Storia del Varietà, le follie del Caffè-Concerto
Per vivere nella peccaminosa atmosfera del "café-chantant" dove all'alba del secolo nasceva il teatro di varietà, i giovani ufflcialetti si abbandonavano agli sperperi I clienti affezionati ottenevano il privilegio di piazzare la propria sedia nel corridoio adiacente ai camerini, gli studenti poi erano ammessi alle prove pomeridiane delle sciantose purché consumassero una bibita. Il prezzo di una poltrona era di una lira e sessanta centesimi, un whisky di gran marca costava ottanta centesimi Intanto nel 1903 debuttava a Roma in un locale umilissimo un ignoto destinato al più luminoso avvenire: Ettore Petrolini
Dalla prua della «Vettor Pisani» un canto si levò nel placido crepuscolo:
Vide o' mare quant'è bello
spira tantu sentimento...
Era una sera di luglio del 1900. Tre navi — «Vettor Pisani», «Stromboli» e «Vesuvio» — avevano lasciato da poche ore le acque di Venezia e, dirette in Cina, recavano a bordo numerosi contingenti di marinai. Era l’ora del riposo. Solo gli uomini di servizio erano ai loro posti di manovra, mentre gli altri, a prua, si godevano la brezza. C’erano marinai di parecchie regioni, e tutti si affollavano con un’espressione di estatico rapimento intorno a un gruppo di commilitoni napoletani. Questi ultimi, sei o sette, cantavano a coro:
Ma nun me lassù
nun darme ’stu turmiento.
Toma a Surriento
famme campài
Applausi letteralmente frenetici accolsero la fine della canzone. «Bis!», chiedevano tutti a gran voce. «Un’altra! Cantàtene un’altra!». I marinai napoletani non si stancavano mai di cantare. Gli altri non si stancavano mai di ascoltare. Così tutte le sere. E dopo una settimana, l’intero equipaggio cantava le più belle melodie napoletane dell’epoca, quelle stesse che dovevano poi diventare il trionfale passaporto del giovane tenore Enrico Caruso al suo sbarco in America.
All’alba del nuovo secolo, insomma. la canzone nasceva solo a Napoli e, munita di un biglietto di viaggio valevole per tutte le stazioni del regno, partiva spavalda alla conquista d’Italia e s’installava da padrona nelle piazze e nei teatri di varietà, nei salotti e nei caffè-concerto. Il primo gennaio 1900, ad esempio, Roma volle salutare il ventesimo secolo lanciando da Piazza dell’Esedra molte centinaia di colombi viaggiatori recanti bigliettini augurali. La banda musicale di una confraternita cittadina allietò la popolaresca manifestazione. E che cosa eseguì? Un applaudito concerto di tarantelle e di altre canzoni napoletane, fra le quali quella «Funicoli... Funicolà!», che, passando di bocca in bocca, cominciò appunto allora il suo giro del mondo.
Mandare una lettera da Napoli a Torino, una cinquantina d’anni fa, era un’avventura di incerto esito; le note e i versi di una canzone, invece, facevano lo stesso viaggio con una stupefacente rapidità. Nel Settentrione arrivavano ben poche notizie del Mezzogiorno di Italia, e tanto meno vi arrivava l’eco dei suoi problemi; ma quando uscivano dal «Morisetti», gli studenti milanesi canticchiavano, senza sbagliare una sola parola, la celebre «Spingule francese» che, poco prima, avevano udito dalla limpida voce della stellissima Carmen Marini. All’ ”Alhambra” di Firenze, la Frine cantava con drammatici accenti la bellinìana «Fenesta che lucìve»; dall’ "Eden” di Bologna o dall’"Alcazar” di Genova le rispondeva Diana De Paoli:
Che bella cosa ’na jurnata 'e sole
'n aria serena doppo ’na tempesta!
E intanto, al ”Romano” di Torino o al ”Politeama” di Livorno, il pubblico si spellava le mani per applaudire altre due canzoni che avevano già le carte in regola per diventare celebri: «Marechiaro» e «Oj Mari»:
Oj Mari, oj Mari,
quanta suonno ca perdo pe‘ tte!
Famme addurmi
abbracciato ’nu poco cu’ tte!
Esigenza di qualche rilievo, da parte di un innamorato; ma cantando si possono formulare, anche all’indirizzo di una ragazza di buona famiglia e timorata di Dio, audaci proposte che difficilmente si formulerebbero senza l’ausilio della melodia. Al ” Margherita ’’ di Napoli, poi, questa dolce canzone, ritenuta non a torto il capolavoro di Edoardo Di Capua, aveva il potere di trascinare il pubblico, che in blocco. senza che si avessero a registrare defezioni, ne ripeteva il ritornello. E al coro partecipavano. col massimo impegno, quei frequentatori immancabili che rispondevano ai nomi di duca Ravaschieri. duca Malvezzi. conte Cito, duca Dusmet, Roberto Bracco. Domenico Morelli, ecc. Una sera, persino Francesco Crispi. ormai quasi ottantenne, si sentì irresistibilmente trascinato da un ritornello tentatore, e la sua flebile voce partecipò al coro di «Funicoli... Funicolà!».
Nata dal popolo e lanciata da Piedigrotta, la canzone napoletana continuava dunque a spadroneggiare indisturbata. Come arginare il trionfo? Forse opponendole qualche bella canzone in lingua italiana. E nacque una canzone in lingua. che ebbe ovunque un clamoroso successo. Ma, fatalmente, la lingua (italiana) batte dove il dente (napoletano) duole. E nasce «Santa Lucia»:
Sul mare luccica
l'astro d'argento,
placida è l'onda
prospero il vento...
Venite all'agile
barchetta mia,...
Santa Lucia!
Santa Lucia!
Si cantava, finalmente, una canzone in italiano, sì, ma si cantava Napoli, ancora e sempre. I palcoscenici dei teatri di varietà erano invasi da trasformisti, imitatori dell'insuperabile Fregoli; da duettisti francesi; da eccentriche parigine; da fachiri indiani (che non parlavano mai perchè il loro accento era stranamente livornese o tarantino), da virtuosi musicali, da giocolieri che impallidivano di fronte al grande Rastelli; da - chansonnier da Carmencite e Pepite varie con tanto di ” man-tilla ”; da acrobati; da animali ammaestrati e sapienti; da ipnotizzatori, ecc. Sui manifesti si annunziava: «Il più sensazionale enigma dei nostri tempi: La donna che vede attraverso i muri!». Ma i numeri del programma che avevano il potere di fanatizzare il pubblico, oltre appunto a un Fregoli o a un Rastelli, erano ancora le cantanti, le canzonettiste e i macchiettisti: vale a dire, proprio il genere napoletano. Fu forse per questo che, un giorno, nel 1902, Benedetto Croce disse a Salvatore Di Giacomo: «Ma che aspettate a scrivere una storia di Piedigrotta e di questa canzone nostra che continua a dominare su tutti i palcoscenici italiani?».
Contro «questa canzone nostra», la romanza s’illuse, per un certo tempo, di poter combattere vittoriosamente. Cantanti fomite di una voce che oseremo definire «a tubo», congiungevano le mani sull'ampio seno, in approssimativa corrispondenza del cuore, e gli occhi al cielo, cantavano:
Dal giorno che, indistinto,
per le vene,
mi corse il primo fremito
d'amore...
Ma nei teatri di varietà, la romanza non riuscì mai a ottenere un posto di preminenza, e si accontentò di vivacchiare, nonostante vi si fossero dedicati compositori di solida fama. Dai palcoscenici si trasferì, con successo, nelle buone famiglie; e, specie se interpretata con sentimento, fu la chiave magica che servi ad aprire molti teneri cuori femminili.
Oh, begli occhi di fata!
Oh, begli occhi
stranissimi e profondi,
voi m'avete rubata
la pace della prima gioventù...
Anche se, talvolta, veramente pregevole, la romanza italiana veniva dunque sconfitta dairimbattuta canzone napoletana; e nei teatri di varietà, la bella voce di Giuseppe Godono cantava:
Ce sta ’na casarella miezz' 'o mare
addò me sonno sempe 'e sta' cu' tte!
E intanto, nei salotti pieni di cose di cattivo gusto, il tenorino di grazia sospirava la romanza:
Vorrei baciare i tuoi capelli neri,
le labbra tue e gli occhi tuoi severi...
In linea di massima, i giovanotti di oggi sembrano poco inclini a baciare gli «occhi severi»; ma allora erano tempi facili, e si potevano fare a cuor leggero tante cose bizzarre. Erano i tempi in cui il senatore Ugo Pisa, con la morte nel cuore, annunciava al consiglio comunale di Pavia che per salvare la città dalla fallimentare crisi economica, occorreva contrarre un debito di circa cento-mila lire. Erano i tempi in cui la Scala, in una rappresentar zione di gala di «Tristano e Isotta», raggiungeva lo sbalorditivo incasso di seimila lire. Per andare a sentire Zacconi al "Filodrammatici” di Milano, la poltrona costava un lira.
Nei primissimi anni del nuovo secolo accanto a pochi autentici artisti, affollavano i caffè-concerto nutrite (in senso numerico, non certo in quello alimentare) schiere di ragazze, le quali apparivano su quei minuscoli palcoscenici come fossero in graziose vetrine. Sul programma del ” San Martino ” di Milano, quasi mezzo secolo fa, si leggevano alcuni nomi di canzonettiste: Delia Drenard, Lilla De Vergy, Magda Ilis: italianissime ad onta dei nomi vagamente esotici, la Drenard e la De Vergy prendevano due lire per sera, mentre la Ilis ne prendeva tre. (Anche troppo, in fondo, se si pensa che Pasqua-riello, al suo debutto milanese, al ” Morisetti ”, prendeva cinque lire a sera, con l’obbligo di consumare un pasto al giorno nel locale). Molte delle «étoiles danseuses» di allora, erano assolutamente incapaci di cantare decentemente magari un semplice ritornello o di abbozzare un elementare passo di danza, e tuttavia affrontavano impavide i rumorosi dissensi della platea fingendo di cantare, ad arte sopraffatte dall’orchestra: si sollevavano con ingiustificata frequenza la vesticciola, distribuivano premettenti sorrisi e si ritiravano ingloriosamente gettando baci agli spettatori. Fra questi ultimi, al "San Martino”, c’era una categoria di privilegiati: pochi e danarosi figli di papà, avevano ottenuto che il direttore del locale (non disinteressatamente) sistemasse alcune sedie in prossimità del corridoio sul quale si aprivano gli spogliatoi delle canzonettiste; in virtù di questo privilegio, a pochi «habitués» facoltosi, insomma, le canzonettiste erano offerte in visione privata, anche se non proprio in anteprima. L’interesse (non certo di natura artistica) suscitato dalle divette nella classe studentesca era tale, che i proprietari dei piccoli caffè-concerto escogitarono un altro sistema per far quattrini: ammettevano tutti i pomeriggi i giovanotti alle prove delle sciantose, purché consumassero almeno una bibita. Quello delle prove era un pretesto, poiché, in realtà, le sciantose, anziché provare nuove canzoni, provavano ad adescare i loro giovani spasimanti. Il ” Margherita ” di Roma aveva fama di essere uno dei più dispendiosi caffè-concerto. Agli inizi del secolo, le poltroncine costavano ottanta centesimi, e una lira e sessanta le poltrone. Non tutti i locali facevano pagare l’ingresso; alcuni applicavano solo un sovrapprezzo sulle consumazioni: un autentico whisky inglese non di rado arrivava al prezzo di ottanta centesimi. Follie.
Nel firmamento del teatro gaio musicale sorgevano intanto nuovi divi, fra i quali: Peppino Villani, macchiettista napoletano che, nonostante fosse un continuatore di Mal-dacea, seppe crearsi una sua personalità; Gaspare Castagna, che pur essendo napoletanissimo, divenne l’idolo del ” Trianon ” di Milano; di minore rilievo, un altro comico tipicamente napoletano: Mongelluzzo. Ma il «cafè-chantant» vero e proprio non tarderà ad agonizzare. Nato in stanzoni pieni di umidità, spesso in baracconi di legno, si accingeva a cedere il posto al teatro di varietà, di maggiori pretese artistiche. E i programmi cominciarono ad arricchirsi: vennero i «flemmatici cascatori inglesi», vennero le «classiche ballerine viennesi», e vennero poi le «indiavolate sisters americane».
Fra gli artisti che nella prima puntata di questa storia apparivano come i «quattro grandi» del vecchio varietà, e cioè Maldacea. Pasquariello, Donnarumma e Fregoli, comincia intanto a inserirsi una figura destinata a giganteggiare su tutti i paleoscenici: Ettore Petrolini, troppo presto scomparso dalle scene del teatro e della vita. In una storia del varietà, per succinta e frettolosa che sia, Ettore Petrolini dovrebbe avere ben altro spazio, ma qui dovremo limitarci a ricordarlo come l’artista che con la sua comicità scema e tragica, pungente e scanzonata, spietata e cordiale, agghiacciò ed esilarò le platee, le sconcertò e le entusiasmò. In ogni caso, Petrolini fu solo e sempre Petrolini: non derivò da nessuno. I suoi personaggi vivevano in una sfera di grottesca irrealtà, le sue macchiette oltrepassavano i limiti del paradosso; le sue filastrocche sconclusionate prendevano di sorpresa il pubblico e lo disorientavano. Molte volte, uscendo dal teatro, gli spettatori si chiedevano: «Ma, in fondo, che avrà voluto dire?». Però, finché erano di fronte a Petrolini e alle sue stravaganze, ridevano da sbellicarsi. Una delle risorse del grande comico romano, fu la battuta sempre pronta e immediata. Una sera, al "Margherita” di Roma, mentre lui eseguiva una delle sue macchiette, si levò da una barcaccia laterale la voce di uno spettatore: «Che scemo!». Petrolini non ebbe un attimo di esitazione e si rivolse allo spettatore: «A me pe’ fa’ lo scemo me pagano, ma lei lo fa gratis». La comicità di Petrolini ebbe sempre un fondo amaro. Forse egli non riuscì mai a disfarsi dell’amarezza che caratterizzò la sua adolescenza. Da ragazzo, fu rinchiuso in un riformatorio, dove la sua naturale vivacità, soffocata da sistemi emendativi irragionevolmente severi, divenne rancore: una sorta di rancore che lo accompagnò per tutta la sua breve vita. Petrolini debuttò nel 1903 in una specie di topaia romana, al ”Gambrinus”, e sudò molte camicie prima di cominciare un regolare giro, che, successivamente, lo portò al ”Brunetti” di Torino, all'”Alhambra" di Firenze, al ”San Martino” di Milano, e in cento altri teatri italiani e stranieri. Creò macchiette famose, come «Giggi er bullo», «Il bell’Arturo», e i famosi «Salamini», e le indimenticabili «scemenzuole» e i «colmi». Prima di essere al centro di vere e proprie scenette comiche (famosissima quella in cui egli «stracciava» letteralmente la figura di Nerone, facendone una parodia d’irresistibile comicità), si cimentò in duetti comici con alcune stelle già affermate, quali Yvonne de Fleuriei, Eugénie Fougère, Anita Di Landa e Maria Campi. Fra tutte le compagne di duetti comici, quella che forse lo fece sgobbare di più fu Eugénie Fougère, poiché la beila parigina napoletanizzata, ormai giunta alla popolarità, si era andata straordinariamente affezionando al buon vino, e non c’era verso di mandarla in scena se prima non aveva bevuto non meno di mezzo litro di vino, c Gastone i (con il guanto a penzolon) fu uno dei più famosi personaggi petroliniani, mentre fra le sue macchiette, grande successo riportava il «Divorzio al parmigiano i:
Dalla bocca di mia moglie
alla barba dell'amico
passa un filo telegrafico
di formaggio parmigian.
Ma intanto, nel cielo del varietà, stanno per accendersi altri fulgidi astri.
Vincenzo Rovi, «Tempo», anno XIII, n.7, 17-24 febbraio 1951
Vincenzo Rovi, «Tempo», anno XIII, n.7, 17-24 febbraio 1951 |