Umanesimo del comico

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Una «scuola».

Il breve film di Chaplin Kid Auto Races, girato il 7 febbraio 1914 - nella prima settimana di permanenza alla Keystone - si basa su un semplice spunto pagliaccesco: una macchina da presa gira l’«attualità» di una corsa d’auto per ragazzi. Sono i monelli della Keystone, predecessori della «Our Gang» di Hai Roach. Charlot, come il clown che nel circo ostacola all’infinito l’esecuzione di un «numero» finché non viene sbattuto in terra con violenza, si interpone a più riprese fra l’operatore e la scena della strada, e ripetutamente ne riceve spinte e invettive.

Di uno short comico come questo è più facile prendere in considerazione il personaggio, che il film, pur breve, nella sua unità. Non sarebbe possibile riconoscere in Kid Auto Races una particolare tecnica cinematografica, ma, se mai, qualche elemento della tecnica dell’attore, meglio del mimo, destinato a riempire le più belle pagine della storia del cinema.

V’è, in questo film, l’istintiva creazione dell’attore, senza la presenza di un controllo espressivo, di una guida e composizione esterna del giuoco mimico-gestuale, cui ormai ci ha abituati la regia cinematografica (ad es. in Lubitsch). Nello stesso genere, molti film italiani d’oggi, o d’un periodo più remoto, rivelerebbero, ad un esame sommario, la stessa caratteristica: Aria di paese (1933), con Macario, o Animali pazzi (1938), con Totò: d’essi non ci resta che il ricordo della particolare recitazione dell’un comico o dell’altro; ben poco, invece, dei vari elementi e caratteri che creano uno spettacolo comico cinematografico, dove il protagonista può diventare, dunque, soltanto la maggiore pedina a disposizione nella scacchiera di tutto lo spettacolo : se non si frantuma addirittura in sostituti e controfigure (Larry Semon ne aveva abitualmente quattro) che ne prendono il posto in caso di particolari riprese (acrobatiche, ecc).

Ma Charlot ha la fortuna d’iniziare la sua attività per lo schermo, dopo l’esperienza pantomimica nella compagnia di Fred Karno, col «maestro» Mack Sennett : maestro perché dal suo nome si distingue una delle più vive, e autentiche «scuole» della cinematografia mondiale, quella che — oltre Charlie Chaplin e suo fratello Sidney — ha dato al cinema, in una prodigiosa fioritura, figure come Roskoe Arbuckle detto «Fatty», Ford Sterling rivale di Charlot, Mabel Normand la «ingenua avvenente», il lungo Slim Summerville, Harry Pollard detto «Snub» che ricorderete in Ruota della fortuna, Charlie Chase e suo fratello Jimmy Parrott, Hank Mann dal maglione a stri, sce come una zebra, Ben Turpin dagli occhi strabici, Louise Fazenda detta «Filomena» con la sua schiera di gatti, cani, aragoste e pesci rossi, Polly Moran o la «donna-sceriffo», Joe Jackson clown ciclista imitato anche da Harry Langdon, Larry Semon detto «Zigoto» in Francia e «Ridolini» in Italia, Buster Keaton che in Francia è chiamato «Malec» e in Italia «Saltarello», Harold Lloyd con gli occhiali a stanghetta e la paglietta, Wallace Beery che inizia la sua attività di attore come cameriera svedese, Chester Conklin capo dei poliziotti della Keystone coi suoi Clyde Cook, Bobby Vernon, James Finlayson, Mack Swain, ed altri ancora, Mary Dressler nel ruolo di «zòtica», le «Bathing Beauties» dove s’intravede l’astro sorgente di Carole Lomhard.

Non sono tutti: dobbiamo ricordare ancora Stan Laurel, Bobby Dunn, Joe Bordeaux, Fred Maee, Jack Dillon, Billy Gilbert, Billy Hauber, Charles Avery, Al St. John., Millie Davenport, Harry McCov, Raymond Hitchcock, W. C. Fields, Minta Durfee, Harry ed Eddie Gribbon, Billon Bevan, Andy Clyde, Phvllis Haver, Alice Lake, Gloria Swanson, Bebe Daniels, Sally Eilers, Marie Prevost, Charmie Murray, Ray Griffith, Mal St. Clair e numerosi altri: nomi che furono lanciati o si affermarono presso Mack Sennett, e che sono rimasti alla base del comico cinematografico.

Della nascita di Charlot, della sua diretta provenienza dalle «entrate» e pantomime del circo, si è già detto altrove. Essa è precedente alla formazione di Chaplin come personalità di autore e creatore, che si manifesterà meglio in Pellegrino e Il monello. Si può affermare, però, che questo Charlot formato dalla strada e dai suoi stessi giuochi di fanciullo, dalla ammirazione per la madre, mima e maestra, o del clown Lapin, e dalla permanenza nella compagnia di Fred Kamo (e il risultato finora potrebbe essere appunto una di quelle sue prime interpretazioni davanti alla macchina da presa, come Kid Auto Races) trova nello stabilimento Sennett il terreno più fertile per il suo sviluppo. Da solo sarebbe rimasto, forse, un pagliaccio più o meno eccezionale, più o meno comune. La scuola di Sennett lo porterà, proprio per la ricchezza dei mezzi nativi a lui propri, basati anzitutto sull’osservazione, al vertice dell’arte del comico.

Angelo Musco CC

Prendiamo ora, alle origini, la figura di Totò (al secolo Antonio de Curtis-Gagliardi, insignito di non so quanti titoli di marchese, principe e altezza) nel mondo del cinema: Totò, come l’espressione maggiore, forse, del nostro attuale comico di varieté e cinematografico. Prende parte per la prima volta ad una produzione per lo schermo nel 1936 con Fermo con le mani! Il regista del film è Gero Zambuto (il soggetto di Achille Campanile). Non un Mack Sennett, quindi; ma soprattutto non una «scuola» che abbia valore nella vicenda e storia del nostro cinema, e questo è il vero punto. La scuola di Totò è quella dei Pulcinella e istrioni, mimi e saltimbanchi di Napoli (che del resto sono anch’essi schiera) non d’un vero e proprio comico cinematografico. Si potrebbe anche aggiungere che Charlie è un intellettuale, e Totò no; Charlie uno studio, so della psicologia del pubblico e del prossimo, e Totò, prima che ogni altra cosa, un buffo che imita le marionette (discende infatti dal napoletano Gustavo De Marco, che per primo portò sulla scena gli slogamenti da marionetta) ; Charlie un pensatore che prende parte al problema dell’epoca, in termini sociali, mentre Totò riassume il suo pensiero politico nell’aspirazione a rivendicare (per burla che pare quasi fatta sul serio, attraverso carte bollate e tribunali) il trono di Bisanzio, o nel votare, come vedemmo in una Settimana Incom del 18 aprile 1948, voltandosi verso l’obbiettivo e descrivendo con un sol gesto (un dito pollice teso orizzontalmente) la fregatura del soccombente. Quale? Nessuno, poiché ancora non se ne conosce l’identità; però, inevitabilmente, qualcuno.

Non una vera scuola cinematografica, dunque, comica o no, dove arricchirsi, prendere forza d’idee e perfezionarsi: poiché le gags di Charlot non sono soltanto di Charlot: ma di una infinita serie di clowns, prima, e anche di tutti quei colleghi che lavorarono con Sennett, e che più sopra abbiamo ricordato. In questo ambiente Charlot potè compiere il suo processo formativo e di cultura : umanistico, potremmo dir meglio, poiché l’umanesimo progressivo, la costruzione dei personaggi 'Sull’eredità comica tramandata dai predecessori, il plagio perfino, è alla base della tradizione dei buffoni e clowns. Essa si basava — la scuola di Sennett — sul ritmo d’un inseguimento (appreso del resto nelle arene dei circhi, durante la esecuzione di pantomime equestri) e sullo slap-stick: lo schiaffo-bastone. Sembra quasi un ripiego volgare: colpire clamorosamente l’avversario e poi scappare ; e complicare la fuga — come al cinema era possibile — con auto fumogene, ponti traballanti, nubi di farina e di piume, salti dai cornicioni e dai tetti, esplosioni, sistole d’acqua, torte in faccia. Eppure, lasciatelo dire, quanta «cultura dello spettacolo» in queste poursuites, in questi volti infarinati, in questo strumento di gomma, largo e appiattito al vertice, che abbiamo visto tante volte nelle mani dei clowns bianchi, sbattuto sulla testa dell’«auguste» ! Cultura anglo-latina, che partendo dai lazzi e sberleffi dei nostri comici dell’arte — come il napoletano Tiberio Fiorilli detto «Scaramuccia», mimo e ballerino, acrobata e ammaestratore di bestie — prende unità sulla figura del primo dei clowns celebri, Joe Grimaldi, descritto da Dickens: anch’esso maestro della pantomima e funambolo, saltatore e prestigiatore, perchè, come ha scritto Francesco Fratellini, «un pagliaccio non deve soltanto saper fare l’idiota per divertire la gente; deve essere acrobata, danzatore, prestigiatore e cavallerizzo, ciarlatano e un po’ musicista. Il pagliaccio deve conoscere tutte le arti insieme: ecco che cosa occorre per divenire un clown sul serio, un clown in grande. E questo è ancor niente se l’artista non trova in sé l’ispirazione, la quale, naturalmente, non c’è nessuno che possa insegnarla».

Si arricchisce, questa cultura (e qui se ne parla a ragione, non a caso i Fratellini furono appassionati bibliomani, e Tristan Bernard divenne loro schedatore e bibliotecario) delle testimonianze dei pittori che si ispirano alle Bartolomew Fairs, e dei manifesti di Chéret, delle raccolte di lazzi, come quelli di Brighella, e delle vite dei più eccellenti buffoni, come Scaramuccia o il Pulcinella Petito ; e ci documenta sulle attività e virtù di questi mimi, sulle espressioni e pagliacciate, sui maquillages e costumi. Si giova di personalità come Astley, l’ex-sergente, eroe in guerra, che ridà vita al circo e guida le sue pantomime equestri, sull’esempio delle antiche giostre e tornei, nei primi circhi «stabili» ; e del conte Franconi, che porta nella pista la grazia italiana, unita all’abilità di saper adoperare le armi, tanto che è dovuto fuggire da Venezia in Francia dopo un duello, passando alla vita nomade.

In Francia il circo trova un altro maestro, Ducrow, e gli Zanni, Arlecchini e Saltarini italiani un altro esempio mirabile di mimo, Debureau, il creatore della pantomima Chand d’habit, rinnovata da Jean Louis Barrault in Les Enfants du Paradis. La celebrità e il prestigio dei loro nomi saranno uguagliati da altri italiani: il giocoliere Rastelli, il trasformista Fregoli, il mimo Petrolini, i clowns Fratellini e Dario.

Con la presenza di questi campioni del circo, i quali, anche se italiani, tendono a salire verso i centri europei dove più frequenti e progredite sono le tradizioni delle clowneries che in taluni casi arrivano a classiche forme (basterà ricordare, accanto ai Fratellini, il nome di Grock) il comico francese e anglosassone fiorisce in un terreno più propizio ; e se un uomo dotato come Chaplin incontra una personalità geniale e animatrice quale è stato Mack Sennett, più facile diventa il cammino per arrivare alla perfezione del comico. Altrettanto fruttifero fu l’incontro di Scaramuccia con Molière (e fruttifero per entrambi); e similmente quello di André Deed con Méliès, di Lubitsch con Reinhardt. Al nativo talento è consentito far leva sulla ricchezza, che poi diventa cultura e umanesimo, di una vera e propria «scuola».

Ma vediamo ora i precedenti del comico in Italia, se siano gli stessi o se contino, invece, differenze sostanziali e decisive: se i nostri buffoni passati al cinema trovino, dietro e accanto a sé, una cultura che li faccia nobilmente fiorire.

Charlie Chplin CC

Premesse al comico cinematografico in Italia.

La commedia dell’arte, nata in Italia, è coi suoi zanni e arlecchini. la grande matrice del comico in tutto il mondo. Ma una forza altrettanto grande, la musica, volge lo spettacolo italiano al melodramma. Anche il teatro goldoniano, diventando esso stesso musica, contribuisce ad uccidere, o a soffocare, l’arte del lazzo e dell’improvvisazione, in Italia. V’è chi chiamerà «riforma» questa rivoluzione dello spettacolo. Ma chi non giustificherà il risentimento del Gozzi? E* lecito formulare un’ipotesi: che per reazione ai «castrati» e ai teatrini borghesi — dove i palchi sostituiscono le gradinate — il comico si sia rifugiato o abbia preferito insistere — piuttosto che migliorarsi — nello sberleffo e nel deforme, nella volgarità e anche, come dice A. G. Bragaglia, nell’arte del «vernacchio». Due spettacoli, d’ora in poi, si sono distinti ed hanno proceduto per vie diverse: il melodramma, che è arrivato per proprio conto alla grandezza, mentre la commedia viene «riformata» quasi a sua somiglianza, e quello minore, dei buffoni, dei Pulcinella, dei «pupazzi» perfino, che è rimasto al mondo della commedia dell’arte, ai lazzi di Zanni, ai salti di Arlecchino e Saltarino, ai giuochi da mimo, ammaestratore di bestie e prestigiatore di Petito. Nei maggiori teatri si è cantato il «coro dei Lombardi» (questo è uno dei grandi e legittimi meriti educativi e patriottici che si sono attribuiti all’opera lirica italiana) ma nelle arene non si è stati da meno quando un pupazzo che assomiglia a Radestky è stato lasciato infilzare dalle corna dei tori infuriati; Rigoletto è il basso di grido che si è travestito da giullare per una finzione scenica, ma il Padiglione delle meraviglie è rimasto a Piazza Pepe, come ci ricorda la scena di Petrolini, e Il Circo Squeglia di Viviani è restato nei quartieri di Napoli, dove Pulcinella ha continuato a tirar colpi di bastone, e i pagliacci, recitando come vivendo, hanno ripetuto la commedia improvvisa.

Non sarà alla letteratura drammatica ed ai testi del melodramma che spetterà l’onore di fondare il comico cinematografico; ma alle pantomime di Pierrot, ai colpi dello schiaffo-bastone, alle clowneries dei pagliacci: da Chocolat e Foottit (nelle pantomime luminose di Reynaud) al trasformista Fregoli e all’illusionista Méliès; da Polidor e Deed, a Linder e Prince; da Charlot a Laurei, Semon, Fields, Keaton, che, come maschere della commedia dell’arte, escono a frotte dalle tende del circo, e passano ai teatri a vetri di Sennett.

In Italia settentrionale, specialmente Lombardia e Veneto, il circo italiano conta ancor oggi una superba tradizione, che sopravvive in piccoli complessi nomadi, dove prevale l’elemento écuyer e acrobata, mentre il pagliaccio è sovente importato (salvo il torinese Bagonghi). Nel centro-meridione non si hanno esempi rilevanti di circhi veri e propri che arrivino alla fama dei Krone, Gleich, Bush, Sarrasani. Qui il circo vive e si tramanda in ciò che contiene la sua vera origine: un istrione o un gruppo di saltimbanchi che agisce in piazza, in presenza di una piccola folla disposta in circolo. Si tratta, come scrive Petrolini in «Modestia a parte», di «passatempi per tutti i gusti, dal tiro al bersaglio al museo anatomico, dal carosello al teatro dei galli», quelli stessi che saranno poi imitati da Totò. «E potevate inoltre trovare» aggiunge dipingendo a vive tinte la sua piazza Pepe «la donna barbuta, il teatro Mercipinetti con il mistero di Abbragadabbra ; il teatro meccanico con la nevicata: l’Alhambra con le pantomime La presa di Cassala, Il diavolo verde col popolarissimo e celebre Pierrot Augusto Mastripietri, La foca parlante, La sirena del mare, e una fatica particolare del conosciutissimo e acclamato mimo Patocco, che darà fine allo spettacolo con un combattimento a fuoco vivo ed arma bianca: La breccia di Porta Pian. Su queste pantomime possiamo interrompere la nostra citazione: è la saldatura fra circo e cinema, tra baraccone da fiera e film, in Italia. Le prime produzioni della Cines, infatti, saranno La presa di Roma e Pierrot innamorato (Alberini, 1904 e 1905).

Buster Keaton CC

Ma facciamo ancora un passo indietro: se non mancano, in Italia, quei luoghi come la «Piazza universale de’ formatori di spettacoli in genere e de’ cerretani e ciurmadori» (titolo d’un libro di Tomaso Garzoni, scritto nel 1665, che dà un quadro completo dell’ambiente e del pubblico delle fiere del XVII0 secolo), regno dei saltimbanchi e girovaghi, imbonitori e cantastorie, mangiatori di fuoco e forzuti, ammaestratori d’orsi e ballerine sul filo, come li vedete ritratti anche nel Cappello a tre punte di Camerini (1934); il grande spettacolo sull’arena, forse per un residuo d’influenze della dominazione spagnola, è passato — in mancanza di circhi «stabili» come a Londra, Parigi ed Amburgo — alle tauromachie o «giostre», così chiamate in Roma, Toscana ed Umbria. Il gusto rinascimentale del colore, delle uniformi aggraziate, dei carnevali e corsi mascherati, fà propendere verso «cacce» e corse dei tori e dei barberi, ed altri spettacoli pittoreschi e complessi, quali ne offrono tra noi le tradizioni senese e romana. V’è, qui, molto del circo: quei primitivi esempi di pour-suites nello spettacolo, che si ritrovano nei rodeos e nei western; le «sbandierate» degli alfieri di Siena, che diventano giuochi di destrezza; le bandierate romane, riprese anche dalle danzatrici nei music-halls e negli intermezzi teatrali, come ricorda Bragaglia a proposito della «danza con bandiere» della ballerina Loie Fuller (1); e le corse a pelo cui parteciparono i «butteri» dalla Maremma e del Maccarese, i quali si cimenteranno al principio del secolo anche cogli uomini del circo di Buffalo Bill.

In queste corse e cacce non manca l’elemento buffonesco: come non mancava nelle pantomime equestri (2) di Enrico Franconi (che recano questi titoli: Fra Diavolo capo dei banditi nelle Alpi, Il ponte infernale con il cervo Cocò), di Adolfo Franconi (I fuochi di bivacco, Il passaggio del San Bernardo) di Philip Astley (.L’incendio di Mosca, Il corriere di San Pietroburgo, La guerra Burmese — grande melodramma navale e militare —, Il domatore di Pompei, La presa di Gibraltar, I re della giungla, Mazeppa e il cavallo selvaggio o II figlio del deserto); come non manca oggi nelle loro eredi cinematografiche (Lancieri del Bengala o Carica dei seicento, Robin Hood o Dodge’s City, Ombre rosse o Massacro di Fort Apache, dove il buffone è sotto le spoglie di qualche soldato, burbero sergente, marmittone maldestro, o grottesco aiutante). E come nella festa maestosa del Palio di Siena v’è il fantino che si chiama Gobbo Saragiòlo, o il «fantino negro», a gran divertimento della folla, o quel Bùbbolo che ritrovate — sotto lo stesso nome — nell’operetta di Pietri Rompicollo — così nelle tauromatiche romane non mancano parodie eseguite da una schiera di gobbi (documentate anche dalle stampe del Pinelli) in quello stesso spirito della parodia, dove compare Totò, Fifa e arena (che poi si ricollega alle americane Re dell’arena e I Toreador): ricoperti i sei gobbi, di quello stesso, identico, berretto a sonagli che il Belli descrive nelle sue «ottave» dedicate al «giullare», e che Totò indossa nella pagliacciata musicale all’inizio di Totò le Mokò, armato di grancassa, di trombone, di piatti e di infiniti altri strumenti a percussione.

Questi nani e buffoni deformi sono scesi sull’arena dopo aver divertito le corti dei prelati e dei principi: come quei Moretto e Botolino che vedete, in primo piano, durante ima festa, in un grosso quadro anonimo di Palazzo Barberini a Roma; come Maria Barbiola e Nicola Pertusato tramandati da Velasquez. Essi appaiono in antiche vicende di corte portate in teatro, e popolano più tardi i circhi e music-hall; infine non restano assenti dallo schermo. Anche Chaplin ce ne mostrerà in Carmen e Shoulder Arms; Feyder in Kermesse heroique; Vigo in Zèro de conduite. Mentre una vera vedetta, l’attore più popolare del cinema napoletano, sarà Gennariello, interprete di Nano rosso, A’ legge, Piedìgrotta, A’ Santa notte, E’ piccirella, Il miracolo della Madonna di Pompei, Napoli terra d’amore (1917-1924).

Non sembri inutile il ricordo di tali deformazioni, frequenti in tutte le forme dello spettacolo, in questa premessa. Esse appartengono ad un elemento del comico che, come è provato, è eterno e universale. Se però nello spettacolo popolare anglosassone e francese il pagliaccio tende a raggiungere uno stile e una truccatura funzionale, che è essa stessa compartecipe di tutta l’espressività dell’attore, e una perfezione mimica basata spesso sulla grazia. (Little Tich è soltanto un’eccezione, e il nano di Eternel Retour diventa soggetto drammatico, non comico) in quello italiano si è preferito, almeno in passato, far posto al buffo che è deforme o che fa affidamento sulla battuta volgare, che è una deformità anch’essa: né più né meno che il «vernacchio», il quale, nonostante il celebre esempio Laughton in Se avessi un milione, è una specialità italiana. Il gendarme di Carmen o l’ufficiale tedesco di Shoulder Arms diventano eccezioni. Gennariello, invece, è la regola. E tutto il volto stesso di Totò, che è la personalità più rilevante di attore comico italiano, oggi, è una sistematizza direi, della deformazione. Se vogliamo, però, ritrovare un umanesimo della pagliacciata, una aristocrazia del clown, una civiltà del comico, non possiamo cercare, almeno ora, in Italia, dove il buffone, per le cause che abbiamo tentato di indagare, non si è curato o non ha avuto la possibilità di modificarsi e coltivarsi. Si pensa a Chaplin, a Grock, ad Antonet, ai Fratellini (che più che italiani sono internazionali), non a Totò, Macario, Dapporto, Taranto, Rascel. Si avverte, è vero, in Totò, uno sforzo di liberarsi di questa inferiorità naturale, che soltanto Petrolini, ieri, e Fregoli, ancora più tardi, riuscirono a superare. Si avverte la stessa fatica di «sprovincializzazione» in Eduardo, il quale ha vinto in teatro la propria battaglia, senza peraltro abbastanza compenetrarsi nella storia del nostro cinema. Ma se la coscienza di dover compiere un balzo in avanti, di diventare Fregoli o Petrolini, è presente in buona parte dei nostri comici, troppo spesso , nondimeno, prevale in essi il Cacini.

Così nel nostro comico cinematografico, che si è venuto formando su tutti questi elementi — commedia improvvisa e pagliacciata da fiera, padiglione delle meraviglie e deformazione volgare — non si riscontrano gli elementi di un progressivo umanesimo. Saranno Cretinetti e Polidor le prime «stelle» della comica cinematografica italiana. Ma entrambi, come vedremo, sono d’origine francese e non italiana.

Cretinetti Andre Deed 1910 CCCretinetti (Andre Deed, 1910)

Le comiche «mute».

L’inizio del nostro cinema comico è pari a quello degli altri paesi: si fonda su personaggi e buffonerie da circo e da music-hall, sfrutta bestie ammaestrate come lo scimpanzè Jack ed Emir cavallo da circo nelle commedie di Lucio d’Ambra, devia nell’avventuroso e nell’acrobatico con Albedini, Saetta, Ajax, Ausonia, Mario Casaleggio, Giovanni Raicevich, Maciste. Nelle espressioni migliori è evidente l’intelligenza e lo spirito francese (il surrealismo di Cretinetti ha origine nei trucchi e trovate di Méliès), nelle più comuni è irriflessivo e saltimbanchesco, gigionesco e senza raffinatezza, come si denuncia del resto anche all’epoca del sonoro per una facondia, spesso volgare, che seconda eccessivamente i gusti più bassi degli spettatori. «Elena di Troia... Troia... Troia... Questo nome non mi è nuovo...» dice Totò in Imperatore di Capri. E’ qualcosa, questa facondia volgare, che appartiene ancora al comico popolare italiano odierno, «non civilizzato», inverosimilmente unito allo stesso lontano ceppo di quei mimi e saltatori concionati e rimproverati da Amleto (che ricordano i nostri comici dell’arte) e dei buffoni dialettali che appaiono in Enrico V (come quel Pistola descritto da Robert Newton nella versione cinematografica del capolavoro shakespeariano curata da Laurence Olivier). Ma, questo è il punto, tale comicità non si è umanizzata e non ha raggiunto il vertice e la classicità che appartiene oggi alle migliori espressioni vive del clown. E saltimbanchi sono, non clowns, i personaggi che si rivedono nel film I pagliacci di Costa (dall’opera di Leoncavallo). Saltimbanchi nel trucco, nel costume, nello stile tutto, che ignora i perfetti maquillages di Foottit o dei Fratellini, la signorilità di Antonet dai celebri costumi scintillanti, la raffinata evoluzione di Grock.

Il carattere dello spettacolo comico cinematografico muto italiano assume qualche carattere distinto attraverso le comiche del versatile Polidor, che però non manca di imitare André Deed, dal modo di camminare a quello di truccarsi e pettinarsi (in entrambi v’è il ricordo del passo saltellante e del ciuffo di Sestac: un clown slogato del genere «fil-de-fer» o «caoutchouc»). Ancora migliore, e degno di competere col contemporaneo e concorrente Max Linder, è il personaggio creato dal Deed: Cretinetti, che in Francia apre le serie di comiche basate sempre sullo stesso personaggio (dal 1906 in poi). Ma chi sono Polidor e Cretinetti? L’uno, Fernand detto Polìdor, nato a Baionne, è un discendente da una faldiglia celebre negli annali del circo, quella dei francesi Guillaume, giocolieri e acrobati. Polidor ritorna a Tripoli, P. dalla modista, P. ha rubato Poca, P. indiano, P. ha bisogno di una moglie, P. padre adottivo, Il grammofono di P., il calvario di P., P. fa le iniezioni, P. statua, sono i film che gira nel 1912 per la Pasquali Films, a Torino ; Il regalo di Polidor, Il cilindro di P., Lo champagne di P., quelli datati 1913 presso la medesima società produttrice. Alberto Pasquali e lo stesso Polidor ne curano la messa in scena.

Nel 1910 Fernand Guillaume aveva interpretato molti film alla Cines, nella serie «Tontolini», e anche un Pinocchio. Dopo le serie «Tontolini» e «Polidor» fu protagonista, fra l’altro, di un caotico Re delle banane. Nel sonoro non ha avuto più parti di rilievo : in E’ sbarcato un marinaio, La figlia del corsaro verde (1941), Teheran (1946), non ha lasciato di sè che una lieve traccia.

Harold Lloyd CCHarold Lloyd

L’altro, André Deed (il vero nome è André de Chapais) viene dal caffè-concerto ed è stato cantante e acrobata alle Folies-Bergères e allo Chatelet. A Montreuil conosce Méliès e impara quei trucchi che poi impiega in vari film. In Cretinetti e le donne, per esempio, è assalito da un turba di innamorate che lo riducono a pezzi, tanta è la foga del loro assalto. Ma le gambe, le mani, i vestiti, la testa, il cappello, come attratti da una forza invisibile, si raccolgono e ricompongono.

Presso la Pathé, André Deed inizia dal 1906 una serie di film col nome fisso di Boireau: Boireau déménage, Apprentissages de B., B. fait la noce, B. a mangi de l’ail, ecc. Poi passa in Italia, dove Boireau veniva tradotto per Beoncelli (Beoncelli funambolo, B. cerca sua moglie, B. cerimonioso, B. ficcanaso) e diventa Cretinetti (Gribouille per i francesi). Ecco alcuni titoli di film che nel 1910 figurano nei cataloghi della Itala Film: Cretinetti riceve, C. ruba il tappeto, C. vuole sposare la figlia del padrone, C. facchino, C. distratto, C. impara il salto mortale, C. si batte al con. none, C. finto frate, C. compera due soldi di patate, C. candidato femminista, C. vuol suicidarsi, C. re dei poliziotti, C. paga i debiti, C. ha ingoiato un gambero, C. sulle Alpi, Il Natale di C., C. al ballo, C. sposa la figlia, C. sposo suo malgrado, C. vittima della sua onestà, C. sa prendere le sue precauzioni, L’uomo a pezzi, Come l’ingordìgia rovinò il Natale di Cretinetti. Il sestuplo duello di Cretinetti (conosciuto anche sotto il titolo II duello) figura nel catalogo dell’Itala del 1912. Il lungometraggio Cretinetti e gli stivali del brasiliano è del 1915). Registi di queste comiche (3) sono indicati come Ernesto Yaser, Emilio Verdannes, e lo stesso Deed.

Non soltanto Polidor e Cretinetti, ma anche altri protagonisti delle nostre comiche cinematografiche, sono francesi. Poiché è a Torino che si formano quasi tutte le prime società che si dedicano alla produzione di film comici, e poiché mancano attori che abbiano determinate qualità acrobatiche e clownesche, (nonostante che un acrobata torinese si sforzi di supplire in parte a questa deficienza creando una scuola per attori acrobatici) i produttori ricercano in Francia gli elementi indispensabili e talvolta perfino i registi adatti. (Un «transfuga» francese rimasto abbastanza noto sarà Gaston Velie, che ripeterà in Italia le fantasmagorie di Méliès). Sono Marcel Fabre, che prende il nome di Robinet; Emilio Verdannes dal «ceffo assassino» (il primo Totò dello schermo) che passa le Alpi insieme a Deed. E gli italiani tengono spesso, anch’essi, ad assumere francesi: Armando Gelsomini si chiamerà Jolicoeur; la Cines avrà il suo Kri-Kri; e non mancheran-insieme ai Ravioli e Fringuelli, i Fricot, Riri (Annibaie Moran), Pik-Nik, Tartarin.

Sono, questi comici, protagonisti di lunghe serie di film. Robinet, che è alla Ambrosio Films, si ricorda oggi specialmente per il suo Avventure di Saturnino Farandola (in sei episodi, 1910-12) di cui curò anche la regìa preoccupandosi, oltre che di complesse figurazioni e scenografie, di servire il proprio giuoco di smorfie con insistite espressioni facciali, indici di esibizionismo e gigioneria. Altre sue interpretazioni sono :

Robinet questurino, R. ha il sonno duro, Capodanno di R., R. si dedica agli sports invernali, Gastone e R. vogliono prendere moglie, R. detective, Pesce d’Aprile di R., Astuzia dì R., R. l’avventuriero, R. vuol diventare eroe, Gli stivali di R., L’abito bianco di R., La scimmia di R. (tutti del 1911, per l’Ambrosio Film); Robinet guida per amore, Un complotto contro R., R. caricaturista, Un nuovo furto di R., R. soldato alpino, R. si allena per il giro d’Italia, R. fa il giro d’Italia, R. in un educandato, Lord R. il ladro inafferabile, L’evasione di Lord R., R. padre e figlio (tutti del 1912); Robinet anarchico, R. reporter, Una scommessa di Butalin e R. (del 1913).

Harry Langdon CC

Della produzione comica presso le varie società torinesi possiamo segnalare anche:

Itala Films : Il carretto di Totò, T. critico della nuova moda, T. senz’acqua, La farfalla di T. (1911). Totò portinaio, T. innamorato, Il portafortuna di T., Come T. riscuote l’affitto, T. non ha fortuna, T. ha ereditato (1912). Fringuelli e Virginia, L’onomastico di Fringuelli, F. se la vede brutta, F. a dura prova (1913).

Aquila Films: Jolicoeur ama la boxe, J. ama i fiori, J. affittacamere, La vendetta di ]., J. ama il salto, J. ha la parrucca, Le invenzioni di J., L’amabilità di J., Genialità di J., L’invenzione infernale di ]., J. vuol morire, La fame di ]., J. ha fretta, I. amoroso, La fortuna di J, La pipetta di Jolicoeur (1910). Pik-Nik vuol andare a Tripoli, P. ha il colera, P. è inflessibile, Come P. trovò 10.000 lire, P. conquistatore, La vittoria di P., P. finto pazzo, P. ha il do di petto, P. professore di danza, P, professore di jujitsu, P. rovina il matrimonio, Il giorno di S. Anna in casa di P. (1911), P. vuol andare a Tripoli, P. ha il colera (1912).

Navone Films: Monsieur Ravioli, R. cerimonioso, R. innamorato, R. impara a pattinare, Il suicidio di R., R. ama la boxe, R. innamorato della serva, Perchè R. non ha preso moglie (1910).

Ambrosio Films: Fricot ha freddo, F. soldato, Madame Fricot è gelosa, F. soffre d’insonnia, F. e l’estintore (1913).

Savoia Films : L’espediente amoroso di Riri, Suicidio di Rirì, R. Guglielmo Teli, R, ha un rivale nero, R. ha una coscienza (1912).

Centauro Films: Tartarin pompiere, T. innamorato, Una brutta giornata di T., T. e i cinque franchi, Le cinque lettere di T., T. finto cicerone (1912); Tartarin ingannato, T. disgraziato, T. autore drammatico, T. vittima di un colpo di vento, T. vittima dei suoi creditori, T. capoufficio, T. poliziotto, Come T. si libera dei suoi creditori, T. una panne, e il busto di sua cugina (1913).

«Quelle farse capricciose dirette dagli stessi protagonisti — scrive E. F. Palmieri in Vecchio cinema italiano — espressero una fantasia briosissima, fiorita dalle pagine di Labiche e Verne e dalle musiche di Lecocq: la fantasia di Méliès... Di un stile comico italiano non si può parlare... Tutti i cortei nuziali che in quelle farsette si imbronciano e si aggrovigliano escono dal «Cappello di paglia di Firenze» ; tutti quei personaggi appartengono al gaio e valente e vorticoso «pariginismo» del vaudeville e della pochade; il pariginismo, oggi, di René Clair, il quale ripete, divertito e maligno, Labiche, Méliès, Deed, Fabre, Guillaume, Max Linder.

La «comica finale» fu cinematografo schietto : lazzi, trucchi, assurde avventure, stregonerie. I cortei nuziali si danno al pugilato, e la sposa tenerella sviene tra le braccia di un gendarme provveduto di incrollabili mustacchi. Nell’austero palagio, gli invitati si rubano le bistecche dal piatto, i camerieri rovesciano sul frac più lindo il brodo più denso, la vecchia dama — il gonfio seno va su e giù, irrefrenabile, come un gibus — bacia strepitosamente i giovanotti. Innamorate con gli occhi negri, sterminati e sterminanti, i polpacci energici, i cappellini a sgrondo ; suocere turrite, baffute massacranti; mogli sempre in camicia che attendono, dietro l’uscio, i consorti goz-zovigliatori: e sulle bombette a larghe ali calano — patapim patapum — decisive randellate.

I pretendenti sfortunati uscivano dalla finestra — quinto piano — e rientravano, poco dopo, dalla porta. I dongiovanni arzilli, al caffè, venivano scagliati dai gelosi mariti verso il soffitto, e là, in aria, si fermavano a cavallo del lampadario. Polidor, insidiatore di fantesche, gettato da un cuoco nemico in una favolosa pignatta, balzava, asciutto e ilare, dall’acqua bollente. I gendarmi sparavano, le pallottole colpivano i sederini in fuga, ma nessun bandito finiva all’ospedale. Crollavano, nelle esplosioni, i palagi; ma Cretinetti era là, nella nuvola grigia, con la sua bella: e la nuvola si componeva con grazia, e si chiudeva puntuale come un velario, mentre due bocche, finalmente felici, "si incollavano.

Volavano le torte di panna, arabeschi d’argento, tanti confettini d’argento, e si sgomitolavano sul viso del sindaco impettito, del delegato severissimo, del capoufficio puntiglioso, della baronessa fulgida: e quelli si davano, così bardati, all’inseguimento più tenace, mascheroni bianchi di un carnevale frenetico.

I camerieri schiaffeggiavano il cliente sofìstico; i gendarmi si lasciavano derubare dal reo ammanettato ; i padroni di casa accettavano sulla testa, dagli inquilini squattrinati, un servizio di piatti per dodici persone. Le donne, a un certo punto, restavano in mutande : quelle mutande a campana, muniti di fiocchi azzurri. Sull’onesto pedone si precipitava un’auto sgangherata, e l’onesto pedone si levava e, con uno schiaffo, faceva saltare l’auto nel fiume. Oppure sul cappello di una rotonda signora, ornato di esili tortore, cadeva da una finestra un eletto gentiluomo: e la signora si cavava le sottane, poi la parrucca, poi il seno, e l’eletto gentiluomo, per l’alata virtù di un calcio, ritornava nelle sue stanze... Una girandola di smorfie, di salti, di botte; una comicità, una parodia francamente visiva. Erano i comici stessi che ideavano i soggetti — con finale a colpi di scopa o a torte di panna — che dirigevano, inventavano i trucchi».

Polidor Ferdinand Guillaume 1911 CCPolidor (Ferdinand Guillaume, 1911)

In aggiunta a quelli ricordati, altri film si potrebbero rintracciare nella vicenda del cinema muto italiano: le serie «Tontolini e Lea» e «Cocò» (Pacifico Aquilanti) presso la Cines di Roma; la serie «Cocciutelli» presso la Milano Films di Milano (4) ; e, se si vuole, anche quel gruppo di film a carattere vaudevillesco (1915-22) di Lucio d’Ambra (5), che imitati anche da registi tedeschi (Il re, le torri e gli alfieri), e di «commedia sofisticata» ante-litteram come Le nipoti d’America: un film del 1921 della Casear Film, diretto da Camillo De Riso, dove non si manca di prendere in giro certi tipi e costumi tramandatici appunto dalla commedia americana e portati a perfezione da Gracie Alien e Billie Burke. Qui si potrebbero trovare anche le tracce di un surrealismo innocente, alla Marx. Non mancano le cavalcature in salotto, e altre simili «loufoqueries», di cui il De Riso pare avere, insieme al D’Ambra, la specialità.

Ma accanto a questo genere di fantasia che prende le mosse dall’operetta, e che costituisce il miglior risultato di una commedia italiana — detta «brillante» —, le nostre comiche, eccettuati Deed e Guillaume, si succedono le une uguali alle altre, o via via più scadenti e spesso anche volgari, mentre anche nei film più celebrati di Robinet pare raccogliersi il peggior gusto del cinema italiano. E quegli elefanti dipinti di bianco, quella flotta di aerostati, quella cavalleria di palombari, quegli espio, ratori da mascherata, quei selvaggi mal dipinti e grotteschi, negli episodi del Saturnino Farandola, denunciavano l’impossibilità in Italia, al di fuori del surrealismo importato di Cretinetti e della baldanza mimico-gestuale di Polidor, di pervenire a una formula e a uno stile autonomi. Anche Totò (Verdannes) era sulla via di Deed; Jolicoeur, sommerso dal cattivo gusto e da una mancanza del senso della misura, non doveva essere certamente superato dai suoi concorrenti e compagni, se nessuna testimonianza, finora, ci resta d’essi, salvo i cataloghi donde i loro nomi emergono. Il posto dei comici doveva essere preso dagli atleti: e Maciste, dopo Cabiria noto in tutto il mondo, divertiva il pubblico con le sue «sventole» e schiacciando sotto il proprio peso qualche malcapitato austriaco, in Maciste alpino (1916), o stringendo il collo dei diavoli, come se fossero polli, in Maciste all’inferno. Raicevich, in Cavaliere dalla lieta figura (1922) appariva in veste di lottatore, accanto a un nano, e Casaleggio interpretava La bambola e il gigante; Saetta, in inseguimenti automobilistici e varie altre acrobazie, portava nel film d’avventure italiano il gusto della poursuite (1917).

Forse il risultato originale più rilevante, nella comica italiana muta, fu quello ottenuto da Fregoli, subito agli inizi del cinema, all’epoca del suo incontro a Lione coi fratelli Lumière, da cui aveva ottenuto un apparecchio cinematografico e qualche film «tre minuti». Successivamente esso aveva creato il «Fregoligraph» e riprese talune sue scene teatrali, che faceva proiettare nei propri spettacoli: Fregoli al caffè, Fregoli al ristorante, Un viaggio di Fregoli, Una farsa di Fregoli, Il segreto di Fregoli, Fregoli dietro le quinte, e il rituale «Stesso quadro alla rovescia». Il trasformista s’era divertito anche a dare voce, restando dietro allo schermo, ai vari personaggi che apparivano al pubblico. Ma quelle semplici prove cinematografiche, simili alle riprese delle creazioni sceniche di Ferravilla, non potevano apportare nulla alla evoluzione della comica cinematografica italiana. Esse erano soltanto del teatro fotografato.

Poste da parte le commedie di Lucio d’Ambra (periodo 1915-22), escluso dunque Cretinetti e il suo surrealismo di marca francese (ricordate quel tronco d’albero trasportato ciecamente da operai che frantuma continuamente l’azione e tutto rompe e sfascia, ostacolando perfino II duello) non si può non concludere che nella comica italiana muta manca l’unità, il genio unificatore, la scuola, il Mack Sennett. Il talento isolato degli attori è insufficiente a dare un carattere a questi film, salvo nel caso, come abbiamo detto, di una commedia «brillante», simile per carattere a quel, la operettistica e sofistificata di Lubitsch, o di un genere awenturoso-acrohatico, che peraltro non ha molti punti di contatto col film comico vero e proprio, data la esibizione «atletica», non «clownesca», dei suoi rappresentanti.

Il sonoro.

Con Petrolini, che tiene a battesimo la cinematografia comica italiana sonora (nel periodo del muto aveva preso parte a Mentre il pubblico ride di Mario Bonnard, girato nel 1919) si ripete lo stesso fenomeno cui abbiamo accennato con Fregoli e Ferravilla.

Oggi, rivedendo il Gastone o il Pulcinella delle Riviste Cines, il Nerone alla cui ripresa presiedette Blasetti (1930), Il medico per forza (da Molière), Il cortile (da Martini) noi abbiamo il documento visuale di un attore fra noi insuperato, che aveva il dono di farsi capire al Little Theatre di Londra e alla Potinière di Parigi come a Roma, per il talento inesauribile e la forza comunicativa della sua mimica, ma non un elemento nuovo dì progresso peT la storia della comica cinematografica italiana. Siamo, in un certo senso, ancora al risultato meccanicamente fotografico di Kid Auto Races. E ugualmente potremmo esservi con quello sketch, che mi pare s’intitoli Soldati 1896, contenuto nella Segretaria per tutti, film-rivista Za Bum composto nel 1933 da Amleto Palermi e prodotto da Mattoli, dove appaiono gli attori Camillo Pilotto, Vittorio De Sica, Umberto Melnati, Rocco D’Assunta, Checco Rissone. Qui, con quel fondale da palcoscenico, con la macchina fissa, il cinema italiano comico pare fermo al «teatro cinematografato» dei primitivi.

Una intuizione cinematografica sicura e fortunata, nel 1935, possiamo riconoscerla in Cappello a tre punte di Mario Camerini, anche per il suo incontro con due veri comici, i De Filippo, contornati da altri eccellenti attori quali Arturo Falconi (che qui ricorda, con l’occhio socchiuso, e l’insegna di comando delle guardie del governatore, il celebre Chester Conklin) e Viarisio, il macchiettista Pierozzi (così somigliante a Maldacea) e una schiera di autentici «forzuti», cantastorie, e mimi. Ma il film fu perseguitato dai tagli della censura, perché la satira delle gabelle (peggio di quella del mugnaio che non paga le tasse per merito d’ima bella moglie) poteva ricordare un episodio da non magnificare, quello di Masaniello. Camerini, che aveva diretto anche Figaro e la sua grande giornata (protagonista Gianfranco Giacchetti, 1931), ripiegò nella comedia comico-sentimentale, che in quello stesso tempo attraversò un periodo non incolore, per merito degli attori: i De Sica, Gandusio, Melnati, Elsa Merlimi, e soprattutto Armando Falconi, di cui non si può non ricordare il tipo di vecchio Rubacuori, disegnato anche in Patatrac e Ultima avventura.

Una concreta premessa per lo sviluppo di un cinema comico italiano, dunque, si veniva sviluppando. Sopravvenivano anche, oltre Macario che nel 1933 partecipava ad Aria di paese, spontaneo e fresco ma non decisivo, gli apporti considerevoli di Angelo Musco, che iniziava con Cinque a zero (1932), scritto da Michele Galdieri, e di Totò (De Curtis). Ma qui, la fortuna di avere a disposizione mimi di questo calibro, consumati e ricchissimi di naturale espressività (basterebbe ricordare il famoso «Ta lascio...» di Musco in Ereditò dello zio buonanima (1934): «Ta lascio... Ta lascio... M’ha lasciato in un mare di guai!...») suggerì ai produttori di valersi semplicisticamente delle commedie, o sketchs da rivista, più fortunate di questi attori. Il cinema italiano, con essi, si arricchiva di inarrivabili mimi (Musco però moriva nel 1937); ma gli impacci della letteratura drammatica, e di uno scadente teatro di rivista, non permettevano di scoprire una formula cinematografica definitiva e convincente. I film interpretati da Musco furono versioni per lo schermo dei suoi maggiori successi teatrali: Aria del continente, Gatta ci cova, Paraninfo, Fiat voluntas Dei, Smemorato, Pensaci Giacomino! (1932-37). Soltanto un altro suo famoso «cavallo di battaglia», S. Giovanni Decollato (1940), ebbe per protagonista Totò, il quale interpretò anche Animali pazzi, Allegro fantasma, I due orfanelli: prodotti gli uni e gli altri, per la maggior parte, dalla Capitani Film (dal 1938 in poi).

Dopo queste esperienze, precisate nel senso dell’attore, non della regia (che affidata a Palermi, Bonnard, Mattoli, non riesce ad affermarsi, in quanto manca d’una coscienza della comica cinematografica che sia cinema e non teatro filmato) appaiono sullo schermo italiano Aldo Fabrizi e Anna Magnani. E’ doveroso riconoscere a questi attori romani le cui origini sono simili a quelle di Petrolini, un ruolo ben maggiore — nel nostro cinema — di quello finora ad essi attribuito. Con Fabrizi e la Magnani giunge sullo schermo italiano il contrassegno d’uno stile, d’una formula nuova, d’un movimento che altri potranno chiamare anche «scuola». Assurti a «tipi» (come in altro senso potrebbero esserlo Chaplin o la Garbo) essi portano al pubblico di tutto il mondo un messaggio che è schiettamente italiano, e che diventa al tempo stesso capace di una significazione universale, perchè umana. Con Aldo Fabrizi ed Anna Magnani nasce il neorealismo. Se vogliamo ricercare dei precedenti a Roma città aperta (1945), il primo film italiano del dopoguerra in cui entrambi appaiono come protagonisti, dove trovarli se non in Avanti c’è posto, Ultima carrozzella, Campo de’ Fiori (1942-43)? L’apporto di Aldo e Nannarella alla costituzione spontanea di una formula dialettale e realistica, di recitazione e di paesaggio, è evidente. Intorno a Fabrizi, vetturino o tramviere, prete o «dicitore» di varietà ( come lo ricordiamo in un cortometraggio, il suo primo film), è la realtà, che il suo humour popolare, accrescendola e attizzandola, fa diventare realismo; intorno ad Anna Magnani, canzonettista di teatro o da strada, pescivendola o donna di casa, è ancora un realismo irruento, che del resto fa parte del suo «tipo», della sua conversazione e della sua pettinatura. E’ per questi attori che son nati i film dei rioni popolari, dei mercati, dei tribunali, delle folle accalcate sui tram.

In quegli ambienti, stipati come quei teatrini pittoreschi dove hanno compiuto le prime esperienze, o dove han visto Petrolini improvvisare a tu per tu cogli spettatori, essi non risparmiano la battuta buffa o scanzonata, eccessiva talvolta, che è come un modo di vivere, una filosofia. Poi, quando rientrano a casa dove un parente è in pericolo o un figlio è assente, combattente in guerra, non mancano di accenti accorati, accanto alle abituali e fiorite espressioni familiari. Ma controvoglia si passa alla guerra — nonostante che l’ideale sia Vivere in pace (1946) — alla città aperta, ai ragazzi abbandonati sulle strade: gli sciuscià. Ed ecco perchè quel riso popolare, finora spruzzato di poche lacrime, diventa improvvisamente dramma, sbigottimento, terrore degli invasori e dei banditi, amarezza per una gioventù che si perde. E questo è il neorealismo. Così in quei film, che sono scritti da Zavattini e Fellini, ma anche da Fabrizi (già nel 1928 egli dedicava, in «Lucciche al sole», una delle sue prime poesie al «Carettiere de Campo de Fiori») si sente che un film comico italiano può nascere ed è nato; e le carrozzelle e le pescherie, sentiamo di doverle a Fabrizi, che già abitò vicino al mercato di Piazza Farnese, dove i suoi parenti fanno tuttora i fruttivendoli ; e i tipi di attricetta di varietà, di popolana scapigliata, di madre che soffre e lotta per avere un tetto e per provvedere ai propri figli, e tutto con un fare spregiudicato e talvolta insolente, spaccone e al tempo stesso umile, sprezzante e insieme amichevole e generoso, li dobbiamo a Nannarella.

Robinet Marcel Fabre CCRobinet (Marcel Fabre)

Neorealismo e comico.

La formula istintivamente portata sullo schermo dai film dialettali dei due romani (e qui il film dialettale assume il compito che il teatro dialettale ha sempre avuto nel rinnovamento del nostro teatro) raggiunto, forse anche per caso, dopo molti tentativi e ricerche di vario genere, del resto non inutili, cui avevano partecipato dal 1937 in poi anche Sergio Tofano con il suggestivo e astratto O la borsa o la vita di C. L. Bragaglia, Dina Galli con Felicita Colombo e Nonna Felicita dalla commedia di Adami, Gilberto Govi con Che tempi! e Colpi di timone, pezzi forti del suo repertorio scenico, i De Rege con Milizia territoriale, Allegri masnadieri e Scuola dei timidi, Gandusio con L’Antenato, Viviani con Tavola dei poveri e Ultimo scugnizzo, i De Filippo con Non ti pago! e A che servono questi quattrini?

I tentativi si erano succeduti e ripetuti, avevano preso vie diverse e subito le influenze ora delle intenzioni d’avanguardia dei registi (O la borsa o la vita), ora della fiducia degli attori nei loro pezzi di bravura teatrali, ora nel tentativo dei soggettisti di individuare le vere fonti del comico cinematografico (Zavattini). Ma queste energie, che prendevano differenti direzioni, si disperdevano per il difetto di un senso unitario di cui difettava la produzione italiana. Tale situazione, col movimento creato in coincidenza con la guerra dai registi, dai soggettisti, e soprattutto dagli attori, veniva a modificarsi col neorealismo.

Si ebbero, dopo gli accenti drammatici posti dai film di Rossellini e De Sica, le interpretazioni della Magnani in Abbasso la miseria e Abbasso la ricchezza (1945-46). Poi fu Zampa (1946-47) che inseriva il film comico nel neorealismo con le sequenze celebri di Vivere in pace (il negro, il tedesco, Fabrizi e Ave Ninchi che danzano mentre il vecchietto suona la tromba), di Onorevole Angelina (la Magnani alla testa delle manifestanti) o di Anni difficili (la corsa dei gerarchi, in un più accentuato spirito farsesco). Questi brani potrebbero ricollegarsi anche a certe sfumature di De Sica in Ladri di biciclette (il teatrino, l’osteria), o di Blasetti in Quattro passi fra le nuvole (la sequenza della corriera con Sacripanti), o di Castellani in Mio figlio professore (con Fabrizi) e in Sotto il sole di Roma: film girati fra il 1943 e il 1949.

La comicità rivistaiola di Macario e Totò che nell’anteguerra cinematografico non era uscita dall’oscurità, dovette rinnovarsi. Non più, per il comico torinese, quei film basati premeditatamente sulla battuta pronunciata con innocenza: Lo vedi come sei!, Non me lo dire!, Il pirata sono io!, (1939-40) ; ma l’incontro, con un ambiente, con la vita, con il neorealismo infine. E Macario diventa il protagonista di Come persi la guerra (1947), che è, appunto, il neorealismo italiano trasferito al comico. Non si può dire che questo film abbia trovato, presso la critica italiana, gli stessi consensi ottenuti presso i francesi; e neppure il successivo Eroe della strada che ne continua la formula; e nemmeno quel Come scopersi l’America (1949) che, iniziato abbastanza felicemente sullo spunto dei movimenti di piazza attuali (in Come persi la guerra era stata la vicenda del soldato qualsiasi, costretto a cambiare sette uniformi; in Eroe della strada (1948) la ventura di un vagabondo, che aspira al possesso di una pianola). In questi film, comunque, non mancava la soluzione del problema del nostro film comico, anche se malsicuramente n’era applicata la formula. Non doveva trattarsi, però, d’nna risoluzione definitiva e meditata. Come scopersi l’America e Adamo ed Eva (1950) erano un passo indietro, un ritorno alla rivista, popolata di costumi fasulli come in Il pirata sono io! e come nelle vecchie comiche di Robinet; un nuovo allontanarsi, insomma, dalla soluzione del problema del comico.

Le prove di Totò, ai fini di una affermazione del film comico italiano, non erano risultate più valide. Tutte le possibilità di Totò, il suo giuoco mimico, il suo profondo senso del buffonesco restavano nel personaggio, non nelle avventure cui partecipava (dal 1943 in poi). Inutili apparivano le parole scientifiche di Totò nella fossa dei leoni (o Due cuori fra le belve) dove tuttavia era da ricordare quella espressiva immobilità del mimo nella ghiacciaia, che poi si ritrova anche nello sketch dei manichini nei Pompieri di Viggiù; grossolane e senza la ricchezza di un ritmo cinematografico le vicende della compagnia di guitti diretta dal Professor Trombone (film detto anche Il ratto delle Sabine) ; vieti i quiproquo dei film con personaggi gemelli e con terrificanti fantasmi. Tributo agli effettacci consueti, residui di giornalismo umoristico settimanale, anche quelle bottigliette che danno forza sansonesca a Totò le Mokò; strattagemma sommario, cui Totò indulge troppo, da varietà di second’ordine, quell’indossare il gonnellino sui calzoni nel ripetuto Due cuori fra le belve. Mentre nei Pompieri di Viggiù, per sfruttare qualche quadro di una rivista a successo (come le parodie di Petronio e Monsieur Verdoux eseguite da Dapporto), per soddisfare le ambizioni di Wanda Osiris, si dà una ben misera parata del nostro varieté, anch’esso — come il cinema — in cerca di una consistenza italiana, e invece vacillante di macchine e oppresso da cappelloni femminili da festa paesana (quelli che Tati invece vede con spirito ironico in Jour de féte), con la cafoneria rionale dei cantanti, e quel pietoso senso di raccapriccio che ispirano sovente le nostre ballerine di varietà (e la loro insufficienza — anche qui, difetto di «scuola» — è accresciuta dal regista Mario Mattoli, che le costringe a passare e ripassare davanti alla macchina da presa); col risultato, infine, di invalidare — con la lente d’ingrandimento del cinema — la nostra rivista, e porre in evidenza quel che di inferiore, di guitto, di basso, essa porta con sè (6).

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Chiedete invece, a qualunque spettatore, quale film preferisca di Totò. Vi risponderà Totò le Mokò (1949), e specialmente nella scena iniziale del suonatore ambulante, dove sono le vere origini di quel virtuosismo musicale che sfoggia in teatro, in tutti i finali; o Totò cerca casa (1950), dove il pubblico ama vederlo alle prese coi suoi stessi problemi della vita quotidiana, inserito nella scena e nell’ambiente della vita. Chiedete allo spettatore che cosa ricordi di Yvonne la Nuit (1949), che invece è una ricostruzione del mondo del piccolo varieté. Vi dirà: Totò che parte per la guerra, Totò che aspetta, seduto su un colonnino, mentre Yvonne è salita dall’avvocato; Totò che fà il cantastorie (come stupendamente lo facevano anche Petrolini e Anna Magnani nel varietà). E’ qui, infatti, nella spontaneità e semplicità del realismo, che Totò raggiunge nel cinema le sue espressioni più felici e profonde, senza far nulla, quasi: un guardare, un fregarsi, un riscaldarle le mani, un grattare la chitarra mentre gli occhi fissano il cielo, un mettersi a sedere con fatica. Totò qui dà appena un cenno delle sue profonde, non comuni possibilità mimico-gestuali. Poiché Totò recita con tutto il corpo: sa diventare gallinaceo come Charlot, tira dietro di sé la terra coi piedi come fanno i cani, arriva compunto nei locali eleganti se si veste da società (e il suo arrivo è già una presa in giro), parodieggia col passo gli apaches celebri, da Za-la-mort a Pepe, in Totò le Mokò. Ma il vero specchio, il vero «teatro» di Totò, è il volto, così come appare, ad esempio, immobile, nella cornice di pietra della fontanella in Imperatore di Capri (1950). Deformato come un disegno contemporaneo, il suo volto accompagna ogni battuta, ogni gesto, ogni sensazione ricevuta. Se parla, le labbra, gli occhi, le sopracciglia, si uniformano al discorso e atteggiano i lineamenti di continuo, come uno schermo dell’anima. Non sarebbe esagerato affermare che col volto di Totò, col solo volto, si potrebbe fare un «tre minuti» di avanguardia. La pagina cinematografica si ridurrebbe a un grande primo piano (come le mani nel tavolo verde da giuoco, diceva Zweig) dove le ciglia che si spostano, la bocca che si restringe o si allunga, la fronte che si aggrotta o rischiara, scriverebbero le parole.

I limiti purtroppo imposti a questo saggio impediscono di ricercare anche negli altri comici italiani i caratteri per cui gli uni dagli altri si differenziano. I nomi, tuttavia, che siam venuti facendo nel corso di queste pagine, provano che il cinema italiano, attingendo al teatro dialettale e al varietà, non manca di mezzi umani: i personaggi ci sono, e numerosi proprio come ai tempi della scuola del comico muto americano. Manca dunque, non diremo il regista, ma insomma l’animatore, l’unificatore, il Mach Sennett, quando non sia la loro stessa convinzione, il loro «umanesimo», a guidarli nelle vie del cinema. E questo Mack Sennett non potrà essere uno di quei tanti commercianti incolti ed empirici che spesso presiedono alla produzione cinematografia, ma dovrà essere, come l’altro, un attore, uno dei loro. Vorremmo che fosse Fabrizi, che lentamente sta impadronendosi della tecnica della regìa (attraverso Emigrantes e Benvenuto reverendo) ma che ha più influito sul neorealismo come soggetti, sta (anche in Vivere in pace) e come attore, che come direttore del film (1949-50); o Eduardo, il maggiore autore-attore del nostro teatro contemporaneo, esperiinentato al cinema da Cappello a tre punte a Campane a martello (1949), e che si è accinto anche a girare film tratti dalle sue cammedie più famose. Saprà legare il neorealismo al suo teatro, al «comico» meridionale? Quella, per noi, è la vera via del nostro cinema comico. E può forse ben darcela Napoli, che conosce il valore del linguaggio mimico-gestuale, dai suoi teorici ai suoi attori: terra di mimi, terra di cinema.

Sulle vie del comico si stanno oggi tentando in Italia esperienze che, anche se non appaiono a prima vista importanti, possono avere in sé, i germi di un futuro successo. Ma scoprirà la vera strada del classico Totò? E Macario ha veramente abbandonato la formula felice del realismo per le mascherate corali alla Robinet? Potrà Eduardo trasferire le sue commedie in immagini o indulgerà al filosofismo delle battute, che già diventano lo stesso peso al piede del suo teatro più recente. Capirà Peppino De Filippo che con la parodia di Chaplin (meglio a teatro, nel Piccolo caffè, che al cinema, con Biancaneve e i sette ladri, 1950) non fà che allontanarsi dalla comicità italiana senza raggiungere quella americana, perduta anche dal suo nuovo partner Mischa Auer?

Se c’è, nella produzione attuale italiana, a proposito di cinema comico, un film che pare raccogliere e riporgere tutte le esperienze positive del periodo del sonoro (quelle che abbiamo indicato nei film pre-realisti di Fabrizi e della Magnani) si tratta certamente del film di Castellani E’ primavera (1950). Con l’umorismo della caserma e del tribunale, del negozio di cartoleria e delle cucine domestiche, del treno e della strada, Castellani, che si è valso della sceneggiatura di Zavattini, Suzo Cecchi D’Amico e Brancati, e non ha dimenticato l’esperienza con Fabrizi (Mio figlio professore), ha in pugno una via sicura del comico, a più riprese intravista e abbandonata da altri cineasti. Il suo Beppe Agosti, (nella vita Mario Angelotti) è simpatico, comico e mobile, spontaneamente mimico, come Lloyd, Kaye, e Polidor. V’è, in questo film, la vera via della comica italiana, che mette a frutto tutte le esperienze del realismo, e che non si vale di una comicità volgare, ma meditata e di cultura. La frammentazione dell’azione, il giuoco della sceneggiatura, lo spostamento continuo della scena (dal sole accecante della Sicilia alla nebbia milanese, attraverso la primavera fiorentina) hanno permesso al regista di servirsi di «tipi» e «macchiette», superando abilmente il problema della interpretazione umana. Beppe Agosti potrebbe essere ancora impiegato allo stesso modo, diventare protagonista di una serie di film del genere? Forse si, se venisse educato al «comico», ma il film, se non dà indicazioni precise sull’attore, che valgano per l’avvenire, chiarisce il problema dell’ambiente e del ritmo, dei gags e delle sorprese, di cui il film comico necessita. Ecco perchè, pur difettando nel finale per una minor convinzione comunicata dallo scenario, pur ponendo un interrogativo sull’attore, per il futuro, esso è un autentico film comico, sapientemente composto dallo scenario e dalla regìa.

E’ primavera, come film preso nella sua unità, potrebbe rappresentare la soluzione del problema del comico cinematografico in Italia, essendone oggi, e forse lo è, il film più rappresentativo. Ma c’è di più: esso potrebbe rappresentare addirittura la soluzione del problema del film neorealista, che ormai denuncia la sua stanchezza. Nell’impossibilità — fatta d’isolamento — degli attori, così come avviene oggi anche in America, di affermare con la stessa forza di convinzione della «scuola Sennett J> il comico cinematografico di un preciso genere, creato da un certo umanismo, sono stati i registi (Castellani da noi, Preston Sturges in U.S.A.) a dare una dimostrazione di stile. Ma essi non hanno inventato nulla di nuovo: Sturges ha voluto ricollegarsi ai ritmi del cinema americano muto ; Castellani non ha fatto che prolungare, e «sistemare», il comico proposto dal realismo.

Riepilogo.

La cinematografia comica italiana è mancata finora di quella cultura e progressivo umanesimo, che si potrebbero ravvisare in una «scuola» come quella cui ha dato nome Sennett. Questo umanesimo è mancato non per l’assenza dei comici, ma per carenza di una tradizione comica nel nostro cinema, per l’equivoco teatrale protrattosi troppo a lungo nello spettacolo cinematografico (tutta la produzione Capitani del periodo anteguerra lo dimostra), per l’impotenza, quasi, dei nostri attori buffi, a sollevarsi su un piano maggiore nello spettacolo, costretti anche come furono a segnare il passo in un teatro di varietà rimasto fermo rispetto alla evoluzione del teatro di rivista straniero, almeno fino ad ieri.

Il neorealismo offre al comico italiano un ambiente e un linguaggio, un movimento concentrico che diventa esso stesso «scuola». Puntando sul realismo, Totò, come è avvenuto in taluni scorci di certi suoi film, può arrivare alla grandezza universale che è giustificata dalla eccezionalità della sua maschera. Puntando sul realismo, Macario ha ottenuto nel cinema i suoi risultati più felici. Col realismo Castellani, valendosi di scenaristi colti e «umanizzati», ha dato una dimostrazione di quel che può essere — oggi — il cinema italiano comico, non lontano dalle orme di quei film prerealisti della Magnani e di Fabrizi, che crea, vano il realismo, e insieme il realismo comico.

Fino ad ieri si procedette a tentoni: si fotografò lo sketch di Petrolini, e si fece appello al repertorio teatrale dei comici. Si tentò il film-rivista, senza possedere una «rivista». Si sfruttò, sbagliando, la battuta, il giornalismo umoristico, il costume. Si fece appello alle risorse della scena, non degli uomini. Ma Fabrizi, la Magnani, e Totò, ci hanno rivelato — poiché l’avevamo dimenticato — la personalità del vero «comico» ; ci hanno fatto scoprire, poiché non riuscivamo o vederlo, l’ambiente ; e Zavattini, Fellini, Tellini, Brancati, la d’Amico, hanno imparato a creare i loro scenari e gags non in astratto, ma sugli uomini. Al comico cinematografico italiano è apparso chiaro che, più del testo, era necessario, come a» tempi della commedia dell’arte, come ai tempi di Sennett, l’attore e il suo lazzo. E si è capito anche che cosa occorre a questo speciale attore comico cinematografico: essere — come affermava Francesco Fratellini — cantante, musicista, acrobata, imitatore, cavallerizzo, prestigiatore, ballerino, inventore e scrittore dei propri canovacci. Soltanto da questo creatore completo, che conosce tutte le arti insieme, che sa prender forza dallo spettacolo popolare e che riesce ad «umanizzarsi», il cinema comico italiano può ottenere una grandezza che del resto già ottenne nella commedia dell’arte e nel circo, da cui è nato tutto il cinema comico.

Mario Verdone, «Sequenze - Quaderni di Cinema - Il film comico», Volume 5-6, Anno II, Gennaio-Febbraio 1950


NOTE

(1) Loie Fuller diresse un film. «Le Lys de la vie», con attore Eené Clair, dove una ballerina, danzando au ralentis, sboccia come un fiore. Eené Clair la imitò in Entr ’acte.

(2) Non soltanto scene equestri e di caccia grossa si videro nei circhi, ma anche battaglie navali, nelle arene riempite d’acqua. Al «Nouveau Cinque» nel 1889, aveva gran successo una battaglia in miniatura, immaginata dall’ing. Solignac. E tra le prime scene animate di Wéliès furono: Combat nàval en Grèce (1897) ed Explosiou du euirassé Maine en rade de l”Havane, collisimi et naufrage en mer (1898).

(3) Cfr. M. A. Proio, Torino Cinematografica prima e dopo la guerra, in «Bianco e Nero», II. n. 10, Soma, 1938.

(4) Elenchi dei film della serie «Tontolìni» e «Cocciutelli» possono consultarsi nelle appendici ai saggi sul cinema italiano pubblicati da Boberto Paolella in vari numeri di «Bianco e Nero» (anni 1941-42).

(5) Cfr. Lucio d’Ambra, Sette anni dì cinema, in «Cinema» vecchia serie, vari numeri, Soma, 1937.

(6) Questa battaglia per un progresso dello spettacolo minore italiano non potrà essere vinta che con l’aiuto di una critica specializzata. Non esiste, da noi, una critica del varieté, del music-hall, del circo, del caffè-concerto, della canzonetta, e del balletto. Le eccezioni sono così rare che è preferibile sostenere in assoluto questa assenza. Forse le poche reazioni giustificate porrebbero un problema che oggi non è sentito in Italia. Vi sono riviste straniere che pubblicano saggi pieni d’impegno su Fats Wallei o su Maurice Chevalìer, editori che stampano libri .sui Fratellini e su Grock, ma rari sono i casi consimili in Italia (dovrei ricordare A. G. Bragaglia, il Corsi, il Cervelluti, il De Angelis, per quel che hanno scritto sul Petrolini o sul caffè-chantant, sulla danza popolare o sui pagliacci). E siccome la critica drammatica è, per molti aspetti, conservatrice, e lo prova l’ostilità che devono vincere i registi teatrali piti progrediti ad ogni nuovo spettacolo, spetta alla, critica cinematografica d’intervenire, per quel senso'' piti lato dello spettacolo moderno che essa possiede, per quella coscienza, che in essa è indispensabile, del debito che lo spettacolo cinematografico ha contratto verso tutti gli spettacoli minori, circo e music-hall in testa.