Storia del Varietà. Arriva lo Scettico Blu
Quarant’anni fa: per leggere un articolo di Einaudi sull’imposta di famiglia l’attore di prosa Gino Franzi scoprì sul giornale l'annuncio di uno spettacolo di varietà. Da quella sera, inaspettatamente, cominciò in un teatro torinese la trasformazione di Franzi in celebre cantante. E fu lui a inventare e a lanciare la canzone Italiana. Anna Fougez portò di rincalzo nuova voce e lusso mal visto prima su quelle scene.
Nella prima settimana di gennaio del 1910. un argomento fece le spese delle più animate discussioni, da un capo all'altro d'Italia: l’inasprimento della tassa di famiglia. Appunto in quei giorni, in un caffè di Torino, due amici s'infervoravano discutendo, e a un tratto uno dei due deplorò, oltre tutto, la scarsa chiarezza delle modalità d'applicazione della tassa.
«Per fortuna — disse l'altro mostrando un giornale — qui c'è un articolo che spiega come si applica». «Lo spiega bene, almeno?». «Altrochèi! Il giornalista che ha scritto quest'articolo dev'essere uno che ne capisce». «Chi è?». «Un certo Luigi Einaudi».
L'altro socchiuse gli occhi come sforzandosi di ricordare qualche cosa: «E' un nome che non mi riesce nuovo; devo aver già letto qualche articolo di questo Einaudi».
Seduto a un altro tavolo, a un metro -dai due, un giovanotto aveva seguito con interesse la discussione; era un ignoto attore di prosa, un tal Gino Franzi, che subito dopo, uscito dal caffè, andava a comprare il giornale per leggere l'articolo che chiariva le idee sulla tassa di famiglia. L'articolo era forse un po' troppo lungo per esser letto su due piedi, per la strada. E ripromettendosi di leggerlo con comodo a casa, il giovanotto diede un'occhiata distratta alle altre pagine del giornale. Il suo sguardo si posò su un vistoso annuncio teatrale: all'«Eden», Ersilia Sampieri, la «Signora della canzone», riportava uno strepitoso successo. Franzi, che aveva una profonda ammirazione per la «stellissima», dimenticò momentaneamente la tassa di famiglia e si precipitò all'«Eden». Manco a dirlo, la Sampieri furoreggiava:
Ricordo il dì che t'incontrai, — eri una povera sartina, — e nell'aprile in fior t'amai — conte una santa, mia piccina.
La canzone intenerì il cuore del giovane attore, che, poco dopo, andò a rallegrarsi con la cantante. La seducente diva del varietà si divertiva di tanto in tanto a leggere la mano di chi andava a trovarla nel suo camerino. E sembrò ch'ella scherzasse quando, leggendo la mano di Franzi, gli predisse il più fulgido avvenire non come attore di prosa ma come cantante di canzoni. Il giovanotto rise della profezia, e qualche giorno dopo, quando un amico gli suggerì di tentare le scene del varietà, si offese. Lui, attore di prosa, mettersi a cantar canzonette? Mai. Lo stesso amico, però, volle trascinarlo dal maestro De Sabata, zio dell'attuale direttore d'orchestra, e la prova di voce fu assai incoraggiante. Suo malgrado, Gino Franzi cominciò a sentire il solletico del varietà.
Oggi Ersilia Sampieri, più che settantenne, fa la chiromante a Roma, e forse fra le mille sbiadite figure che popolano le pagine del suo passato, ella rivede talvolta un giovane attore di prosa che, in una fredda sera torinese di quarant'anni fa, col proposito di capir qualcosa sulla confusa tassa di famiglia, compra un giornale, ma, attratto dal nome della «stellissima», corre ad applaudirla, dimenticando del tutto la tassa e deviando involontariamente il corso del proprio destino.
La terza fase
Gino Franzi debuttò al «Bosio», minuscolo teatro di varietà della vecchia Torino, dove il biglietto d'ingresso costava venti centesimi. Persino lui, creatore della canzone italiana, debuttò con una canzone napoletana: Suspiranno. Nè avrebbe potuto far diversamente dato che, a quei tempi, la canzonetta in lingua italiana non aveva ancora visto la luce. Doveva esserne appunto lui il papà, doveva tenerla lui a battesimo, doveva farle fare i primi passi promettenti, doveva contribuire al suo sviluppo, doveva esser lui, infine, ad assicurarle il primo strepitoso successo.
Ha inizio, con Gino Franzi, la terza fase del nostro varietà. La prima, come è stato detto nelle precedenti puntate, fra numeri di attrazione internazionali, «chanteuses» e comici francesi che invadevano i palcoscenici, vide la vittoriosa affermazione di Maldacea, Pasquariello, Donnarumma e Fregoli. La seconda fase, all'alba del nuovo secolo, ebbe in Petrolini la figura più significativa, mentre la canzone napoletana allagava tutti i teatri di varietà italiani (lo stesso Petrolini iniziò la sua trionfale carriera con qualche macchietta napoletana del repertorio di Maldacea). La terza fase iniziò col fatto nuovo: il grandioso successo della canzonetta italiana ad opera di Gino Franzi. C'è di più: Franzi non colse il successo sfruttando un certo genere; ma. al contrario, il genere lo creò lui e lo impose agli astori italiani. Infatti, in mancanza di un prodotto, che mancava totalmente, egli si recò a Parigi e ne riportò alcune singolari canzoni che si fece tradurre in italiano su misura: i risultati furono cosi convincenti, che i nostri migliori autori cominciarono subito a sfornare canzoni in lingua italiana.
Dopo alcune settimane di crescente successo, Gino Franzi lasciò il minuscolo «Bosio» per trasferirsi al «Romano». il varietà torinese che, allora, laureò molti attori del varietà. Tuttavia la sua paga serale, saldamente agganciata alle cinque lirette, non riusciva ancora a innalzarsi nei cieli delle cifre da divo: fu forse anche per questo che Franzi divenne il più amaro e persuasivo «scettico» che la storia del varietà ricordi:
Quando il mio primo amore — mi sconvolse la vita, — baci, lusinghe, carene. — promesse, illusion, — io come il fumo — li sperdo nell’aria... così!
A queste parole, Franzi, elegantissimo nel frac e nel mantello foderato di raso bianco, faceva appello a tutte le riserve di scetticismo di cui disponeva e, beffardo. gettava lontano mezza sigaretta accesa: esigenza scenica assai apprezzata dal pubblico, ma aspramente stigmatizzata dal pompiere di servizio.
Siamo alla vigilia della prima guerra mondiale, epoca in cui la parola «varietà» ha ancora un suono sospetto ai verecondi orecchi delle brave mamme di famiglia, le quali tremano al pensiero che i loro figli frequentino certi locali considerati di perdizione. Il famoso «Jovinelli» di Piazza Guglielmo Pepe, a Roma, o l'«Apollo» di Milano hanno una sinistra fama. Il primo, che pur conobbe ì deliranti successi dei maggiori nomi del varietà, accoglieva solitamente le più distinte mondane del rione, un certo numero di «cocottes» d’alto bordo, ima folta schiera di «bulli», molti dei quali segnati dalle coltellate, e, come minoranza, alcuni «viveur». Il proprietario del locale, Jovinelli, un meridionale romanizzato, era fortunatamente un uomo di ferro, che riusciva a tenere a bada il suo pubblico e a intimorirlo quando i fanatici pretendevano a gran voce che le sciantose e le divette, dotate di scarse risorse artistiche, trasformassero le loro prestazioni in quell'eccitante e ingiustificato «spogliarello» che vent’anni dopo doveva costituire il numero di centro di alcuni varietà nordamericani.
Quanto al milanese «Apollo». non di rado il robusto Achille, detto «Maciste», capo maschera, oggi portinaio di uno stabile nel centro di Milano, era costretto a ingaggiare vere e proprie colluttazioni con la combattiva massa studentesca che, specie nelle cosiddette «serate nere», intendeva manifestare un po’ troppo da vicino il suo entusiastico consenso alle divette e alle sciantose che, in quelle speciali serate, si esibivano in movenze particolarmente sconvenienti. Che cos'eremo, a proposito, le «serate nere»?
Qualche varietà le annunziava press'a poco come oggi i cinema annunziano «Vietato ai minori di sedici anni». In realtà, molto fumo e poco arrosto. Servivano a far riempire il locale (nonostante venisse applicato un aumento al biglietto d'ingresso) cosi come oggi il «Vietato ai minori di sedici anni» serve a far affollare i cinema quando vi si proietta un film scadente. Durante le «serate nere», alcuni duettisti, macchiettisti e qualche sciantosa, regalavano agli studenti e ai militari qualche sottinteso un po’ più licenzioso e qualche atto leggermente insolito: di solito c’era invece l'intervento del solerte commissario di P.S., e lo spettacolo cessava immediatamente di esser nero, mentre nero diventava l’umore della direzione del locale. assoggettata al pagamento di una multa.
Ma in realtà, gli spettacoli di arte varia andavano sempre più elevandosi di tono, e accanto a pochi duettisti e a poche sciantose che infioravano di volgarità il loro repertorio, e che si andavano lentamente eliminando dalle scene con moto spontaneo, si affermarono nuove leve di eccellenti artisti, cantanti e comici che incontrarono il favore di tutte le platee italiane. Bambi. ad esempio, rese assai popolare un suo genere di bozzetto drammatico che portava il pubblico alla più intensa
Sor delegato mio. — nun so' km bojaccia. —sciojeteme — chev’a-rìcconto er fattoi
Era, questo, un famoso bozzetto, Er fattaccio. che Bambi recitava venendo in scena con le manette. Altro famoso bozzetto che ebbe la sua celebrità fu La passatella, in cui, come in tutti i bozzetti del genere, si faceva un grande spreco di coltellate e di sangue. Assai favorevolmente noto divenne Primo Cuttica, ligure, creatore della macchietta militare. Gustavo De Marco fu, in certo senso l’inventore di Totò, che da lui imparò a realizzare il tipo marionettistico che doveva poi procurargli cosi calorosi consensi. Piacevano sempre la procace Maria Campi e la popolaresca Tecla Scarano; si erano affermati autorevolmente i comici Fioravanti, Filippi, e altri continuatori degli ottimi Peppino Villani e Gaspare Castagna. In prima linea balzò presto l’elegantissimo Luciano Molinari, lombardo, maestro elementare. Intimo amico di Guido da Verona, oltre che dei maggiori scrittori e giornalisti dell'epoca, si lanciò come imitatore; ma presto si creò una personalità di primo piano come dicitore di raffinata eleganza.
Maschere e fatalità
Intanto, sorgono ovunque nuovi teatri di varietà (molti dei quali, più tardi, si trasformeranno in cine-varietà), e trionfa la nuova canzone italiana soprattutto per merito di una numerosa schiera d’interpreti straordinariamente dotati di temperamento. Fu veramente la grande era del varietà, quella che vide i trionfi di Anna Fougez, Armando Gill, Gabrè, Enzo Fusco, Lydia Johnson, Tsune-Ko, Titina, Spadaro, Cluberti, ecc., pur essendovi ancora sulla breccia gl'intramontabili Pasquariello e Donnarumma. Ma fra i a grandi» dell’immediato dopoguerra, due ve ne sono che possono da soli assumersi l’impegnativo compito di rappresentare un'epoca: Anna Fougez e Armando Gill.
Anna Laganà, di famiglia tarantina, era ancora una bimba quando emigrò in Francia, dove cominciò a cantare e a danzare. Al suo debutto sulle scene italiane. quasi fosse dovere di ogni artista pagare un tributo di gratitudine a Napoli, culla di tutte le canzoni, anche lei. divenuta Anna Fougez, cantò in napoletano. ’A tassa 'e cafè. Poi. nel debutto milanese, presentò la prima canzone del suo autore preferito, il maestro Gino Simi:
Maschere, — la farsa della vita — recitiamo, — noi hoh siattt che due maschere — che tiene avvinte — la fatalità.
Lo shimmy delle lucciole di Bonavolontà, Il fox-trot delle piume di Simi, furono i suoi primi sbalorditivi successi. Fu l’unica artista, Anna Fougez, che nello spazio di poche sere, a Milano, vide salire la paga serale da poche decine di lire a ben duemila, di colpo. Ma quando cantava lei. Piazza Beccaria, dove si apriva il «San Martino», era inverosimilmente piena di macchine: l'aristocrazia. l’industria e il commercio di Milano affollavano il teatro, che sotto la direzione di Papa, aveva enormemente migliorato il livello dei suoi spettacoli e del suo pubblico. Non si erano mai viste sulle scene tolette più costose e più originali di quelle di Anna Fougez.
La «stella» eseguiva una stessa canzone mutando successivamente persino cinque tolette, ognuna delle quali suscitava un uragano di applausi. Simi e Neri furono i suoi autori, per cosi dire, ufficiali, ma per lei scrissero indimenticabili canzoni anche Bonavolontà, Cherubini e altri. Un giorno, E. A. Mario, l’autore della Leggenda del Piave, fortemente colpito dal braccialetto della Fougez, una vipera d'oro, compose una canzone che dedicò alla diva, e che era destinata a diventar famosa:
Ella portava un braccialetto strano, — una vipera d'oro attorcigliata — che viscida parea sotto la mano. — viscida e viva quando l'ho toccata...
Quando appariva Anna Fougez, in un trionfo di piume e di gioielli, sul grazioso palcoscenico della k Sala Umberto», a Roma, i primi ad applaudirla calorosamente erano sempre il principe Potenziani, il principe Del Drago, la principessa Giovanelli, la principessa Rospigliosi, il principe di Scalea, la duchessa Macchi di Cellere, l'ambasciatrice di Inghilterra Lady Graham, il conte Leopardi, i conti Mamiani, il marchese Ruspoli, il senatore Barziali. ecc. Regalmente disinvolta, in una fiabesca cornice di strass, smeraldi, penne di pavone e pellicce d'ermellino, la «divissima» sorrideva dal palcoscenico, come dall’alto di un trono immaginario. al l'aristocratico omaggio dei suoi affezionati.
Intanto le quarantenni, alcune delle quali, più audaci, han già sacrificato le chiome per obbedire alla moda dei capelli alla «garsonne», s’inteneriscono alla voce delicata di Armando Gill:
Quand’ella ancora — salvarsi poteva... — Come pioveva! — Come pioveva!
Armando Gill, alla vigilia di laurearsi in legge, diede un calcio al codice; invece della toga indossò un elegante frac e mise una gardenia all'occhiello, e cantò:
Prima di lasciar voi — mio dolce amore, — dovrei vedere i monti — camminare...
Gill, il cui vero nome era Michele Testa, napoletano, scriveva i versi e la musica di tutte le canzoni che eseguiva. I signori calvi od occhialuti, o buffamente barbuti delle prime file, lo temevano per la sua «improvvisata», che non mancava di spirito pungente, ma sempre signorile.
Ma, come vedremo, l'operetta diventerà presto invadente, e non tarderà a dare lo sgambetto al glorioso vegliardo, il caro e cordiale varietà.
Vincenzo Rovi, «Tempo», anno XIII, n.8, 24 febbraio 1951
Vincenzo Rovi, «Tempo», anno XIII, n.8, 24 febbraio 1951 |