Approfondimenti e rassegna stampa - Titina De Filippo
Mi trovo a Tirrenia per visitare gli stabilimenti cinematografici della «Pisorno», In uno dei vasti teatri di posa si sta girando «Sono stato io» sotto la regìa di Materazzo: interpreti i tre frateili De Filippo. Eduardo e Peppino non sono nuovi alle emozioni dello schermo: si muovono da padroni e con sicurezza fra il groviglio dei cavi elettrici, scansano con abilità le gambe della «giraffa», sostengono senza battere ciglio i fasci di luci proiettati dai riflettori.
La neofita è Titina. Mi avvicino a lei mentre è intenta ad aggiustarsi l'ampio vestilo di seta nera di «donna Rosa». «Donna Rosa» è il personaggio che interpreta. Risponde con un largo e simpatico sorriso al mio saluto:
— Ah, né! Voi siete pure qua... Al solito... pupazzi... E' vero?
— Per forza, è il mio mestiere...
Tiro fuori carta e lapis e mi accingo a tracciare qualche caricatura.
Mentre lavoro, Titina mi mette al corrente delle sue impressioni sul metodo, per lei nuovo, di lavorazione e sui primi pezzi che ha visto girare nella sala di proiezione. E' evidentemente contenta e felice di tutte queste cose nuove che avvengono attorno a lei: il cinematografo, nella sua forma complessa d'arte, non poteva non interessare una attrice così intelligente. E infatti essa se ne è interessata, e guarda con orchi attenti e curiosi lo strano mondo del cinema che le vive intorno, la confusione caotica eppure senza conseguenze che regna nello «studio», specialmente nell'imminenza di girare una scena, lo strano e macchinoso armamentario che occorre per girare tutto.
— Finalmente ho conosciuto Titina De Filippo — mi dice.
Pregata da me, consente a scrivere, per le lettrici e i lettori di «Cinema Illustrazione», alcune delle sue impressioni personali. Eccovele:
Il mio primo film
«Lo schermo mi ha presentato Titina De Filippo. C'è poco da ridere. Io non la conoscevo. Si... ho sempre avuto degli specchi in casa (chi non ne ha?). Ma sappiamo che lo specchio è adulatore e, giuro, di non averci prestato mai troppa fede.
Il fatto vero è che io non avevo mai sentito parlare Titina... Questa figliola adorata da mammà, dispettosa con i fratelli, ammirata (perchè no?) sul palcoscenico, erano anni che ne sentivo parlare, che ne seguivo attentamente i progressi sul teatro attraverso la critica dei giornali... ma non la conoscevo.
Lo schermo me l‘ha presentata, ed io le ho stretto la mano con una corta soggezione, come succede a tutti coloro che si trovano per la prima volta in presenza di un personaggio importante. L’ho guardata a lungo con uaa indefinibile sfumatura di tristezza ed ho detto commossa tra me: in fondo le voglio troppo bene per valergliene...
Tltina
Umberto Onorato, «Cinema Illustrazione», 1 settembre 1937
Titina De Filippo ha passato l'estate a Tirrenia, per interpretare con i suoi due non meno celebri fratelli il film "Sono stato io", come è detto nella rubrica cinematografica di questo stesso fascicolo, nella quale riportiamo un giudizio cinematografico di Titina. Dunque, Titina appena aveva qualche minuto di libertà si recava al ristorante dello stabilimento e, stanca, non aveva la forza di parlare troppo; diceva al cameriere: «Fate voi», e dopo aver mangiato qualsiasi pietanza che il giovane le portava andava via lasciando, col conto, una lauta mancia.
Il cameriere in quasi due mesi si è sempre regolato allo stesso modo, e l’ultimo giorno di permanenza a Tirrenia dell'altrice, dopo il solito cerimoniale del «fate voi», del conto, della mancia, il cameriere ha detto a Titina :
— Mille grazie, signora; spero sia stata contenta dei pranzi ai quali ho pensato io, e se ha qualche amica che non sa leggere la mandi pure da me, che continuerò ad occuparmene io!
«Il Dramma», ottobre 1937
Da quando — circa due anni fa — i Fratelli De Filippo interpretarono il loro primo film, la loro fama di attori personali, originali, efficacissimi è enormemente cresciuta nell'estimazione del pubblico, cosi come la loro arte si è irrobustita, approfondita, raffinata. Ecco perchè il loro ritorno allo schermo costituisce un avvenimento che può davvero dirsi sensazionale ed il fatto di poterli vedere tutti e tre — Edoardo, Titilla, Peppino — riuniti in un film, è la maggior garanzia del successo.
Tutti conoscono la fortunata commedia di Paola Riccora «Sarà stato Giovannino! ». In quella chi andava per le peste era... Giovannino, eletto, suo malgrado, a capro espiatorio di tutto quello che succedeva in famiglia! Sullo schermo, e per merito della abilissima versione cinematografica, le cose cambiano un po’, gli intrecci si complicano, le trovate si moltiplicano, gli avvenimenti si succedono con ritmo più accelerato, i personaggi acquistano tutto il loro rilievo. Ed ecco perciò sbocciare la strana vertenza tra i Fratelli De Filippo: durante una festa di fidanzamento, la giovane e graziosa cameriera di Casa Apicella, cade svenuta; chiamato un medico, dopo ima rapida visita, dichiara che la ragazza è in istato interessante... La bomba scoppia con insolito rumore e due uomini, i De Filippo, dichiarano: « Sono stato lo! »...
L’appassionante interesse della trama movimentatissima, la varietà degli ambienti, l’abbondanza dei tipi, la ricchezza delle trovate, il succedersi delle sorprese, lo scoppiettìo di un dialogo vivo, aderente, sintetico, le molte risorse di una regìa sensibile e accuratissima e sopratutto l’incomparabile interpretazione dei Fratelli De Filippo, fanno si che Sono stato io! rappresenti una delle più brillanti affermazioni della cinematografia nazionale che viene cosi ad arricchirsi di un film bene ideato, ben diretto, benissimo interpretato, un film infine che diverte, commuove, convince. .
La «prima» ha luogo domani al Cinema Moderno.
«Il Messaggero», 21 dicembre 1937
I De Filippo sono tre e uno. (Fors'anche per questo raggiungono spesso la perfezione). Edoardo, Peppino, Titina usano regalare al pubblico innamorato una loro fotografia di gruppo, nella quale i due fratelli bilanciano, l'uno a destra e l'altro a sinistra, il sorriso della sorella, che è nel mezzo. Una specie di saliera. Gruppo familiare onesto, fotografia alquanto provincialotta, simpaticone, che essi distribuiscono a profusione, firmandola ognuno col proprio nome, agli spettatori ammirati. Fotografia borghese, ehe non ha niente che vedere colla loro arte, aristocratica e difficile. Né il pubblico potrà mai intuire, guardando queste tre brave persone in posa dinanzi all'obiettivo del fotografo per famiglia, la « prima qualità » della merce, la natura non comune cioè dei personaggi in questione, i quali hanno appunto questo di buono, che sono rimasti, nonostante il successo e i ditirambi, tre cari «guaglioni ».
Edoardo è alto, magro, olivastro. Una grazia curiosa, una raffinatezza ignota a lui medesimo, un che di mansueto, di grave ne ingentiliscono i tratti. Peppino è piuttosto basso, pallido, irrequieto. Un naso a schizzo fra due occhi fermi, che bucano. Titina è tonda, bionda, serena. Il segno degli anni ne immalinconisce la bontà con un che di spaurito, di schivo negli atteggiamenti e nello sguardo.
Edoardo, uomo, interessa assai meno di Peppino. Titina, donna, non interessa nessuno. Senonché il primo ha qualità misteriosissime e profonde, radici sepolte in una sensibilità che per destarsi ha bisogno del tepore del palcoscenico, della luce delle ribalte, dell'odore delle scene, del fiuto del pubblico. Animale di razza. Conoscete la sua voce? Fumosa, sotterranea, malata. Non ho mai interrogato un sonnambulo, ma penso che debba parlare così.
Ora quella voce acquista in scena vibrazioni, echi, aloni nuovi, struggenti, che non ti sai spiegare. E così il suo volto. Egli recita spesso senza l'ausilio del trucco, e pur non avendo maschera risentita, aborrendo le smorfie artificiose, mantenendosi fedele a una linea di naturalo compostezza, il suo volto assume espressioni di rara bellezza. E' l'anima, che ora gli illumina il pallore delle gote scavate, ora gli scoppia negli occhi, ora lo lascia vuoto, smemorato, senza vita.
Il gioco di Peppino è invece più evidente. Di fronte alla spiritualità del fratello, la sua maniera, il più delle volte sbarazzina e farsesca, ottiene effetti teatrali clamorosi, ma assai meno rari. La sua arte ha più risalto quanto più enigmatico e raffinato gli si contrappone il fratello. Sono due strumenti di natura opposta, il più e il meno, e l'uno è spesso il commento burlesco — in jazz — della frase accorata dell'altro. Peppino, come entra in scena, ha il pubblico dalla sua. anche se non ha niente da dire. Avverti in lui il comico nato e lo senti anche se gli parli fuori del palcoscenico, per quel suo personalissimo modo di non star mai fermo, di sottolineare le tue parole, di impuntarsi negli interrogativi, di figgerti gli occhi in fronte e il naso, che pare che voglia forare. Edoardo no. Edoardo entra in scena quasi sempre inosservato e per molte battute non lo noti. Il suo fascino si sprigiona a poco a poco, per virtù di elementi imponderabili, sfumati. Se vai a trovarlo in camerino t’accoglierà seduto dinanzi allo specchio, affranto. S'accarezza lentamente i capelli, guarda altrove, assorto. La sua anima è pena. E la sua arte anche.
Titina sta fra i due col suo sorriso rappacificatore. Ma sa cogliere in Edoardo i frutti amari per poterne piangere, mentre le lepidezze e gli sberleffi di Peppino trovano in lei, quasi sempre, cembali per il rimbalzo chiassoso. Sono tre e uno, e il loro pregio maggiore è proprio d’aver saputo sintetizzare in unità le ricche e disparate qualità di ognuno.
Non si possono sentire senza pensare ad un'orchestra in cui tutte le voci si fondono in una sola frase. Ma quando ti sembra ad esempio che Edoardo sia il violoncello. Poppino la tromba e Titina la viola, ecco d'un tratto il primo passare sui toni del contrabbasso, il secondo del violino e la donna virgolare il discorso con strappi di trombetta. Un attimo, e tutto sarà rovesciato daccapo. Ora è Titina che s'abbandona alle languide scivolate del clarino, Peppino contrassegna coi sospiri del trombone ed Edoardo è tutto un fremente galoppante crescendo di timpani.
Non me li so figurare recitare da soli, non sono capace di immaginarmeli uno di qua e l’altro di là. Un De Filippo senza gli altri due ci farebbe forse l’impressione di quelle malinconiche e stonate trombe dì quartiere, che suonano a sera nei silenzi delle caserme vuote. Portavoce ridicole e strazianti della nostalgia dei consegnati.
Eugenio Brunetti, «Il Dramma», anno XIX, 1 marzo 1938
Peppino De Filippo non ama la critica, o meglio sembra dare la preferenza a un critico solo: il pubblico. E' questo un altro dei tratti che lo distinguono da Eduardo. Quando Eduardo, rappresenta una commedia nuova, scritte da lui stesso (è ormai difficile che rappresenti commedie nuove d’altri autori), tutto è predisposto in modo di creare un avvenimento teatrale anche riguardo alle forme. Eduardo ambisce tutti i crismi; autore e attore, benché la sua origine dialettale e l'indole personale lo portino a tenere nella massima considerazione la sovranità, popolare, non ammetterebbe d’essere giudicato da una diecina di critici secondari. L’anno scorso, alla prima di Filumena Marturano, dopo il secondo atto ebbe il piacere di farsi fotografare nel suo camerino insieme a quasi tutti i critici milanesi Da Simoni a Campanile, quelle fotografie rappresentavano un giudizio avanti lettera. Peppino, invece, da un paio d'anni, rappresenta le sue commedie nuove in serate nelle quali in altro teatro venga rappresentata una novità più importante. Non è difficile rimandare uno spettacolo di ventiquattr'ore, o intendersi con la direzione di un teatro. Evidentemente la coincidenza è creata di proposito.
E' ammissibile soprattutto per gente che pensi poco, ma intanto la rivalità Eduardo-Peppino continua. Bei tempi, quelli dei primi De Filippo. Non erano Eduardo, nè Peppino nè Titilla, ma tutti insieme. Si sapeva che i tre fratelli avevano caratteri difficili, che fuori del teatro non erano divertenti e allegri come apparivano sulla scena, e per averne conferma bastava incontrarli dopo la recita in qualche casa amica. Peppino stava seduto ore ed ore su un divano, con repressione di uno il quale non si avveda della gente che gli si muove attorno. Eduardo non stava mai fermo, ma era difficile vederlo sorridere, e dai muscoli della sua faccia in continua vibrazione si diffondeva una penosa inquietudine. Titina, o era assente o aveva l’aria aggressiva. Sul palcoscenico, tuttavia, quel trio era perfetto. Tanto perfetto che anche adesso, nelle belle commedie di Eduardo, c’è sempre una parte per Peppino, recitata da altro attore e che invece si vorrebbe vedere interpretata da lui.Peppino sa che le sue commedie non reggono a un vaglio rigoroso, e sa che i sostituti dei critici più che esprimere un giudizio si attengono alla cronaca della serata. E' quel che basta. Il suo pubblico gli è fedele, composto di gente alla buona che va in teatro per veder lui, sicura di vederlo alla ribalta per tre quarti della commedia e disposta ad attenderlo pazientemente ogni volta ch’esce di scena. E' un pubblico che non si domanda nemmeno se la stessa commedia recitata da un altro attore, gli procurerebbe altrettanto diletto. Così è accaduto dall'ultima sua commedia Il bandito sono io. E' una farsa della quale i giornali si sono occupati pochissimo. Andò in scena, annunziata all’ultimo momento all’Olympia di Milano, la stessa sera, in cui all’Odeon andava in scena una novità di Géraldy annunziata da una settimana. Anche ai critici dei settimanali la cosa sembrò di poca importanza, ma la farsa si rappresenta da quindici sere e andrà avanti per un pezzo. C’è dentro di tutto, lazzi antichi, situazioni acquisite, battute nemmeno sempre rivestite a nuovo. Ma la vivezza di Peppino è tanta che nessuno ci pensa. E del resto è ammissibile anche un teatro scacciapensieri.
Cominciò Titina ad andarsene con Taranto. Lasciò il teatro per la rivista, e la distinzione era più che altro formale. Nelle riviste di Taranto la commedia ha gran parte, e nella recitazione dei De Filippo sono sempre presenti tanto l’eredità di Scarpetta quanto la memoria dei loro inizi che sono legati all’avanspettacolo e al caffè-concerto. Le farse di Peppino, in questo senso, significano appunto un ritorno allo stile dei primi tempi. Dopo un po’ d anni anche Peppino e Eduardo si divisero e gli appassionati del loro teatro pensarono con rammarico che non avrebbero più potuto riascoltare Natale in casa Cupiello. Eduardo si riuniva a Titina e la ricollocava in primo piano, ma l’antagonismo con Peppino s’inasprì, si esasperò, diventò, dicono, cattivo. Entrambi napoletani, entrambi autori di commedie, entrambi portati alle parti comiche (benché la sensibilità di Eduardo sia più ricca e profonda), pur contrastandosi cercarono di distinguersi imo dall’altro. Il dispetto indusse Eduardo a privarsi perfino del cognome che da tempo ha cessato di figurare nei manifesti delle sue compagnie: tanto lo conoscono tutti. Necessità pratiche indussero Peppino a rinunziare al dialetto napoletano e a circondarsi di attori che recitano in lingua. Ma anche questa rinunzia non ha niente di concreto. Le compagnie di Peppino e le sue commedie, sebbene tradotte in lingua italiana, rimangono tipicamente dialettali.
Il dissidio è profondo e non si sa quando nè come potrebbe aver fine. Esso mette a dura prova i rappresentanti del Reame di Napoli che sono numerosi in ogni città d’Italia. Nessuno vorrebbe dare la preferenza a uno dcji due fratelli; tutti si comportano con Eduardo badando di non offendere Peppino, e con Peppino in modo di non urtare la suscettibilità di Eduardo. A Milano, maestri di questa pratica sono don Peppino Somma e i fratelli Petriccione, Per essi vedere i De Filippo riuniti in una sola compagnia sarebbe un grande avvenimento e sicuramente in segreto sperano che ciò accadrà. Ma quando i piatti sono rotti è difficile riaggiustarli.
Raul Radice, «L'Europeo», anno III, n.50, 14 dicembre 1947
Davanti ad un albergo rivierasco, una sera d’estate, gli allegri villeggianti si riuniscono per assistere ad uno spettacolo di illusionismo. «Artefice magico» non sarà stavolta il povero Sik-Sik, manipolatore da suburbio, ma un tal «professore» Otto Marvuglia, disperato come l’altro, ma di lui più evoluto nella frode prestidigitatoria, e capace in sua dialettica, pur di avvolgere di nebbie iridescenti le proprie magagne, di discettare di «Finzione e realtà» in senso metafisico. Ma non basta. Allorché, come avviene davanti all'albergo, l'imbroglio consiste nel favorire da mezzano la fuga dì un’adultera, il «mago» non esita a spingere le cose agli estremi, e fa di tutto per convincere Calogero Di Spelta, consorte dell’infedele, di un fatto inaudito : egli, il professore, ha fatto passare la donna dal sarcofago egizio nel quale era stata rinchiusa da spettatrice a di buona volontà», in una cassetta delle proporzioni di un’urna cineraria. E Calogero Di Spelta ci crede.
E’, quello della donna nella cassetta, l'elemento nucleare poetico della più recente commedia di Eduardo, a Non aprire se non hai fede!» avverte l'illusionista. «Se apri quella scatola senza credere, fermamente credere, di trovarvi dentro tua moglie, la donna che ami non la vedrai mai più». Suggestione? Autorità fìsica del «taumaturgo»7 Timore ancor vago, ma non per questo meno ottenebrante, di averla perduta sul serio e per sempre, quella donna della quale Calogero s era dovuto confessare geloso, e forse non a torto? Sta di fatto che il marito abbandonato porta con sé la scatola, piccola, s’è detto, come l’urna d’un sogno. E non l’aprc. Ed informa la propria vita alle teorie del ciarlatano che egli ha assorbite come altrettante verità, e cioè che tutto a questo mondo altro non sia che illusione rappresa in cose, figure, eventi, amore e morte. Ve n’è davvero abbastanza per essere trattato da pazzo. e tale senz’altro è classificato il Di Spelta dai parenti, ipocriti e non disinteressati, a cominciare dalla madre. E Calogero invecchia rapidamente; e vaneggia, sia pure in chiave di grottesco, di Forma e di Vita, di Apparenza e di Realtà. A segno che. pietoso, l’alchimista di illusioni favolose Otto Marvuglia, il poveraccio che in sostanza s’è attaccato egli stesso a quelle idee per illudersi di vivere un poco anche lui, risolve di rompere l'aberrato incanto e ricondurre al marito la peccatrice che frattanto s’è pentita. E, difatti, gliela riconduce. Ma l'uomo crudelmente giocato preferisce restare nell'illusione, e nell'illusione trovare la salvezza. Fra tanta foschia di truffe e raggiri, egli ha conservato una sola chiarezza baluginante in fondo all’anima: il suo amore. E così vuol tenersi la donna morta ormai per lui : nella piccola bara istoriata di specchietti catarifrgenti, quella scatola che egli stava per aprire impaziente, nel momento in cui la moglie realmente gli era apparsa, ma che non aprirà mai più, fin che vivrà.
La più recente ed elaborata commedia di Eduardo De Filippo è questa, e non v’è chi non avverta in essa, trepido, e, fra tante invenzioni ridanciane, castissimo, un palpito di sensi squisiti. Non v’è. insomma, chi non vi senta soffrire, ciascuno a suo modo, degli esseri umani. Bisogna riconoscere che la gravità dell’assunto è tale che ad enunciarla cosi, con tanta naturalezza . al mezzo di scene che non mancano di contrasti umoreschi, ci vogliano la franchezza, la tecnica ed anche l’autorità che Eduardo De Filippo ha saputo conquistarsi presso il pubblico, in vent’anni. con la sua arte di autore e di interprete. E il pubblico l'accetta, impressionato.
Senonchè chi scrive queste note dopo la rappresentazione stima utile ed opportuno fissare un concetto che da tempo gli urgeva nella mente. Non si tratta di un rilievo formale, ma, come vedremo, di una constatazione di superamento, il quale superamento già non manca di incidere su parte delle commedie di Eduardo, da Questi fantasmi in poi. Fermo restando il valore intrinseco di La grande magìa, del resto riconosciuto ed esemplificato più sopra, lo spettatore attento e puntuale ch’io ardisco reputarmi non può fare a meno di porsi la domanda: Perchè mai la storia del professor Marvuglia e di Calogero Di Spelta è espressa, spessissimo nelle parale, e sempre nelle intonazioni, niella recitazione e persino nei silenzi, in dialetto napolitano? Volessimo prender le cose sottogamba, che non sarebbe giusto; non ci trovassimo di fronte ad un fenomeno d’arte che va coscienziosamente valutato ed approfondito; tot pigliasse, in brevi termini, vaghezza di celiare, diremmo che non è facile esprimere in dialetto l'equivalente drammatico di un problema cartesiano, giacché, al finale della commedia, Calogero Di Spelta ch’era giunto a dubitare della sua propria esistenza, si accorge di esistere, e lo dice, appunto perchè si sorprende a pensare. Ma non è di questo, che si tratta : l'intuizione pura può benissimo, ancorché non lo premediti, slanciarsi ad incentrare Cartesio. Il problema è un altro, ed è tecnico. Il linguaggio dialettale, quando non sia infantilmente fiabesco com’era in tante fantasmagorie del vecchio «San Carlino», presuppone il realismo più vero e più assoluto: quello della semplice, innocente verità. Ed è tale, altresì, da produrre all’impensata la sgradevole frizione della «battuta» facile, nel caso particolare inevitabile, con rimozione di una vicenda che malgrado le sovrastrutture è, e resta, dolorosamente umana. Calogero Di Spelta, un ometto un tantino automatico, ma in definitiva normale, soggiace all’illusione che gli è propinata dal Marvuglia, il quale ultimo non è un simbolo, ma realisticamente un povero diavolo che spiffera grandi case senza saperlo, ed anzi è convinto di giocar la «solita patacca» ad uno scempiato. E Di Spelta, che scempiato non è, gli crede, cesi come il protagonista di Questi fantasmi, il quale la sapeva lunga sulla vita e su gli uomini, e lo proclamava, credette alla storia del munifico spettro due gli infilava nottetempo fior di biglietti da mille nella tasca del pigiama. Ora tutto questo è surrealismo bell’e buono, ed il surrealismo abbisogna di messinscena, di ambientazione, di recitazione, di sostanza surrealiste, altrimenti lo spettatore può chiedersi sia di fronte al protagonista di Questi fantasmi che crede al fantasma, sia di fronte a quello de La grande magìa che crede alla donna nella scatola : «Com’è, che ci crede» ?
Eduardo De Filippo, che, per essere un uomo di teatro come pochi, è anche, a tempo e a luogo, vigile spettatore di ss stesso, ha preveduto l'eccezione potenziale, tanto che al terzo atto ha voluto lievemente stilizzare la scena. Ma l'uditorio quell’accezione non l'ha fatta: ha creduto all’autore, il quale è degno in tutto della fede del suo pubblico, e gli ha creduto sulla parola. Il successo infatti è stato schietto e cordiale. L’autore-interprete è stato pari alla propria forza. Messo da banda se stesso, por gusto o per civetteria, nei primi due atti, ha recitato nel terzo con calma, ma con un’intensità interiore di rara efficacia. Pittoresco, 'torbido, sfrontato, e, a volte, sgomento come doveva, Pietro Carloni, il quale si è tenuto con bravura e con lealtà nello spirito della commedia e del personaggio di Marvuglia. Perfetta Titina nella parte di Zafra compagna del «professore» e sirena incantatrice in disarmo: verso il finale, quando si comincia a ragionare di cose trascendentali, fa una faccia di chi non capisce niente ch’è una delizia. Commovente la Rosita Pisano nell'ombrettina 'diafana della giovanetta malata; bene il Giuffrè che s’è meritato un applauso a scena aperta nel «croquis» del brigadiere siculo che se ne lava drasticamente le mani. A posto da bravi Salvatore Costa, l’Amato, la Gore, Vittoria e Clara Crispo, il Donzelli, come ogni altro.
Ernesto Grassi, «Il Dramma», 1 gennaio 1950
L’esame di pianoforte, La prima di «Filumena» , La recita davanti al Papa, Il debutto come pittrice
Nelle famiglie napoletane, ai primi anni di questo secolo, e credo anche in quelle di altre città, l’immancabile salotto stile liberty, luogo di chiacchiere, di festicciuole alla buona, di approcci matrimoniali, non era un lusso ma una necessità. Le ragazze da marito, sorvegliatissime da genitori e da fratelli in perenne cospetto, prive di quelle libertà di cui oggi gode la gioventù femminile, dovevano prepararsi fin da bimbe allo studio del pianoforte. Sarebbe stato inconcepibile un salotto napoletano senza suoni e canti; e a queste due cose dovevano provvedere appunto le verginelle anelanti all’imeneo, con estenuanti lunghi anni di studio, anche se negate all’una e all’altra cosa. I pezzi d’obbligo erano l’«Ave Maria» di Gounod, il «Se...» di Denza e «Torna caro ideal» di Tosti; e, naturalmente, le canzoni napoletane in voga.
Voi direte: ma, perchè Titina De Filippo ci parla di queste cose? Ed io vi rispondo subito: perchè il pianoforte, da signorina, a Nàpoli, l’ho studiato anch’io, per ben sei anni. Studio, in casa, naturalmente, e con vari insegnanti. E mi ci ero appassionata a segno che volli un bel giorno rendermi conto degli effettivi progressi conseguiti. Misi sotto braccio vari fascicoli di musica, dal solfeggio alla sonatina, e, senza dir nulla ai miei, mi recai al Conservatorio di San Pietro a Maiella, per sostenere un esame. Un garbatissimo professore mi fece osservare che quello non era tempo di esami, che avrei comunque dovuto iscrivermi ed aspettare il luglio. Ma furono tali e tante le mie insistenze, che quel dabbenuomo fu costretto ad aprire un pianoforte e ad invitarmi a suonare. Eseguii uno studio di Chopin. «Che ve ne pare?», chiesi titubante alla fine. «Che ti posso dire, figliola mia, hai suonato come suonerebbe una allieva del sesto corso». Era quanto di meglio mi potessi aspettare. Infatti erano sei anni che studiavo. Gli baciai la mano e scappai via.
Ma devo dire che questa passione per la musica si andò assopendo, quando ne era già nata in me una più forte: quella del Teatro. Dove gli esami sono serali, e davanti a migliaia di esaminatori. I quali però, per la verità, sono molto sbrigativi; e se devono approvare o riprovare lo fanno subito, senza tante chiacchiere: o battendo le mani o fischiando.
Per quanto mi riguarda, il pubblico, bontà sua, mi è stato sempre largo di consensi, ed io l’ho ripagato mettendo in ogni interpretazione tutto del mio. Alla «prima» di Filumena Marturano che segnò un nuovo trionfo per Eduardo come autore e come scrittore, ed anche per me, ero talmente emozionata per la grande responsabilità della mia parte che credetti non avrei mai più potuto provare alcunché di simile. E, invece, mi sbagliavo. Una emozione ancora più forte mi era riservata. E la provai quando recitai un brano di quella commedia, dinanzi a un solo spettatore. Sì, ma si trattava, nientemeno, del Pontefice.
Quando fummo ammessi ; alla presenza del Santo Padre, che ci accolse con paterna benevolenza, ero unicamente preparata al filiale e devoto ossequio; di recitare, sia pure un brano di commedia, non potevo nemmeno lontanamente sospettarlo. Sua Santità si degnò di parlarci di Filumena Marturano che, a quanto gli avevano riferito, era ! una commedia profondamente cristiana. Fu a questo punto che chi ci accompagnava chiese al Pontefice se avrebbe consentito di ascoltare l’invocazione di Filumena alla Madonna, dalla viva voce della protagonista.
Il Papa sorrise, e con un gesto m’invitò a recitare i quel brano. Chi conosce la commedia sa che quella invocazione è fatta di parole che sembrerebbero persino irriguardose, se la violenza di linguaggio non fosse giustificata dal fatto che chi lo adopera è una povera giovane popolana di sentimenti primitivi, al limite del peccato. Temevo di essere irriverente ripetendo quelle parole al cospetto del Capo della Cristianità. E non esitai ad esternare questo timore.
Ma fu proprio Sua Santità, alla fine, a dirsi commosso e ad affermare che la veemenza di quella preghiera non poteva scaturire che da un animo credente. Quelle parole mi rimisero dalla «tremarella» che mi aveva tenuto compagnia prima e dopo la recita. E uscii dal Vaticano col cuore pieno di gioia per quella visita, che rimarrà fra gli incancellabili ricordi della mia vita.
Ma le emozioni, per me, sono come le ciliegie: una tira l’altra, e se molte me le procura il teatro, questa, e grossa assai, me la sono procurata da me, presentandomi al pubblico e alla ; critica d’arte milanese come pittrice. Pittrice di quadretti dipinti con la carta I colorata, «collages», come ; li chiamano gli esperti, o «tarsie». Vi confesso che è la prima volta che l’emozione ha avuto un piacevole sapore del tutto nuovo per me. Pensate. Essere giudicata non già attraverso un testo teatrale, e in un complesso d’attori, ma da sola, per mezzo di espressioni pittoriche, rivelatrici della mia anima e del mio modo di vedere e intendere le cose. Poesia. La parola grossa è scappata di penna a critici da inchini e scappellate. E mi ha commossa fino alle lagrime.
Titina De Filippo, «Domenica del Corriere», 3 dicembre 1950
A Titina non basta il teatro
Circa dieci anni la, in casa di certi amici napoletani, Titina De Filippo senti pronunciare per la prima volta in vita sua la parola collages. «E che sono 'sti collages? — chiese. Le spiegarono che si trattava di un particolare modo di fare i quadri: sul foglio o sulla tela, preparati con uno sfondo colorato o parzialmente dipinti, si incollavano figure e immagini ritagliate da giornali e riviste in modo da ottenere bizzarri contrasti di materia. «Insomma, una maniera di dipingere usando carta e colla al posto del colori e del pennello» — le dissero ridendo. Titina s’interessò alla cosa per qualche minuto con l’ingenuo, gioioso entusiasmo che le è proprio e che costituisce la prima ragione del suo valore di attrice. Poi il discorso cambiò, e l’argomento collages parve dimenticato per sempre.
Ma il giorno dopo, svegliandosi di buon mattino, come per caso le ritornò alla mente quella frase: «dipingere senza usare il pennello». Si era d’estate, la stagione teatrale era finita da alcuni mesi, e da un po’ di tempo Titina si sentiva inquieta, nervosa, avvertiva come un turgore, una pesantezza, quasi avesse bisogno di liberarsi di qualcosa: semplicemente aveva bisogno di «esprimere», di comunicare, di manifestare in qualche modo l’esuberanza del proprio temperamento. Come ogni artista vero, Titina non può mal stare in ozio: il silenzio, la quiete, la fanno star male. Le decisioni di Titina sono sempre fulminee, spalancò le finestre della sua stanza sul golfo partenopeo, prese forbici, colla, un cartoncino, alcune riviste illustrate che aveva acquistato il giorno prima. Che cosa «dipingere»? Eh diamine, il soggetto del suo primo quadro non poteva essere che il cielo e il mare della sua Napoli, e anche, si, un tratto di scogliera, e una grande vela arancione quasi immobile, per la distanza, nell’azzurro, e magari anche qualche casupola in fondo al golfo.
Titina cercò di ricordare le spiegazioni avute la sera prima: ma dalla teoria alla pratica il passo è lungo. Fortunatamente Titina è anche caparbia: e quando non sa qualcosa la inventa. Così riinventò per conto suo la tecnica del collage: dalle riviste ritagliò un’infinità di pezzetti di carta al quali si sforzò di dare i contorni degli oggetti che vedeva dalla finestra. Il tempo passava, Titina si appassionava sempre più al giuoco: quel giorno non scese a colazione, disdisse tutti gli appuntamenti, staccò la spina del telefono. La sera sembrava che nella sua stanza avesse nevicato: una neve policroma, di carta. Dalle mani .al capelli Titina era ingrommata di colla, aveva la febbre, si sentiva sfinita. Ma, sulla parete, un piccolo quadro riproduceva con esattezza gli allegri colori, l’aria luminosa e, quel che più conta, il senso, l’essenza profonda di una bella mattinata napoletana.
Fu l’anno scorso, durante un’altra assenza dalla scena (era un’assenza forzata, questa volta, dovuta a una malattia) che Titina ebbe l'impulso di riprendere in mano forbici e colla. Pensò di dipingere un Pulcinella, la maschera che più le è cara. Quando parla di Pulcinella, Titina ha un sorriso lieve, un po’ triste, e la voce le si fa sommessa. Riuscì a trasfondere questa commozione in tutti i pezzetti di carta con i quali formò l’immagine della maschera. E il collage che ne risultò ebbe davvero il segno della grazia artistica. Ignara anche del più rudimentali segreti del mestiere, Titina riuscì a impostare quella figura con un tale senso della prospettiva e con una tale solidità cromatica da far pensare che fosse aiutata da forze misteriose, sovrannaturali. Eduardo, che ha un po’ il pallino di queste cose, non si lasciò sfuggire l’occasione per tentar di convincere la sorella che si trattava di un fenomeno medianico. Più semplicemente è da ritenere si tratti di un’istintiva, fortissima esigenza di espressione che supera l’ostacolo dell’inesperienza tecnica. Comunque Titina, incoraggiata dal fratello e dal compagni di scena, seguitò. All’abilità istintiva si aggiunsero i piccoli trucchi della pratica, il gusto del colore andò sempre più affinandosi, le possibilità di rappresentazione si moltiplicarono.
Lo scorso autunno i De Filippo recitavano a Milano. Il corniciaio al quale Titina affidava quelle sue creazioni prima di regalarle agli amici, le fece vedere ad alcuni pittori che ne rimasero entusiasti. Nacque cosi l’idea della mostra. Dapprima Titina non voleva saperne. «Sono piccole cose — diceva, ma non era del tutto sincera — sono divertimenti miei, privati. Non é assolutamente il caso di esporli». In realtà, poiché a quelle «piccole cose» teneva moltissimo, temeva che ne potesse nascere un equivoco, che potessero esser scambiato Der un capriccio d’attrice. Infine Barbaroux la convinse a esporre una quarantina di quadretti nella sua galleria. Renato Simoni scrisse un'affettuosa pagina di presentazione sul catalogo, e una sera di fine ottobre Titina De Filippo conobbe per la seconda volta in vita sua le emozioni del debutto. Quella sera tanti anni di lavoro in pubblico, la lunga dimestichezza con le platee di tutto il mondo parvero non contare più. Titina risenti in cuore il panico dell'artista esordiente di fronte all’occhio severo del critico. Ma l’occhio dei critici e degli artisti milanesi non fu affatto severo. Molti che erano venuti convinti di dover sorridere e compiacersi delle stravaganze di una grande attrice, se ne andarono commossi dall’effettivo valore poetico di quel piccoli quadri. Alla diffidenza subentrò l’entusiasmo anche nei giudici più difficili: Carrà, Severini, Tosi. Borgese, Sciltlan, Cantatore, Messina le furono prodighi di testimonianze favorevoli; vollero che Titlna venisse nel loro studi, e passarono le serate con lei a giocare a scopone nelle «latterie» dietro piazza del Duomo. In pochi giorni i quaranta pezzi della mostra furono venduti tutti: a Roberto Rossellini, alla signora Brusadelli, al maggiori collezionisti lombardi: più di un milione d'incasso.
In questi giorni Titina è a Roma: è pronta per un'altra mostra. La farà a Roma, alla galleria dell'Obelisco, ai primi del mese prossimo. E intanto le ambizioni aumentano : vuole «fare grande» Titina, ora, vuole «fare solido» A Milano operai specializzati riproducono in marmo policromo il bozzetto di un suo Pulcinella che sarà esposto alla Triennale in giugno.
Luciano Budigna, «La Settimana Incom Illustrata», 31 marzo 1951
I due matrimoni di Titina
«Filumena Marturano» è una delle commedie più applaudite di Eduardo De Filippo. Come è noto in essa sono rappresentati i casi di una donna del popolo napoletano, ex-prostituta, vivente da trent’anni con uno dei suoi tanti amanti, l’industriale Domenico Soriano. Questo ultimo, egoista, fannullone e donnaiolo, vorrebbe disfarsi di Filumena ormai vecchia e sposare una bellissima e giovane straniera. Egli non esita a invitare la futura sposa nella casa dove convive con Filumena che in tali occasioni fa passare per sua governante. Ma Filumena para il colpo dandosi per moribonda: con macabra finzione si fa sposare in extremis dal commosso amante; quindi, una volta partito il prete salta più viva che mai dal letto di morte, decisa a sostenere d’ora in poi l’agognata parte di signora Soriano.
Ella spiega anche all’allibito industriale il perché della commedia: ha tre figli, nati, come si dice, dall’amore, e vuole che cessino di essere figli di nessuno e acquistino un nome, quello, appunto, di Soriano. Ira dello industriale, scenate, avvocati Filumena, forse per fierezza forse per calcolo, accetta alla fine l'annullamento del fraudolento legame matrimoniale e va a convivere con uno dei tre figli, un povero operaio. Ma con Filumena, dalla casa sontuosa di Domenico Soriano, esce anche la vita: vanno via le domestiche, solidali con la vecchia padrona, va via il fedele cameriere non senza impartire, prima di andarsene, una lezione di morale all’attonito padrone. Domenico Soriano comincia a sentire rimorso della propria durezza e del proprio egoismo, tanto più che i rapporti con la futura moglie non vanno bene, che gli mancano le vecchie cordiali abitudini di un tempo e che, infine, Filumena abilmente gli ha fatto credere che uno dei suoi tre ragazzi è figlio di lui. Pur di sentirsi chiamare «papà», Soriano risposa, questa volta sul serio, Filumena.
Nella commedia, come anche nel film che Eduardo De Filippo ne ha tratto, il carattere più complesso e più vitale è quello della protagonista insieme furba e generosa, calcolatrice e ingenua, ma. come appare, soprattutto ottima madre. E' un personaggio autentico, per nulla sentimentale, frugato con fermezza talvolta brutale, ravvivato da notazioni di un realismo originale (gli occhi asciutti di Filumena che piangono soltanto nell’ultima scena, quando essa è ormai sicura del fatto suo). Il personaggio dell’industriale non è meno vero: chiunque conosca Napoli e certi suoi ricchi oziosi, vi riconoscerà un tipo assai diffuso. Senonchè in questa figura il segno di De Filippo è meno fermo, più indulgente e più generico.
Eduardo De Filippo è regista come è commediografo: senza sussidi letterari o culturali, senza ricerche di stile, per originaria forza d'istinto. La sua regia, come già in Napoli milionaria, rivela una solidità artigiana, forse in qualche punto semplice fino alia rozzezza, ma efficace. La casa dell' industriale, per esempio, caratteristica casa di ricco napoletano, non è un fondale di teatro ma è sentita e descritta dalla macchina da presa con effetti talvolta sorprendenti. In scene o meglio scenate come quella che fa affacciare tutti gli inquilini del caseggiato, De Filippo oltrepassa di molto la pittura di genere. L’interpretazione di Titina De Filippo è da grande attrice. Ottima quella di Eduardo e di tutti gli altri.
Alberto Moravia, «L'Europeo», anno VII, n.49, 5 dicembre 1951
De Filippo, uno due e tre
La pace è tornata nella famiglia De Filippo
Come i letterati del nostro Rinascimento, che avevano due anime, una per la cultura ufficiale, il latino, ed una per il volgare (intendiamoci: il «volgare illustre» di Dante), molli nostri attori moderni uniscono l'attività teatrale, più ristretta e più... aristocratica, a quella più... democratica del cinema. E generalmente sullo schermo un Attore di teatro ha una personalità diversa, direi quasi che è complementare a se stesso: ciò dipendo dalla differenza fondamentale delle due arti, dei due diversi sistemi di «lavorazione».
Intervistare un attore del tipo di Peppino De Filippo è sempre una novità ricca di imprevisti. Ce lo figuravamo diverso da come è nella realtà. Il discorso cade naturalmente sul teatro e sul cinema. Anche lui fino od ora ha alternato la scena alla macchina da presa, riportando «grandi successi in ambedue i campi. Chiediamo al simpatico attore se gli è piaciuta In parte affidatagli in Ragazze da Marito a fianco dei due fratelli, con cui non lavorava più da molti anni.
In questo, che non vuole essere un film comico, Peppino ha il ruolo di un invadente traffichino che convince il cavalier Oreste Manilio (Eduardo) a mettere da parte la sua intemerata onestà di funzionario dello Stato, per fare quattrini in poco tempo e accasare finalmente le tre figlie. Tltina (Agnese) è naturalmente la moglie di Eduardo e, restando nel personaggio che si è creato a teatro, tanto briga e tanto si dà da fare, che riesco nel suo intento di madre e, fingendo perfino di affogarsi, finisce col piazzare le graziose zitelle.
I tre De Filippo stanno bene insieme. Anche se hanno un temperamento artistico diverso fra loro, Eduardo con quella sua maschera amara Petrolini napoletano, Peppino con quel suo petulante «savoire faire» partenopeo che non si perde mai di coraggio, Titina con quella sua patetica e vivace saggezza da popolana un po’ arrogante e attaccabrighe, i De Filippo sono una triade che non si dovrebbe più scindere. «Separare non bisogna».
In questi giorni è stata data a Parigi Filumena Marturano: il dialetto ha superato i limiti regionali e nazionali ed è diventato mezzo di scambio culturale. Il dialetto napoletano è il caso-limite del vernacoli: con i De Filippo sta assurgendo al ruolo di vera e propria «lingua». E infatti anche in Ragazze da Marito Peppino resta l’eterno napoletano che si infila dappertutto; come in Signori in carrozza e in altri film. Eduardo invece è un sottile pessimista ammantato di antico umorismo partenopeo, è il povero Travet che, trascinato dalle circostanze e dalla legge inesorabile della vita, si ribella e compie una disonestà che gli tormenta la coscienza, fino a che non si acquieta nella riparazione.
Eduardo ha voluto fare, con questo suo ultimo Ragazze da Marito, un film patetico, nonostante i molti spunti comici, un film da meditare e non da ridere soltanto. Questa, è la sega dei film drammatici e sentimentali. Dopo una valanga di film comici, forse per reazione, ci sono attualmente in cantiere ben 44 film drammatici. Quest'anno ci sarà poco da ridere! Per quanto riguarda il «genere» dialettale il pubblico ò abituato alla corposa e oraziana comicità di Fabrizi e alla saettante e fescennina ilarità di Totò: tutto ciò che è napoletano gli richiama alla mente i lazzi di Pulcinella e l'umorismo spregiudicato dei mimi di Mergellina.
Invece Eduardo è un attore drammatico, nonostante la sua «verve» napoletana. Strano destino quello di certi attori, che nel momento in cui vi fanno sorridere vi fanno anche spremere qualche furtiva lacrima. Certo l’Eduardo di Questi Fantasmi e de La Paura Numero Uno è diverso dall'Eduardo di Marito e Moglie. Ma Napoli Milionaria è egualmente efficace a teatro e al cinema: lì il comico sfocia inevitabilmente nel drammatico. Il cinema ha attratto molti attori dì teatro: oggi numerosi nostri «divi» da Gino Cervi ad Aroldo Tieri, da Carlo Ninchi ai De Filippo, sono anche i più quotati attori del teatro italiano.
E non si contentano di fare gli attori: vogliono essere anche i registi dei film che interpretano. Forse è una legge di compensazione: mentre a teatro chi conta è l’attore, oltre naturalmente al copione, e alla capacità singola di comunicare direttamente con la platea, al cinema chi «comanda» è il regista. Molti attori, da Charles Chaplin a Laurence Oliver hanno fatto ì registi di se stessi. In Italia abbiamo molti attori-registi, da Fabrizi a De Sica a Cortese. Ed Eduardo corona degnamente la lista.
Bartolomeo Rossetti, «Film d'oggi», 19 novembre 1952
Offre alle sue eroine cervello e cuore
Titina De Filippo personaggio ed interprete della leggenda napoletana
Il segreto della vita e dell’arte di Titina De Filippo è nella sua vitalità, il segreto di questa sua vitalità è nel teatro al quale questa grande attrice ha generosamente donato tutta se stessa e che l’ha, con pari generosità, sempre ripagata. Il segreto di questo felice connubio è Napoli.
Come i due fratelli Eduardo e Peppino ai cui nomi il suo è parso, per un certo tempo, indissolubilmente legato; come una fitta schiera di attori e artisti partenopei: come, forse, tutta la popolazione di quel vasto. incantevole e sconcertante palcoscenico che è la città di Pulcinella, Titina, venendo alla luce in uno sfolgorante giorno di agosto a Napoli, non aveva che due possibilità. O far dire un giorno a qualcuno: «Però, che attrice sarebbe stata quella donna», oppure far dire a molti: «Però, che donna intelligente dev’essere quell’attrice».
Esistono attrici che al personaggio di una donna offrono il prezioso contributo di una singolare sensibilità ed esistono, invece, attrici che a un personaggio possono e sanno offrire il cervello e il cuore di una donna. Titina De Filippo appartiene sicuramente a questa seconda e sparuta schiera.
Tutti conoscono le ultime affermazioni di questa attrice che, soprattutto con la tormentata umanità di «Filumena Marturano», ha dato l’alta misura delle sue capacità; ma molti ignorano l’incessante, viva passione con la quale Titina ha dato vita, per anni e anni, a personaggi che prendevano risalto solo in virtù del cuore, del volto, della voce di questa donna. Diversamente non sarebbero stati che una parte del meccanismo destinato a far saltare le molle della farsa attorno a uno o due protagonisti.
Ma la carriera artistica di Titina De Filippo, dopo un primo periodo di esclusiva attività teatrale, si è snodata anche lungo una serie di eccellenti interpretazioni cinematografiche. Oltre alla riduzione per lo schermo di «Filumena Marturano» e dell’altra fortunata commedia di Eduardo. «Napoli milionaria», si ricordano i personaggi da lei disegnati con sagace cura e buon gusto in molti altri film. Tra gli altri: «San Giovanni decollato», «Cinque poveri in automobile», «Cani e gatti», «Cento anni d’amore». Prossimamente la rivedremo nella versione cinematografica della famosa commedia di Zorzi «La vena d'oro» a fianco di Marta Toren e Richard Basehart e in «Ragazze d’oggi», con Nino Taranto e Mike Bon-giorno.
Dalla sua prima apparizione sugli schermi, che risale al 1937, in «Sono stato io», alle recenti interpretazioni, possiamo ben affermare che questa attrice non si è mai accontentata di riscuotere alla banca del cinema la rendita dei suoi cospicui depositi teatrali, ma ha sempre cercato di perfezionare ed adattare la sua arte al nuovo mezzo. I gesti, la mimica del volto, il tono delle battute passano sempre attraverso il cervello di questa donna che li umanizza e semplifica fino a renderli efficacemente essenziali. Poiché Titina De Filippo è, oltre che un’eccellente attrice, una donna sensìbile, colta e moderna.
Non è più un segreto per nessuno la sua incessante attività nel campo della pittura e del «collages». In ottobre, alla galleria Schneider, affronterà il giudizio del pubblico con una serie di dipinti a olio, cioè a dire con la pittura più classica, «del pittori», che si possa immaginare. Diremmo che è una donna coraggiosa se non conoscessimo ormai il suo buon gusto, la sua capacità autocritica. Perciò ci sentiamo in grado di affermare che i suoi quadri saranno degni e interessanti proprio come tali.
Infine, non poteva la sorella di Eduardo e Peppino non essere contagiata dall’irresistibile estro creativo di famiglia. La commedia «Quaranta ma non li dimostra», ricca di colorite e vivaci trovate, resta a testimoniare eloquentemente che neanche Titina ha usurpato la sua fama di commediografa. Di recente ha collabo-rato alla sceneggiatura di ben tre film.
Nel 1899 nacque a Napoli una creatura che facilmente avrebbe potuto rimanere per tutta la vita niente di più che una delle tante facce del più popolare guittismo partenopeo. Trent'anni dopo ce la troviamo invece dinanzi nei maggiori teatri, attrice di rilievo nonostante la forte e accentrante personalità dei due fratelli compagni di lavoro. Oggi slamo lieti di salutare in Titina De Filippo una delle più complete attrici del nostro teatro e una donna dall'ecclettismo misurato, sensibile a sofferto come il suo volto.
«Il Piccolo di Trieste», 30 giugno 1955
Le strade dei De Filippo conducono a Scarpetta
Peppino De Filippo ha festeggiato a Roma, convitando un gruppo di amici, le sue nozze d’oro con il teatro. La notizia, a prima vista, potrà sembrare sorprendente: cinquantanni di palcoscenico per un attore il cui atto di nascita ne denunzia pochi di più. Ma una volta, quando la famiglia dei figli d’arte era ancora prosperosa, essere portato sulla scena in fasce era cosa normale. E magari ci avranno portato anche Peppino, ma a lui interessa non già la sua prima apparizione in pubblico, quanto il ricordo della prima parte attribuitagli di proposito.
Nella ricorrenza del centenario della nascita della Duse si è insistentemente ricordato che Eleonora fu mandata alla ribalta per la prima volta all’età di cinque anni: le era stato assegnato, in una riduzione dei Miserabili, il personaggio di Cosetta. Anche Peppino doveva avere a un dipresso quell’età allorché assunse, se non andiamo errati, la parte del ragazzino Peppeniello in Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta. Quanti lo avevano preceduto in quella parte che Scarpetta aveva concepito per suo figlio Vincenzino? In cinquant'anni di palcoscenico, la cui prefazione fu dettata da Benedetto Croce, Scarpetta scriveva: « E chiudo questa rapida rassegna con Miseria e nobiltà, la quale se mi costò molta fatica, mi ricompensò anche largamente in applausi, lodi e quattrini. Per questa commedia ho avuto e avrò sempre una speciale predilezione, non solo perché credo che sia la migliore delle mie produzioni originali, ma ancora perché mi ricorda una data assai cara e dolce al mio cuore: il debutto di mio figlio Vincenzino. In quel bambino io mi rivedevo e mi ritrovavo perfettamente. Oltre alla somiglianza del volto, io sentivo in lui il suono della mia voce, e spesso mi riconoscevo nei suoi gesti». Poi: Invano cercai una particina per lui nelle mie vecchie commedie e riduzioni. Il mio amor proprio e la mia vanità di padre mi consigliarono infine di scrivere una commedia apposta per lui: una commedia dove egli avrebbe potuto emergere anche in una particina ».
Questa fu la genesi di Peppeniello, del quale divenne subito popolare la frase: « Vicienzo m’è pate a mme! ». Scarpetta, a tal proposito, così conclude: « Molti ricorderanno ancora il garbo, la verità e lo spirito coi quali il piccolo attore la profferì, attirando, tutt’a un tratto, sopra di sé l’attenzione del pubblico. Un lungo e sonoro scroscio di applauso l’accolse e mentre il povero piccino, mezzo smarrito e tremante, rientrava di corsa fra le quinte, cadde fra 'due braccia che lo stringevano forte forte sul cuore coprendogli il volto di lacrime e dì baci. Chi potrebbe ridirvi la emozione profonda provata da me quella sera? Vi confesso francamente che non mi aspettavo quel successo; e che quando fui obbligato ad accompagnare mio figlio alla ribalta, tremavo più di lui, di tenerezza e di gioia. La sera del 7 gennaio 1888 resterà eternamente scolpita in fondo al mio cuore».
Quanti piccoli attori, dicevamo, assunsero quella parte prima di Peppino? E quanti vi si cimentarono dopo di lui? Ricordiamo il nome di Stefano Brandi, che tra un po’ d’anni vorremmo veder celebrato, ed è forse il Peppeniello più recente (1953). Peppino De Filippo comunque, abbia o non abbia ricalcato le orme di Vincenzo Scarpetta, è partito di là: né mai sapremmo dimenticarlo. La sua evoluzione, la corposità, la violenza espressiva ch’egli ha via via acquistate, si innestano su una tradizione fulgida e inconfondibile alla quale egli è rimasto spiritualmente e fisicamente fedele.
E tuttavia non è detto che dallo stesso tronco, sempre, si diramino strade identiche. Se, dopo aver ricordato il cinquantennio di Peppino, sentiamo di dover trasferire il discorso non tanto su Eduardo De Filippo attore quanto su Eduardo commediografo, ciò non dipende dal rimpianto (a nostro parere « antistorico », e ne abbiamo più volte esaminate le ragioni) che taluni tuttora alimentano nei confronti del primo Teatro umoristico « I De Filippo », e nemmeno da un accostamento d'occasione ma da una realtà cronachistica di fatto, in questi giorni essendo riapparse nei teatri romani, a cura dello stesso Eduardo, due sue commedie che da tempo egli non rappresentava: La fortuna con la effe maiuscola, scritta in collaborazione con Armando Curcio nel 1942, e Le bugie non le gambe lunghe che sono del 1947 e cronologicamente si inseriscono tra Filumena Marturano e La grande magia.
L’avvicinamento delle due commedie, sia o non sia volontario (e probabilmente non lo è), è a parer nostro chiarificatore. Delia Fortuna con la effe maiuscola. che si rivela ancor oggi viva e vitale nonostante il gusto un po’ troppo geometrico della composizione, e alla quale Eduardo ha conferito un finale di qualità quasi cinematografica ma non per questo gratuito, scrivevamo altrove: « La commedia sta al confine tra quelle che furono le farse dei De Filippo (nelle quali alcuni vedono tuttora una stagione genialmente felice del teatro partenopeo: felice ed armoniosa) e il teatro di Eduardo iniziatosi tre anni dopo con Napoli milionaria! Teatro, quest’ultimo, altrimenti consapevole, cioè concepito e portato avanti con una asciuttezza e un vigore grazie ai quali anche i movimenti farseschi assolvono funzioni precise, laddove un tempo parevano esaurirsi in se stessi».
Con altre parole, nella Fortuna con la effe maiuscola, che già ha pretese non ingiustificate di commedia vera e propria, insieme a una fondamentale malinconia, tanto più desolata quanto più si riveste di dolcezze irridenti, avvertiamo non si dice una ricerca di effetti (del resto legittima) ma un calcolo di natura artigianesca che rimane tale anche se a non pochi parrà invidiabile. Ascoltandola, via via scopriamo una preventiva destinazione del meglio che la commedia comporta: un meglio equamente distribuito tra i personaggi principali, quando non si voglia dire tra attori perfettamente individuati. Scene godibili, che tuttavia nqn riescono a fare dimenticare entro quali strettoie la vocazione espressiva di Eduardo si dibatte per molti anni.
Con ciò non si dice che quei vincoli, almeno per un ceno tempo, egli non li abbia voluti e magari amati. Si intende tuttavia ribadire che la maggiore ampiezza del teatro di Eduardo comincia dal momento in cui da quei vincoli il commediografo si sentì liberato. È un trapasso del quale, se ancora ne avessimo avuto bisogno, Le bugie con le gambe lunghe ci danno la esatta misura. Quell’ingenuo Incoronato così sperduto nel mare delle menzogne convenzionali che i suoi simili hanno tutto l’interesse a portare avanti come altrettante verità, è sì un ritratto di Eduardo, lui pure partito dal Peppeniello di Miseria e nobiltà, ma è insieme una struggente immagine della solitudine contemporanea.
Raul Radice, «L'Europeo», anno XIV, n.52, 28 dicembre 1958
Da cinque anni si era ritirata dalle scene per una malattia al cuore
Si è spenta a Roma l'attrice Titina De Filippo
Indimenticabile la sua interpretazione di «Filumena Marturano» - Ha scritto e recitato insieme ai fratelli Eduardo e Peppino - Un grave lutto per il teatro
Roma, 26
L’attrice Titina De Filippo è morta oggi alle 18.30 circa. Le erano vicino il figlio Augusto Cartoni, giornalista, e il marito. Successivamente sono giunti i fratelli. Nella sua abitazione di via Archimede 149, ai Parioli, nell’appartamento che Titina De Filippo occupava al pianterreno dello stabile, è stata allestita una piccola camera ardente. Sono presenti i fratelli, Eduardo e Peppino, il figlio, altri parenti, e Antonio De Curtis (Totò), giunto in via Archimede dal suo appartamento romano in viale Parioli, alle 21.30 circa, dopo avere appreso la notizia della morte dell’attrice.
La nota attrice è stata assistita, in questi ultimi giorni, dai parenti e soprattutto dal figlio e dalla nuora che abitano in un appartamento al piano superiore dello stesso edificio. Dalle finestre, prospicienti via Archimede, si può intravvedere in una saletta, un piccolo albero di Natale, attorno al quale i De Filippo hanno celebrato la recente festa. Nel giardinetto che dà sulla strada è ancora illuminata una piccola edicola con una statuetta della Madonna, davanti alla quale sono stati posti dei fiori freschi.
Di tanto in tanto entrano nel-appartamento per rendere omaggio alla salma, parenti e amici. Non sono stati però ammessi nè giornalisti ne fotografi. Numerosi telegrammi arrivano in continuazione da parte di personalità del mondo artistico e teatrale.
I funerali di Titina De Filippo si svolgeranno dopodomani nella parrocchia del Sacro Cuore di Maria, in piazza Euclide, ai Parioli. Dopo le 23, Antonio De Curtis (Totò) ha lasciato l’abitazione dell'attrice in via Archimede; sono rimasti a vegliare la salma i fratelli Eduardo e Peppino De Filippo, il figlio ed alcuni parenti e amici.
A quanto è stato possibile apprendere dai parenti, Titina De Filippo, che da cinque anni aveva lasciato il teatro per una malattia di cuore, dedicandosi alla pittura e ai «collages», negli ultimi mesi aveva dovuto abbandonare anche queste attività che costituivano per lei ormai più che altro uno svago. La sua malattia si era notevolmente aggravata nei primi giorni di questa settimana, tanto da far ritenere prossima la fine. I parenti hanno quindi trascorso il Natale, accanto a Titina che si spegneva lentamente. Titina De Filippo era molto religiosa ed è morta dopo avere ricevuto gli ultimi Sacramenti.
Titina era nata a Napoli il 4 agosto 1898. Il suo nome era il diminutivo dì Annunziata. Insieme a Eduardo e a Peppino è stata una dei maggiori interpreti e autori del teatro. dialettale napoletano. Fu-insieme, attrice, pittrice e commediografa. Di lei, come interprete teatrale, l’«Encielopedia dello spettacolo» scrive: «L’arte di Titina sembra distinguersi per una sua immediata concretezza. Interprete sottilissima, spesso tagliente, non di rado animata . da un tal quale acredine, la comicità di Titina sembrò fin dagli esordi essere sul punto di rasentare il dramma. Già nella commedia "Quaranta ma non li dimostra” scritta in collaborazione con Peppino, questa ambiguità tanto più stupefacente, quanto più la recitazione dalla quale traeva origine appariva nitida ed esplicita, si rivelava sufficientemente matura».
«Filumena Marturano» (rappresentata per la prima volta al Politeama di Napoli nel ’46), segnò il culmine della carriera artistica di Titina. Essa interpretò, il personaggio della «Marturano» anche nel cinema, dandone un’interpretazione di raro vigore. «Filumena Morturano», il più famoso lavoro di Eduardo De Filippo, riscosse un successo senza precedenti. Esso fu rappresentato in quasi tutti i teatri del mondo, anche in Vaticano alla presenza di Pio XII.
Debutto nel cinema, nel 1937, Fra le altre interpretazioni cinematografiche ricordiamo quella di «Assunta Spina» (1947), «Napoli milionaria» (1950) e le ultime (del ’56) quelle dì «Motivo in maschera», «I pappagalli», «La banda degli onesti», «Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo», «Cortile». Nella parte dì sè stessa, è apparsa nel documentarlo «Il museo delle voci» di G. C. Castello, mentre sono suoi i dialoghi del film «Due soldi di speranza» di Castellani.
Diego Fabbri, appresa la notizia della morte dell’illustre attrice ha dichiarato: «La scomparsa di Titina De Filippo lascia un vuoto che non si colmerà: era attrice che univa alla spontaneità e alla veemenza napoletana una sottigliezza ai indagine e di sensibilità che la facevano attrice moderna quante altre mai. Oltre che una artista vera, era una grande anima e un grande cuore. Scompare con lei anche una donna straordinaria. Mi sento profondamente addolorato». L’attrice Anna Proclemer, ha detto: «Ammiravo non solo Titina come attrice, ma ero legata a lei da una antica amicizia che risale ai tempi della mia adolescenza. E’ stata la prima persona alla quale io abbia confidato di voler diventare a mia volta attrice».
Nino Taranto ha appreso la notizia mentre al teatro «Mediterraneo» di Napoli era impegnato in una recita, assieme a Macario, della commedia «Masaniello». L’attore, che nel 1939 ebbe per qualche anno Titina De Filippo nella sua compagnia di riviste, in un breve intervallo ha ricordato con commosse parale l’attrice scomparsa. Il Sindaco di Napoli, avv. Clemente, ha inviato un messaggio di cordoglio al marito ed al figlio di Titina De Filippo, affermando che la sua morte non è «un lutto soltanto per il teatro napoletano ma per tutto il teatro italiano».
«Il Piccolo di Trieste», 27 dicembre 1963
La scomparsa di una grande inimitabile attrice
Edoardo e Peppino vegliano la compianta salma di Titina
Roma, 27 mattino
La salma di Titina De Filippo è stata visitata anche stamane da numerosi amici ed estimatori della scomparsa, da attori, personalità del mondo dello spettacolo e della cultura, e da i pittori che avevano conosciuto l'attrice per la sua attività di pittrice. La salma è vegliata dai familiari, tra i quali i fratelli Edoardo e Peppino. I funerali si svolgeranno domani, sabato 28 dicembre, alle 12 nella chiesa del Sacro Cuore di Maria, in piazza Euclide.
Titina soffriva da tempo di una grave forma di asma che negli ultimi mesi si era notevolmente aggravata, tanto che da molte settimane non era più uscita di casa; l’attrice è stata assistita, in questi ultimi giorni dai parenti e soprattutto dal figlio e dalla moglie di lui, che abitano in un. appartamento al piano superiore dello stesso stabile. Negli ultimi giorni le condizioni di salute della nota attrice si erano ulteriormente aggravate, comunque nessuna cosa faceva prevedere la fine. Dalle finestre, prospicienti via Archimede, si può intravedere in una saletta, un piccolo albero di Natale, attorno al quale i De Filippo hanno celebrato la recente festa.
Titina, che era nata a Napoli 65 anni fa, fu insieme attrice, pittrice e commediografa. Fra le sue interpretazioni teatrali si ricordano quella di «Una creatura senza difesa», libero rifacimento dell'«Anniversario» di Cecov e quelle, nell’immediato dopoguerra, della Amalia di «Napoli milionaria», della Armida di «Questi fantasmi», della trepidante protagonista della «Paura n. 1», dove fu in diversa misura interprete istintiva e sorvegliatissima del sentimento materno, sulla scia della più celebre interpretazione di «Filumena Marturano», un personaggio che rimarrà indissolubilmente legato al suo nome.
Accanto a questa attività teatrale, svolta contemporaneamente come autrice (anche se i suoi lavori teatrali non hanno mai superato la misura dell’atto unico) come interprete e come scenografa, Titina ha svolto un’intensa attività cinematografica portando fra l’altro sullo schermò, con la regia del fratello maggiore, il personaggio | eduardiano di «Fllumena Marturano». Fra le altre interpretazioni cinematografiche ricordiamo quella di «Assunta Spina» (1947), «Napoli milionaria» (1950) e le ultime (del ’56) quelle di «Motivo in maschera», «I pappagalli», «La banda degli onesti», «Guardia, guardia scelte, brigadiere e maresciallo», «Cortile». Nella parta di sè stessa, è apparsa nel documentàrio .«Il museo, delle voci» dì G. C.. Castello, mentre sono stati suoi i dialoghi del film «Due soldi di speranza» di Castellani.
In questi ultimi anni, ritiratasi dal teatro e dal cinema, anche per il suo stato di salute, Titina si è soprattutto dedicata alla pittura.
«Il Piccolo Sera», 27 dicembre 1963
A Titina De Filippo l'ultimo saluto della folla
Con i familiari erano presenti al rito funebre, fra gli attori, De Sica Sofia Loren e Viarisio - La salma riposa accanto a quella della madre
Roma, 28
C’era una grande folla commossa, questa mattina, in piazza Euclide, a far ala al passaggio del silenzioso, mesto corteo funebre mossosi dalla non lontana via Archimede per scortare la bara di Titina De Filippo. E folla sui marciapiedi, lungo la strada. Sconosciuti ammiratori della grande attrice scomparsa, gente che l’aveva vista soltanto in televisione, o ne aveva udito soltanto parlare. Parecchi avevano preso apposta uno dei primi treni del mattino, da Napoli, per non mancare a questa estrema testimonianza di simpatia e di affetto per Titina. Tra la folla, qualcuno aveva gli occhi lucidi, ricordava di averla conosciuta in questa o in quella occasione. Uno mormorava «San Gennaro bello, quanta gente» e un altro che gli stava vicino «...Uno spettacolo, pare un grande spettacolo in un grande teatro, e la protagonista è ancora lei, povera Titina...»,
Il corteo avanzava lentamente. Subito dietro il feretro, i fratelli Eduardo e Peppino, il marito Pietro Carloni, il figlio Augusto con la moglie e i figli e altri parenti. Poi una piccola folla di amici e di attori tra quelli che più erano stati vicini alla grande attrice scomparsa. E le corone. Decine e decine di corone che chiudevano come un impenetrabile fondale il corteo.
Quando la bara è stata portata in chiesa e deposta sul catafalco il tempio era già affollato. Sul feretro un fascio di garofani bianchi dei nipotini e un fascio di rose rosse intrecciato con nastro sul quale era scritto il nome dei fratelli.
Alcune anziane signore si sono avvicinate al feretro. Hanno deposto sulla bara delle rosse stelle di Natale. Altre sconosciute donne del popolo hanno imitato il gesto lasciando cadere sopra e tutto intorno fiori, tanti fiori. Celebrava il parroco don Pietro Logar il quale era stato molto vicino all’attrice specie negli ultimi tempi.
Davanti all’altare erano raccolti in preghiera alcuni Padri domenicani di Santa Maria Sopra Minerva, sede del Terzo Ordine Domenicano del quale la attrice faceva parte.
I familiari avevano preso posto subito dietro i sacerdoti in preghiera. E tra i familiari molti attori, Totò, mestissimo in volto, s’era seduto accanto ad Eduardo. Sofia Loren, la quale era venuta insieme con Vittorio De Sica, era vicina a Peppino. E ancora si notavano Enrico Viarisio, Dante Maggio, Tino Carraro, Arnoldo Foà, Enzo Turco, Franca Faldini, Regina Bianchi, Caprioli e la Valeri, Riccardo Billi e tanti altri.
Erano venuti Gioacchino Forzano e Leonida Repaci, Patroni Griffi e Alfredo De Laurentis, il regista Giorgio Bianchi e Michele Galdieri. Presenti alle esequie anche il Sottosegretario agli Interni on. Mazza, il dott. De Biase in rappresentanza del Ministero per lo Spettacolo, il presidente dell’ANICA avv. Monaco, il direttore della SIAE avv. Ciampi.- Tra le corone, numerose quelle degli assenti, come Carlo Dapporto e Nino Taranto. Un teatro della capitale aveva inviato un’enorme corona tutta di sterlizie.
II rito funebre è terminato poco prima delle 13 e lentamente la folla di qualche centinaio di persone che era nel tempio è uscita seguendo la bara. Poi la salma, seguita soltanto dagli intimi, è stata, accompagnata al cimitero del Verano dove è stata tumulata nella tomba di famiglia accanto a quella della madre Luisa. A casa De Filippo intanto continuano a giungere messaggi di condoglianza. Ne sono giunti da ministri e da uomini politici, da esponenti del mondo teatrale e del mondo della cultura. Anche il Capo dello Stato ha fatto pervenire alla famiglia dell’attrice scomparsa un suo messaggio di condoglianza: «Con la scomparsa di Titina De Filippo — vi si legge — il Teatro di prosa italiano perde una delle sue più grandi interpreti. Nel parteciparle il mio profondo cordoglio invio a lei e alla famiglia sentite condoglianze».
«Il Piccolo Sera», 27 dicembre 1963
Ricordo triestino di Titina De Filippo
Inimitabile al "Verdi", brillantissima al "Rossetti"
Durante la guerra fu accanto a Taranto in una super-rivista sul palcoscenico del Politeama - Nel 1948 la trionfale interpretazione di «Filumena Marturano» per il nostro pubblico
Titina De Filippo, l’indimenticabile attrice scomparsa, ha dato numerose testimonianze della sua arte anche al pubblico triestino, che più volte ha avuto modo di applaudirla sia al Verdi sia al Politeama. I De Filippo, Eduardo, Peppino e Titina, diedero vita ad una compagnie nel 1931 e la
collaborazione dei tre fratelli durò una decina di anni circa, durante i quali essi calcarono tutti i palcoscenici di Italia con un repertorio molto vasto, formato in gran parte da lavori dei quali erano essi stessi gli autori.
La prima venuta a Trieste della «Compagnia napoletana» di Eduardo, Peppino e Titina rìsale al marzo del 1937. Al Verdi presentarono quindici lavori, tra i quali «Natale in casa Cupiello» di Eduardo che a quel tempo era il loro cavallo di battaglia. Nel dicembre dell’anno seguente la compagnia napoletana è nuovamente al Comunale con quattordici commedie, tra le quali ricorderemo «Quaranta ma non li dimostra» che si deve alla penna di Titina in collaborazione con Peppino. Fu quello uno dei sette lavori che l'attrice scrisse, dimostrandosi commediografa sensibile e sagace.
La terza venuta dei De Filippo nella nostra città si ha nel novembre del 1939 e alle rappresentazioni dei nove lavori il pubblico accorse numeroso come gli anni precedenti. Infatti ogni volta che gli attori napoletani arrivavano in città, al teatro si era costretti a prendere delle misure di emergenza per quanto riguarda la vendita dei biglietti, tanto lunghe erano le «code» di coloro che desideravano assistere alle rappresentazioni.
Nel 1940 Titina De Filippo accetta la proposta di Nino Taranto e fa compagnia con lui. Nel dicembre dello stesso anno il palcoscenico del Rossetti ospita la «Compagnia di super-rivista» che ottiene uno strepitoso successo per quindici sera con i due spettacoli «Sempre più difficile» e «Finalmente un imbecille». Nel gennaio del 1941 la compagnia è ancora a Trieste e continua le recite al Politeama per altre cinque sere con «Come ti voglio». Applausi scroscianti salutarono Taranto e Titina, la quale fu brillantissima dando una chiara dimostrazione del suo eclettico temperamento di artista, primeggiando anche in quel genere di spettacolo. Nel mese di marzo dello stesso anno è ancora con i due fratelli, ed eccoli in Compagnia al Verdi con altre otto commedie, tra le quali «A che servono questi quattrini» di Curdo, che suscitò ampi consensi nella critica nazionale.
Poi venne la guerra e anche i De Filippo dovettero sciogliere la loro compagnia. Bisogna attendere l’ottobre del 1948 per rivedere sul palcoscenico del Verdi ancora Titina De Filippo, questa volta assieme a Eduardo e Luciano Cervi, chè Peppino aveva fatto compagnia a parte con Rita Livesi, Lidia Martora, Cesare Bettarini e Vittorio Donati.
Vengono presentati cinque lavori tutti di Eduardo, fra cui «Napoli milionaria» e «Filumena Marturano», la commedia nella quale Titina profuse tutte le sue migliori energie e che rimarrà indissolubilmente legata al suo nome. A quel personaggio offerse tutto il suo cuore, la sua passione, dando l’esatta misura della sua arte e delle sue capacità interpretative e sceniche.
E tutti quegli sforzi furono pienamente ripagati, chè le soddisfazioni colte con «Filumena» furono veramente tante. Il ricordo di quei trionfi riuscì a convincere l’attrice circa un anno fa, quando ormai dal 1955 si era ritirata dalle scene a causa di una malattia, a interpretare ancora quella parte. Assieme a Eduardo recitò nuovamente la commedia per una incisione discografica; benché ammalata, Titina recitò con ineguagliabile impegno e quella registrazione è oggi una preziosa eredità.
Dopo le recite triestine del 1948 i medici consigliarono a Titina un lungo periodo di riposo, che l’artista trascorse in Riviera. Fu in quei mesi che ella nacque all’arte figurativa. Per caso, una sera, si mise a tagliuzzare una rivista illustrala americana, ma quando ebbe innanzi tutti quei pezzetti dì carta colorata, le venne l’idea dei «collage». Prese quei piccoli ritagli, li accostò, li attaccò ora su tela ora su legno, e diede vita a dei quadri. E non furono opere trascurabili: nel 1950 ne espose un certo numero in una galleria milanese. Poi nel 1951 venne la «personale» alla galleria «Blu di Prussia», sempre a Milano; fu una mostra originale che non lasciò però indifferente, la critica sia per la genialità dell’artista sta per gli effetti cromatici che ella riusciva a ottenere con quegli accostamenti di carte colorate. Più tardi si dedicò anche alla pittura ad olio ed ebbe successo esponendo in varie città italiane e anche all’estero e vendendo moltissimo.
Abbiamo parlato di Titina De Filippo attrice di teatro, pittrice, commediografa; ci resta ora di accennare alla sua attività cinematografica, perchè nel mondo della cellulòide ella riuscita imporsi come in teatro, e sono proprio quelle pellicole, oggi che non è più tra noi, a ricordarcela Viva per sempre. La prima apparizione sugli schermi risale al 1937 con «Sono stato io», ma dopo vennero altri dieci e più film, nei quali Titina non si accontentò mai di vivere di rendita, di far valere cioè la già molta esperienza teatrale, perchè cercò sempre di adattare e perfezionare la sua arte al nuovo mezzo, curando i gesti, la mimica, il tono delle battute.
Ricciotti Giollo, «Il Piccolo Sera», 27 dicembre 1963
È morta a Roma, il 26 dicembre 1963, Titina (Annunziata) De Filippo, sorella di Eduardo e di Peppino. Era nata a Napoli il 4 agosto 1898, due anni prima di Eduardo e cinque di Peppino. Era moglie dell'attore Pietro Carloni e madre di Augusto, che non ha seguilo la carriera dei genitori, dedicandosi invece al giornalismo. Figli d'arte, i tre fratelli De Filippo crebbero in palcoscenico, come si dice, prima nella Compagnia di Eduardo Scarpetta e poi in quella di Vincenzino Scarpetta suo figlio. In quest'ultima compagnia, rispettivamente, nel 1916, Titina era prima attrice giovane ed Eduardo secondo brillante. I loro primi esperimenti di iniziative personali furono le piccole riviste ed i teatri popolari. Titina De Filippo, aveva abbandonalo le scene nel 1953, costretta da una grave forma cardiaca, per la quale ha vissuto in continuo tremore, per sé ed i suoi cari, dieci anni.
Dal suo volto, nobilmente popolaresco, si effondeva sempre, anche nei momenti più comici o grotteschi o aggressivi, un accenno di severa malinconia. Era un che di intenso c sofferto, come una consapevolezza acre, dominata, dissimulata, dell'indigenza e del dolore. Volto largo, alta fronte, mascelle forti, grandi tratti, occhi spalancati, ed un sorrìso errante e che tosto svaniva: figura di donna ardita e pietosa. Con questa struttura drammatica, con questo piglio doloroso Titina De Filippo affrontò, con i fratelli Eduardo e Peppino, un repertorio a carattere farsesco. Apparentemente, si intende; farsesco nella mossa, nelle trovate clamorose, nell’esteriorità colorita fantasiosa cicalante dei personaggi, farsesco nelle pittoresche parate di tipi e di casi propri del festoso teatro napoletano, ma, come quasi tutte le eccellenti commedie di quell’illustre famiglia scenica, corroso, dentro, da uno struggimento di sofferenze, di nostalgie, di mortificazione che esalava le sue note più languide e mormorate e sospirate nella voce di Eduardo. Tra la precisione comica e scattante di Peppino e il crepuscolarismo ironico di Eduardo, la sorella era come una sintesi di magnifico equilibrio, palpitante, commovente, generosa e crudele, buffa e straziata, e clic in quelle trame variate di rìsa e di lacrime, trascorreva con perfetta umanità dalla caricatura all'incisione acuta, dalla burla al pianto.
Era nata a Napoli nel 1898, era cresciuta in un'atmosfera intelligentissima e straordinariamente istintiva di gente fatta per vivere sul palcoscenico. Il suo talento, la sua appassionatezza lucida, avida di tutti gli aspetti delle cose e del mondo, la avviarono poi anche per altre vie, di pittrice e scrittrice e commediografa. Ma il suo regno era là, alla ribalta. Non ch'ella, a fianco dei fratelli, in quel complesso di lucentezze espressive, splendesse d'un fuoco esaltante. No, ella semplicemente conquistava il pubblico per la solidità, la misura netta, signorile, accorta della recitazione, per la concretezza, come altri disse, dell'arte sua. Concreta, attenta alle sfumature, approfondita nei personaggi e in se stessa, rare volte le avvenne di strafare, o di forzare un contorno, o di cercare nel disegno barocco del personaggio o nella fittizia trepidazione, tendenziosi effetti di suggestione. Era calma, ben piantata sulle tavole del teatro, e la sua solida dimensione di attrice subito suscitava simpatia non solo teatrale ma umana.
Le sue donne erano vere donne, le sue interpretazioni erano schiette anche se il personaggio era retorico e un po' enfatico. Come le avvenne con l'interpretazione di Filumena Mari tirano. Dobbiamo ricordare le molte commedie nelle quali apparve tanto scabra quanto calda di vita? Chi non ricorda Titina in certe commedie di Eduardo, Napoli milionaria, Questi fantasmi. Paura numero uno?
Pronta a cogliere il tremito di un cuore e ad esprimersi con fraseggio netto e senza esitazioni, appena appena comica sul filo di un dramma segreto, drammatica con sprezzatura tra le cattiverie della sorte e del destino, la sua più ammirevole dote d’artista cru quella di darvi in un tempo solo, in un controcanto fermo e pure flessibile, tutto il nodo d'una vita. A volte erano cosette da nulla, o che parevano da nulla. Commediografa, scrisse vari atti unici dai quali traspariva questa sua anima delicata, c l'acutezza dell’osservare e la tenerezza di una sofferente simpatia. Dna di queste creature fu appunto Una creatura indifesa, che Titina aveva tratto da Cechov. Povere scene, poveri casi, e accenti fuggevoli ma penetranti, e fini e tenaci nell’addentare e mordere, nell'ironia c nella pietà. Una vecchia pensionata rimasta sola, senza più il nipote che l’aveva assistita per molti anni, va a ritirare la pensione; e si sbaglia, e anziché a una tesoreria dello Stato, si reca in una banca privata. Gli impiegati, un po’ in fretta, cercano di farle comprendere l'errore, ma lei, diffidente, si ostina. Crede che vogliano approfittare della sua condizione di « creatura senza difesa » e reclama i denari e strilla. Come può accadere, gli altri, anziché spiegare ed appianare il caso, lo rendono involontariamente sempre più ingarbugliato: e la donna, offesa ma aggressiva, triste ma ardita, minaccia uno scandalo. Per sbarazzarsene, povero relitto umano, fanno una colletta e le danno i soldi di quel suo misero mese di pensione. E allora la povera vecchia vuole firmare la ricevuta, secondo le regole, perché non immagina neppure che le abbiano fatta una carità...
Tutto qui, ma in quelle scene, che ella rappresentava con verità e commozione sorprendenti, c’era lei intera; c’era, soprattutto, il momento centrale, essenziale, della sua umanità scenica: un punto, nel quale si rifrangeva e balenava con bruno folgore, la sua più intima realtà di attrice. Aria di famiglia, arte che anche spiritualmente la collocava al centro del repertorio e del teatro dei suoi fratelli, dove ella fu come un accordo lungo e profondo: misura e sincerità. Così Titina rimane nel nostro ricordo: originale artista vera, e gemma di quel teatro dei De Filippo che nella storia delle nostre scene segna un tempo di sottilissima armonia e coralità, di simpatia incomparabile.
«Il Dramma», gennaio 1964
Riferimenti e bibliografie:
- Disegni di Umberto Onorato
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
- La Stampa
- La Nuova Stampa
- Stampa Sera
- Nuova Stampa Sera
- Il Messaggero
- Corriere della Sera
- Corriere d'Informazione
- Il Piccolo di Trieste
- Il Piccolo della Sera
- Il Piccolo delle ore diciotto
- Cinema Illustrazione
- Il Dramma
- L'Europeo
- Domenica del Corriere
- La Settimana Incom Illustrata
- Film d'oggi