestita la camera ardente che da ieri alle 19 è meta di un ininterrotto pellegrinaggio. Tra le autorità che hanno reso omaggio al grande attore-autore scomparso il presidente Pertini, che si è intrattenuto con i familiari. I funerali di Stato si svolgeranno domani mattina alle 11 in piazza San Giovanni.

1984 11 02 Corriere della Sera Eduardo De Filippo morte 3

«Corriere della Sera», 2 novembre 1984 - Pagina 2

1984 11 02 Corriere della Sera Eduardo De Filippo morte3

«Corriere della Sera», 2 novembre 1984 - Pagina 3


E' morto Eduardo. Il mondo ha perso un grande del teatro

Eduardo De Filippo è morto a 84 anni nella notte tra l'ultima, bellissima, giornata di ottobre e la prima, bellissima, giornata di novembre, a Roma, in una stanza della clinica Villa Stuart arrampicata sopra Monte Mario, in un gran parco verde. Da ieri sera la sua salma è esposta al Senato, dove De Filippo era entrato nel settembre 1981 per nomina presidenziale, aderendo al gruppo della sinistra indipendente. La camera ardente resterà aperta fino a domattina, quando si svolgeranno i funerali.

Era stato ricoverato a Villa Stuart nella giornata di sabato, direttamente da Salsomaggiore, dove era andato nel tentativo di curare una bronchite che in questi ultimi due anni non gli aveva dato tregua. Il ricovero si era reso necessario per il debllitamento generale in cui si trovava, ma l'alimentazione forzata con fleboclisi, cui era stato sottoposto in questi giorni, sembrava gli avesse giovato, tant'è che martedì, nella mattinata, sentendosi meglio, aveva perfino recitato qualche brano di commedia con voce talmente alta da dover essere scherzosamente pregato di abbassarla. Mercoledì, invece, era sopravvenuto il blocco renale che l'ha ucciso.

Nella mattinata dì ieri, all'uscita della clinica, sua moglie Isabella Quarantotto ha detto che Eduardo ha passato l'intera giornata di mercoledì in uno stato di torpore: «Ha aperto gli occhi, solo quando, da Napoli, è arrivato suo figlio Luca. Hanno parlato a lungo di teatro. Poi, nonostante Eduardo sentisse che non avrebbe mai più potuto curare una regia per suo figlio, lo ha spinto a ripartire perché "il teatro non può aspettare". Ma subito, dopo aver espresso a Isabella il desiderio di poter tornare anche lui, ancora una volta, a Napoli, è entrato nuovamente in uno stato di sonnolenza. E' morto intorno alle undici di sera, assistito dal professor Fausto Bruni, il primario del Forlanini che lo aveva in cura da tempo».

Il suo corpo, vestito di un abito blu e coperto di fiorì fino al busto, è stato adagiato su un tavolo immediatamente sotto una riproduzione del Cristo di Cimabue, nella camera ardente della clinica, un piccolissimo edifìcio sotto i pini, con due porte a serranda. Su una delle due porte un cartoncino grande come un biglietto da vìsita: Signor Eduardo De Filippo. La camera ardente è stata aperta ieri alle undici. Luca, arrivato la notte da Napoli, dove sta recitando al teatro Diana Chi è cchiu felice 'e me, uno dei primi testi scritti da Eduardo, ha voluto rimanere solo con suo padre. Tra i primi ad andare a Villa Stuart, Rina Wertmuller e Luigi Comencini con cui Eduardo ha fatto il suo ultimo lavoro: Cuore. Più tardi sono arrivati il presidente della Camera Nilde Jotti e quello del Senato Cossiga. La Jotti aveva un fascio di rose rosse con sopra scritto il suo nome, Nilde.

Alla fine della mattinata, prima che il corpo di Eduardo De Filippo fosse chiuso nella bara, sono arrivati il segretario del pei Alessandro Natta e Gerardo Chiaromonte. Natta ha confessato di aver scoperto De Filippo attraverso la lettura di Natale in casa Cupìello. «Io allora vivevo in periferia, ha detto, il teatro per me era un luogo lontano». Il progetto teatrale cui Eduardo De Filippo stava lavorando in questi giorni era l'adattamento della lingua napoletana a quella italiana de Il sindaco del rime Sanità, uno del suoi testi più famosi che De Filippo voleva veder portato in scena da Mario Maranzana. Alle tre del pomeriggio Luca De Filippo ha lasciato senza una lacrima la camera ardente: «Lo so, Eduardo non era solo mio: era di tutti. Ma in questo momento, prima che torni a essere un personaggio pubblico, vorrei restare ancora un attimo con lui». Ieri sere, alle diciotto, la salma di Eduardo è stata esposta al Senato: nella saletta gialla c'erano tante corone ufficiali e un piccolo fascio di margherite bianche e di violacciocche. Il primo a entrare è statò il presidente Pertlnl che, chiuso In una stanza con il figlio Luca, si è trattenuto in un colloquio lunghissimo. Dopo, il portone del Senato si è aperto alla gran folla. I funerali sono stati fissati per domani alle undici in piazza San Giovanni.

Simonetta Robiony, «La Stampa», 2 novembre 1984


Il drammaturgo, il regista, l'interprete: astuzie e grandezze di un maesto

Eduardo, il prodigio del teatro

Attore di straordinaria penetrazione critica, studiava il personaggio «standogli addosso» - «Ma la naturalezza sulla scena non esiste» - I leggendari silenzi - Le rabbie del capocomico - La poderosa opera di autore: tra i suoi capolavori, Natale in casa Cupiello, Napoli milionaria, Filumena Marturano

Credo che nel ricordare Eduardo si debba cominciare dall'attore: era, delle sue tre «persone» (il drammaturgo, il regista, l'interprete), quella che egli, senz'altro, prediligeva. Eduardo è stato un attore di straordinaria penetrazione critica e. paradossalmente, di una estrema sobrietà e apparente naturalezza. Il personaggio lo studiava «standogli addosso», l'espressione era sua c credo che nelle sue intenzioni equivalesse alla marcatura stretta del giocatore di fooltball sull'avversario: qua un gesto captato al volo, là un'intonazione, in un lavorio fitto fitto di mimesi del «grande assente; (ancora un'espressione che gli era cara) che poteva durare settimane e settimane: un giocare a rimpiattino col ruolo, che aveva qualcosa di furbesco e straziante a un tempo, una partila di dare e avere che sembrava non dovesse saldarsi mai. col bruciore delle ferite non pienamente rimarginale.

Nascevano, da questi sordi, dolorosi a testa a testa col personaggio, quelle interpretazioni di ammirevole misura, percorse da pause stupendamente espressive (i leggendari «silenzi»), da un sussurro soffocato, da un borbottio tra la tenerezza e il dispetto. Le vedevi germinare, come per prodigio, in proscenio (ricordo ancora la sua ultima, Ciampa del Berretto a sonagli), ti sembrava che tutto fosse facile, naturale per l'appunto: «Ma la naturalezza, a teatro, non esiste, caro amico, ve la dovete proprio levare dalla testa», mi disse dinanzi ad un folto pubblico, due anni fa, a Perugia, e sembrava che nella voce gli si fosse innestata una vena d'eroico furore, una rabbia propriamente etica, esistenziale.

Le rabbie di Eduardo, altro dato leggendario di lui: quelle che animavano la seconda delle sue «persone», quella del capocomico, e, soprattutto, del regista. Di questa sua seconda attività, durata cinquant'anni, dal primi Anni Trenta alla primavera scorsa (l'ultima sua regia è quella per il figlio Luca di Chi è ' cchiit felice 'e me), non amava parlare, per quel pudore da «dietro il sipario» tipico dei figli d'arte, che pensano che di quei segreti meno si discorre e meglio è.

Ma per lui, e in vece sua, di Eduardo regista, hanno parlato in questi anni gli attori che con lui si sono formati (se ne tentassimo un elenco, scopriremmo che sono moltissimi): e le loro testimonianze documentano un magistero di altissima perizia e severità morale.

Eduardo alla prima lettura, che smonta il copione come fosse una composizione architettonica, dopo averne individuato i muri maestri, le campiture centrali, i pilastri di base con l'orgoglio artigianale del perito edile, del geometra sul cantiere; Eduardo alla prova d'avvio, che mette, per cominciare, sul fondo della scena il topico divano (che il copione lo esiga o meno, non gli importa) e da quel luogo geometrico, astratto e concreto ad un tempo, fa partire e ritornare la complessa strategia dei personaggi, il loro essere, ciascuno per sé, un destino unico e irripetibile, eppure in continua mediazione e dialettica con i destini altrui; Eduardo alle ripetizioni, seduto ad un tavolino, ai lati della scena, un bicchier d'acqua, sempre vuoto, a portata di mano, che non guarda gli attori, ma li vede uno ad uno, e scatta con dei no rabbiosi al minimo effetto, alla minima forzatura, nemico giurato dei manierismi, dei cerebralismi, paladino della «bella verità della finzione».

Non so quanto ne siano persuasi i nostri storici del teatro: ma accanto all'estetismo di Visconti, al realismo epico di Strehler, c'è stato, e ha contato molto più di quanto possa sembrare, il naturalismo critico (p di secondo grado) di Eduardo regista.

Questo naturalismo, e vengo alla terza «persona» di Eduardo, è quello poi che collegava la sua poderosa opera di drammaturgo alle radici fonde della cultura nazionalpopolare (per usare la formula cara a Gramsci) del Paese.

Si è scritto più volte, in sedi autorevoli, che delle quaranta commedie che in cinquantatré anni, dal 1920 al 1973, Eduardo era venuto scrivendo molte andavano ricondotte ad altra matrice, quella aristocratico-intellettuale di stampo pirandelliano. Eduardo, che pure con Pirandello aveva, come scrittore ed attore, collaborato, a sentir parlar di codesta affinità, si faceva, d'un tratto, polemico: e rivendicava da un lato la componente «professionale» della sua scrittura scenica (l'essere nato da un attore-commediografo, Eduardo Scarpetta, a sua volta allievo di un altro attore-commediografo, Antonio Petito) e dall' altro la sua radicata, sofferta socialità.

Eduardo De Filippo Sandro Pertini CC

Certo la lunga esperienza d'attore che aveva, soprattutto nella giovinezza, visitato tutti i generi teatrali (dal vaudeville alla farsa, dal variato alla rivista) nutre di un gusto deliberatamente grottesco e, a volte, persino «straniato» tante sue commedie. Ma anche quando i suoi personaggi paiono più «pirandelliani» (si pensi, per far solo due casi, al Michele Murri di Ditegli sempre di sì del 1927, che nella sua pazzia si inventa una realtà fittizia più vera di quella vera, o all'.artista guitto, povero, tormentato, filosofo» di Sik Sik l'artefice magico del '29, che si sottrae al tormenti della vita con uno scarto ribelle della fantasia) senti sempre, dietro a loro e Intorno a loro, l'ansito di una realtà sociale desolata, di cui essi sono emblemi e vittime.

Eduardo scrittore di teatro (certo, il nostro più grande, nel Novecento, insieme a Pirandello) è stato il cantore di questa sofferenza sociale collettiva, che in Napoli ha trovato il suo coro, ideale e reale ad un tempo. Le sue più belle commedie sono l'elegia dell' individuo «umiliato e offeso», una secolare ingiustizia sociale: Luca Cupiello di Aratate in casa Cupiello (1931) che si ripara dietro «Ilnoenuo candore della sua ignoranza», che evade in un «moneto come Preseppio perché non sa come altrimenti rispondere alle ferite della società; o Pasquale Lo Jacondo di Questi fantasmi (1946), l'uomo del «punto a capo», che ogni volta tenta di risalire, dietro le fragili parvenze di un immaginarlo Bengodi, la china delle mortificazioni che gli altri gli hanno inflitto.

Soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, quando i giorni per il mondo e il suo teatro s'eran fatti «dispari», cioè infelici, neri, Eduardo scrittore senti il dovere, quasi religioso, lui ch'era asciuttamente laico, di scrivere dell' uomo in bilico tra il macrocosmo, repulsivo e crudele, della società e il microcosmo, difficile ma pur sempre protettivo, della famiglia.

C'è un biennio, il 1945-46 (che possiamo prendere a modello della sua vena creativa) In cui gli riuscì di siglare due capolavori su ambedue 1 fronti: Napoli milionaria, affresco tumultuoso di un'Italia sottoproletaria tra corruzione e improvviso benessere, vista attraverso la famiglia di un antieroe rassegnato e sentenzioso; e Filumena Marturano, forse il suo capolavoro, il canto casto e teso della maternità come valore simbolico, vorrei dire rituale: li nodo («I figli sono tutti eguali.) Intorno a cui le difformità sociali, i disordini e 1 dolori precoci si risanano, come per miracolo.

M'accorgo d'aver citato sei commedie appena da un corpus di duemila pagine, e subito altri titoli incalzano (dal Sindaco del Rione Sanità a Sabato, domenica, lunedi a tutto il gruppo degli ultimi testi, che potremmo chiamare, da un titolo solo, di riflessione sull'arte della commedia). A Eduardo forse non dispiacerà d'essere evocato con sobri rimandi: lui che sosteneva che basta un verso felice per render bella un'Intera poesia.

Guido Davico Bonino, «La Stampa», 2 novembre 1984


Dal debutto al successo, tra generosità, passioni e dispotismo

Tutta la vita piena di commedie

Disse: «scrivere 57 drammi significa sacrificare l'intera esistenza. Ho visto i miei figli cresciuti e non me ne sono accorto»

Grande lunatico, grande artista della realtà, gran litigioso, grande egocentrico, coerente nell'impegno civile ed eroe del lavoro teatrale, da anni Eduardo De Filippo era già un'icona: gli occhi bruciati da un fuoco di tristezza, le guance incavate, gli zigomi puntuti, la faccia rasciugata percorsa da guizzi impercettibili, il corpo fragile dalle spalle arcuate, ì movimenti incerti, brevi. Elegante come un idolo nei comportamenti: sedere quasi immobile con le ginocchia parallele e i piedi ben posati sul pavimento, tenere le mani ferme e congiunte, chinare appena la testa agli applausi, parlare pochissimo e in un soffio, l'umidità dei teatri d'un tempo mi ha velato la voce, adesso sembra una canna spaccata e dicono sia una caratteristica della mia recitazione». Coperto da abiti indistinti, approssimativi, così simili ai panni domestici di cui si rivestiva in teatro, vestaglie, sciarpette, pigiami, giacchette, giacche da casa, pantofole di pezza.

Da dieci anni aveva il pacemaker, tre anni fa aveva dovuto operarsi di cataratta, da sempre lo tormentavano «un' artrite che non mi fa dormire» e le bronchiti asmatiche curate anche al clima secco del Marocco. Pure, pochissimi hanno sino all'ultimo lavorato guanto lui, e con tale accanimento, con tale concentrazione, badando a proteggersi dalle distrazioni in una solitudine divenuta disciplina: «Scrivere 56 o 57 commedie, parlo soltanto di quelle buone, non è semplice. Significa sacrificare tutta una vita. Ho visto i miei figli cresciuti, e non me ne sono accorto».

Era legato al lavoro anche il rapporto col figlio Luca, l'attore più giovane di «una famiglia reale, la dinastia del San Carlino», del famoso teatro napoletano. Era legato al lavoro pure il rapporto con la moglie Isabella Quarantotto, ex moglie di Felice Ippolito, sposata nel 1977, a 77 anni, nel terzo matrimonio dopo quelli con l'americana Dorothy Penington e con la torinese Thea Prandi. Ma erano insieme da tanto, dal 1963: s' erano incontrati sul mare tra Capri e Positano, luì su una barca, lei su un'altra, non s' erano più lasciati e Isabella gli era accanto sempre, nella prediletta casa di campagna a Velletri e nella casa sulla loro isola davanti a Positano come in teatro, curava i suoi contratti, organizzava la sua vito, pensava ad allontanargli ogni seccatura, tentava di dargli serenità.

Erano naturalmente di lavoro i rapporti con l'altra famiglia, quella del teatro. Con i fratelli Peppino e Titina, dodici meravigliose stagioni teatrali e tanti film insieme prima della rottura, ricomposta soltanto di fronte alla morte, così aspra che Peppino persino scrisse un libro per denunciare l'arroganza, «l'insopportabile complesso di superiorità» di Eduardo. Con gli attori delle sue compagnie, divisi tra ammirazione ed esasperazione, tenuti a chiamarlo «direttore». Umiliati dalla sua freddezza, dai suoi commenti sferzanti e dal suo dispotismo, eppure sempre vinti dalla sua straordinaria bravura.

«Non è autobiografia», avvertiva nel 1979, raccontando che lavorava a una commedia intitolata II signore che aveva un brutto carattere. Una volta, trentanni fa, Anton Giulio Bragaglia stroncò duramente un suo spettacolo; lui rimbeccò con un manifesto-volantino largo venticinque centimetri, e lungo mezzo metro. Successi, premi, fama internazionale, lauree ad honorem, Leglon d'onore, li riceveva con la cortese naturalezza di un omaggio dovuto. «Non conosce la modestia», lo accusavano: ma d'essere modesto non avrebbe avuto motivo. Assolutamente privo di vanità, superbo di parlare non con il folclore, ma con le voci di dentro dei napoletani disprezzo laconico, sentimento dell'offesa, pulsione di morte, anche prontezza beffarda.

Nel 1953 non recitava per un anno, Raul Radice gli chiese perché e lui: «Faccio la prova generale della mia morte; mi sento vittima d'un successo inglorioso»; l'anno scorso gli domandavano notieie dell'autobiografia che stava scrivendo, e lui: «Uscirà dopo la mia morte». Una nuova dolcezza, negli ultimi anni, gli era nata per i piccoli: il suo solo intervento parlamentare, dopo la nomina nel 1981 a senatore a vita, è stato un'interpellanza a favore dei ragazzi dell'Istituto Filangieri di Napoli, una casa di rieducazione per minorenni, e il ministro di Giustizia Darida gli rispose subito picche; uno dei suoi ultimi spettacoli, un recital di poesia al Palazzetto dello Sport di Napoli, lo fece per regalare l'incasso alla "Mensa dei bambini proletari". Della lunga vita teatrale parlava malvolentieri («le memorie non servono a niente»), ma il senso del suo lavoro meraviglioso pensava di conoscerlo: «Io ho detto il dolore di tutti».

Lietta Tornabuoni, «La Stampa», 2 novembre 1984


A Napoli «le recite sono sospese»

NAPOLI

Al Teatro Diana, su al Vomero hanno appeso il cartello a lutto. E' scritto a mano: «Le recite sono sospese per la morte di Eduardo». Ma al botteghino c'è coda, c'è la gente di Napoli che vuol sapere, che si commuove, che piange. «Ha sofferto?». «E Luca, è andato a Roma, Luca?».

Piange la Napoli che non ha mai conosciuto Eduardo, ma in Eduardo si è sempre identificata, e con orgoglio. E piange la Napoli che con Eduardo ha lavorato, che l'ha conosciuto e sempre amato. Spiega Roberto De Simone, direttore artistico del Teatro San Carlo: «Forse un non napoletano non può capire... La notizia della sua morte l'ho avuta in aereo, mentre tornavo da Marsiglia. Qui ho trovato gente che piangeva: la morte di Eduardo, in noi, ha un impatto viscerale'. Paolo Ricci, critico d'arte, dal 1932 amicissimo di Eduardo, ha saputo dal giornale radio: «Proprio mentre stavo per telefonargli, volevo sapere se si era avverato "o miracolo". Martedì mi è arrivata una sua cartolina da Salsomaggiore, con scritto "vedimmo si a Salsomaggiore sta 'o miracolo"».

Nino Taranto rimpiange l'amico: «Il mio più grande rimpianto è quello di non aver potuto mai recitare stabilmente al suo fianco. Una sola volta ho avuto questo piacere: fu per quattro o cinque giorni al Teatro Eliseo di Roma, dove mettemmo in scena un atto unico scritto da tutti e due». «Con lui, aggiunge lo scrittore Michele Prisco, non muoiono soltanto un attore e un autore: muore il teatro, con la Tmaiuscola'. Eduardo e il suo impegno civile, per Napoli». «L'ha dimostrato, testimonia Maurizio Valenzi, ex sindaco, nel raccontare la Napoli del dopoguerra, in Napoli milionaria. L'ha dimostrato con le sue prese di posizione, coraggiose: come nel '60, l'anno di Tambroni, quando fu uno dei primi a presentarsi in piazza Cavour: e prese la parola in quel momento assai difficile. In questi ultimi anni aveva lasciato Napoli, in polemica, abbiamo cercato di ricongiungerlo alla città, ma...».

Eduardo e gli scugnizzi del carcere minorile Filangerl. Anche qui, la notizia è arrivata dalla radio. «I ragazzi, dice Raimondo Ciasullo, vicedirettore, ci hanno chiesto di poter partecipare ai funerali, con una delegazione. Manderanno una corona. Eduardo è stato qui due volte, l'ultima in primavera. "Ho una grossa sorpresa per voi...". Ma non ha voluto spiegare cosa».

Eduardo e gli attori napoletani. «E' morto un uomo che non morirà mai, che resterà vivo nei secoli perché è morto l'autore più importante del nostro secolo», telefona da Milano Carlo Giuffrè. E Aldo, il fratello: «Eduardo non morirà mai, vivrà come tutti i grandi della scena. Eduardo era già nella storia». Giacomo Rondinella, che è in Canada: «L'importante è ricordare ciò che ci ha dato, ricordarlo sempre. Recitare con lui è staio un onore, tutti hanno imparato qualcosa».

Eduardo che ha lasciato Napoli e si è stabilito a Roma. Adesso, con la morte, il funerale a Roma, la sepoltura al cimitero del Verano, accanto ai fratelli Titina e Peppino. «Non mi sorprende. commenta lo scrittore Domenico Rea, come tanti altri napoletani che hanno vissuto del pane di Napoli sì sono ben guardati dallo starci dentro. Fu proprio De Filippo, poi, a dire ai napoletani "fujtevenne", andatevene. Se n'è fuggito anche luì, ha dato l'esempio...».

Napoli senza Eduardo. Come sarà? Qui risponde lui, Eduardo, con una delle sue ultime interviste. «Il ricordo di interpreti come Viviani, Scarpetta, Altieri, Tina Pica e Titina è ancora troppo forte, schiaccia tutto. Certo, Massimo Troisi quello sì che è bravo. Ma state attenti, anche lui è stato costretto ad andarsene...». Eduardo, adesso, se ne va davvero. «Io vulesse truvà pace, ma na pace sema morte». Fino all'ultimo non voleva morire.

Giovanni Cerniti, «La Stampa», 2 novembre 1984


E' morto Eduardo De Filippo

«Quando andiamo a Napoli?» Con questa espressione di attaccamento alla sua città Eduardo De Filippo è uscito dalla scena del mondo. A raccogliere le ultime parole dell’attore spentosi alle 23 di mercoledì a Roma nella clinica «Villa Stuart» è stata la moglie Isabella. Il ricovero di Eduardo, che aveva 84 anni, per un improvviso blocco renale, era avvenuto lunedi. L'attore è entrato in coma alle 20 dell’altra sera e, a quanto ha detto il prof. Pruni che lo aveva in cura da molti anni e si è prodigato per assisterlo, non ha sofferto e non si è neppure accorto del trapasso.

Con Eduardo è scomparso dopo Peppino e Titina anche il maggiore del tre fratelli De Filippo. Proprio l’altra sera egli aveva inviato quello che sarebbe stato il suo ultimo messaggio al nipote Augusto Carloni, figlio di Titina, in occasione del libro da questi dedicato alla madre.

Fino al 20 ottobre scorso Eduardo De Filippo e la moglie Isabella erano stati a Salsomaggiore. L’attore vi andava ogni anno per curarsi una fastidiosa forma di bronchite. Lunedi, quand’è stato accolto in clinica, aveva appena qualche linea di febbre per una lieve influenza. Appariva però — a detta dei medici di «Villa Stuart» — molto debilitato.

Tuttavia, martedì mattina, svegliandosi, aveva detto di non aver dormito mai cosi bene. «Poi ha passato una giornata stupenda — ha detto una suora, era allegro, scherzava e si sentiva in perfetta forma. A un certo punto ha voluto fare anche una specie di prova teatrale recitando brani di commedie e poesie».

«Il tono era talmente alto — ha aggiunto la suora — che scherzando gli abbiamo chiesto di abbassare la voce per non disturbare la quiete della clinica».

Mercoledì mattina, poi, le condizioni di Eduardo sono peggiorate ed era venuto a trovarlo il figlio Luca. Alle 16, confortato dal giudizio dei medici, Luca era ripartito per Napoli dove recita al Politeama. Il figlio di De Filippo ha appreso la notizia a mezzanotte e mezza quando è rientrato in albergo al termine dello spettacolo.

Forse l’attore aveva avuto un presagio della sua fine imminente nei giorni scorsi, quando, incontratosi con un amico di Velletri, si era rivolto a lui chiedendogli di andare al cimitero del Verano per sistemare la tomba di famiglia, dove riposano la sua seconda moglie Tea e la figlia Luisella che lo lasciò all'età di 12 anni.

In un primo tempo la salma di Eduardo è stata esposta, dalle 11 in poi, nella saletta di un edificio adiacente alla clinica, dove il figlio dell’attore, Luca, giunto da Napoli, ha chiesto di poter rimanere solo per alcuni minuti.

Il presidente del Senato Francesco Cossiga ha quindi comunicato la decisione di far allestire a Palazzo Madama, la camera ardente per Eduardo che, come si sa, era stato nominato da Pertini, senatore a vita.

Il Presidente della Repubblica è stato uno dei primi a manifestare il suo cordoglio per la scomparsa dell’attore facendo pervenire alla famiglia De Filippo questo telegramma: «Con Eduardo de Filippo, senatore della Repubblica, scompare una delle personalità maggiori del teatro e della drammaturgia italiana di questo secolo. Egli fu attore, scrittore, poeta, artista di straordinario talento e di grande ispirazione.

«Seppe trarre dalla vita travagliata e ricca di espressività e creatività del popolo napoletano motivi umani universali che hanno commosso e commuovono la platee di tutti i paesi. La sua scomparsa è un grave lutto della cultura italiana; per me la perdita di un amico carissimo. Esprimo ai familiari e al mondo del teatro i sentimenti commossi miei e del popolo italiano».

Dalla clinica, davanti alla quale avevano sostato per molte ore semplici cittadini e figure rappresentative del mondo dello spettacolo (tra queste Luigi Comencini che s’era avvalso dell’arte, di Eduardo per l'edizione televisiva del «Cuore»), la salma, seguita da un corteo, è stata trasportata alle 16 a Palazzo Madama, dove è stata esposta dalle 18 alle 20 al pubblico che potrà renderle omaggio anche nella giornata odierna dalle 9 alle 13 e dalle 16 alle 20.

Pertini, è giunto a Palazzo Madama qualche minuto prima delle 18. Il Capo dello Stato, che appariva molto commosso, ha sostato per qualche minuto dinanzi alla bara.

Domani mattina, alle il, dopo una breve cerimonia il feretro sarà seppellito nella cappella del cimitero del Verano. I funerali si svolgeranno a spese del Senato.

Il presidente del Consiglio Craxi ha inviato alla vedova il seguente messaggio: «La morte di Eduardo mi addolora profondamente perché ci priva di un artista sommo e saggio, che ha fatto amare in tutto il mondo la civiltà antica di Napoli. Il teatro di Eduardo onora il nostro Paese. Anche a nome del governo, cara signora De Filippo, le esprimo le più amichevoli condoglianze».

«Il Piccolo di Trieste», 2 novembre 1984


Riferimenti e bibliografie:

Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:

  • La Stampa
  • La Nuova Stampa
  • Stampa Sera
  • Nuova Stampa Sera
  • Il Messaggero
  • Corriere della Sera
  • Corriere d'Informazione
  • Il Piccolo di Trieste
  • L'Unità
  • Paese Sera
  • Il Dramma
  • L'Europeo
  • Noi donne
  • Film d'Oggi
  • Film
  • Epoca
  • Tempo
  • Il Mattino Illustrato
  • Vie Nuove
  • Momento Sera
  • CineSport