Costituzione, articolo 21
Riportiamo in tre articoli dedicati alla censura. Il primo è del collaboratore della «Rivista del Cinematografo» Vincenzo M. Siniscalchi, gli altri sono tratti da due autorevoli quotidiani. Insieme essi offrono, nei suoi complessi e non facili aspetti, una chiara definizione del problema della censura dal punto di vista cattolico. Problema la cui importanza è stata ribadita nel comunicato emesso al termine della recente assemblea plenaria degli arcivescovi e vescovi d’Italia. «Gli arcivescovi e vescovi — si legge infatti nel documento — sono convinti di trovare il pieno consenso di tutto il popolo italiano quando chiedono la tutela e la promozione di beni irrinunciabili che hanno, tra l’altro, garanzia nel dettato costituzionale all’articolo 21, il quale dispone l’emanazione di provvedimenti adeguati a prevenire e reprimere in ordine al buon costume».
Tutti i settori interessati prendono atto dell’insuccesso conseguito, in relazione ai suoi fini ed al primo periodo della sua applicazione, dalla legge 21 aprile 1962 n. 161 sulla revisione dei film e delle opere teatrali.
Come tutto quello che, nel campo del diritto, promana da formulazioni approssimative e di compromesso, la legge ha rivelato ben presto il suo carattere artificioso denunziando clamorosamente i due equivoci sui quali poggia: la genericità di un giudizio articolato sulla rispondenza o meno del film al «buon costume» e la inconcepibile antinomia tra un autonomo «nullaosta» amministrativo e il sistema punitivo penalistico.
In sostanza il legislatore si è mantenuto nell’alveo di un aggiornamento del sistema di controllo amministrativo istituendo un più vasto giudizio collegiale su basi di più concreta qualificazione dei giudici. La «vexata quaestio» della censura si era, in sede dottrinaria, evoluta nel senso di contemperare e coordinare l’attività di prevenzione con quella di repressione, non solo, ma di ricercare per entrambe le attività una struttura non astrattamente affidata alla aridità di formule legislative, ma rispondente alle caratteristiche istesse dell’opera cinematografica.
La maggior parte dei giuristi conviene che, partendosi dal limite ovvio dell'ordine pubblico, un sistema imperniato sulla negazione di un «nullaosta» di carattere amministrativo si presta alle più clamorose transazioni. Spiega la sua suggestione la non lieve difficoltà di compromettere, a cose fatte, opere di eccezionale impegno finanziario ed industriale. Tutta l’attività censoria lungi dal rappresentare, come dovrebbe, una remora per il realizzatore del film, è invece condizionata da questa sua intima difficoltà connessa con la sostanziale sua carenza di potere giurisdizionale e dalla immediatezza di un dibattito polemico che la investe, a torto o a ragione, paralizzandone praticamente ogni attività.
In sostanza, se con la censura si voleva che i realizzatori di film si sottoponessero ad ima sorta di autocontrollo almeno nell’ambito di un rispetto del buon costume tutelato dalla Costituzione, bisogna prendere atto che, a causa anche della estrema fluidità di concetti esistenti in ordine alla interpretazione dell’art. 21 l’autocontrollo non vi è stato affatto.
D’altro canto va rilevato che un sistema il quale ammetta l’istituto censorio non può essere imperniato su ima attività integralmente discrezionale, come quella demandata alle commissioni, ina dovrà pur presupporre definizioni dell’illecito, con la specificazione dei criteri cui le commissioni debbono attenersi individuandosi, al tempo stesso, quelle eccezionali cause esimenti da responsabilità (artisticità dell’opera, ecc.) nei confronti delle quali non potrebbe aver piena giustificazione un preventivo intervento e nemmeno una repressione da parte dello Stato. La stessa legge del 1923, pur inquadrandosi in un sistema normativo perfettamente antitetico a quello previsto dalla nostra Carta Costituzionale, esprimeva ima sua intima logica con la specificazione dei casi di necessario intervento, di fronte ad ipotesi tipiche.
Pare giunto, quindi, il momento di porre riparo definitivamente alla contraddittoria situazione che si è determinata in questo settore nei rapporti tra Stato e cinema.
Se si determinerà un vuoto, in campo amministrativo, con la soppressione della censura, ben potrà il potere giudiziario, attraverso l’intero ordinamento penalistico, riassumere gran parte di quelle funzioni preventive che erano state demandate alle commissioni di censura. Quanto meno si registrerà un primo importante risultato nel coordinamento della funzione preventiva e di quella repressiva che già il potere giudiziario possiede con gli istituti del sequestro e con la stessa titolarità della azione penale.
In effetti, se è vero che la finalità costituzionale da perseguire è quella della difesa del buon costume contro gli attentati che potrebbero venire dalla rappresentazione filmica, chi più del Magistrato può farsi garante del rispetto di quei valori? Non esiste forse analoga forma di intervento e di controllo anche per la stampa?
Il Pubblico Ministero, titolare esclusivo della azione penale, potrà costituire un apposito ufficio specializzato con Magistrati dotati di particolare preparazione sull’argomento, per l’esame delle opere cinematografiche che dovranno essere programmate. Se si pensa che occorre intervenire nei confronti di quelli che vengono definiti reati di pericolo tale pericolo di lesione del pubblico interesse alla tutela del buon costume e al rispetto dei valori codificati nella norma dovrà essere individuato all’atto del definitivo confezionamento dell’opera e prima della sua programmazione. La programmazione abusiva comporterà ovviamente una forma diversa di illecito punibile in via ordinaria.
Come avverrà il controllo da parte del P.M.? Siamo d’avviso che, depositata la copia nell’ufficio del P.M., questo organo giudiziario debba promuovere sempre, nel caso in cui possa ipotizzarsi una manifestazione di illecito, un procedimento in camera di consiglio con regolare contraddittorio. Il Tribunale avrà funzione di giudice specializzato nel senso che la composizione del collegio sarà effettuata con criteri di qualificazione dei magistrati, qualificazione connessa alla particolare conoscenza del fenomeno cinematografico dal punto di vista artistico e dal punto di vista tecnico. In un’epoca in cui si parla di cattedre di diritto, di storia, di estetica del cinema, e si diffonde sempre più la cultura cinematografica attraverso dibattiti, cineclub ecc. è davvero strano che si continui a ritenere il Magistrato inidoneo a questa forma elementare di informazione.
Si è parlato non a caso di contraddittorio necessario, sia pure precedente una decisione inappellabile, perché riteniamo che il giudizio sulla programmabilità o meno del film non possa essere demandato al solo organo del P.M. rivestendo tale organo il carattere di parte. Nel caso di giudizio, da parte del P.M., di non luogo a procedere, tale contraddittorio sarà inutile, ma diverrà necessario quando invece il P.M. deciderà del promovimento dell’azione penale e sarà necessario pertanto che il Tribunale specializzato emani un giudizio di convalida dopo avere ascoltato le ragioni dei realizzatori del film.
Convalidato l’esercizio dell’azione penale da parte del Tribunale, detta azione avrà regolare svolgimento innanzi al Magistrato competente e seguirà, con rigorose modalità e limiti cronologici, i diversi gradi di giudizio. Sorge a questo punto il problema della competenza e in relazione a tale problema pare sempre più opportuno demandare alle Magistrature delle città più importanti della Repubblica e non soltanto a quella di Roma la conoscenza dei reati commessi con il mezzo del cinematografo, nel senso che presso alcune Procure e presso alcuni Tribunali potrà ben essere istituita quella sezione specializzata di cui si parla, e che rientra nella disciplina prevista dall’art. 102 della Costituzione laddove, esclusa la possibilità di istituire giudici straordinari o speciali, si riconosce la opportunità di istituire «sezioni specializzate per determinate materie, anche \on la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura».
Operata comunque questa scelta di carattere istituzionale nei confronti della Magistratura e bandita definitivamente ogni impostazione demagogica nella problematica posta dalla censura, è tempo di porsi all’opera per ottenere quel complesso di norme aggiuntive del codice penale e di\quello di procedura penale, attraverso le quali si potrà finalmente sperare di qualificare il controllo sulle opere cinematografiche ponendo i diffusori dell’osceno e della nomografia innanzi alle loro responsabilità, ed evitando al tempo stesso, il disorientamento determinato dai contrasti di decisioni e di criteri.
Vincenzo M. Siniscalchi
L'interpellanza recentemente presentata da un gruppo di deputati democristiani sulle deficienze dell’attuale sistema di censura e le dichiarazioni rilasciate dal-l’on.le Flaminio Piccoli, responsabile della SPES e presidente del Comitato di studi della D.C. per il settore dello Spettacolo, circa l’atteggiamento che il partito di maggioranza relativa intende assumere in materia di revisione cinematografica, hanno nuovamente fatto convergere l’attenzione sullo spinoso e annoso problema della censura. Si è detto che i cattolici, debitamente valutate le insufficienze dell’attuale legislazione, sarebbero pronti a disfarsi dell'istituto censorio e poiché l’affermazione è tale da suscitare in ogni benpensante perplessità più che legittime, è bene chiarire anzitutto che il problema non è da porsi in questi termini. I cattolici, infatti, se non sono irriducibilmente contrari a rinunciare alla censura amministrativa (che secondo un certo progetto opererebbe solo per sanzionare i divieti ai minori) sostengono comunque l'imprescindibile necessità di un controllo da esercitarsi «preventivamente» sulle pellicole da immettere in circuito. Si richiede, in sostanza, il rispetto dell’art. 21 della Carta Costituzionale Italiana, troppo spesso dimenticato o frettolosamente liquidato dai numerosi, per quanto improvvisati, difensori della libertà d’espressione ad oltranza, il quale prevede, perlomeno per quel che riguarda le manifestazioni contrarie al buon costume (e su questo termine vi sarebbe un lungo discorso da fare, avendo esso un’accezione assai più ampia di quella aie normalmente gli viene riconosciuta) la possibilità di provvedimenti intesi a «prevenire» oltre che a reprimere.
La Carta Costituzionale della Repubblica Italiana ha certamente accolto una concezione personalistica dello Stato nel senso che la persona umana è fine e non mezzo di realizzazione di interessi collettivi: la persona umana, la sua libertà e la sua legge sono pertanto alla base dell’ordinamento dello Stato italiano. Ora se è esatto che la libertà della persona umana non comporti limiti eteronomi, si deve anche riconoscere che il limite della libertà sussiste nella compresenza di altre libertà e solo il riconoscimento delle libertà altrui permette alla libertà di realizzarsi. E questo riconoscimento dell’al-
trui libertà importa necessariamente il riconoscimento dei beni e dei valori che fondano e costituiscono l’altrui libertà e che, d’altra parte, sono gli stessi beni e valori che fondano la propria libertà.
L’affermazione di libertà contenuta nella Carta Costituzionale non deve pertanto essere considerata come affermazione a sé stante, avulsa da tutto il contesto degli altri principi in essa posti in rilievo: tutti i beni costituzionalmente rilevanti, tutti i valori che la Costituzione riconosce e garantisce, devono essere egualmente tenuti presenti per cui non può affermarsi che il principio di libertà di manifestazione del pensiero debba avere portata assoluta e prevalente anche quando essa venga ad offendere e profondamente ledere altri beni fondamentali della persona umana che la Costituzione garantisce. I limiti che l’ordinamento giuridico giustamente può e deve porre anche in questo campo non sono sostanzialmente limiti della libertà, ma solo limiti alla volontà del singolo uomo dimentico di se stesso e della libertà e cioè delle implicanze necessarie al proprio realizzarsi nella vita di comunità.
Poiché lo spettacolo cinematografico può in taluni casi ledere beni e valori fondamentali di altri, costituzionalmente garantiti, l’adozione dell’istituto censorio applicato in forme varie, ma tutte basate su un controllo «preventivo» dalla quasi totalità delle Nazioni — è più che mai legittima ed è nostra ferma convinzione che lo Stato italiano, esercitando in tal modo la disciplina della libertà di espressione in campo cinematografico, si è servito di uno strumento costituzionalmente corretto. Se una cosa è da mettere in discussione, essa riguarda la capacità concreta dell’istituto censorio a realizzare quei fini di prevenzione che soli legittimano e giustificano la sua istituzione e non vi è dubbio che la circolazione sempre più frequente sugli schermi di pellicole non solo tese a sollecitare i più bassi istinti dell’uomo attraverso la rappresentazione di scene dal così alto potenziale erotico da rasentare la pornografia e a calpestare impunemente i più sacri valori dell’uomo, ma così palesemente offensive del buon costume da richiedere il successivo intervento della Magistratura, sta a testimoniare purtroppo che la censura, attualmente, nel modo in cui è stata esercitata, è stata ben lontana dal funzionare come dovrebbe.
Per conciliare dunque le esigenze che l’attuale frangente richiede — derivanti le prime dalla constatazione che la censura amministrativa funziona in modo assai discutibile, e le seconde dalla convinzione che non si possa e non si debba rinunciare al controllo preventivo — si sono avanzate delle proposte per risolvere l’annoso problema della censura affidando alla Magistratura il controllo preventivo dei film. Contro questa proposta, formulata a nome del partito di maggioranza dall'on. Piccoli — proposta che lo stesso portavoce democristiano ha definito costituire non materia di discussione, ma «limite invalicabile». e che non può non trovare consenzienti tutti i cattolici sinceramente interessati alle sorti morali del cinema — si è avuta una vera e propria levata di scudi da parte dei soliti «paladini della libertà» a oltranza, i quali, col loro ambiguo atteggiamento vengono purtroppo a confermare l’autentica natura delle loro preoccupazioni non tanto rivolte a salvaguardare la libertà quanto a minarla in alcuni suoi aspetti fondamentali.
Fra le tante considerazioni addotte da parte avversa merita una certa attenzione quella imperniata sul fatto che «la censura preventiva si è sempre giustificata come censura amministrativa, non giurisdizionale». «Come si può pensare di affidare alla Magistratura, organo per sua natura giudicante in sede repressiva, dopo cioè la commissione di reati, il compito di giudicare prima dell’eventuale reato?». si sono chiesti infatti i «paladini della libertà». ignorando forse volutamente i possibili sistemi di soluzione.
Anzitutto va rilevato che la Magistratura, obiettivamente, deve considerarsi la più idonea ad operare efficacemente, sia pure con la dovuta prudenza, per la repressione degli illeciti che sfrontatamente o speciosamente si compiono a mezzo del cinema. Per quanto riguarda poi il modo d’intervento dell’autorità giudiziaria, esso si può concretamente attuare prevedendo che tutti i reati commessi a mezzo del cinema vengano tempestivamente perseguiti, possibilmente prima ancora che da «illecito di pericolo». si «trasformino in illecito di danno». Giova in proposito ricordare che il legislatore italiano ogni qual volta ha dovuto affrontare la tutela di beni fondamentali della collettività (per es., art. 241, 414, 416, 431. 432. 433, 434. 439) si è preoccupato di configurare delle ipotesi delittuose con carattere di reato consumato anche se l’azione ivi ipotizzata non realizza il temuto evento a cui è diretta. La dottrina parla in proposito di reati a consumazione anticipata. Non è dubbio che chi produce un film lo fa al fine della diffusione, fine questo che non può essere assolutamente dubbio nel momento in cui si giunga a prevedere la consegna di una copia del film all’ufficio del P.M. quindici giorni prima della programmazione in pubblico.
L’abolizione della censura amministrativa non costituirebbe così una diminuzione della efficacia di intervento dello Stato a tutela di beni fondamentali dell’individuo e della collettività, oggi in maniera così massiccia aggrediti dal cinema; costituirebbe invece un potenziamento di questa tutela, fidando all’autorità giudiziaria in maniera organica quel potere di intervento che, di fatto, ha perduto con l’istituzione della censura amministrativa.
E si otterrebbe d’altra parte il vantaggio di far tacere quelle voci interessate che ipocritamente continuano ad accusare lo Stato democratico di tendere, attraverso lo strumento della censura, ad impedire l’espressione libera del pensiero mentre in realtà la censura non solo — e giustamente — non impedisce alcune autentica manifestazione di pensiero, ma neppure — e ingiustamente — impedisce quegli spettacoli che sono esclusivamente erotici, osceni, raccapriccianti e quindi estremamente dannosi per la salute fisica e morale dei cittadini e che da tutti dovrebbero essere unanimemente condan-nati.
Infine, c’è da ricordare che se coloro che sostengono la necessità di abolire ogni forma di controllo preventivo dovessero irrigidirsi nelle loro posizioni, dimostrando in tal caso di avere in non cale la tutela del bene comune, ai cattolici non rimane che pretendere una fedele e rigorosa applicazione delle attuali norme che regolano la revisione degli spettacoli, il che, siamo convinti, sarebbe sufficiente ad evitare il ripetersi degli errori commessi, senza perdere altro tempo in dialoghi che, nella migliore delle ipotesi, trascinerebbero ad inaccettabili compromessi.
«L’Osservatore Romano, 23-24 marzo 1964
Nelle recenti discussioni sulla riforma della legge di censura cinematografica si colgono opinioni molto disparate le quali, tuttavia, muovono da una premessa universalmente condivisa: le cose vanno male ed è tempo di rimediare; le commissioni per la revisione dei film con tutta la buona volontà e le dotte discussioni sul concetto di buon costume, non hanno risposto allo scopo della loro istituzione.
Su ogni altra questione i pareri sono discordi al punto che alcuni prendono pretesto dalla riconosciuta necessità di una riforma per propugnare addirittura l’abolizione di ogni intervento preventivo, quasi che il problema da risolvere non sia quello di attuare una migliore tutela dell’interesse collettivo al rispetto del buon costume, sistematicamente leso col mezzo degli spettacoli cinematografici, ma di rimuovere ogni ostacolo, sia pure solo formale, alle proiezioni sconvenienti o, comunque, lesive di beni morali della società.
I fautori di questa soluzione (meglio sarebbe chiamarla involuzione) cercano di avvalorarla sostenendo che sono sufficienti le disposizioni penali in vigore che puniscono le offese al buon costume, per garantire una efficiente tutela nella materia.
Va chiarito a costoro che la loro tesi è assolutamente inaccettabile perché non solo ignora le esigenze che si sono concretamente manifestate ma contrasta anche con il preciso dettato costituzionale. L’art. 21 della Costituzione, invero, demanda al legislatore ordinario un programma non solo di repressione delle lesioni dei beni riconducibili nell’ambito del concetto di buon costume, ma anche di prevenzione delle dette lesioni. Com’è noto è questione di politica legislativa determinare se un bene sia meritevole di protezione giuridica e se la sua tutela debba essere attuata in via di reazione successiva al danno cagionato o di intervento preventivo per evitare il danno stesso. E’ pure questione di politica legislativa individuare quali sono le procedure e le misure più idonee per le finalità ora dette.
La prima di queste due valutazioni il legislatore l’ha fatta nella più solenne delle nostre fonti giuridiche, la Costituzione, e non può, quindi, formare oggetto di nuovo esame in sede di legge ordinaria. Evidentemente il Costituente ha ritenuto che i valori afferenti al buon costume abbiano tale rilevanza sociale da meritare una speciale tutela e che vertendosi in una materia molto delicata, dove il danno cagionato ha caratteristiche di irriversibilità e diffusibilità, doveva farsi applicazione dell’antico precetto: melius est ante tempus succurrere quam post causam vulneratam recursus quaerere.
Il dovere di mettere ad effetto il precetto costituzionale compete al pretore ordinario al quale è demandata, pertanto, la seconda valutazione di politica legislativa.
Quanto alla repressione delle violazioni commesse a mezzo degli spettacoli cinematografici, di cui non si discute, le misure che sono state prescelte hanno carattere penalistico e conseguentemente la loro applicazione è rimasta attribuita ai giudici ordinari.
Viceversa nel sistema sin qui vigente la prevenzione è stata articolata su misure, procedure e organi amministrativi. La revisione dei film è fatta da commissioni che operano sotto la vigilanza del ministro dello Spettacolo e che dispongono di una sanzione consistente in un veto contro il quale sono esperibili ricorsi in via amministrativa. Preso atto del fallimento dell’attuale apparato preventivo si è pensato alla possibilità di demandare anche la prevenzione alla legge penale e ai giudici. Questa tesi, come era prevedibile, non ha trovato tutti consenzienti ma, nel farne la critica, qualcuno ha mostrato di avere frainteso e ha prospettato un fantomatico pericolo di avanzata dei giudici alla conquista dello Stato. I giudici, sia pure per iniziativa altrui, invaderebbero così un settore riservato al potere esecutivo.
Va notato, anzitutto, che in tal modo il problema non è più impostato nei suoi termini poiché preventivamente deve discutersi se è o meno il caso di sostituire misure di carattere amministrativo con misure di carattere penale. Se si propende per le misure penali non è certo pensabile altra procedura che non sia quella di competenza del giudice ordinario.
Il ricorso alla legge penale sembra quanto mai opportuno e in armonia con le linee del nostro ordinamento giuridico. Basterà considerare che nelle varie ipotesi in cui il legislatore ha ritenuto che l’interesse da proteggere fosse di rilevante valore e trascendente la sfera del bene del singolo ha previsto la possibilità dell’intervento precoce del giudice penale
per prevenire il danno. Ciò avviene a mezzo della configurazione di fattispecie che la dottrina chiama reati con evento di pericolo (tali sono, per esempio, quasi tutti i delitti contro l’incolumità pubblica). Poiché il danno che gli spettacoli cinematografici contrari al buon costume cagionano è grave e vasto, specialmente nei confronti della gioventù, sarebbe logico propendere per lo schema ora accennato. Altri, meno confusi, hanno obiettato che questa non è materia da giudicare con il metro della giustizia penale ma che deve essere oggetto di un giudizio politico e, anche dal canto loro, hanno parlato di usurpazione da parte dei giudici di funzioni altrui e di modificazione del tradizionale rapporto fra i poteri dello Stato. Il richiamo alla divisione dei pubblici poteri è sempre suggestivo mi di fronte all’indagine attenta perde significato e colore. La dottrina costituzionale moderna ha sottoposto a meditata critica la teoria della divisione meccanica dei poteri dello Stato e ha riconosciuto che la tripartizione del Montesquieu non è integralmente attuabile e che, comunque, una così precisa formulazione non rappresenta una realtà desiderabile anche da parte di Stati democratici e di diritto. La divisione dei poteri e la distinzione delle funzioni deve rappresentare, in effetti, un orientamento di massima e un criterio dottrinale per definire la natura giuridica degli organi pubblici a seconda delle funzioni che in via principale e prevalente essi svolgono.
L’Amministrazione partecipa in maniera non indifferente della funzione legislativa.' Il parlamento compie atti rilevanti di contenuto sostanzialmente amministrativo ed esplica anche funzioni squisitamente giudiziarie.
Per quel che qui direttamente ci interessa ricordiamo che nel concreto assetto dello Stato è inevitabile, oltre che opportuno, che alcune funzioni teoricamente giudiziarie siano esercitate da organi dell’esecutivo (si pensi alle innumerevoli decisioni su controversie che vengono giornalmente prese da uffici amministrativi) e che altre funzioni di carattere amministrativo siano svolte da organi giudiziari (si pensi all’attività del pubblico ministero e alla cosiddetta giurisdizione volontaria).
Quanto alla tradizione è meglio non chiamarla a testimone poiché in essa non si riconosce un profilo costante dei rapporti fra i poteri dello Stato. Ricordano gli studiosi che a fronte del principio teorico secondo il quale ciascun potere deve detenere solo una parte ben determinata ed equivalente della sovranità, si ebbe prima una supremazia del capo dello Stato, si accrebbe, poi, l’autorità del parlamento a detrimento degli altri poteri, determinando una situazione di supremazia indicata col nome di «parlamentarismo».
Con il successivo rafforzarsi dei partiti politici e la loro conseguente influenza sul parlamento e sulla formazione del governo si è determinato un nuovo mutamento nel rapporto di equilibrio, a vantaggio questa volta, del potere esecutivo. La preponderanza del potere esecutivo nei confronti degli altri organi costituzionali determina un’accresciuta esigenza di garanzia delle libertà e, pertanto, postula una maggiore presenza della magistratura indipendente perché gli interessi degli individui e della collettività, considerata questa come totalità e non solo come maggioranza, non siano travolti dagli interessi di un gruppo o della maggioranza. E’ grave errore pensare che i fini dell’ordine, dell'armonioso progresso sociale e dell’elevamento culturale dei cittadini siano esclusivi del potere esecutivo. E’ ormai opinione consolidata, che il Mortara anticipava già nel 1890 che: «il potere giudiziario, a somiglianza degli altri, deve esercitare, una parte delle funzioni della sovranità; e quindi giova che esso abbia funzioni governative, a patto naturalmente che queste consuonino con l’indole della sua istituzione e con lo scopo generale e principale della sua funzione».
Ma indipendentemente da ciò dobbiamo tenere presente che nella specie si discute di un intervento preventivo che condiziona il libero esercizio di un diritto costituzionale di libertà qual è la diffusione del pensiero. Se così è non può allora validamente sostenersi che il magistrato chiamato a questa funzione usurpa una competenza di spettanza dell’esecutivo. Vero è, invece, che la naturale evoluzione da una concezione totalitaria dello Stato verso quella di una sana democrazia, che solo nello Stato di diritto si realizza, comporta che gli interventi preventivi che possono incidere sull’esercizio di diritti di libertà implicano di necessità l’intervento equanime del giudice e la esclusione della discrezionalità amministrativa. Un recente esempio di evoluzione legislativa in materia simile lo abbiamo in tema di misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose le quali misure, prima applicate dagli organi di polizia, furono dichiarate illegittime costituzionalmente e con legge 27 dicembre 1956, in attuazione della Costituzione, sono state attribuite alla competenza dei giudici.
La necessità di prevedere è indiscutibile ma nell’atto di prevenire vi è la possibilità di conculcare le libertà. Chi dunque è più adatto a questo compito?
«Il Popolo», 28 marzo 1964
«Rivista del Cinematografo», settembre-ottobre 1964
«Rivista del Cinematografo», settembre-ottobre 1964 |