Le «forbici d'oro» della censura in quindici anni di cinema italiano
Per quanto tempo continueranno a tagliare?
Un problema sempre dì attualità e ancora non risolto - «Processo allo spettacolo» di Domenico Tarantini: libro dotato di una ricca documentazione e pubblicato al momento giusto - Da «Totò e Carolina» a «L'assassino» e a «Odissea nuda» - Dei tabù dei nostri schermi vittime anche molte pellicole straniere
Finite le spensieratezze balneari, l'autunno batte alle porte con un carico di problemi da risolvere nel corso della nuova stagione lavorativa. Di tali problemi, alcuni saranno poi effettivamente risolti, altri invece rinviati di una stagione o due. Nessun problema è però cosi pervicacemente cronico come quello del definitivo ordinamento della situazione cinematografica italiana, rinviato di anno in anno mediante proroghe di vecchie e pericolose leggi. Si riuscirà stavolta a risolverlo nel suo doppio aspetto censorio e amministrativo? Confessiamo che la nostra speranza è molto vaga. Non ci si è riusciti prima, quando le acque erano relativamente calme, figuriamoci adesso, dopo le strabilianti complicazioni della stagione scorsa! Comunque proprio a tempo, alla vigilia della ripresa dei dibattiti, le Edizioni di Comunità hanno fatto uscire un libro di Domenico Tarantini che, brevemente quanto densamente, fa il punto della situazione in cui versa la libertà del nostro cinema Niente di meglio, per rinfrescarsi le idee in proposito, che dargli un'accurata occhiata.
Il titolo del libro è assai impegnativo: «Processo allo spettacolo». In realtà il giornalista pugliese non intenta un processo al cinema o al teatro bensì a coloro che assoggettano lo spettacolo nelle sue varie forme a processi più o meno inquisitorii. Di conseguenza a ciascuno di questi tribunali è dedicato un diverso capitolo, salvo poi, in altri capitoli, commentare i fatti nel loro complesso e trarne l’allarmante morale che da noi è in gioco non tanto la libertà dello spettacolo quanto la libertà tout court. Ora, tale estrema opinione noi. personalmente, non ci sentiamo di condividere. Gli stessi editori, in un'avvertenza che precede il testo, avanzano qualche riserva, pur dando atto all’autore della sua sincera e completa lealtà, nonché di tana certa vivacità polemica che, a onor del vero, non risparmia nessuno» Siamo tuttavia anche noi pienamente d’accordo con la tesi centrale del libro: a regolare questa materia è più che sufficiente il codice, ogni altra forma di censura essendo illiberale, fatalmente aperta all'arbitrio e succubo del potere. E troviamo utile per i nostri lettori accennare qui alle tappe lungo le quali si è svolta l’appassionata indagine del collega.
Le grandi fatiche
Un titolo come «Le forbici d'oro» basta a individuare il carattere del primo capitolo. Si tratta di un campionario delle grandi fatiche dei censori nel nostro paese, dal ‘45 ad oggi. Un campionario, non di più. Un documento di maggior impegno avrebbe richiesto da solo qualche centinaio di pagine Ma anche i pochi casi elencati dal Tarantini, essendo i più importanti, bastano allo scopo, a partire da quello di «Totò e Carolina» che il regista Monicelli si vide, chissà perché, bocciare dalla commissione di censura, una prima volta perché rappresentava «un oltraggio alle forze di polizia, un'offesa al pudore e alla religione» e una seconda perchè offendeva non più la religione ma «la morale, la pubblica decenza e le forze di polizia». E pensare che si trattava di un filmetto bonario, senza pretese, senza problemi né piccoli né grossi, avente come protagonista un agente di polizia umano e sensibile ai casi di una brava e sfortunata ragazza!
Altri clamorosi interventi censorii dell'epoca riguardano «Anni facili» di Luigi Zampa, che si vuole spoliticizzato ad ogni costo e non ottiene il visto d'esportazione nonostante sia stato scelto per la mostra di Venezia; «Il grido» di Michelangelo Antonioni, cui si strappano duecento metri iniziali in maniera tale che, venendo a mancare il motivo psicologico del libertinaggio del protagonista, l'azione di questi finisce con l'avere moventi solo sessuali e, scrive il regista, il film da morale diventa effettivamente immorale: «L'uomo e il diavolo» di Claude Autant-Lara, tratto da «Le rouge et le non» di Stendhal, che viene dagli incerti censori dapprima tagliuzzato, poi proibito, poi ridotto alla metà con tagli per circa novanta minuti di proiezione, poi messo in circolazione e. infine di nuovo proibito per motivi di ordine pubblico, Ma l’elenco dei film spuntati, mutilati, alterati, smussati, sterilizzati in vano modo è lunghissimo, da «La spiaggia» di Lattuada a «Senso» di Visconti, da «Anni difficili» di Zampa a «Il cammino della speranza» di Germi, da «Il bell'Antonio» di Bolognini a «La ragazza in vetrina» di Emmer, da «Odissea nuda» di Rossi a «Il gobbo» di Lizzani, fino al recente e tartassatissimo «L’assassino» di Petri. Scorrendo tale elenco, appare evidente che, ieri come oggi, non c'è regista di qualche rilievo che non sia stato colpito almeno una volta, e non c'è pellicola di qualche importanza che non abbia dovuto subire più o meno pronunciati interventi chirurgici.
Altro lungo elenco, cui Tarantini dedica il capitolo successivo, è quello degli argomenti tabù per il nostro cinema. Guai a chi voglia, sia pure senza malizia, apertamente indagare su certi fenomeni sociali, guai della burocrazia, il potere esecutivo, l'ordine giudiziario e penitenziario, la forza pubblica, le forze armate, i problemi religiosi, l'istituto familiare, l'amore, il sesso. Ne deriva che spesso le forbici d'oro colpiscono anche film stranieri provenienti non solo da paesi d’oltrecortina ma altresì da insospettabili nazioni democratiche dell'occidente. L'americano «E l'uomo creò Satana» fu mutilato di alcune belle battute contro l'oscurantismo. Lo svedese «Ha ballato una sola estate» subì modifiche tanto nelle scene d’amore, che i critici di tutta Europa avevano giudicato pure e caste, quanto nella figura di un prete protestante che nell'originale incarnare il moralismo più ipocrita e convenzionale mentre nella versione italiana, pur consertando l'arcigna grinta del viso, diceva parole di comprensione e di speranza! Ora, al pensiero che l'Italia sia, almeno in campo cinematografico, meno democratica della Svezia e degli Stati Uniti, possiamo anche adattarci. Ma è certo preoccupante constatare che tra i film corretti dai nostri censori ce ne siano anche di quelli come «Gli egoisti» di Bardem, già approvati addirittura dalla censura spagnola...
Una via difficile
Tarantini continua la sua requisitoria con un capitolo sulle leggi italiane per lo spettacolo la cui morale è nell'ultimo capoverso: «Nonostante la Costituzione, la via della libertà nel nostro paese è tutt'altro che facile, e questo spiega la sopravvivenza, nel settore dello spettacolo, di norme illiberali che, per quanto siano state elaborate e rielaborate decine di volte da Giolitti ad oggi, sono rimaste sostanzialmente le stesse» Poi egli passa ad esaminare la posizione della Chiesa di fronte allo spettacolo, da S. Agostino ai giorni nostri, giustamente difendendo il principio dell'indipendenza dello Stato da ogni forma d'ingerenza religiosa ma forse esagerando un poco nel pretendere che i giudizi del C.C.C coincidano con quelli del laico o del progressista. Dove invece ci ritroviamo pienamente d accordo con lui è nel capitolo dedicato alle supercensure di tipo milanese, quelle che, nel campo del cinema, colpirono film come «Rocco e i suoi fratelli», «I dolci inganni», «L'avventura», «La giornata balorda», «Io amo, tu ami» e un paio ancora. E se non torniamo a insistere ora su tale argomento è perchè i nostri lettori già conoscono il nostro punto di vista in proposito, più volte espresso, e senza riserve, in quella recente drammaticissima congiuntura della nostra cinematografia.
«Processo allo spettacolo» che, è bene ricordarlo, non riguarda solo il cinema ma dedica sufficiente spazio anche al teatro e qualche accenno alla televisione, si chiude con un violento attacco sia a chi ostacola la liberta di espressione in Italia sia a chi, pur potendolo per cultura e influenza, non difende tale libertà con sufficiente energia. Un libro da prima linea, insomma, aneddotico e polemico, documentario e vivace, sempre la lancia in resta: il che potrebbe anche togliergli l'efficacia politica dell'opera di spiriti più calmi e moderati, se i fatti abbondantemente ed esaurientemente raccolti nelle sue pagine, non parlassero poi da soli e non spiegassero i motivi di tanto allarme. Nessuno, comunque, potrà negare all'autore il riconoscimento del suo tempismo. E non saranno pochi coloro che gli saranno grati per aver egli fornito loro, con il frutto delle sue indagini, gli strumenti di polemica dei quali armarsi al riaccendersi della battaglia contro la censura di Stato.
Guglielmo Biraghi, «Il Messaggero», 3 ottobre 1961
Guglielmo Biraghi, «Il Messaggero», 3 ottobre 1961 |