Sordi finisce in carcere

Alberto-Sordi


1971 03 27 Tempo Alberto Sordi intro

"Un detenuto in attesa di giudizio" è il titolo del nuovo film di Alberto Sordi. Nato da un libro-inchiesta e da una serie di servizi televisivi sui penitenziari italiani, firmati da Emilio Sanna, il film ripropone in chiave satirica alcuni degli aspetti più drammatici della questione carceraria italiana

Roma, marzo

Sarà un innocente: lui, il più "colpevole" degli attori italiani, quell’Alberto Sordi che ha prestato la faccia a sanguisughe, sfruttatori, furfantelli, mezzecalzette, sarà improvvisamente la "vittima” per eccellenza, e lo sarà, diciamolo pure, senza troppa ironia, anzi con una notevole carica di drammaticità, in un film a sfondo sociologico, un film di denuncia, come si usa dire. Un "detenuto in attesa di giudizio”, un povero cristo preso per caso nelle maglie nefande del nostro sistema carcerario: dopo circa vent’anni di onorata comicità, la grande svolta, il copione serio, anzi serissimo. Vediamo: è preoccupato il cinquantunenne mattatore, la più celebre "faccia di bronzo” del nostro cinema?

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«Ma io non ho la faccia del comico. E lei ride. Ma è la verità, cerchi di non pensarmi "personaggio”, mi guardi così come sono; si dimentichi tutto, la parrocchietta, Mariopìo. Mi pensi come un signore qualsiasi, che lei vede per la prima volta; non so, lei non è mai andato al cinema, e mi dica se ho la faccia del comico».

Per esprimere un’idea così opinabile della quale — è ovvio — mi vuole complice, Alberto Sordi si è seduto di fronte, ha accavallato le gambe, si è tirato su l’impermeabile celeste portandone i lembi estremi sui ginocchi e mi guarda, severamente, dietro gli occhiali celesti, con gli occhi celesti. Non so dove voglia andare a parare, se intende prepararmi un innocuo imbroglio di cui, poi, si possa ridere insieme o se crede davvero a quello che dice; certo è che devo stare al gioco perchè non gli ho mai parlato prima di ora; non conosco lui, ma il suo personaggio e devo cacciarne la suggestione e accettare il rischio di quell’imbroglio. Mi piacerebbe battergli una mano sulla spalla e sciogliere la sua risata: «Albè, ma che vuoi da me?». Gli dico, invece, con un certo sforzo, che la sua faccia non fa ridere.

«Con una faccia come la mia, anzi, dirò meglio, con un fisico come il mio, quando cominciai a pensare di fare l’attore trovai un muro. Il pubblico era legato al tipo che fa ridere per la sua immagine: il grassone, lo spilungone, il piedipiatti. il rifinito con gli occhi strabici; un giovanotto normale non significava niente per il mondo del cinema. Come la fai ridere la gente?

Avevo paura del mio vocione

Mi salvò la voce. Per fare l’attore mi sono arrampicato sulle corde vocali. Avevo cinque anni e cantavo alla Cappella Sistina. ”Che bella vocina, ma questo è un angioletto” dicevano. A dieci anni, una mattina mi alzo e mi trovo un vocione, mamma mia che spavento; una voce profonda, bella, piena, ma da diavolo, assoluta-mente inadatta all’età e al fisico che mi portavo dietro. La gente diceva: ”Ma che ha fatto questo bambino?” ”Ragazzì, te sei magnato er rospo?” e rideva. Ma per via di questa voce di basso profondo, cinque anni dopo, quando avevo quindici anni, esordii nel cinema. Come doppiatore. La Metro Goldwin Mayer aveva bandito un concorso per trovare le voci adatte a Stan Laurei e Oliver Hardy e io mi presentai per doppiare il grassone. Fui subito scelto e fu un successo incredibile. Perchè ai toni profondi della vociona che io mettevo in bocca a Ollio si aggiunse la trovata degli accenti sbagliati: stupido. si ricorda? Si trattò di una trovata casuale, se vogliamo dire la verità. Fu suggerita ai distributori dal doppiaggio tentato dagli stessi americani a Hollywood del primo film dei due comici: un film, lei se lo ricorderà, intitolato "Muraglie" nel quale Stanlio e Ollio facevano la parte dei galeotti. In quel film tutti gli attori parlavano l’italiano con gli accenti sbagliati, dal direttore del carcere ai secondini: era stato doppiato da italo-americani un po’ incoscienti visto che il film, così com’era, avrebbe dovuto essere programmato in Italia. Allora a qualcuno venne in mente di lasciare quel linguaggio pazzesco nella bocca dei due comici e di far parlare, invece, come era logico, tutti gli altri, normalmente. Le risate del pubblico garantirono la bontà della trovata e il mio nome circolò negli ambienti cinematografici, ma quanto a trovare scritture fu un altro discorso: la mia fama era legata indissolubilmente al fisico di Oliver Hardy, io non ero nessuno: di farmi fare del cinema proprio non si parlò. Dovetti contentarmi per qualche tempo del teatro; una breve parentesi nella compagnia di Guido Riccioli e di Nanda Primavera e poi negli spettacoli Za Bum». Ci voleva Fellini, gli dico.

«Fellini viene molto dopo, e fu un disastro. No, no, prima ci fu la radio. Sì, fu ancora la voce a riportarmi sulla cresta dell’onda. L’onda sonora voglio dire. Perchè per un comico che non abbia la faccia da far ridere, la radio era l’unico trampolino. Oggi c’è la televisione, il discorso si è fatto diverso, ma allora l’unico modo per presentarsi a una platea grande come mezza Italia, era la radio. Io l’avevo capito bene e tentai tutte le strade per arrivarci. Conobbi Pugliese, si diventò amici. Gli dicevo: ”Io ci avrei un personaggio che farebbe divertire tutti gli italiani. E’ un personaggio vero. Proviene dalle organizzazioni dell’Azione cattolica. Io ho bazzicato la parrocchia, servivo messa, li conosco uno per uno, eppoi, mi creda, sono tutti uguali: giovani per bene, buoni, ma rompiscatole, voglio dire assillanti, cocciuti, insistenti, inflessibili anche se sembrano disposti a darti ragione, ma non te la danno mai e ti dicono che i problemi si risolvono con la gradualità. E’ tutta gente”, dicevo, "che fra qualche anno ci comanderà, ci scommette?”. Pugliese rideva, lo gli ripetevo, per convincerlo, che una satira intelligente, bonaria, ma legata alla realtà e alla storia del Paese non era mai stata fatta e che il mio personaggio le avrebbe aperto la porta. Pugliese rideva, ma non si decideva e io gii domandavo: ”Ma lei li conosce i compagnucci della parrocchietta? Faremo ridere tutti”. Ci vollero due anni e mezzo. Poi Pugliese cedette e io feci il mio programma».

Scoprire perchè i fatti avvengono

E allora dovette guardarsi intorno. Il suo personaggio non poteva ignorare un prossimo che, sotto vari travestimenti, impersonava il tipo dell’italiano medio, conformista per indole, retore per educazione, pappagallo per ragioni di prestigio, arrampicatore sociale, quanto basta, per i conferirsi un minimo di dignità. Tutti questi difetti che lei esaltava e mortificava nello stesso tempo, con un umorismo dissacrante e, per i tempi che correvano, coraggioso se non addirittura temerario, ogni ascoltatore li attribuiva al proprio vicino, mai a se stesso, e per questo si divertiva. Lei, Sordi, è un uomo curioso?

«Dire curioso è poco. Mi piace scoprire il mondo, le storie, entrarci dentro e capire il perchè. Qualche volta basta un suono, un gesto, un movimento, una divisa per suggerirmi un’idea da sviluppare in un racconto. Un giorno mi accorsi che i vigili urbani per andare in motocicletta si vestono da marziani. Non ci avevo mai fatto caso. Lei ci ha fatto caso? Ne venne fuori un film, forse non l’ha visto, ma ebbe successo».

Gli dico: Bene. Parliamo del suo successo. Per un decennio, almeno, dopo che, per via della voce. come ci ha spiegato, gli si aprirono le porte del cinema, l’Italia si è riconosciuta in Alberto Sordi ed è stata disposta a ridere facilmente con lui, ma oggi ride, ahimè, anche delle smorfie di Franco e Ciccio e questo non può non averla fatta riflettere un po’. Vero è che fra le sue prime interpretazioni c'è lo Sceicco bianco e poco dopo I vitelloni, film di Fellini, nei quali lei non fu una macchietta ma un vero personaggio calzante di una satira approfondita del costume provinciale, però i risultati artistici degli altri film sono modesti.

«E’ vero. Lo Sceicco bianco fu per Federico e per me un’amara delusione. Ci avevamo credulo fino in fondo e andò come andò, cioè non piacque. Poi vennero gli altri film — tanti! — con un buon successo di cassetta che giustifica — almeno in un senso — il loro modesto livello artistico. E che? Lei crede che, poi, non mi sia posto il problema di dimenticare un personaggio caro ma che aveva fatto il suo tempo per vestirmi definitivamente da uomo? Direi che ci sono riuscito quando, parendomi giusto, ho affrontato anche la regìa. Ma non posso fare sempre il regista dei miei film: mi manca il tempo. La regìa di un film non si limita, come lei sa, al periodo in cui viene girato; c’è poi il montaggio, il doppiaggio, la sincronizzazione, la colonna sonora, insomma, l’edizione, come si dice, che il regista deve seguire da capo a fondo. Così, meni re faccio un film come regista-attore ne potrei fare tranquillamente tre come solo attore».

Sì, capisco, è una questione economica.

«Be’? E allora? E’ una leggenda, mi creda. Io non sono un tirchio».

Ma io non gliel’lio chiesto.

«Ah no? Allora continuiamo a parlare di cinema. Girerò presto tre film: uno in Australia, uno in Unione Sovietica su Togliattigrad, e il terzo un po’ in Svezia e un po’ in Italia. Anzi, quest’ultimo, sarà, in ordine di tempo, il primo. Avremmo già dovuto cominciare a girare con la regìa di De Sica, poi il regista ha rinunciato e il produttore sta accordandosi con qualche altro. E’ un film che mi piace».

Comico?

«Direi di no. Anzi, il tono del film è senz’altro drammatico: è un film realistico sulla nostra società carceraria. Il comico viene fuori dalla situazione, incredibile, in cui si trova un innocente costretto al carcere preventivo».

E' un argomento di grande attualità; di questi se n’è parlato molto e se ne parla in Italia: crisi della giustizia, riforma del Codice penale, regolamenti delle case di pena. Il vostro sarà quello che si definisce un film-denuncia?

«Può darsi. Ma l’idea ci venne molto tempo fa, non ora. Poi si vide un’inchiesta televisiva sulle carceri italiane di Emilio Sanna e allora con Sònego, Amidei, Troisi e lo stesso Sanna si pensò a questo film che ha come titolo provvisorio: "Detenuto in attesa di giudizio"».

Ma in un film "drammatico” lei come se la cavera?

«Staremo a vedere. Del resto quando frequentavo. da giovane, la scuola di recitazione della signora Varini, scoprirono in me la stoffa dell'attore tragico. Ebbi perfino una scrittura per la compagnia Zacconi. Se fossi rimasto col grande Ermete ora, forse, reciterei l'Amleto. Ma quella vocazione fu abbandonata in cambio di diciotto lire giornaliere che mi furono offerte per presentare uno spettacolo di varietà, diciotto lire non erano da buttar via, e non sorrida, per favore. Sì, il film è drammatico — quando c’è di mezzo la prigione, c’è poco da ridere — ma lei ha mai letto il regolamento carcerario italiano? Lo legga. Da noi si trascura la lettura dei regolamenti e si fa male; l’editore che ne pubblicasse una piccola collana, economica, in buona veste tipografica, farebbe i soldi. Nel nostro film le situazioni comiche nascono proprio quando il protagonista, che sono io, pretende che

il regolamento carcerario venga rispettato alla lettera. Sì, io (cioè lui, il protagonista) sono un geometra italiano che è andato a lavorare in Svezia. Ho preso moglie, ho un paio di figli, mi sono subito inserito in una società, quella svedese, nella quale inserirsi non si fa un grande sforzo. Tutto va bene fino a quando crolla un viadotto su una strada italiana, e io, che facevo parte dei tecnici dell’impresa edile, vengo incriminato: le responsabilità del costruttore sono gravi perchè nella sciagura muoiono quattro persone. Ma io non c’entro, non ho alcuna colpa.

Quando il regolamento è applicato alla lettera

Un giorno, la polizia svedese mi invita a presentarmi al carcere e io, naturalmente, non oppongo alcuna resistenza. D’altra parte come avrei potuto resistere alle gentilezze dei poliziotti svedesi che mi chiedono perfino scusa di dovermi mettere dentro, dato che da loro il carcere preventivo non esiste? Ma si tratta proprio di un carcere oppure si tratta di un albergo di prima categoria travestito, con camere ariose, acqua corrente calda e fredda, doccia, sala delle riunioni, con televisore, sezione speciale per le mogli (o le fidanzate) che arrivano in visita per la fine settimana? Ci sto benissimo. Un giorno, però, accordata l’estradizione, mi dicono che devo partire per l’Italia. La moglie e i figli mi seguono (pensano di poter stare insieme con me, come in Svezia, il sabato e la domenica). Scendo all’aeroporto Forlanini di Milano, mi attendono un maresciallo e due agenti che subito mi mettono le manette e mi caricano sul cellulare. Vengo interrogato, isolato e poi trasferito in un carcere dell’Italia meridionale dove ancora passo alcuni giorni isolato. Dopo l’interrogatorio da parte del giudice istruttore che mi promette la libertà provvisoria sono tolto dall’isolamento e vengo messo insieme con altri detenuti in una specie di camerata comune. La vita si fa difficile: sono antipatico a tutti perchè ho i soldi con i quali posso comprare quello che voglio allo spaccio. Ammazza che riccone, e chi se crede da esse, tutti strabuzzano gli occhi. Finché avviene un episodio di sopraffazione. Possibile — dico — che avvengano queste cose? Ma non esiste un regolamento? Il regolamento esiste. E allora voglio che sia applicato alla lettera. Il cappellano mi appoggia. Il direttore è fuori di sè. I detenuti che dall’applicazione del regolamento hanno avuto perfino degli svantaggi, mi menano. E io, furibondo, reagisco tirando sgabelli, panche, tavoli. Quando riescono a calmarmi mi aspetta il letto di costrizione. Sono dichiarato pazzo e mi internano al manicomio. Pazzo non sono, ma soffro di una crisi depressiva e devo restare in osservazione. Il resto si può immaginare. Sono ormai un uomo distrutto. Quando esco dal manicomio anche la moglie è ripartita con i figli. E’ tornata in Svezia. Ecco, questa, alla meglio, è la trama».

Alberto Sordi mi guarda. «Mi pare una storia che funziona». Poi, come se ci ripensasse meglio. si mette a ridere. «Ammazza, che forza».

lo mi domando se davvero ci crede di non avere la faccia del comico. Ma ci creda o no resta il fatto che è l'uomo giusto per interpretare un tale film. E chi altri se non lui? Del resto dello stesso parere è anche Emilio Sanna, il giornalista televisivo (e uno dei più assidui collaboratori di 'Tempo”), che ha partecipato alla stesura del "trattamento”.

Eccezionali testimonianze diventano racconto

Perchè la collaborazione di Sanna al film? Perchè ormai Sanna è un "esperto” in materia di ordinamento penitenziario; perchè alla vita nelle carceri italiane ha dedicato un drammatico documentario trasmesso in TV lo scorso anno; perchè, sempre sull'argomento, ha scritto un libro, "Inchiesta sulle carceri” (edizione De Donato) . che contiene alcune eccezionali testimonianze e una serrata analisi di quella che si può senz’altro definire la nostra "vergogna" nazionale.

Perderà Sanna. improvvisamente scrittore di cinema, il suo mordente di giornalista?

«Certo, un film non è nè un libro nè un’inchiesta televisiva — dice Sanna. — Le concessioni al racconto, all'effetto, sono quindi inevitabili. Ma nonostante tutto questo credo che la sceneggiatura di un "Detenuto in attesa di giudizio” non evita nessuno scoglio, insomma non ha, come si dice, "peli sulla lingua”».

Sordi, a tuo giudizio, è l’uomo giusto per interpretare un tale film?

«Sordi è Sordi. Voglio dire che i tipi come lui possono fare tutto: tutto senza sbagliare. E il bello è che Sordi, in questo film, ci crede veramente. Ci crede come ci credo io».

Paolo Cavallina, «Tempo», anno XXXIII, n.13, 27 marzo 1971


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Paolo Cavallina, «Tempo», anno XXXIII, n.13, 27 marzo 1971