Approfondimenti e rassegna stampa - Silvana Pampanini

Silvana-Pampanini


Don Giovanni con le spalle a terra

Come altre attrici, Silvana Pampanini ha imparato a difendersi con lo judo

Roma, agosto

Sul finire del 1935 ci fu, a Roma, un improvviso intensificarsi di aggressioni notturne a scopo di rapina. Le autorità di polizia consigliarono i cittadini, specie quelli abitanti in zone periferiche della città, di ritirarsi in casa per tempo. In quelle notti, Alfredo Galloni, insegnante di lotta giapponese, passeggiava fino all’alba nei luoghi di maggior pericolo: desiderava provarsi, era una occasione che si sarebbe presentata assai difficilmente una seconda volta. Ma non ebbe fortuna, non incontrò alcun malfattore sulla sua strada. Accade, a coloro che nella lotta giapponese sono maestri, ciò che é sorte comune a chi conosca bene un’arte difficile e pericolosa: di non poterne fare uso per mancanza di avversari e per la consapevolezza di una superiorità schiacciante. Non erano molti i maestri di judo italiani in quegli anni. Nel 1928, sotto la guida di Carlo Oletti, che aveva appreso l’arte in Giappone, al Centro di educazione fisica militare della Farnesina si era tenuto un corso dal quale erano usciti otto maestri, Galloni era tra questi.

La guerra disperse l’attività degli insegnanti e dei loro allievi. Galloni, tornato dalla prigionia in Germania, nel ’45, fu costretto a riorganizzare la scuola tra le ‘stesse pareti della sua casa.

La lotta giapponese ha origini antichissime, mistiche: essa stessa è, in un certo senso, una pratica religiosa. In Giappone, dal quale prese il nome con il quale è conosciuta in Occidente, fu introdotta, verso la metà del XVII secolo, dal medico cinese Chin Gepin. Divenne presto una arma potente nelle mani della casta guerriera dei samurai, che riuscirono per molto tempo a tenerne segrete le regole. Akyiama, uno dei fondatori della nuova scuola, lasciò scritto di essersi ispirato, nella formulazione dei 300 movimenti Jiu-jitsu, al comportamento degli alberi di un bosco durante una bufera di neve: solo i salici, grazie alla arrendevolezza dei loro rami, ne erano usciti indenni. La scuola di Akyiama si chiamò Yoshin-Ryu, ossia: «Scuola del coraggio del giunco».

Roma. Silvana Pampanini atterra un avversario secondo il metodo judo che il maestro Alfredo Galloni (alla sua destra) le ha insegnato. La scuola del maestro Galloni, all’estrema periferia della città, può contare su una media di ottanta allievi ogni anno; il dieci per cento di questi allievi è di sesso femminile. Lo judo è una derivazione dell’antico jiu-jitsu.

A metà dell’Ottocento, lo jiu-jitsu era diffuso nell’intero Giappone e, tuttavia, in piena decadenza. La lotta era divenuta un combattimento mortale, una pratica di aggressione. La riforma fu compiuta da un educatore, il prof. Jigoro Kano, che, nel 1882, dette vita al nuovo metodo, al judo. Ju, in giapponese vuol dire agilità, gentilezza, cedevolezza, Do significa via, strada. La prima regola del judo fu: tratta il tuo avversario come fosse tuo fratello. Una specie di principio cristiano, muscolare ed asiatico, dinanzi al quale perfino il «fair play» degli inglesi, il comportamento leale nell’esercizio dello sport, diviene una soluzione di compromesso. Intanto, i cannoni della flotta degli Stati Uniti avevano aperto al resto del mondo l'Impero dei Mikado e lo jiu-jitsu, nella sua nuova forma judo, cominciò a fare proseliti in ogni paese. «Naturalmente», dicono i maestri, «è difiìcile che un individuo di origine non asiatica, un italiano, per esempio, riesca a spogliarsi del tutto dal suo nativo spirito agonistico. Del resto, questo accade, in parte, anche ai giovani giapponesi, che solo progressivamente si purificano, salendo, da allievi, verso la perfezione degli alti gradi: il variare del colore delle cinture segna le tappe dell’ascesa. Bianco, giallo arancione, verde, blu, marrone, poi le cinture nere dei maestri di primo grado, rosse e nere dei gradi superiori, infine il colore scarlatto di coloro che sono vicini a perfezione, di quelli che sanno paralizzare l’avversario senza toccarlo, con il solo «grido interno, che parte dal profondo della coscienza». Tutti i bambini giapponesi conoscono la storia di quegli allievi di una scuola di judo che nascosero un cavallo selvaggio tra gli alberi del viale dove sarebbero passati gli insegnanti. Passarono gli assistenti, e alle violenze dell’animale risposero schivandone i colpi o immobilizzandolo. Passò, infine, il maestro: il cavallo non osò muoversi.

Le proporzioni dello judo italiano sono più modeste. Quelli che lo praticano, e sono in maggioranza persone sotto i trent’anni, sono stati spinti, come dichiarano, dalla curiosità, dalle letture, dal piccolo mistero che circonda, ancora, questo metodo di educazione fisica dal desiderio di vedere come «il più debole può vincere il più forte». La scuola del maestro Galloni, sebbene si trovi all’estrema periferia di Roma, ha ogni anno una media di 80 allievi, studenti, professionisti, operai. L’insegnamento viene impartito dal maestro a coppie di allievi: ad ogni lezione, a piedi scalzi, la coppia ripete gli esercizi già imparati, volando, letteralmente, nelle varie figure di lotta, al di sopra del grande tappeto imbottito di lanolina e prendendo terra, con il palmo della mano in linea con la parte inferiore dell’avambraccio, con un colpo secco: un colpo di frusta. Imparare a cadere è la prima cosa che l’allievo deve apprendere, sgambetti, capovolte, forbici verranno più tardi.

Lo judo incontra presso le donne una certa fortuna: il 10 per cento degli allievi è di sesso femminile. E’ da credere che le ragioni del proselitismo siano da ricercarsi soprattutto nei vantaggi che lo judo offre in caso di aggressione maschile. Dice infatti la didascalia di un esercizio: «"Buongiorno signorina”. "Buongiorno”. Lui la carezza. Lei gli fa la leva ascellare, due colpi alla carotide, braccio in spalla, lo rialza, gli fa la forbice ai reni, lo rialza, gli fa un finto colpo all’anca e lo trascina fuori della palestra».

Tra le allieve di Galloni ci sono attrici del cinema, mogli e fidanzate di ex-allievi, ragazze della buona società. Lo judo, oltre a fortificare e disciplinare lo spirito, è un eccellente mezzo per regolare la linea del corpo. Molte Miss America hanno ottenuto l’elezione dopo un’assidua pratica di sollevamento di pesi e di lotta giapponese. Non è dato sapere se poi accada effettivamente alle più avvenenti tra le frequentatrici delle scuole di utilizzare nei rapporti sentimentali la scienza appresa in palestra, o meglio, nel «dojo». A questo proposito esse mantengono, solitamente, un certo riserbo. Si parla di un giovane diplomatico di una rappresentanza straniera a cui sarebbe accaduto quest’inverno di imbattersi, nei corso di un’avventura galante, in una ragazza della "haute” romana che si rivelò mal disposta verso di lui e in grado di applicare con effetto un paio di figure di jiu-jitsu.

Il giovanotto scomparve dalla circolazione per un certo tempo. Quando ritornò, aveva un braccio al collo.

Quando la coppia degli allievi ha terminato la ripetizione degli esercizi. Galloni si alza dalla sedia dove è rimasto ad osservarli per tutto il tempo, e, afferrato un bastone, batte due colpi contro il soffitto della palestra, perchè dal piano di sopra, dove è la sua abitazione, gli venga portata la bianca casacca del Keikogi, l’abito dello judo. Quando l’ha indossata, si cinge i fianchi con la nera cintura che lo fa maestro. E’ il momento in cui nuove figure vengono mostrate agli allievi per la prima volta. Adesso, chino sulle spalle del discepolo, il maestro gli ha immobilizzate le braccia: un minimo sforzo ancora ed esse sarebbero lussate, spezzate. Il discepolo batte i piedi sul tappeto, ritmica-mente. E’ la resa. Non è una vergogna, nello judo, cedere alla necessità, può accadere al più forte. Poi, maestro ed allievi, si inchinano profondamente in segno di reciproco rispetto. Se osservate vedrete che l'inchino dei discepoli è appena più profondo. E la lezione è finita.

Sergio Fiori, «Settimo Giorno», anno IV, n.34, 23 agosto 1951


Carlo A. Giovetti, «Gazzetta del Popolo», 15 marzo 1953



«La Nuova Gazzetta di Reggio», 8 marzo 1955 - Silvana Pampanini


«La Nuova Gazzetta di Reggio», 6 aprile 1955 - Silvana Pampanini


«La Gazzetta di Mantova», 25 agosto 1955


I baci vietati della Pampanini

Con la partecipazione delle maggiori autorità danesi e del sottosegretario tìrususca si è aperta a Copenaghen la settimana del cinema italiano destinata a incrementare i nostri scambi di film con i tre Paesi scandinavi.

Copenaghen, dicembre

La grande incursione del cinema italiano in Scandinavia è cominciata ufficialmente sabato scorso, alle cinque del pomeriggio, nella sala di un grande albergo di Copenaghen. Alle maggiori autorità di Danimarca sono stati presentati i registi, gli attori e le attrici della delegazione. E’ stata una entrata molto spettacolare e ben preparata, dalla sommità di una breve rampa di scale, mentre l’orchestrina pizzicava i violini simulando il rullo dei tamburi dei grandi acrobati nel circo. Lea Massari, novizia, è passata via per prima con grande dignità. Sofia Loren si è indugiata piti a lungo e sembrava stupita. Silvana Pampanini, più emotiva, non ha saputo trattenersi dal fare qualcosa che forse s’era segretamente vietata, cioè ha lanciato baci. Gli attori erano rappresentati da Roberto Risso, i registi da Luigi Comencini, Alberto Lattuada, Ettore Giannini, i produttori da Leonardo Bonzi. Poco più tardi il sottosegretario Brusasca ha tenuto un discorso nel quale, insieme alle eleganti parole di circostanza, ha voluto precisare che gli spettatori italiani hanno dato al cinematografo nel 1954 un miliardo di presenze. Non sappiamo fino a che punto i danesi che ascoltavano abbiano valutato sulle prime il peso, come dire?, politico di queste parole (è da pensare che essi siano stati soltanto sbalorditi dalla capacità di assorbimento di pellicole dimostrata dal popolo italiano), ma subito dopo Brusasca ha latto intendere come la responsabilità che grava gli uomini italiani di cinema dinanzi a un fatto sociale cosi gigantesco si espanda oltre le frontiere nazionali, sia qualcosa che riguarda tutti i popoli che si scambiano film. Sono parole serie, che non vengono pronunciate spesso durante le visite protocollari del tipo di questa che l’Unitaiia ha organizzato in Scandinavia; parole che hanno dato un significato inatteso a questo incontro della diplomazia cinematografica italo-scandinava.

1955 12 15 Tempo Silvana Pampanini f1 2SOPHIA LOREN E SILVANA PAMPANINI portavano due collane di perle quasi identiche. La settimana del cinema italiano in Scandinavia è stata inaugurata il 3 dicembre con la proiezione di "La valigia dei sogni" e "Continente perduto".

La Settimana del film italiano in Scandinavia ha una importanza particolare, perchè cade in un momento di crisi del cinema italiano proprio nei suoi rapporti con l’estero. Da molti anni ormai andiamo ripetendo che le cose di casa nostra, in materia di cinema, possono andare come vanno senza che venga pregiudicala la continua espansione del film italiano nel mondo. Ora per la prima volta accade il fatto nuovo: persone responsabili della diffusione del film italiano all’estero si sentono autorizzate a confessare che l’aumento delle esportazioni è illusorio, cioè non è rapportato all’aumento delle altre nazioni. Il film americano è in netta ripresa in tutto il mondo, francesi inglesi tedeschi stanno producendo offensive propagandistiche esasperate (le stesse Unitalia e Unifrance. organismi cugini, se non proprio gemelli, aventi rispettivamente la funzione di diffondere all’estero il film italiano e il film francese, si trovano ora impegnate in un lavoro di reciproca concorrenza). Ecco perchè questa manifestazione dall’apparenza spensierata e mondana ci fa sentire nel vivo di una battaglia che il cinema italiano in generale, e l’Unitalia in particolare hanno impegnato — non sarà certo l'ultima battaglia, ma nemmeno la più facile.

Il caso poi ha voluto che proprio in Danimarca, dove è cominciato il nostro viaggio, noi si sia venuti non per ricevere premi ma per dame. Tuttavia è un caso molto onorevole, perfino commovente per chi ama disinteressatamente il cinema. La serata di Copenaghen difatti si è conclusa con un omaggio del cinema italiano a quello svedese, poiché il sottosegretario Brusasca, sul palcoscenico dell’enorme teatro World, prima che venisse proiettato il film di Bonzi Continente perduto, ha premiato due registi danesi, vincitori delle due maggiori categorie dell’ultimo Festival di Venezia: Dreyer, "Leone d’oro" per il miglior film a soggetto, e Jensen, "Coppa" per il migliore documentario. Qui dunque, a Copenaghen, si è veramente concluso il Festival di Venezia 1055; e dicevo commovente, perchè il vecchio, grande Dreyer è salito incerto sul palcoscenico, pareva tremasse, e certo non s’aspettava che l'Italia sarebbe venuta sin qui ad onorarlo, in una gelida e ventosa notte di dicembre, davanti alla sua gente. Di un "messaggio di amicizia del popolo italiano" ha appunto parlato Brusasca: e un importante personaggio danese, di rimando, ha accennato in italiano malcerto al "calore e allo splendore" che noi avremmo portato "nel freddo nord": l’uno e l'altro certamente sinceri, anche se nelle parole del secondo c'era forse l’immagine belenante di Sofia Loren, di Silvana Pampanini e di Lea Massari.

Il re Federico di Danimarca non è intervenuto alla serata, ed è stato rappresentato dal suo Governo quasi al completo; la principessa ereditaria Margarete avrebbe dovuto esserci, ma sembra essere ruzzolata dalle scale pochi giorni or sono. Il re l’ha visto soltanto la Pampanini, che era andata a visitare gli studi della radio ed è capitata in una sala d’incisioni dove suonava un’orchestra e chi la dirigeva era il re. Viceversa la corte di Svezia, quando Tempo sarà posto in vendita, avrà già assistito allo stesso Continente perduto in serata di gala a Stoccolma. La "settimana" del cinema italiano infatti continua in Svezia e si concluderà in Norvegia. Saranno presentati i film: Peccato che sia una canaglia. La strada, La bella di Roma, Amici per la pelle. Proibito, Carosello napoletano, La donna più bella del mondo, Pane amore e gelosia. Molti di questi sono veterani dei festival e delle "settimane", sicché a qualcuno di noi capiterà di sentirsi domandare perchè mai l’Italia faccia girare e rigirare per il mondo sempre gli stessi film, come i soldati di Garibaldi. Ma questo è l’altro aspetto della crisi di cui si parlava: la mancanza di film adatti a rappresentarci nelle manifestazioni all’ estero. Fortunatamente, insieme ai film che s’è detto, abbiamo con noi in Scandinavia anche La valigia dei sogni: un film di Comencini non conosciuto, che ha un prezioso sapore di vecchia cultura cinematografica.

Vittorio Bonicelli, «Tempo», anno XVII, n.50, 15 dicembre 1955


«Stampa Sera», 10 gennaio 1956


E' rinviato il match Pampanini-Ergas

La storia dei rapporti fra la "bella di Roma" e il produttore greco che voleva sposarla cominciò col film "Noi cannibali" e finisce con una battaglia per 31 milioni di oggetti preziosi davanti al Tribunale di Roma

LA STORIA DEI RAPPORTI fra l’attrice Silvana Pampanini e il suo produttore, cominciò nel 1953. quando Morris Ergas. che oggi ha 35 anni, decise di investite nel cinema il denaro guadagnato insieme al padre con una ditta di importazioni ed esportazioni. Ergas. che si era stabilito a Milano dopo la guerra, si trasferì allora a Roma, compartecipando ad una Casa cinematografica. la ”Film Costellazione’’, nata un paio d’anni prima con l’intento di creare una produzione di ispirazione cattolica. La ”Film Costellazione” non aveva avuto molta fortuna commerciale, anche se aveva prodotto buone opere come "Processo alla città”. Il primo tributo che il giovane finanziere pagò al cinema fu il film ”Noi cannibali”, interpretato appunto da Silvana Pampanini. Era l’agosto 1953 e da quel momento nacque un’amicizia sempre più stretta fra attrice e produttore. Egli frequentò la famiglia di lei e l’attrice frequentò quella di lui durante un viaggio a Tel Aviv.

SILVANA PAMPANINI E MORRIS ERGAS furono fotografati insieme a Cortina, nell’inverno 1954, e l’allegria regnava fra i due. Oggi queste fotografie assumono un curioso sapore di preludio a uno scontro molto più serio. Disgraziatamente, come è noto, alla base della attuale disputa ci sono gioielli, pellicce e oggetti preziosi che ad Ergas sono costati 31 milioni e 630 mila lire, fra l’agosto 1953 e il novembre 1954. La rottura dei rapporti avvenne però soltanto nella primavera 1955, quando il produttore, lamentando d’essere stato deiuso nelle sue speranze matrimoniali, chiese la restituzione degli oggetti preziosi: «acquistati per conto dell’attrice», sostiene Ergas; «regalati come premi all’attrice», afferma la Pampanini.

1956 Tempo Silvana Pampanini f4LE INTENZIONI MATRIMONIALI di Morris Ergas sarebbero provate da questa fotografia, nella quale i due protagonisti dell’attuale bisticcio appaiono fotografati insieme alla figlia di Ergas. Marina. Il produttore infatti è sposato e avrebbe dovuto attendere l’annullamento del precedente matrimonio. Ergas è di nazionalità greca, ma è nato in Jugoslavia da famiglia israelita. Durante la guerra le persecuzioni razziali gli fecero vivere un duro calvario nei campi di concentramento tedeschi. Il primo scontro in Tribunale, fissato per la mattina del 12 gennaio, è stato rinviato.

«Tempo», 1956


Riferimenti e bibliografie:

Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:

  • Sergio Fiori, «Settimo Giorno», anno IV, n.34, 23 agosto 1951
  • Carlo A. Giovetti, «Gazzetta del Popolo», 15 marzo 1953
  • «Noi donne», 7 giugno 1953
  • «Film d'oggi», 27 maggio 1953
  • «Corriere della Sera», 3 dicembre 1953
  • «La Nuova Gazzetta di Reggio», 8 marzo 1955
  • «La Nuova Gazzetta di Reggio», 6 aprile 1955
  • «La Gazzetta di Mantova», 25 agosto 1955
  • Vittorio Bonicelli, «Tempo», anno XVII, n.50, 15 dicembre 1955
  • «Stampa Sera», 10 gennaio 1956
  • «Tempo», 1956