Approfondimenti e rassegna stampa - Macario
Sarà necessario, d'ora in poi, introdurre una nuova similitudine; si potrà dire: — Ha avuto una esistenza tormentata come quella di Macario in cinematografo. — Si potrà scrivere un articolo intotolandolo : Macario senza pace. Tali, insomma, le riflessioni inspirate dal destino cinematografico di Erminio Macario.
Ma tant’è ! Ci sono dei personaggi predestinati. Macario ha, per destino la mancanza d'un piedistallo fisso. Un giorno un tentativo e il giorno successivo un altro. Da un anno all’altro, anzi da una estate all’altra (poiché la stagione cinematografica di Macario è l’estate) si annuncia una rivoluzione del film comico, una nuova « umanizzazione » dell'attore. (Quanti sono ormai coloro che hanno tentato di rifare un volto a Macaro!). In realtà, poi, tutti questi tormenti sono puramente letterari. Macario se ne infischia e passa da trionfatore da uno schermo all'altro e da una piazza a quella successiva. In cinema interpreta i personaggi che vengono in testa ai soggettisti, sul palcoscenico continua ad interpretare, con grande efficacia, sè stesso. Ma quale sarà poi l’autentico Macario: quello che è o quello che gli altri immaginano? Per sapere quale destino sia riserbato quest'anno a Macario siamo andati alla Scalerà. Alla Scalerà abbiamo trovato Vittorio Metz, sceneggiatore del Fanciullo del West, il nuovo film che sarà interpretato dal comico piemontese.
Con Metz abbiamo avuto un interessante colloquio che è perfettamente inutile riferire perchè il pubblico non ne capirebbe assolutamente nulla. Metz è un uccellino, ama saltare da un ramo all'altro, almeno nei discorsi. Perciò passammo in rassegna tutti gli argomenti dello scibile, ricordammo un furto di limoni compiuto dal noto umorista in Sicilia quando non era ancora un noto umorista, poi approfittando-della sua distrazione sottraemmo abilmente la sceneggiatura del film e ci andammo a nascondere in un angolo del teatro per leggerla. Quello che abbiamo appreso dalla sceneggiatura è molto importante. Siamo ad una nuova svolta della carriera di Macario. Una svolta significativa perchè, riporta l'attore piemontese alle radici della comicità tradizionale.
Il successo del primo — anzi del secondo film, poiché la prima interpretazione cinematografica di Macario fu quella di Aria di paese troppo presto dimenticata — il successo del primo film, dicevano, non fu fondato sulle possibilità dell’attore ma su molti elementi estranei che si riallacciavano piuttosto alla letteratura che all'umorismo cinematografico. Imputato alzatevi! dovette buona parte del suo successo ad un certo umorismo metafisico, già collaudato attraverso le rubriche di diversi settimanali, che sbalordì più che far ridere. Comunque, fu questo il tentativo più originale per una utilizzazione cinematografica di Macario. L’anno successivo si tentò una nuova formula con Il pirata sono, io : si provò, cioè, a collocare Macario al centro di una storia avventurosa e fastosa che però, dovendo essere asservita alle esigenze di una recitazione speciale, finì per non essere nè avventurosa nè fastosa : e non ebbero soverchio, effetto neppure certe trovatine tecniche troppo r sapute per stupire.
Lo scorso anno Macario ha interpretato Il chiromante e Il vagabondo, due film troppo recenti perchè sia necessario parlarne. In questi ultimi due, e specialmente nel secondo, si è insistito — come il pubblico sa — nel tentativo di umanizzare eccessivamente la figura del l'attore comico.
Con Il fanciullo del West ci sembra che il film comico ritorni alle sue prette origini. C'è una fondamentale preoccupazione di mantenere l’azione su un ritmo dinamico, meccanizzato per quel tanto che è necessario a originare comicità, c‘è una sovrabbondanza di materale sceneggiato in modo che le trovate si succedano convulsamente senza dare tempo allo spettatore di riflettere e senza sopratutto, dover stiracchiare troppo una idea buona che alla distanza finisce per divenire cattiva.
X & Y, «Film», 1942
Torino, agosto
Sono venuta a Torino, agli stabilimenti cinematografici della Fert, per incontrare Maurizio D'Ancora sul conto del quale ne ho sentite di cotte e di crude. Mi hanno detto che si è trasformato in studente povero di quattrini ma ricco di originali quanto funeste idee; che è amico per la pelle di certo Carlo Minello, ragazzo timidissimo; che volendo sposare Silvana Jachino, pur di riuscirvi ne combina di tutti i colori; che vittime dei suoi tiri birboni sono Lucia D’Alberti, Virgilio Riento, Guglielmo Barnabò e più di tutti Erminio Macario. Quest’ultimo — mi hanno raccontato — si trova ora nei pasticci perchè un tal cavaliere Casimiro ed un molto rispettabile colonnello a nome Ciclamino, credendolo la milionaria zia di Carlo giunta .dall'America gli fanno una corte spietata.
— Che guaio! — ha sospirato Macario, vedendomi entrare nel teatro di posa trasformato in elegante salotto dell’ultimo ottocento — Non so proprio come fare per liberarmi da quei signori (ha indicato Riento e Barnabò) ehe vogliono io mi sposi con uno di loro. Credetemi, acconsentirei alle nozze; ma ohe succederebbe quando, più tardi, si venisse a scoprire che sono Erminio Macario, e non la zia di Carlo?!... Oh, quale tran., gen.. dia!
A questo punto si sono avvicinati a noi Alfredo Guarinl e Sandro Giusti, critfco cinematografico dell'«Ambrosiano.» che in questo film di produzione Capitani-Cines debutta quale assistente alla regìa.
— Stai calmo, non drammatizzare. — ha detto il regista Guarini a Macario — Ancora due giorni di inferno; poi gireremo la scena dell’arrivo di Lucia D’Alberti, cioè la vera zia di Carlo, e tutto finirà per il meglio.
— E D’Ancora sposerà la bionda Jachino? — ho chiesto.
— Sicuro. E Carlo Minolio sposerà Lori Randi, una giovanissima attrice che sicuramente farà parlare di sè. Perchè piacciono al pubblico, i film devono finire con un matrimonio; nel nostro caso i matrimoni sono due, quindi il successo de «La zia di Carlo» è assicurato. Seduti al pianoforte, Macario e Maurizio D’Ancora hanno suonato e parodiato il duetto della «Bohème» con tale delicato umorismo, con tale ricchezza di espressioni, con tale garbo, da stupirò lo stesso regista che li ha guidati in questo nuovo genere di comicità.
Insomma, da ciò che ho visto e da quanto mi è stato detto, è facile intuire che « La zia di Carlo » ha molte possibilità di imporsi, il buon soggetto, la regia ricca di tecnica scaltrita unita ad una felice Intuizione di originalità, e l'efficace interpretazione di ottimi attori sono i tre elementi fondamentali che fanno credere nella riuscita di questa nuova produzione, la quale ha in sè tutti i requisiti per piacere al pubblico.
G.V., «Film», 1942
Partì sposina di guerra ritorna diva del Varietà
Macario ha avuto in prestito dall'America una stella del palcoscenico e della televisione che, sei anni or sono, dalla nativa Brescia si era trasferita a S. Francisco, sconosciuta moglie di un tenente americano
Roma, ottobre
I coniugi Fantini tirarono un sospiro di sollievo quando, circa sei anni fa. la loro figliola Nicla, allora diciassettenne, andò sposa al tenente americano Douglas Wilmeth. «Finalmente», essi dissero, «le sue smanie artistiche si placheranno». In realtà. quelle che i coniugi Fantini chiamavano "smanie artistiche" procurarono molti sculaccioni alla piccola Nicla. Un giorno i genitori la sorpresero mentre si produceva in una magistrale esibizione di "charleston”: la futura "soubrette”, che aveva allora quattro anni, sperava che l’esibizione le procurasse i più orgogliosi consensi da parte dei genitori; e invece le procurò i primi sculaccioni di una nutrita serie. «Ma furono carezze», ricorda sorridendo Nicla, «tenerissime carezze in confronto agli sculaccioni che presi alcuni anni dopo, quando papà scopri che da una settimana marinavo la scuola per fare la parte di upa piccola collegiale nel film: "Ore 9 lezione di chimica" di Mattoli».
La notte Nicla sognava palcoscenici inondati di luci e platee plaudenti. Il sacro fuoco del teatro non le dava pace. E sebbene ostacolata dai genitori, prese parte, ancor giovanissima, a qualche rivista, ma in ruoli di scarso rilievo. A diciassette anni, però, quando parti col tenente americano Douglas Wilmeth come sposa di guerra, ella vide chiudersi definitivamente il sipario sui suoi sogni artistici. A S. Francisco, pur di non restare inoperosa, prese la rappresentanza di una ditta di cosmetici. Un giorno andò a vendere cosmetici a una compagnia teatrale delle "Duncan Sisters", già note ai tempi del "muto” e divenute poi famose impresarie di commedie musicali a Broadway. Nicla piacque alle Duncan, che le offrirono una parte nella commedia musicale "Curtain time". Il marito non si oppose, e cosi la ragazza, che nel frattempo aveva assunto il nome d’arte di Nicla Di Bruno, debuttò come seconda " soubrette”. Una rivelazione. Un trionfo che la proiettò subito sulle scene di Broadway. Fra i primi che, la sera del debutto, invasero il suo camerino per felicitarsi, vi fu Gene Kelly, che allora già si avviava risoluto verso la celebrità.
Dotata d’una comicità spontanea, ricca di personalità. Nicla Di Bruno si rivelava a vent'anni attrice, cantante e danzatrice di straordinario temperamento. Secondo i dati statistici di un’agenzia di Los Angeles, è stata segnalata come la straniera che nel 1951 ha fatto più strada nel mondo teatrale americano. La televisione se l’accaparrò presto come stella di prima grandezza e negli ultimi tempi del suo soggiorno in America ha preso parte a tre film (che vedremo presto) a fianco di ottimi attori, quali Spencer Tracy, Tony Martin, Ann Blythe, ecc. Tornata recentemente in Italia per concedersi una vacanza di pochi mesi e per rivedere la famiglia, non ha saputo resistere alla tentazione di calcare anche qui le tavole del palcoscenico, ed è stata scritturata da Macario, lo scopritore delle nostre "soubrettes" più brillanti, che si accinge a lanciarla nella nuova rivista "Pericolo rosa".
V. R., «Tempo», 1952
Macario e la vacca a spasso per Parigi
Parigi, maggio
Il francese di Erminio Macario, uno dei beniamini tra i camici italiani d’oggi, è ormai così impeccabile che un parigino non oserebbe attribuirgli una nazionalità diversa da quella francese. Dopo tanti mesi di permanenza in Francia era fatale che ciò dovesse accadere. Macario, sempre con quella sua aria di monello svagato che lo ha reso celebre, sempre con quel suo desiderio di vagare per il mondo, non esitò ad accettare l’offerta che la Compagnie Cinematographique de France gli prospettava, per girare un grande film comico in terra di Francia. Così Macario arrivò a Parigi, ed il suo ricciolo sbarazzino contribuì a far sì che decine di ammiratori, che pochi giorni prima lo avevano visto in «Sette anni di guai», lo assalissero affettuosamente pretendendo da lui autografi su autografi. Fortunatamente venne poi la parentesi «campagnola» : la «troupe» di «Io, mia moglie e la vacca» — questo era infatti il film di cui Macario sarebbe stato il protagonista e che Jean Devaivre avrebbe diretto — si trasferì armi e bagagli a Die, nel Sud della Francia, per girare gran parte del film.
«Io, mia moglie e la vacca» narra, con l’arguzia che caratterizza tutte le opere di Devaivre, le avventure di un contadino italiano trapiantatosi in Francia, che vive tranquillo con la sua mogliettina, una parigina tutto pepe, sino al giorno in cui questa non lo abbandona per tornarsene nella sua Parigi. E Mario, cioè Macario, parte all’inseguimento, senza accorgersi che sul camion di cui si serve per raggiungere la città della torre Eifeì, è anche Perlette, una splendida vacca che sarà causa di mille avventure per il contadi-nello alla ricerca della sua amata metà. Il comico italiano, soddisfattissimo di un regista come Devaivre, ha dato in questo film il meglio di se stesso e nella corsa per Parigi, con la fida Perlette, ha scritto una delle più belle pagine del cinema comico di oggi.
Se a fianco di Macario lavorano tutti i più bei nomi della cinematografia francese del genere comico, da Dinam ad Annette Poivre, da Irene Corday ad Arlette Poirier, non senza il valoroso Carlo Rizzo, che non ha voluto abbandonare Macario, con il quale ha lavorato centinaia di volte, vi era anche un’attrice con la quale non sempre si riusciva ad andare d’accordo, ed era la più indisciplinata di tutti. Naturalmente era Perlette, la vacca di classe, che nel bel mezzo di una scena si metteva a muggire senza che ciò fosse richiesto dal copione, se ne andava tranquillamente fuori campo, e regolarmente «impanava», cioè copriva con la sua mole qualcuno degli attori. Nessuna vacca, però, è stata mai tanto fotogenica quanto Perlette, e così Devaivre ha dovuto spesso perdonare e pazientare. Ciò è dovuto alle grandi attrici! Senza contare poi che il legittimo proprietario del campione bovino ha preteso che in alcune scene particolarmente pericolose per Perlette, si usasse, in sua vece, una controfigura. Figurarsi dunque che gioia dover avere a che fare con due vacche invece che con una. In complesso però Macario ha finito per affezionarsi alla buona Perlette e se l’è goduta un mondo a passeggiare per Parigi al suo fianco.
«Il Piccolo di Trieste», 30 maggio 1952
Come tutti sanno, generalmente gli autori di rivista vengono prelevati dal quadri dei giornali umoristici. Da un pò ai tempo si nota, poi, una notevole affluenza di autori radiofonici, Salta immediatamente agli occhi che costoro non ritengono sufflcente il sistema di sicurezza escogitato dal loro predecessori che lavorano sempre in coppia, perchè uno possa sorvegliare le spalle all’altro. I revuistes radiofonici sono sempre in tre, evidentemente per darsi il cambio e fare la guardia quando gli altri dormono, scherzo, come è chiaro. So benissimo, infatti, che per produrre le opere che siamo abituati a vedere, sono necessarie tre persone almeno. Ma veniamo a noi. Un esame critico del copione di Pericolo rosa, firmato da Rovi, Puntoni, Verde e presentato da Macario al Quirino con lieto esito, non è facilissimo, data l'estrema esilità del medesimo. Ma uno spettacolo presentato da Macario data la personalità dell’attore e uomo di teatro torinese, è sempre uno spettacolo di «Macario, con delle caratteristiche, con uno stile, con delle impostazioni ben definite. Mi occuperò quindi della cosa più seria di cui ci sia da occuparci e cioè di Macario stesso.
Le riviste di Macario sono angoli di un mondo che ha una consistenza, E’ un mondo fiabesco e infantile, dipinto a colori tenui, nel quale la vita è facile e spensierata, lontana come il pianeta, più lontano dai frenetici contrasti di quella reale. E un mondo a sole due dimensioni come quello dei cartoni animati, popolato di uomini che possono essere bruschi ma non sono mai cattivi e, sopra tutto, brulicante di fanciulline paffutelle e cinguettanti. Ho già rilevato, credo, l'Importanza ohe ha per Macario l'elemento femminile. La preponderanza che hanno nei suoi spettacoli le donnine i doppi sensi su cui basa molti dei suoi effetti comici, le stesse situazioni in cui si. trovano i suoi personaggi, partono tutte da un’esigenza precisa che va oltre il semplice calcolo spettacolare. Non ho bisogno qui di scomodare ombre illustri in letteratura e in pittura per vedere che anche da questa esigenza è nata e può nascere la poesìa. Quanto alle «donnine», Macario è riuscito persino a creare un tipo femminile ben preciso al quale sembrano misteriosamente adeguarsi tutte le ragazze che entrano nelle sue compagnie e che conservano poi lungamente anche quando ne sono uscite. Di loro, il regista Macario si serve come di un vero e proprio «coro «che fa da sfondo da contrappunto e qualche volta anche da personaggio. Sono me-rriorabili, ad esempio, certi suoi colloqui con le subrettine in passerella. Comunque, questi strani animaletti femminili, bruni, rossi, biondi, che sembrano creati artificialmente dal mago Macario sono le truppe d’assalto di ogni spettacolo e gettano immediatamente mille fili dal palcoscenico ìn platea, la quale sembra progressivamente venirne invaso. Cosi capita, quando si esce, di guardarsi nelle tasche o nei risvolti della giacca con la segreta speranza di trovarne qualcuno Isolato e disperso,
Non direi che di questo mondo macariano, nello spettacolo di cui cl stiamo occupando, sia stata data una rappresentazione molto vivace. Se ne trovano tracce forse più che nel garbato ma troppo tenue copione, nelle scene di Maiorana tutte piene di fantasia e di spirito, in alcuni costumi di Soldati, realizzati da Annamaria, ed in qualche trovata coreografica dì Mady Obolensky che tuttavia mi era sembrata più a suo agio In Tarantella napoletana. Il fatto è che da qualche anno Macario, il quale sembra ossessionato dal personaggio dì Amleto, dà l'impressione di essersi isolato sul più alto torrione del suo castello per ripetere a se stesso l'eterno monologo! E’ evidente che egli ha molti dubbi sull'indirizzo che segue attualmente la rivista italiana e Dio sa se non ci siano motivi sufficienti per averne. Così, fidando nelle solide mura del suo diabolico mestiere e nello serratura ermetica del proprio prestigio, se ne sta per conto suo, fuori della ridda infernale dei quaranta milioni per spettacolo» delle scene in oro zecchino, delle pellicce di visone bianco, dei venti boys americani, delle soubrettes angloiberoportoghesi. Sembra che aspetti. Non bisogna dimenticare che Macario è sempre stato uno del più efficaci sostenitori dello spettacolo basato essenzialmente su di un copione scritto e valido di per sò stesso, con una trama e del personaggi conseguenti, nè che è stato uno dei primi che ha, e ripetutamente, cercato di avvicinare alla rivista uomini di un livello culturale superiore a quello abituale. Non bisogna dimenticare soprattutto che egli ha sempre cercato di approfondire il proprio personaggio, di svilupparne gli aspetti poetici, di dargli una sostanza che vada oltre la comicità istrionica. Ma. appunto per questo, mi sembra tempo di porre termine alla sua attuale posiziono di dubbio e di attesa. Del resto, ormai, il ciclo che potremmo chiamare formalistico della rivista italiana ho già iniziato la sua parabola discendente. Le conquiste non indifferenti che ad esso vanno attribuite sono oggi un patrimonio comune e sarebbe errato negarlo. Ma gli aspetti negativi cominciano a venire Individuati da tutti.
Credo sia ora per Macario di scendere dal torrione, impugnare la spada e gettarsi nella mischia con tutta la sua energia. Fra l'altro, l’applauso interminabile che ha accolto il suo ingresso in palcoscenico, dopo due anni di assenza da Roma dovrebbe confortarlo sull'ampiezza e sulla fedeltà del proprio seguito. Parlare di Macario senza parlare subita di Carlo Rizzo, cosi personale, preciso, pieno di mille risorse, sarebbe imperdonabile. I due attori sono ormai una cosa sola, uno dei più solidi ménage della rivista italiana. Il cast femminile non è molto nutrito ma saporoso.
Marina Doge è già pacificamente riconosciuta come ano degli elementi più preziosi lasciti dai ranghi, negli ultimi anni ed io non posso che constatarlo di nuovo. Adesso è in piena forma e canta e balla per quattro. Recita poi con un certo spirilo, ma sopratutto «recita» nel senso che molte sue colleghe non hanno ancora uff errato perfettamente. Resiste per esemplo alla tentazione di restare voltata al pubblico anche quando deve dire le sue battute a qualcuno che le sta alle spalle. Se rinuncerà a pronunciare la parola «mistero» con la «e» stretta, le nostre relazioni non saranno oscurate da nessuna nube.
Quanto a Nicla di Bruno, che mi assicurano reduce da una fortunata tournée all'estero, è un donnino fornito di molteplici qualità, Assomiglia vagamente a Susan Hayward (o Susan Hayward assomiglia a lei, secondo i casi), appare evidentemente fornita di un vivace temperamento e canta gradevolmente in italiano, francese, inglese e spagnolo. Deploro solo il fatto, non so a chi imputabile, che canti ostinandosi ad alternare le quattro lingue. Queste cose, che dovrebbero suggerire l’idea di una intensa personalità cosmopolita, in pratica, non so perchè, suggeriscono Invece solo l’idea di un sudato e provinciale diploma della Berlitz School.
Flora Lillo è straordinariamente bellina, ma nel senso in cui sanno esserlo solo le migliori esponenti del palcoscenico di rivista, quelle cioè che uniscono alle doti naturali quelle artificiali, create dalla proprie intelligenza c dal proprio gusto. Mi sembra, che per lei si tratti ora di indirizzare il proprio temperamento su una linea di forza, come il suo stesso tipo suggerisce, più che di grazia,. nella quale c’è sempre il pericolo della leziosaggine. Mi piacerebbe, comunque, vederla in un ruolo più impegnativo. Il problema del mezzogiorno ha in Vera Nandi una delle sue mille diramazioni, Come avevo osservato per Tarantella napoletana, gli attori napoletani quando sono insieme sono inarrivabili, quando vengono adoperati per dare uno nota di colore riescono spesso fastidiosi. Comunque, nel caso specifico, la Nandi è sempre una brava e simpatica attrice. Un lieto esito ha avuto il debutto in rivista della giovanissima danzatrice classica Franca Maraldi che ha divìso con il suo ottimo partner Ennio Sammartino un lusinghiero successo. Bruno Gerri è molto simpatico, recita con disinvoltura e soprattutto canta da uomo, il che in questi tempi è già molto.
Un personale e meritato successo ha ottenuto il trio Chiesa. Delle molte e cospicue ragazze che popolano il complesso, ricordo particolarmente la vivace e fascinosa Jolanda Pltschiller, la bella Annie Celli, le ormai popolari Livia Rezin e Lucia Folli, e Rica Pereno, Greta Kolbe, Elizabeth Jill oltre; complessivamente, al balletto Rosengarten. Le musiche, alcune delle quali particolarmente orecchiabili, sono dovute al maestro Ferruccio Martinelli.
Sergio Sollima, «Film d'oggi», 3 dicembre 1952
Anche senza donnine Macario è bravo
Macario è di quelli che hanno «recitato sulle botti». Caro linguaggio dei guitti d’una volta. Recitare sulle botti voleva dire appartenere alla più estrema periferia del teatro; lavorare sulle piazze e in fondo ai cortili; nelle squallide salette degli oratori e nei giardinetti delle trattorie di paese; sapere a memoria tutte le parti di tutti i drammoni del cosiddetto teatro popolare di quaranta^ cinquantanni fa, dal «Vetturale del Moncenisio» al «Cardinale Giovanni de Medici» ovvero «Il segreto della confessione», da «Le due orfanelle» a «Una causa celebre», da «La ìnorte civile» al «Vecchio Caporale Simon»; con annesso, naturalmente, per lo meno, un «Amleto», per lo meno una «Cena delle beffe» e, così all'ingrosso, qualche «Beffardo».
Macario ha fatto per alcuni anni questa vita, la vita del guitto sulle botti. Non lo circondavano, allora, le famose donnine in biondo, ebano e rosa: con lui e i suoi compagni di alloi'a c'erano quelle attrici tuttofare che sapevano mettersi ii grembiule della massaia e far bollire sulle vecchie «Primius» a petrolio l'acqua per gli spaghetti - quando gli spaghetti c'erano - e la sera indossavano, con la stessa domestica naturalezza, il costume di Ofelia o l'abito da sposa di Clara di Beaulieau o le serpigne «toilettes» di Atenaide di Bligny nel giardino di carta del terzo atto del «Padrone delle Ferriere»: quelle attrici che con una parola di gergo, affettuosa, irrispettosa e insieme cordiale/ venivano dette «le sfangone». Bene, Macario ha imparato a recitare dai guitti e dalle «sfangone». Anche per questo, adesso, è un attore. Di tutti i comici che girano per le ribalte del cosiddetto teatro minore, - Totò a parte, che d'altronde è ormai definitivamente prigioniero nella gabbia dorata del cinema - Macario è senza dubbio il più attore. E adesso, chissà che succederà. Comunque, ripetiamo: è il più attore; basta ascoltare certe sue intonazioni di fondo. I lazzi, la cosiddetta vis comica qui non c'entrano; essi sono quello che sono e parrebbe inutile, qui, ri
metterli in discussione; caso mai non si potrebbe che applaudirli una volta di più. Ma, come l'alberatura di un brigantino, la comicità di Macario sta su, gonfia nei fiocchi e nei pappafichi di un umorismo stupefatto e dissociato, proprio perché è infissa sulla solida tolda di quel suo essere attore, con tutti i toni, le misure e i gesti a posto.
Il suo rientro a Milano, con la rivista di Rovi, Puntoni e Verde, «Pericolo rosa», è stato dunque brillantissimo. «Pericolo rosa» è una graziosa rivista, con un lungo anche se poco aggrovigliato filo conduttore; secondo noi, tiene della commedia musicale assai più che altre riviste, pomposamente annunciate come le inauguratrici di quel genere nuovo e vecchissimo. Non ci siamo ancora, ci si intenda; siamo ancora nel genere rivista, siamo ancora al trionfo delle coreografie, dei costumi e delle donnine; ma larga parte è lasciata ai dialoghi, alla comicità discorsiva e d'intreccio, perché qualche situazione, alla fine, c'è.
Accanto a Macario, immancabile e simpaticone c'è sempre Carlo Rizzo, con quei suoi baffetti triangolari, bonari e moschettieri, e quel suo lavoro prezioso di grande gregario. Acquaiolo della rivista, come ci sono gli acquaioli del ciclismo; con una pedalata disinvolta e rotonda, porta al capo-squadra borracce e borracce di battute, di comicità, di «gags»: perché il caposquadra possa a suo agio sturarle e versarne il gaio contenuto fra l'ilarità delle platee. Poi ci sono Nicla di Bruno, che canta in tre o quattro lingue, è elegante e carina; Flora Lillo, flessuosa, sofisticata (e procace, come dicono i recensori in secca d'aggettivi) e Marina Doge, il classico argento vivo. Vera Nandi rifà con garbo la Mangini (la Mangini della rivista, non la mordente Mangini del cinema, per esempio della «Provinciale») e Bruno Gerri canta, canta, canta. Musiche e adattamenti di Ferruccio Martinelli e coreografie di Mady Obolensky. Il nome è slavo ma le coreografie sono di stile occidentale.
Roberto De Monticelli, «Epoca», anno IV, n.127, 14 marzo 1953
Macario e Wanda made in Italy
Gli aggettivi non bastano più. I superlativi sembrano ormai fiocchetti stinti appuntati sulla gran veste del successo. Per i prossimi spettacoli di Wanda Osiris (se ve ne saranno, con quelle voci che corrono di un prossimo matrimonio) bisognerà attingere al dizionario tecnico: applausi atomici, all’idrogeno, al cobalto. I giovanotti e le ragazze, anche quelli che ai tempi di Follie d’America si succhiavano il pollice, hanno per questa nostra diva del varietà una commovente venerazione. La sera della "prima" nel ripulito teatro Nuovo di Milano, di Made in Italy si son viste centinaia di giovani catapultati dal loro recinto bohemienne di «ingressi in piedi», verso il palcoscenico. Un gran mazzo di rose rosse passò di mano in mano, come una fiaccola di Maratona finché raggiunse la passerella. . Un giovanotto afferrò la mano dell’Osiris e la baciò; poi attirò a se l’attrice quasi soffocandola in un abbraccio impetuoso. Un altro ragazzo saltò sulla passerella, chiese silenzio alla platea urlante e iniziò un discorso «a nome del pubblico tutto». Gli applausi lo fecero chetare ma non desistere; il ragazzo si rifugiò in palcoscenico e sfilò, poi con baldanza, confuso tra gli ancheggianti boys e le austere Bluebelles, tra autori e scenografi, costumisti e musicisti, elettricisti e coreografi, a raccogliere l'nterminabile ovazione.
Gli storici del costume, un giorno, potranno anche sfruttare questi episodi per dare un ritratto del nostro tempo. E chissà come i posteri ci giudicheranno. Ma un cronista deve notare e riferire; avere la freddezza della macchina fotografica. Tuttavia se il cronista avesse potuto usufruire di un obiettivo capace di insinuarsi nell’animo dei protagonisti, sarebbe ora in grado di rivelare un piccolo episodio, quasi una sfumatura, che forse, avrà la sua importanza nella storia futura del teatro minore: l'afferma-zione di Dorian Gray. Qualsiasi riferimento al personaggio dì Oscar Wilde è puramente casuale e del tutto involontario per la erudita subrettina. Dorian, al secolo Marisa, è una affascinante ragazza che ha molte «rivalialità» e parecchi meriti; non ultimo quello di saper recitare con disinvoltura; non ultimissimi quelli di cantare con una voce molto sexy e di muoversi come una felpata gattina. Davvero uno spettacolo vederla e sentirla. L'ambizione deve essere una molla abbastanza compressa nel carattere di questa ragazza. Guai a sganciarla. È bastato vedere come abbia indugiato per passare dopo un attore più anziano, nella parata finale, e camminare poi a due metri da Macario. Un piccolo intelligente strattagemma per prendersi qualche spruzzo degli applausi rivolti ai due maggiori. Una certa rassomiglianza tra Dorian e Anne Baxter (la stessa frangetta, lo stesso naso a patatina, la stessa languida furberia negli occhi) ha fatto poi ricordare con insistenza la morale di Èva contro Èva. Forse abbiamo visto la prima immagine di un tentativo per scalzare la Bette Davis del nostro varietà. Del resto il teatro minore italiano è così povero di prime donne che il sorgere di una nuova stella deve essere salutato cordialmente.
Made in Italy, il primo spettacolo allestito quest'anno dalla «Errepi», ha riunito dopo un lungo distacco Wanda Osiris e Macario. Una bella prodezza. Ci si aspettava, però, che l'urto provocasse la scintilla per dar fuoco al gran falò delle risate. La cronaca, purtroppo, ha registrato soltanto sorrisi. La causa va cercata nel particolare «linguaggio» degli autori, Giovannini e Garinei, i quali, abituati da anni a creare spettacoli eleganti, raflinati e lieti per la Osiris, si sono trovati, evidentemente, impacciati davanti alle necessità di Macario. Il comico ha una sua tradizione; in ventìcinque anni di palcoscenico ha costruito un suo personaggio: appunto quello che è assente in Made in Italy. Addio ricciolo tirabaci, guance rubizze, occhi spalancati sull'impennata di una battuta. Abbiamo visto un Macario «pulito» ma in tono minore. Si è imposto perché ha così incredibili capacità d’attore, una carica così intensa di umorismo da sopravvivere anche a un copione con poche risorse comiche. Il pubblico ha gradito la sua strabiliante creazione di Malenkov, i suoi sospirati «cerea» e, soprattutto, la nostalgica e patetica rievocazione della «belle epoque» con la debuttante Wanda. Una confessione tutta a fior di labbra; un pizzico di De Amicis nel frenetico modernismo del boogie-woogie.
Lo spettacolo, lo abbiamo detto, era immaginato per la Wanda e la illustre Signora ha sceso la stupenda scalinata di piazza di Spagna con la grazia di una eroina dannunziana; ha commemorato Goldoni con il garbo malizioso di Mirandolina; ha cantato le sue canzoni e ha offerto le consuete rose alle signore in poltrona, con inimitabile grazia. Ha sfoggiato persino una orchidea lilla. Chi conosce la superstizione della gente di teatro per i colori che sfumano nel viola, capisce il gesto.
| Non sempre perfette sono apparse le coreografie. Dino Solari sembra aver curato particolarmente i movimenti dei ballerini trascurando le Bluebelles. Non abbiamo ritrovato l'istinto e il calore che Don Arden aveva chiesto a quei corpi magnifici. La ballerina Kiki Urbani (un po' ingrassata, vero?) ha ricopiato in bella scrittura le sue danze, ricordo del Teatro dell’Opera. Peccato che l’orgoglio le abbia inibito, la sera della prima, di esibirsi nella «presentazione» dell'Osiris. Alle prove era andata così bene. E il bravo Rizzo? Sempre cordiale, sempre bravo, n tempo scivola senza far presa, sui suoi capelli, sui suoi baffi, sulla sua comicità d'appoggio. Molto bene anche Alberto Lionello, attore sicuro. Meravigliosi i costumi di Folco. Parecchie signore dell'high life prendevano frenetici appunti per ricordare poi, nei sogni di questo caldo autunno, una sfumatura di colore, la linea di ima gonna. Pittoresche le scene di Garetto e Pompei; dinamica la musica di Kramer. Un grande successo, d'accordo. Ma se il pubblico avesse avuto anche qualche occasione per ridere?
Vice, «Epoca», anno IV, n.154, 13 settembre 1953
Macario sembra proprio deciso a lasciare la rivista per la prosa
Ormai trent'anni di passarella. Macario sembra proprio deciso a lasciare la rivista per la prosa. Coronerà così una carriera di successi della quale era allegramente sicuro fin da quando, in una compagnia di guitti, aveva il duplice incarico di recitare come amoroso e di battere il tamburo all’ingresso per richiamare il pubblico.
Dopo trent’anni di passerella, Macario sembra deciso «ma l’ultima parola non è ancor detta» a «divorziare» dalla rivista, al termine di una lunga vita matrimoniale. che per il comico non è stata certo priva di soddisfazioni. Macario vuole divorziare per tornare fra le braccia dei suo antico, non dimenticato amore: la prosa. Un amore tenace perchè amore degli anni verdi. La primavera scorsa, a Torino, Macario si è riavvicinato alla prosa con l’entusiasmo di un ventenne, di un collegiale al primo appuntamento, o Volevo provare — aveva detto dopo la "prima" de Il coniglio — se potevo Iniziare un nuovo colloquio col pubblico, se Macario era soltanto destinato al teatro tennero. La prova ha avuto un esito meraviglioso. Macario aveva qualcosa da dire anche fuori dal regno della passerella. E il pubblico mi acclamò, e lo non potei nascondere la mia commozione, come un ragazzetto debuttante».
Dunque, tutto deciso? Macario farà soltanto prosa a cominciare dalla prossima stagione? Parrebbe di sì. benché sia necessario attendere conferma. Sul finire del secondo tempo della rivista «Tutte donne meno io» par quasi che Macario interpreti un commosso addio alla passerella. Sul palcoscenico immerso nell'oscurità, la luce del riflettore inquadra la flguretta del comico In vena di ricordi. Macario rivede le sue donnine del passato, stelle e «soubrettine». Quante? Chi lo può dire? Per molte c’è stata la gioia del successo, del nome grande cosi nelle «luminose», del favolosi contratti, ma molte altre, forse le più, erano ripiombate subito nel grigiore dal quale erano emerse grazie a un colpo di fortuna. Ma una. sopra tutte. Macario ricorda. con le lagrime agli occhi. lagrime vere, beninteso, non lagrime «professionali» per la platea. E fa un nome mentre il riflettore insegue i suoi sogni, quello di Isa Bluette, la grande stella dell’altro dopoguerra.
Macario non può dimenticare Isa Bluette, morta repentinamente nel 1939. perchè Isa Bluette significò il successo di Macario. Ecco, andò cosi. Si era nel 1924. Macario era all’Eden di Milano, nella compagnia Mazzucato-Rota: non era un oscuro, ma ancora non aveva fatto, come suol dirsi, breccia. Il suo non era ancora un nome di richiamo. Una sera, in camerino, un «servo di scena» gli portò un telegramma. Macario, davanti allo specchio, stava ultimando il trucco : si era fissato la puntina rossa sul naso, stava arrossandosi i pomelli. Un telegramma era un avvenimento per lui. Allora ne riceveva pochi. Lo aperse e le mani gli tremavano. Intuiva che molto del suo avvenire di attore dipendeva dal contenuto di quel foglio giallo «Mi raggiunga immediatamente a Modena. Cordialità. Teresa Ferrero».
L’invito della Bluette
Macario si sedette sullo sgabello, come fulminato. Teresa Ferrero, alias Isa Bluette, la più famosa diva della rivista, lo voleva con sé, nella sua compagnia. Era un sogno che nemmeno si era arrischiato a concepire. L’Invito di Isa Bluette — che Nuto Navarrini sposò in punto di morte a Torino — ripagava Macario di tutta la vita grama, della miseria che l’aveva assillato, tormentato da quando aveva lasciato la casa patema a Torino per seguire una compagnia di guitti. La vocazione per il teatro gli era nata negli anni di collegio. Era il 1912. e Macario era uno degli «interni» del collegio Valdocco di Torino. Fra i ragazzi era nata l’idea di far delle recite: si improvvisò capocomico il parrucchiere del collegio, certo Merlin. Macario ebbe la parte del protagonista in un drammone cruento. «Il sacrificio di un innocente», Lasciato il collegio. Macario cominciò resistenza nomade del guitto, battendo le campagne del Piemonte e della Lombardia, improvvisando nelle borgate recito per un piatto di minestra. Il repertorio di Camillo Salvetti, il primo capocomico di Macario, era impegnativo, addirittura pesante. Salvetti, ai villici del basso Pavese, sciorinava drammi della forza di Morte civile Cavalleria rusticana, Il conte di Montecristo, La signora dalle camelie. Con Salvetti, lui, Macario faceva l‘«amoroso», l’attor giovane alla cui seduzione nessuno poteva resistere. Oltre che l’«amoroso», Macario era anche il pittore della compagnia: doveva comporre il manifesto al nerofumo, che nel pomeriggio veniva collocato all'ingresso delle cooperative dei paesi. La paga che Salvetti gli passava era di quattro lire al giorno, che il capocomico tratteneva perchè doveva mantenere il suo attore, vitto e alloggio. I trasferimenti da un paese all’altro avvenivano in barroccio. O meglio, in barroccio ci andavano soltanto i familiari di Salvetti: Macario, essendo il più giovane, doveva seguire a piedi il veicolo, mentre Salvetti era un’avanguardia in bicicletta.
Un film sui suoi ricordi
Durante un giro nel Polesine, con trasferimenti per via fluviale, Macario, oltre a dipingere i cartelloni, fu incaricato di battere il tamburo per richiamare la gente, o di premere per mezz’ora una tromba d’auto davanti al teatrino, impiantato magari in una stalla. «Suonavo la tromba, e sognavo. Vedevo chiaramente il mio avvenire. Grandi teatri, platee vere, e il mio nome celebre, e la gente che mi additava per strada. Non mi sono mai perso d’animo. Sapevo che sarei riuscito». Della vita di guitto a Macario è rimasto un doloroso rimpianto. Ecco, la vita randagia era brutta, e i sacrifici erano troppi. Però non aveva ancora vent’anni, e una valigia di sogni ancor chiusa. Ecco perchè, ora che è un attore arrivato, un «commendatore», Macario vuole rivivere quella vita in un film che verrà girato nella Pianura Padana: «Gli ultimi guitti». Vi prenderà parte anche Vittorio De Sica.
Nel 1923, addio Salvetti! Macario fu scritturato da Molasso: si impose all’attenzione degli «aficionados» interpretando le macchiette di un vecchio gagà, di un marito tradito e di un guardiano dell'harem; qualche mese dopo, era al fianco di un’altra vedette dell’epoca, Titina Cocchi. Poi, cominciò la scalata al successo con Isa Bluette nella rivista «La valigia delle Indie».
Nel 1934, in un camerino del Reale di Milano Macario ricevette una visita inaspettata, quella di Ettore Petrolini. Macario lo guardò a lungo con i suoi occhi sonnacchiosi e stupiti (la sua maschera tradizionale, forse l’ultima maschera del teatro italiano), senza parlare. Parlò per primo Petrolini, che gli disse pressappoco cosi: «Sei rimasto piemontese. Fai bene. Mai rinnegare la propria origine. Ma perchè metti la parrucca e il naso fìnto? Con una faccia come la tua, anche senza trucco si fa ridere».
Quante «soubrette»» ha lasciato Macario nella sua trentennale carriera? Ricordiamo qualche nome. Ecco quello di Wanda Osiris, figlia di un piemontese e di una romana, nata a Roma, cresciuta a Milano, che Macario tenne a battesimo al teatro Eden. La futura «Wandissima» non aveva che quindici anni: doveva prender parte a un duetto, e non stava ferma per l’emozione. E poi tante altre: Hilde Spingher, Lina Gennari, Lily Granado, Marisa Marasca, Olga Villi, Lea Padovani, Marisa Merlini, Iride Benelli, Isa Barzizza. Per arrivare alle ultime «leve» con Lauretta Masiero, Flora Lillo e la sua attuale «partner», Carla Del Poggio.
I complimenti degli Schwarz
«Madama Follia» è la rivista che vide impegnato Macario nel 1927. Al Lirico, nel corso delle repliche, Macario fu costretto a cambiare compagnia. Disse all'impresario, preoccupatissimo: «All'Apollo c’è un giovanotto che fa delle macchiette divertenti. E’ l’unico che possa sostituirmi. E' un attore che sicuramente farà strada». Quel giovanotto era Totò.
Ora, a cinquantanni suonati, il «commendator» Macario è giudicato a buon diritto il creatore della rivista italiana: fu lui che impose al vecchio varietà quell’ampio respiro che doveva significare la nascita della rivista, come oggi si intende. E fu nel 1934 che Macario cominciò la serie del suoi spettacoli «ad alto livello», scritturando a Vienna sedici girls, col preciso scopo di rivaleggiare col celebri Schwarz. Alla prima della rivista, all’Olimpia di Milano, Macario fu complimentato da un'infinità di persone. Ma oggi ricorda soltanto le parole di approvazione dei famosi fratelli austriaci, che avevano prenotato due poltrone in seconda fila.
Luigi Barbara, «Corriere della Sera», 14 dicembre 1954
MACARIO E CHIARI. Nel giro di due sere, a Milano, da una parte Macario e dall'altra Walter Chiari; come dire la stabile tradizione contro l'irrequieta ricérca della novità: un confronto non facile e, nel caso in questione, combattuto poi ad armi impari, poiché il copione di Tutte donne meno io non è nemmeno lontanamente confrontabile con quello dei saltimbanchi. Insomma. Chiari ha corso su una Ferrari e Macario, tutt'al più, su una vecchia Bugatti. Ma non era di una gara che si voleva parlare; piuttosto di un'antitesi che si è presentata, sui due palcoscenici milanesi, nei suoi termini opposti. Macario è la tradizione, una scuola. il remoto ricordo dei guitti di una giovinezza raminga e, alla sua maniera, romantica; Chiari è l'improvvisazione e l'anti-tradizione, un po' di goliardia, qualche scintilla pazza e perciò stesso estrosa, un temperamento-fiume.
Macario è assai più attore di Chiari, nel senso tradizionale della parola; Macario conosce i toni, i sottotoni, le pause; non ha segreti per lui l'arte delle grimacca, la mimica che fa, di una maschera come quella che egli interpreta da anni, un cangiante personaggio teatrale. Chiari non recita ma parla; è sulla scena come nella vita, irruento, polemico, fragoroso e fanciullesco. Macario nella vita è un tranquillo signore in doppio petto che parla con pacata nostalgia degli attori, di prosa, del tempo che fu; la figura di Chiarì si confonde con quelle d'una serie di giovani del nostro tempo, un po’ sovraeccitati, tirati a mille giri, ma che magari s'arrestano di colpo, tac, chi sa perché, una molla s'è rotta o semplicemente hanno trovato una ragazza che li ha portati alTnltare; di costoro Chiari interpreta assai bene il linguaggio aspro e insieme barocco, infantile e paradossale. Dunque, per Macario, non c'è niente do fare, ci vuole uno spettacolo costruito secondo le dimensioni normali. Per Chiari va bene lo spettacolo-rivoluzione.
Il fatto è che spettacolo normale non vuol dire la povertà di copione di Tutte donne meno io. Lo spunto, si sa, era ottimo; era una idea che Macario rigirava dentro di sé da parecchio tempo, quella di presentare uno spettacolo in cui l'unico uomo fosse lui e, intorno, tutte donne; un'idea che fa parte anche di quella sua galante funzione di Diogene della passerella, sempre in cerca di belle donnine da lanciare. Ed era un'idea anche quella di mettergli accanto Carla Del Poggio. Soltanto, sia per lui sia per lei. I due autori, Scarnicci e Tarabusi, non hanno trovato i quadri tipici, funzionali; hanno tratto Macario fuori dalla sua maschera di tonto candido e furbo, ma i nuovi personaggi che egli interpreta non sono al centro di situazioni irresistibili, né originali; e reggono solo per il mimetismo intelligente di questo dotatissimo comico, che è riuscito a dare, per esempio, una nota nuova, fatta di astuzia sorniona, a un personaggio secolare come quello del vieux marchcur. Quanto a Carla Del Poggio, dopo la presentazione. Indovinatissima, che cosa le hanno offerto, i due autori? Assai poco, per la verità. E si che, elegante, pepata e nervosa, la Del Poggio ha dimostrato di avere brio, disinvoltura, una certa vocazione persino; di potere, insomma, diventare un'ottima soubrette. Lo spettacolo, dicono, è stato ora rinsanguato e in parte modificato; è stato chiamuto a collaborarvi, dicono, quell'abile cerusico del cosiddetto teatro minore che è Marcello Marchesi. Dunque, una rivista da rivedere e tonti auguri. Non bastano infatti un titolo, delle buone coreografie e le canzoni di Amru Sani, per fare uno spettacolo.
A Walter Chiari, invece, è andata bene. Ed è andata bene perché, dopo la troppo polemica Controcorrente dell'anno scorso, egli ha trovato la giusta misura, la via di mezzo tra spettacolo e contenuto, fra quel po’ d'apparenza che pur cl vuole, e la sostanza comica, che è fondamentale. Cosi, lontano dall'accentuuto e un po' duretto e talvolta sgradevole broncio satirico dei Fo-Durano-Parenti e dall'intellettualismo amarognolo dei Gobbi, s'è rifatto, in fondo, a quelle che furon le origini della rivista in Italia, dai tempi di Turlupineide a quelli di Zabum: cioè, molta prosa, molte idee, un certo sprezzo del conformismo, senza tuttavia pestar troppo sui piedi alle platee, ché tanto alle prediche fatte dai quei frivoli pulpiti nessuno cl crede; e un intelligente impiego degli attori del teutro maggiore. Il tutto, entro una cornice da rivista, naturalmente. Cosi, Aroldo Tieri e Liliana Tellini - il primo, forse, un po’ sacrificato - portano allo spettacolo una nota particolare, si concedono all'ironia di se stessi, il che è piuttosto divertente, considerato il fatto che, per esempio, Tieri è uno dei migliori primi attori di cui il teatro italiano possa disporre. E cosi, ugualmente funzionali sono Enzo Turco, Franco Scandurra, Antonella Steni e tutti gli altri, dalla coreografa Gisa Geert ai danzatori Jerome Johnson, Wilbert Bradley e Julie Robinson. E poi c'è lui, Walter. Un Walter finalmente equilibrato, non proprio traboccante. E un testo, c’è, che ha persino qualche pretesa lette raria. Complimenti.
R.D.M., «Epoca», 1954
B.G. Lingua, «Gazzetta del Popolo», 30 settembre 1957
Macario, vent'anni dopo
Il comico piemontese ha riesumato la sua rivista più fortunata del primo dopoguerra per riproporla agli spettatori come alternativa alla commedia musicale - «Febbre Azzurra ’65» naviga col vento in poppa al teatro Sistina di Roma
Roma, 21 settembre.
E' facile indovinare che Macario non vede l'oro di portare le sue «donnine» a Milano. Non che i rormani ne siano rimasti indifferenti, intendiamoci: c’è una Paola Penni che più svestita di cosi non si potrebbe immaginare e tutto lo spettacolo è una festa per eli sguardi maschili. Però, il milanese ha fama d’essere un pubblico ancor più predisposto al mito delle «donnine». Cosi pare a Macario che quest'anno ha riesumato la sua rivista forse più fortunata del primo dopoguerra, Febbre Azzurra, per riproporla agli spettatori degli anni sessanta come alternativa alla commedia musicale
Bisogna convenire che ci voleva molto coraggio. Ci voleva anche molta fede in se stessi. Fede e coraggio che il commendator Erminio Macario ha da vendere. S’è gettato nell’impresa con slanciò di debuttante. Ha puntato sullo spettacolo, come impresario, tutte le sue risorse finanziarie. Un giorno, ha convocato la moglie e i figli Mimmo che stravede per Breckt e Alberto che fa della pittura astrattista e ha detto: «Qui, cari miei, se ci va male saremo costretti a venderci i mobili di casa». Macario è un marito e un padre esemplare Non si può dire che non avesse coscienza del rischio che correva.
Salto all'indietro
E' un ritorno alle orìgini piuttosto singolare. Per un sacco di ragioni che si prestano a una verifica dei gusti vent’anni dopo. Febbre Azzurra '65 sta navigando col vento in poppa nel tempio romano della commedia musicale, il teatro Sistina, gestito da quei santoni del teatro leggero che rispondono al nome di Giovannini e Garinei.
Che significa questo? Da qualsiasi parte lo giri, il problema, non riesci a spiegare il buon esito del salto all’indietro se si tiene in secondo piano la personalità del comico piemontese. Piaccia o non piaccia allo spettatore 1964 che Macario continui a far uso del riccioletto sulla fronte e del rossetto sui pomelli alla stregua dei tradizionali clowns di circo equestre. Rimane il fatto che soltanto lui ha avvertito ch'era venuto il momento di reagire alla moda e che soltanto lui poteva correre l'avventura. Col riccioletto birichino e i pomelli rossi e tutto quanto compone la maschera Macario. Perciò meritava di vincere.
Che Erminio Macario conosca alla perfezione l’impiego dei suoi mezzi espressivi («Una volta facevo tanti tipi, ho enucleato quello adatto alla mia faccia e al mio temperamento, oggi rappresento un personaggio senza età: perchè io sono Arlecchino come Totò è Pulcinella. sono la grazia mista alla furberia»), che Macario sappia fiutare a distanza gli umori del pubblico («In fondo non è molto esigente, vuol solo distrarsi e dimenticare: un tempo si lasciava sorprendere e ne godeva, oggi vuoi essere aggredito e poi è contento ugualmente»), che ricorra con freddo calcolo al fascino delle «donnine» per dare una cornice alla sua comicità («Ci vogliono, ci vogliono. sono la gioia degli occhi: la femminilità è nell'aria che respiriamo, nella vita quotidiana, e io sulla scena ne sono goloso come di una primizia prelibata e mi capiscono tutti, uomini e donne, senza complicità volgari»). che dietro le quinte imponga una disciplina spietata, che non perda mai d'occhio gli incassi serali («Mica lavoriamo per beneficenza, dopotutto»), che tenga se stesso in una considerazione senza limiti («Non ho avuto maestri, io, eppure ho saputo studiarmi e amministrarmi»), che dietro quel faccione tondo da cuore allegro nasconda ambizione e volontà di granito: che Erminio Macaco sia tutto questo non deve stupire. E' questo e altro, ad ogni modo.
E’ un uomo casalingo, un buon borghese alla, maniera di Totò. E* puntiglioso, mordace («Ci stiamo autodistruggendo con i premi che riceviamo o non riceviamo»). E' geloso del successo (giustamente, direi), pensa a Shaw. aspetta che Fellini lo convochi sul set, ha la battuta sempre sulla lingua, è un improvvisatore formidabile. Non fa professione di umiltà ma è intelligente e spregiudicato abbastanza per ammetterlo. Poi, è un giudice spietato della comicità altrui.
«Sono trent’anni che faccio ridere gli italiani : col riccioletto in palcoscenico e sullo schermo con le mie avventure di balordo vagabondo. Sono trent’anni che piaccio a grandi e piccoli, a uomini e donne. Presunzione, la mia? Si fa presto a dire. Li ho inventati io. sulla scena del teatro leggero italiano, i bisticci di parole, i riflessi ritardati, le dissociazioni nelle proposizioni, l’inconclusione dei discorsi. Veniva da me, Dapporto, quand’ era in avanspettacolo, a chiedere le barzellette. A Tognazzi gli ho fatto fare io tre riviste, agli inizi della sua carriera. Quanti non hanno preso qualcosa dal mio personaggio?».
La stima per Totò
L’unico di fronte al quale il commendator Macario sarebbe disposto a togliersi il cappello (per un riconoscimento alla pari, sia chiaro) è il principe Antonio De Curtis. Ne parla con tono professionale d’intenditore: che, però, non gli impedisce di rivendicare a sè un altro merito. Quello di aver consentito a Totò di sostituirlo come protagonista di Madama Follia nel 1927, procurandogli cosi i galloni di comico nazionale.
Vent’anni di vita italiana dentro la parentesi di due riviste di Erminio Macario: da una parte una guerra che sta per concludersi e dall'altra parte una democrazia che si prepara a festeggiare la maggiore età. Vent’anni che si annullano nell’oscurità della platea di fronte a uno stuolo di «donnine»: il riccioletto e gli sberleffi e le mossette di Macario, eccoli li sul palcoscenico, stimolo di ilarità, efficienti, immutabili. sorgente di un divertimento che pare irridere alle leggi del tempo.
1945, 17 marzo, sabato: primavera romana, una triste primavera. Stanotte hanno svaligiato diciotto negozi e rastrellato quasi trecento «segnorine». Circola voce che a Stoccolma siano cominciati i sondaggi di pace. Distrutta dalle bombe l’autostrada Colonia-Francoforte. La guerra uccide al nord. Roma si stordisce nel clima precario di libertà e di fame. Danzica in fiamme. E’ annunciata una distribuzione di vino. La morte di Lloyd George. Si ordina il sequestro dei beni di Arturo Bocchini. Giuseppe Bottai ricercato dalla polizia. L'epurazione tiene migliaia di romani nell’angoscia. Consiglio dei ministri per approvare un aumento delle tariffe postali. I quotidiani costeranno tre lire, a partire dalla prossima settimana. Quattro bande armate spadroneggiano al Salario. De Sica e Stoppa alle Arti in Catene, al Savoia Soffia So' di Giovannini e Garinei. Chiusa una farmacia al Tritone diventata covo di neofascisti. E' scappato il generale Mario Roatta. lo cercano dappertutto, viene denunciata la moglie per favoreggiamento. Al cinema: Carmen e Le tre ragazze in gamba crescono. Gli sciuscià hanno spogliato un negro ubriaco. Sgominata la gang degli «Uomini mascherati», ladruncoli di borgata. Gli americani a Coblenza. Attività di pattuglie sul fronte italiano. Che ne sarà di Mussolini? Arrestata la banda dell’«Abbacchietto». E’ un sabato qualunque, un giorno come tanti. Al teatro Valle debutto della compagnia di Erminio Macario con lo spettacolo: Febbre Azzurra. Sconto in piccionaia per i militari.
L'impianto di Febbre Azzurra '65 è il medesimo: solo una spolveratina al dialogo («Un paio di battute sull’attualità, Ippolito, Trabucchi, tanto per tenere i piedi nel nostro tempo»), una limata al linguaggio («A quell’epoca si diceva che ho escogitato, oggi il verbo risulterebbe ampolloso»). una riverniciatina agli spartiti («I temi sono rimasti, abbiamo ri-maneggiato le arie con gusto contemporaneo: un milione e mezzo di spese, però che meraviglia») e nient’altro. Eppure il gioco è riuscito: la maschera Macario ha funzionato a meraviglia, malgrado le rughe.
Alfonso Madeo, «Corriere della Sera», 23 settembre 1964
Macario-Totò, un incontro sul video
Macario, 77, e non li dimostra. «Sono qua» dice, e il suo «sono qua», detto naturalmente in dialetto piemontese, significa che è sempre sulla breccia, che è pronto, che è disponibile, che ha voglia di fare. Nel teatro di via Santa Teresa è in corso la sua nuova rivista Oplà, giochiamo insieme, e da domani, per cinque settimane, è in televisione tutti i giorni, salvo il sabato e la domenica, sulla rete 2, verso le 19, in Buona sera con...
Non ho mai chiesto a Macario se nella sua lunga carriera piena di successi non abbia anche provato una volta — una volta sola — l'onta dell'insuccesso, e non si sia sentito arrivare, invece di caldi applausi, dei fischi. Non credo. Posso dire che in televisione tutti i suoi programmi sono sempre stati un successo, regolarmente accolti da alti indici di gradimento.
Bisogna sottolineare che — oltre a una popolarità che lo accompagna da oltre mezzo secolo — Macario «funziona» molto bene in tv. Quella sua faccia tonda in cui esplode una inimica da commedia dell'arte sembra fatta apposta per i primi piani del video. E d'altra parte Macario accanto all'esperienza teatrale ne ha una cinematografica che se non è altrettanto densa è stata tuttavia importante e positiva.
E teatro e cinema si danno la mano in questo Buona sera con... perché Macario, affiancato dalla giovane Cristina Gazzera e da altri attori, farà un po' di tutto: monologhi, scenette, brani di spettacoli, improvvisazioni, parodie di canzoni, dialoghi con le più rappresentative statue e con i più autorevoli busti dei monumenti torinesi. E in mezzo infilerà spezzoni di film dei quali ho ripetutamente e invano richiesto da tempo una rassegna in tv. Ma si vede che la rassegna è troppo difficile da organizzare. Godiamoci allora questi spezzoni ricavati da Il pirata sono io, da Imputato alzatevi e dai suoi tre film più divertenti del dopoguerra, tutti diretti da un altro torinese, il regista Carlo Borghesio, e cioè Come persi la guerra, L'eroe della strada, Come scopersi l'America.
Questa sul video dovrebbe essere una settimana meno tragica delle solite. Qualche risata dovrebbe insinuarsi tra cattive notizie, severi dibattiti, pellicole drammatiche e sceneggiati funebri. C'è Macario, e venerdi sera sulla rete 1 parte un ciclo di film di Totò. Non è il primo ciclo di Totò (anzi, ce ne sono stati diversi) e non sarà l'ultimo, ma la miniera cui attingere è enorme: il comico napoletano ha girato più di cento film e di questi solo circa un terzo sono passati sul teleschermo. Stavolta vedremo: Animali pazzi (1939) di Carlo Ludovico Bragaglia, un'autentica rarità per gli stessi addetti ai lavori perché è il secondo film di Totò, e da moltissimi anni non è più in circolazione; Il ratto delle sabine (1945) di Bonnard, L'imperatore di Capri (1949) di Comencini, Un turco napoletano (1953) di Mattoli, Il coraggio (1955) di Paolella, Totò, Peppino e i fuorilegge di Mastrocinque, Signori si nasce (1960) di Mattoli, Totò truffa (1961) ancora di Mastrocinque.
E' un bel ciclo? Si può rispondere che è un ciclo di Totò, ossia che è composto di pellicole tagliate su misura e confezionate appositamente (e di fretta) per lui. Seguita a circolare una vecchia, falsa storiella secondo cui in vita Totò sarebbe stato snobbato, addirittura disprezzato dai critici i quali poi, versando lacrime di coccodrillo, l'avrebbero rivalutato dopo la morte anche su un piano culturale. Non è vero. Allora tutti i critici seri riconoscevano le sue straordinarie doti, ma deprecavano che venissero troppo spesso —per la frenesia di uno sfruttamento cui Totò aderiva di buon grado — sciupate o utilizzate per una minima parte in film mediocri o scadenti. Occorre mettersi li con pazienza, sopportare sequenze deboli e insulse, e aspettare la sequenza dove copione e regia smettono di dormire e danno finalmente la possibilità a Totò di tirar fuori la grandissima carica di un umorismo surreale e irripetibile.
Ugo Buzzolan, «La Stampa», 7 ottobre 1979
La scomparsa di Macario, padre della rivista italiana
Ha divertito tre generazioni
Che dire di Macario? E' stato grande in teatro, in cinema, in televisione. Ha imposto a milioni di spettatori un nuovo genere, la rivista. Ha fatto ridere tre generazioni di italiani. La sua vita e la sua esperienza costituiscono un racconto che oggi può sembrare incredibile a chi nutre dello spettacolo un concetto magari efficiente ma talora burocratico e ripetitivo. Per il giovane Erminio Macario, attrazione del teatrino dei salesiani e filodrammatico eternamente alle prese col trucco, non ci sono state né scuole né raccomandazioni. Ha cominciato da guitto, viaggiando in terza classe con una biova piena di frittata nella valigia di cartone, recitando nelle sale da ballo o delle cooperative, attento a non morire di freddo o di fame.
Nella sua Macario Story l'attore famoso racconta, lui nato in via Boterò nel cuore della vecchia Torino, di aver dovuto recitare il classico monologo romanesco Er fattaccio. (Cohun vero nodo alla gola, iniziai: — Sor delegato, nun sò un boiaccia... Qualcuno si voltò a guardare, dopo un po' si fece silenzio: più nessuno giocava, né parlava ed io, preso dall'entusiasmo, sfogavo tutta la mia abilita. Ricordo che verso la metà del monologo, mentre tutti commossi mi ascoltavano, entrò un avventore facendo squillare il campanello della porta. Fu un coro generale: — Silenzio! Sssss. Ripresi, fortissimo, fino al finale»).
Ecco, se un comico inizia in questa maniera e ha dalla sua la grazia di divertire, non durerà molto per imporsi. Nel '23-24 entra in compagnie regolari, conosce i tea tri di lusso, sa di essere a un passo dalla notorietà. L'esplosione avviene nel '25, con La valigia delle Indie, a fianco della famosa Isa Bluette. E' cominciato il periodo d'oro di Macario, il momento della rivista che si protrarrà per oltre trent'an' ni La sua maschera e le sue donnine segnano il periodo d'oro dello spettacolo. In questo genere teatrale che Macario aveva precisato nei minimi particolari, il suo personaggio del timido .che si presentava con un ricciolo sulla fronte, apriva la bocca nelle larghe vocali piemontesi, si traeva in disparte per brillare malignamente grazie al contrasto. Al suo fianco sempre belle donne, fatalissime, provocanti. Non si trattava semplicemente di spettacoli d'intrattenimento se si pensa alle direttive del regime fascista. Non c'era nulla di eroico nella maschera a uovo sormontata dal cappelluccio, non c'era nulla di costruttivo nei «nonsense» del tipo «Lo vedi come sei?», n suo fisico lunare e il suo spirito svagato dovevano pure costituire un'alternativa al conformismo dilagante.
Nei fumetti
Negli Anni Quaranta la popolarità di Macario era al massimo. Non avevamo i «mass media» che ci portano l'immagine a domicilio, pensavamo piuttosto a evitare i bombardamenti e a falsificare la tessera per il razionamento. Invece Macario era notissimo anche ai bambini e un suo fumetto—Macarietto scolaro perfetto — allietava i milioni di lettori del Corriere dei Piccoli. Tutti, tutti indistintamente, se cantavano «Le gocce cadono ma che fa ... se ci bagniamo un po'» sospiravano contro i tempi duri che promettevano autentici diluvi di guai e sorridevano all'idea del trio inimitabile che aveva lanciato la canzone (Macario, Carlo Rizzo e Wanda Osiris). Questo grande comico è stato un grande capocomico. Capace di lanciare Olga Villi Lea Padovani, Isa Barzizza, Tina De Mola, Marisa Merlinì, Carla Del Poggio, Elena Giusti, Sandra Mondaini, Dorian Gray, le tre Nava, Marisa Del Frate, Raffaella Carrà. Capace di scrivere, attraverso minuziose collaborazioni, con gli autori delle, riviste, i siparietti più trascinanti di Amleto, che ne dici?, Febbre azzurra, Moulin Rouge. Persino capace di dare un'impronta surreale al modesto tran-tran di Cinecittà in Imputato, alzatevi!.
Anche in tv
Ancora per la generazione del secondo dopoguerra — che lo conosceva in particolare attraverso la tv — Macario ha ripetuto la sua parlata che s'inceppa, la sua mimica gentile, la sua oculata capacità d'improvvisare. Diceva di pensare alla gente che lo segue: i nonni che gli avevano decretato i primi successi mentre in Italia imperava la fastosa rivista alla Schwartz, i padri che avevano evitato con lui le «pozzanghere» della guerra e del dopoguerra, i figli che cercavano un'alternativa allo yé-yé. («Comperano il biglietto e bisogna dargli il meglio»). Senza innovare ma senza mai deludere, un giorno faceva il Travet e un giorno la farsa. Lontani i tempi del ciuffo a virgola impomatato, rappresentava una vivente scuola del teatro. Forse perché, come accennava Eugenio F. Palmieri, era rimasto un semplice che si divertiva con le parole. Timido, casto, stordito.
Piero Perona, «Stampa Sera», 26 marzo 1980
Macario, comico di tre generazioni
Dalla nomade esistenza del guitto alle luci del varietà - Le famose «donnine» degli Anni 40 - Scoprì e lanciò decine di. attrici del teatro leggero e del cinema - Wanda Osiris: «Finisce un'epoca» - Come lo ricordano Campanini e Farassino
TORINO — Il popolare attore comico Erminio Macario è morto martedì notte nella sua abitazione torinese. Era nato il 27 maggio 1902, in via Boterò, nel cuore del centro storico, a non più di dieci metri dalla sua attuale casa. Nel gennaio scorso aveva dovuto abbandonare il palcoscenico e lo spettacolo ideato dai figlio Mauro, «Oplà, giochiamo insieme», ed era stato ricoverato in clinica per un male incurabile.
Con Macario si era chiacchierato un po' in teatro, alle prove di uno dei suoi ultimi lavori. Pareva insoddisfatto, esigente con gli altri attori e severo con se stesso. Li col copione in mano a aggiungere, sviluppare, modificare, togliere qualche battuta, e intanto diceva: «Penso alla gente che mi segue: prima i nonni, poi i padri, adesso i figli. Comprano il biglietto e bisogna dargli il meglio. La gente non è mica cambiata; cambiano i sistemi, i modi di trattare, il linguaggio. Bisogna seguire i tempi, bisogna sapere sempre porgere alla gente. E' quello che io mi sforzo di fare da più di mezzo secolo. Eh si, sono esigente, pretendo, perché questo è un lavoro e, come tutti i lavori, va fatto nel modo migliore».
Macario ricordò che Petrolini nel 1934, era andato da lui nel camerino del Reale di Milano, gli aveva detto: «Sei rimasto piemontese. Fai bene. Mai rinnegare la propria origine. Ma perché metti la parrucca e il naso finto? Con una faccia come la tua, anche senza trucco si fa ridere». Un omino con occhi insieme ridenti e stupiti con un'aria che non sai se tonta o furbacchiona. Erminio Macario, forse l'ultima maschera del teatro italiano.
Nato poveretto. «In casa mia si rideva molto, ma si mangiava poco». Il ragazzo Macario attorcilo dei Salesiani in farse ingenue. Tanti mestieri tentati a 14 anni incominciò l'esistenza nomade del guitto, a fare «girovaganza» su e giù per Piemonte e Lombardia, improvvisando recite nelle borgate per un piatto di minestra. Anche due recite nella stessa giornata: il pomeriggio al circolo socialista, la sera al teatro parrocchiale.
«Ricordo che dopo il primo atto ci si doveva lavare la faccia, perché il carburo della luce ad acetilene buttava un fumo che ci anneriva». Vita pittoresca, ma durissima. Dice Carlo Campanini che gli è stato compagno nei film: «Macario veniva dalla gavetta ed era la sua forza. Ha fatto parte di compagnie che noi chiamiamo "gli scavalcamontagne": gente che fa il teatro eroico, compagnie di "serie Z", ma in cui c'è scuola e vi si impara a sostituire, in ogni momento, il tizio o il caio in lavori classici di polso».
Ma pare che nei lavori classici di polso Macario facesse soprattutto ridere, anche a sproposito. Era per quei suoi tondi occhi pieni di spavento e di meraviglia, per l'ingenuo candore, era per quei suoi passettini da papero: il pubblico rideva. In un truce drammone gli toccò la parte del morto: risate anche quella volta. Macario cominciò a studiarsi allo specchio: era davvero così buffo?
«E un giorno, scrisse Orio Vergani una trentina di anni fa, Macario scopri in uno specchio di una locanda di paese il suo vero volto: il volto di un bamboccio senza cattiveria, alternato di fanciullesca innocenza e di monellesca furbizia... Ritornò alla fonte viva del vecchio teatro popolaresco italiano e di sé fece una maschera, con il vasto stupore dei suoi occhi a volte stralunati e a volte sonnacchiosi, con le clownesche macchie rosse sulle gote rubizze E con parrucca e naso di cartapesta, finché Petrolini glieli fece togliere.
«Ma senza il par nicchino mi sentivo come nudo in scena e allora mi facevo scendere i capelli sulla fronte e il sudore li appiccicava. Il mio ciuffetto è nato cosi». Macario si considerava il «creatore della rivista femminile». Nel 1928 Isa Bluette, la «regina delle soubrettes», lo aveva chiamato nella sua compagnia e li il comico aveva imparato tutto quello che c'era da imparare. Nel 1935 Macario aprì la serie dei suoi spettacoli «ad alto livello» Scritturando a Vienna venti ballerine, con il preciso scopo di rivaleggiare con i Fratelli Schwarz. Le chiamò «donnine» e le offrì, pochissimo vestite, agli sguardi rapaci del pubblico. Inventò la passerella e le girls furono a portata di mano dei più lesti a farsi avanti «Una sventagliata di ombelichi al vento, danzanti e variopinti come coriandoli» ricordava Macario.
Le donnine erano tutte frufrù sulla passerella, sfilavano in una nuvola di cipria e di felicità, ma dietro le quinte il capocomico imponeva una disciplina spietata. Macario faceva provare anche dieci ore al giorno le soubrettes, che furono Hilda Springher, Lina Gennari e, dal '38 al '42, Anna Menzio alla quale fu dato un nome da deità egizia: Wanda Osiris. E poi: Olga Villi, Marisa Moresca, Lilly Granado, Carla Del Poggio, Erika Sandri. Lea Padovani Elena Giusti Isa Barzizza, Dorian Gray, Lauretta Masiero, Sandra MondainU le Tre Nava, Marisa Del Frate, Raffaella Carrà e qualcun'altra. Tutte scoperte da Macario, tutte venute su alla sua severa scuola. «Le facevo ripetere le stesse cose venti, trenta volte. Tutte: le soubrettes e le donnine. Qualcuno veniva a dirmi: ma lasciale respirare quelle ragazze, sono di là in camerino che non ne possono più, mi raccontò. Eppure mi volevano bene. Quando se ne andavano, ogni tanto mi scrivevano, si facevano vive. Molte, se sono brave, lo devono un po' anche a me». Duro sul lavoro, bonario fuori dal teatro, «sono un tipo familiare», diceva.
Era un tipo casalingo, un quieto borghese con stupori fanciulleschi Una quarantina di riviste, una ventina di film. Disse: «Faccio ridere gli italiani col ricciolino in palcoscenico e sullo schermo con le mie avventure di vagabondo candido e sbalordito. Faccio ridere grandi e piccoli, uomini e donne. Presunzione la mia se dico questo? No, perché 11 ho inventati io i bisticci di parole, i riflessi ritardati, le dissociazioni nelle preposizioni, l'inconclusione dei discorsi». Dopo trent'anni di passerella tornò al teatro di prosa, e rinverdì il successo, creando con buon mestiere e sensibilità piccoli uomini patetici un poco chapliniani «Toccava le corde del sentimento, ma continuava ancora a far ridere quando voleva» dice Gipo Farassino, l'attore dialettale torinese che con Macario ha interpretato una commedia musicale. «In scena mi avvertiva con un bisbiglio: "Tensiun, attenzione che adesso li faccio ridere". E un attimo dopo tutto il teatro scoppiava nella risata. Una comicità basata su pause, attese, un certo sguardo o una mossetta. Non ho mai capito perché non abbia tentato un teatro più "importante", affrontato grandi testi Aveva già fatto a malincuore Afonssù Travet-. Settant'anni settantacinque e non si fermava. Ancora teatro, radio, televisione. «Questo è un lavoro che non solo affascina e trascina, ma non puoi farne a meno».
Come spiegare la sua intramontabile popolarità? Massimo Scaglione, che di Macario è stato regista in teatro e per la radio e la televisione, risponde: «Era un attore che non recitava, ma parlava. Niente di artificiale e poi un grande rispetto per il pubblico. Lo ripeteva sovente: "Il pubblico va rispettato, bisogna dargli il meglio". Si trovava a disagio alla televisione, perché gli mancava il pubblico, 11 suo grande interlocutore». Settantasette anni e ancora faceva programmi di lavoro. Era riuscito l'anno scorso, non senza ostacoli a vedere realizzato un suo antico, ambizioso progetto: avere un teatro dove poter lavorare ogni giorno, a contatto con il pubblico che sempre lo aveva amato. Un teatro tutto suo, e gli aveva dato un bel nome, l'aveva chiamato -La bomboniera-. «Si è portato via un'epoca, quella del teatro-rivista. Macario era ormai un'istituzione meravigliosa e commovente. Si sentirà la sua mancanza» dice Wanda Osiris.
Luciano Curino, «La Stampa», 28 marzo 1980
Maschera col ricciolo in fronte
Caro commendatore... In una intervista rilasciata qualche anno fa al collega Moriondo di Stampa Sera, aveva detto: «Non ho paura della morte. Ci penso e mi sono abituato. Mi piacerebbe tanto, però, morire sul palcoscenico. Come Molière». E' morto nel suo letto, invece, e ancora pochi mesi fa era sulla passerella della sua Bomboniera, in uno spettacolo che, ripensato oggi, col senno di poi, assume tutta l'aria di un testamento recitato in vita.
Ci ha lasciato, alla soglia dei suol settantott'anni. Le biografie ufficiali fissano il suo esordio nella carriera nel 1922, quando, per quindici lire al giorno, il ventenne Erminio Macario venne scritturato, come secondo comico, nella compagnia di «balli e pantomime» di Giovanni Molasso, che agiva sotto i portici di Piazza Castello, al Teatro Romano. Sbagliano, quelle biografie, senza saperlo. Perché prima del gran tuffo del «piemontese» (come lo chiamavano allora) nel mondo della rivista, c'è una decina d'anni d'apprendistato, in cui forse è racchiuso tutto il segreto della sua arte. Piglio di una portinaia vedova di via Boterò, Erminio ragazzo prova un sacco di mestieri: è aiuto-barbiere, garzone in fabbriche di macchine da caffè, lampadine, bascule, gira come apprendista una decina di reparti della Fiat. Un giorno risponde all'annuncio di una rivista teatrale: una compagnia minima e girovaga di provincia cerca un generico.
Parte quattordicenne per Belgioioso di Pavia, con un corredo «minimo» comprato usato dagli spizzichini di via Barbaroux: un, tight, un vestito scuro, uno chiaro, pantaloni a righe, una bombetta, una calzamaglia con giustacuori e spada. La compagnia è la famiglia del cavaiier Salvettl, moglie, suocera, nove figli. Girano a Pieve di Porto Morone, Soragna, Cortemaggiore, Roccabianca, Pianello Val Tidone, nomi di una geografia padana che sta tutta in un fazzoletto, ma che si carica, nell'evocazione, di un tocco di patetico esotismo. Macario recita, con quel Carro di Tespi formato nostrano, di tutto: Felice Cavallotti e Niccodemi, Santerellina, I due sergenti. Morte civile. Ma soprattutto, in quelle sale da ballo di cooperative paesane, in quelle fumose stanze da osteria, fa collezione di tipi umani.
Uno, in particolare, lo studia da vicino, con minuzia e puntiglio, in quegli anni di Guitta'.e mi ne: il candido indifeso, l'ingenuo spaurito, l'innocente che si fa largo a colpi di sorriso in un mondo di furbi. E' il personaggio che metterà a punto, con una finezza intellettuale e una sottigliezza psicologica di cui non tutti mi sembra si siano pienamente resi conto, negli anni prima del suo riconoscimento professionale: quando, nel giugno '28, la regina delle soubrettes, Isa Bluette, viene a pescarlo nottetempo in auto, da Modena, dove lavorava, al parco Mlchelotti e gli offre un contratto a sessanta lire al giorno nella sua compagnia. In quei mesi, inebriato dal successo, Macario è capace di sfoderare in un solo spettacolo sette macchiette diverse.
Ma il suo ruolo di punta resta Tornino dai tondi occhi sgranati, dal ricciolo in tondo sulla fronte (un suggerimento, questo, di Petrolini), dalle braghette corte sugli stivaletti a nastro, e il cappelluccio sulle ventitré. In una Italia di uomini forti, di seminatori, di mietitori al sole lungo la strada ferrata, quali li vagheggia il regime, Macario, che nel frattempo è divenuto capocomico e si esibisce in tanti cinema-teatro della penisola, contrappone il suo eroe-virgola, il suo pusillo beato. Quelli strepitano frasi reboanti, lui sembra sfogare la propria ironia in miti silenzi, esita, si tormenta i bottoni della giacchetta da ripetente recidivo, sbotta, tra la tenerezza e il dispetto, nel cantilenante «Lo vedi come sei?». Gli altri, gli uomini forti, non lo vedono come sono, ma la gente semplice si riconosce nella sua dolcezza inerme: e un disegnatore, Manca, si ispira a quella maschera per un personaggio del Corriere dei piccoli Alle massaie poppute e plurigemine decorate da podestà e fiduciari contrappone, coni arguzia monellesca, le sue donnine, snelle di vita e di gamba lunga.
Con loro, dicono, e con tutti gli attori che lavorano con lui, è ealgentisslmo. Non tutti i copioni del periodo sono all'altezza del suo talento: ma il professionismo, l'accuratezza formale dei suoi spettacoli del secondo dopoguerra fanno testo. L'attore e il capocomico, insomma, si ritrovano nella stessa esigenza di rigore delle realizzazioni. E il ritorno al teatro di prosa è, oltre che un recupero degli entusiasmi giovanili, anche l'esito naturale di un Macario che vede la rivista ormai in crisi di professionalità. Meglio allora recuperare dal passato remoto di una tradizione di cui è stato sempre, gelosamente fedele, il profilo risentito di Mousseu Travet, il mezze-maniche vilipeso dalla vita che, se non fosse per le date, Bersezio sembra avergli cucito addosso su misura; meglio provarci con uno Sganarello che, per essere stato strappato alle verzure di Versailles, non è meno burlesco e Irriverente. Caro commendatore. Come sono egoisti, come sono esigenti gli spettatori a teatro. Ci ha fatto dono cosi a lungo della sua calda, rasserenante presenza: eppure vorremmo ancora averlo li, dinanzi a noi, seduto in proscenio, le gambe penzoloni, snocciolare le sue strambe tiritere, proprio come l'ultima volta.
Guido Davico Bonino, «La Stampa», 28 marzo 1980
Un candido per il cinema
Il successo cominciò con «Imputato, alzatevi»
Guardava dallo schermo con gli occhi rotondi che il ricciolo da avanspettacolo rendeva affettuosamente interrogativi. Scendeva da una provincia sconosciuta e salda, magari scendeva dalle nuvole. Era il candido che con la sua anormalità doveva spiazzare gli altri, i normali. Diceva: «Lo vedi come sei? Lo vedi come sei?».
Gli spettatori ridevano, complici e colpevoli. Negli Anni Trenta e Quaranta, prima e dopo la guerra, Macario occupò un posto cospicuo nel cinema comico Italiano. Si inserì tra i più popolari Totò, De Filippo, Fabrizi, Rascel, poi anche Sordi, con un pudore particolare e una vena inimitabile. Tanto che non s'è mai smesso di considerarlo un comico cinematografico militante, anche se negli anni recenti le comparse sono state rare e limitate ad alcune pungenti caratterizzazioni. Certi comici d'oggi, di formazione cabarettistica, hanno involontari debiti con Macario.
Al suo esordio cinematografico, nel 1933 con Aria di Paese, aveva trovato solo una parte del suo personaggio, l'ingenuità, il buon senso contadino e la sfrontatezza di chi non ha niente da perdere. Gli mancava la svagatezza surreale, la dolcezza innocente con cui portare lo scompiglio. Il piccolo capolavoro Imputato, aliatevi nel 1939 nacque per la solerzia artigianale del regista Mattoli, per una reazione sarcastica ai tempi durissimi, per il peso di un umorismo di fronda che si liberava volentieri nel nonsenso e nella pazzia. Mattoli riunì un bel gruppo di umoristi italiani (Simili, Guareschi, Maccari, Manzoni, Steno, Metz, Marchesi) e chiese ad ognuno di fabbricare una battuta, una gag, un pezzetto di film.
Venne fuori un Hellzapoppin in anticipo, un documento di quel modo di ridere uscito dal Bertoldo come antidoto alla retorica. Macario riuscì a rendere il collage un quadretto unitario, assolutamente lieve e gradevole. L'udienza in tribunale con il pubblico e i giudici che si abbandonano ai battibecchi, agli assolo e alle canzoni scandite In coro è un esempio di riuscita surreale che il tempo non ha scalfito. Ricordava Mattoli: «Mi vanto di aver avuto questa pensata. Anche i film seguenti con Macario ebbero molto successo.
E parecchie battute che Macario diceva sullo schermo cominciarono a circolare nelle conversazioni della gente-. A cominciare appunto, dalla battuta che dava titolo al film della conferma comica: Lo vedi come sei? Nel dopoguerra la maschera di Macario si assestò con naturalezza al momento delle faticose speranze. Faceva ancora ridere, ma con un'aggiunta di patetico che lui sopportò e rese gentilmente (anche se c'era negli sceneggiatori la voglia di spingerlo verso un modello di Charlot italiano, troppo ricalcato sull'originale).
Nel 1947 Come persi la guerra era in testa agli incassi; nel 1948 L'eroe della strada ebbe un grande successo. Fellini ricorda di aver fatto lo scrittore di battute per Macario quando lavorava al Marc'Aurelio, molte attrici formose del cinema italiano degli anni poveri confessano di esser uscite dalle ballerine di Macario. Lui, Macario, in una intervista ha storicizzato: «Ho cambiato il linguaggio con il passare degli anni, andando con i tempi, con il progresso, con il pubblico». Ma anche nelle prove più recenti (Il piatto piange del '74) Macario è cambiato senza tradirsi; anche nella vita ha continuato a guardare gli altri con un'innocenza conturbante: «Lo vedi come sei ?».
Stefano Reggiani, «La Stampa», 28 marzo 1980
Mio padre Macario. Come lui solo Totò
«Me li ricordo così: una mattina, a Roma, che attraversavano il quartiere Parioli, vestiti di scuro, eleganti, con il cappello sugli occhi e l’espressione dura, arrabbiata. Sembravano due gangster». Alberto, primogenito dei due figli di Erminio Macario, era un bambino. Ma sapeva che suo padre e «quell’altro» erano attori comici. Quando sentì l’altro, che era Totò, dire: «Maca’, per tanto che uno faccia, tu resti sempre il numero uno» e Macario rispondere: «Ma cosa dici? L'Italia ha due numeri uno», Alberto pensò a una battuta per lui incomprensibile. «Come possono esistere due numeri uno? — mi chiedevo —. Poi, col tempo, ho capito quanto bene si volessero quei due. E perché».
Sono passati cento anni dalla nascita di Erminio Macario (Torino 1902 -1980). Di lui, come attore e personaggio pubblico forse è stato detto tutto. Anche l’altro suo figlio, Mauro, lo ha ricordato con un bel libro, Macario, un comico caduto dalla luna (Baldini & Castoldi). Ma con il figlio maggiore Alberto, pittore, autore di cinema e di teatro, e per alcuni anni in scena insieme con il padre, i ricordi si spingono fin dietro le quinte, escono fuori dai teatri e arrivano dentro ciascuna delle case, trentadue in quarant'anni, in cui Macario portò a vivere i figli e la moglie, Giulia Dardanelli. «Traslocavamo sempre, una vera sofferenza — dice Alberto —. Otto volte nella sola Santa Margherita Ligure, le altre ventiquattro fra Roma, Torino, Genova e Milano.
Ma, sempre, mio padre "isolava" la famiglia da tutto il resto, perché era molto geloso della sua vita privata. Per lui, finito lo spettacolo, cominciava un’altra vita. E lui stesso diventava un’altra persona».
Alberto Macario ha deciso di recuperare la memoria del padre, «anche di quello privato, segreto, nostro, che ci siamo goduti poco», dando vita a un’associazione culturale che per i cento anni allestirà una grande mostra itinerante su Erminio Macario e gli intitolerà un premio. Documenti, locandine, testimonianze, con cui il figlio ricostruisce la figura del padre. «Un bisogno, forse una necessità, perché con noi papà si è aperto soltanto negli ultimi anni della sua vita. Ma è anche una cosa molto divertente e tenera al tempo stesso. Come, per esempio, scoprire che portava cucite sotto la camicia, lui che non era per nulla bigotto o superstizioso, quattro figurine. Aveva, tutte insieme, quella di Don Bosco, di sua mamma Albertina, di Angela Mo, un’attrice che considerava il suo angelo custode, e di Padre Pio, che lo aveva definito "missionario del sorriso"».
Macario però faceva ridere gli altri, il pubblico, «che era la sua seconda famiglia, anzi la prima, quella che lui possedeva e dalla quale era posseduto». In casa, fuori dalla scena, quello stesso Macario, che pure in greco significa «felice, beato», era come Totò. «Un po’ meno triste, forse — dice Alberto —. Ma era serio. Cupo. Determinato. Saldo. Rigoroso. Calcolatore. Sì, proprio nel senso che faceva i conti, contava il denaro degli incassi, era in grado di stabilire subito quanto potesse costare uno spettacolo. Non era avaro. Tutt’altro. Semplicemente, aveva fatto la fame e sapeva quanto fosse importante il denaro». Figuriamoci se poteva negarlo al suo amico Totò. Verso la fine degli anni ’40, Totò gli chiede un prestito per mettere su una compagnia teatrale e Macario gli regala un milione di lire, il compenso più alto che avesse mai ottenuto con il cinema, per il film campione d’incassi Come persi la guerra.
«Totò per lui era speciale. Insieme a Isa Bluette, che aveva scoperto Macario e, come diceva lui, "era la donna che mi ha insegnato a insegnare ad altre cento donne", Totò era l’unico di cui ci parlava con un entusiasmo che andava al di là dell’apprezzamento professionale. Sì, c’erano Metz, Steno, Maccari, Fellini, Tognazzi, Sordi, Bramieri. Però a Macario tutti davano del "lei", persino la sua mitica "spalla" Carlo Rizzo. A dargli del "tu" erano soltanto Ugo Tognazzi, Nino Taranto, Eduardo e Pepino De Filippo, Totò, perché Macario incuteva soggezione, era un capocomico anche nella vita e quindi anche in famiglia. Doveva essere lui a gestire, ad assegnare le parti, a decidere. E fargli cambiare idea non era facile, dovevi prepararti allo scontro. Ma non era ottuso, capiva e rispettava le scelte che non condivideva. Però era inflessibile. Una volta ho ritardato di pochi secondi l’ingresso in scena e mi ha multato. Voleva che non solo lui, ma tutta la compagnia avesse successo. L’invidia e la competizione non lo sfioravano nemmeno». Se non fosse stato così, avrebbe fatto finta di non accorgersi di Totò. Invece, era il 1927, quando lo adocchiò in un café chantant di Milano, che faceva la sua imitazione, Macario si arrabbiò con gli impresari: «Ma porco cane, a questo qui non dovete fargli fare Macario. Lui deve fare Totò».
Nacque un’amicizia, che con gli anni diventò un’intesa profonda, un patto ferreo, un continuo riconoscersi dell’uno nella vita dell’altro. Il napoletano Totò del rione Sanità e il torinese Macario di Porta Palazzo, entrambi cresciuti tra mariuoli e tagliaborse, entrambi senza padre. «Mio padre — ricorda Alberto — aveva dieci anni quando mio nonno Giovanni, un pittore-decoratore, lasciò moglie e quattro figli per andarsene in America, nel Massachusetts, a cercar fortuna. Sette anni dopo, giunse la notizia che nonno Giovanni lo avevano trovato morto a Santiago del Cile. Ma per anni papà, quando gli chiedevamo del nonno, ha evitato di parlarcene. "Voi siete ragazzi fortunati, ripeteva, avete il dovere di apprezzare quello che avete". E poi si rituffava nella lettura dei copioni, con la tazzina del caffè, una sigaretta e un goccio di Punt & Mes. Spesso quei copioni lo irritavano, sosteneva che erano scritti "in festivo", cioè con un linguaggio che aveva pretese letterarie. E allora esponeva la sua teoria, "Per essere efficaci, i dialoghi devono essere rapidi e pensati in dialetto. Poi, nella traduzione in italiano, va mantenuta la costruzione dialettale"».
Con chi, se non con Totò, avrebbe potuto esaltarsi su questa strada? Quando, agli inizi degli anni ’60, comincia a lavorare con Totò per il cinema, Macario tornava a casa entusiasta: «Abbiamo inventato battute a ripetizione — diceva —. Sul copione, come quelle, non ce n’era neanche mezza». Ma poi diventava subito triste e aggiungeva: «Totò ormai mi vede solo come un’ombra». Racconta Alberto: «Totò stava diventando cieco e Macario accettò di affiancarlo sul set per dirigerlo. Papà gli suggeriva come muoversi, da che parte girare la testa e lo sguardo. "Più su, più a destra, ora voltati", gli sussurrava e Totò era bravissimo. Infatti nessuno si è mai accorto di nulla. Che grande lezione di vita». Quando le riprese finivano, Totò abbracciava l’amico: «Maca’, pure oggi ’sta schifezza è terminata».
E insieme se ne tornavano a casa, con le facce scure e gli abiti da boss.
Carlo Vulpio, «Corriere della Sera», 6 agosto 2002
Riferimenti e bibliografie:
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- «Canzoniere della Radio», 1941 - Macario e Vanda Osiri
- X & Y, «Film», 1942
- G.V., «Film», 1942
- «Cinesport», 28 gennaio 1948 - Macario e le Sorelle Nava
- V. R., «Tempo», 1952
- «Il Piccolo di Trieste», 30 maggio 1952
- Sergio Sollima, «Film d'oggi», 3 dicembre 1952
- Roberto De Monticelli, «Epoca», anno IV, n.127, 14 marzo 1953
- Vice, «Epoca», anno IV, n.154, 13 settembre 1953
- Luigi Barbara, «Corriere della Sera», 14 dicembre 1954
- R.D.M., «Epoca», 1954
- B.G. Lingua, «Gazzetta del Popolo», 30 settembre 1957
- Alfonso Madeo, «Corriere della Sera», 23 settembre 1964
- Ugo Buzzolan, «La Stampa», 7 ottobre 1979
- Piero Perona, «Stampa Sera», 26 marzo 1980
- Luciano Curino, «La Stampa», 28 marzo 1980
- Guido Davico Bonino, «La Stampa», 28 marzo 1980
- Stefano Reggiani, «La Stampa», 28 marzo 1980
- Carlo Vulpio, «Corriere della Sera», 6 agosto 2002