La Rivista è stanca delle piume di struzzo
Il nostro teatro leggero sta attraversando una grave crisi, ma il pubblico continua a preferirlo a qualsiasi altro genere, perchè assomiglia al cinema e perchè si adatta di più alla mentalità e al gusto della vita d’oggi.
Milano, ottobre.
Alla casa di cura del policlinico di Milano, dove Wanda Osiris è stata ricoverata, con il capo avvolto in uno spesso strato di bende candide, hanno dovuto sgomberare un’intera stanza, per accogliere tutti i fiori che gli ammiratori le mandano. Soprattutto nei primi giorni, la gente ha aspettato con apprensione e impazienza i «bollettini» che i medici sono stati costretti a diramare almeno un paio di volte al giorno. Si può quasi dire che Milano è stata vicina alla Wandissima, la settimana scorsa quasi quanto l’America ha seguito la malattia di Eisenhower.
Wanda Osiris è caduta la sera di mercoledì scorso, verso le undici e mezzo, al termine del primo tempo della sua nuova rivista, «La granduchessa e i camerieri», che era alla terza replica. Stava «facendo la passerella», rispondendo con il suo sorriso e con baci alle acclamazioni del pubblico, quando ha messo un piede in fallo: non ha più visto la passerella sotto la amplissima e pesante gonna a balze ed è precipitata dentro il settore dell’orchestra. E’ occorso un certo tempo, prima che il pubblico, uscito dal teatro e raggruppatosi all’aperto in attesa di particola-ri, cominciasse a sfollare definitivamente. Se ne è andato, alla fine, più ansioso per la sorte della Wandissima che deluso per lo spettacolo mancato.
Con «La granduchessa e i camerieri» Wanda Osiris ha comunque ritrovato il successo di un tempo. Nelle prime tre sere di spettacolo, sembravano ormai lontani i dissensi con cui anche il pubblico milanese, il «suo» pubblico, aveva accolto certe sue recenti apparizioni sulla scena. Rientrando al Lirico, dopo questa breve degenza in clinica, la Wandissima ritroverà una accoglienza più calorosa che mai. Gli ingressi in piedi torneranno ad esaurirsi alle sette di sera, i posteggi a riempirsi di motorette. Perchè questa è la novità: fuori dai teatri dove si danno spettacoli di rivista il numero delle fuoriserie diminuisce, mentre aumenta quelle delle utilitarie e dei motorscooters.
La sera della prima di «La granduchessa e i camerieri», alla fine dello spettacolo, quando la passerella era ancora un carosello di gambe e di fiori, uno di questi lambrettisti riuscì a farsi largo tra la folla reggendo una grossa bambola lenci, con l’abito di tulle e la chioma stopposa. Billi la tirò su per i capelli, e la depose, paterno, tra le braccia della Wandissima.
IN STATO DI GRAZIA
Allora la crisi della rivista? Diremmo piuttosto che è in stato di grazia. Teatro strapieno, applausi cronometrati di oltre due minuti ciascuno, incetta di tutte le rose e i garofani disponibili in città, scambiati dal palcoscenico alla platea, e viceversa, con un ritmo da sassaiola. Meglio di così non poteva andare. Però, per tutti quelli che hanno l’orecchio pronto e la sensibilità bene allenata, non è mancata un’ombra di amarezza: si sono accorti che il pubblico applaude la Osiris proprio perchè non è più quella di una volta. Per i giovanetti arrivati in motoretta dai quartieri periferici Wanda è un mito, press’a poco come Garibaldi per i loro nonni. Ai milanesi maturi la sua voce sofisticata, le toilettes elegantissime indossate per un attimo, e la generosa intramontabile scollatura, ripetono l’illusione che il tempo si sia fermato. Sono rimasti al ’37, al tempo dell’impero, di Meazza, e delle figurine Perugina. Più che alla Wanda, forse, senza saperlo, battono le mani a se stessi.
Eppure incalzano tempi diversi tant’è vero che la rivista, questa volta Garinei e Giovannini l’hanno chiamata «operetta», con un pizzico, perfino di «Vedova allegra». Chi sia stato il marito di Irene di Sans Souci la spensierata protagonista granduchessa, la storia non dice; comunque viviamo in anni troppo morigerati, perchè una gentildonna, sia pure nubile, possa sfarfalleggiare tra le braccia dei tenenti. Irene, cioè la Wanda, è leggera soltanto con i croupiers di tutte le roulettes d’Italia, dove lascia a una a una le penne del suo patrimonio, al punto che si dimentica di pagare i conti e la servitù. Toccherà ai suoi maggiordomi Billi e Riva, costituitisi in comitato di gestione, di aiutarla a cavarsi dai pasticci.
Ma, in pratica, la sorte delia granduchessa inventata da Garinei e Giovannini assomiglia molto a quella della rivista: la vecchia formula della Wanda con i costumi sgargianti, la cui stoffa supera peT lunghezza le mille miglia, le magie di luce e le canzone flautate, sta ancora in piedi, perchè Billi e Riva la stringono nel solido busto della loro comicità. Parlano, gesticolano, si accapigliano, sono sempre loro in scena, perchè se mollassero un attimo, l’illusione sarebbe finita. E si arriva al punto che quando entra in scena la Wanda, e inconfondibili sintomi annunziano che la diva sta per cantare, i due comici romani troncano netto il dialogo per dirle con sconcertante sincerità. «Beh. adesso fa pure la canzone. Ne riparleremo dopo». E quando l’ultimo ritornello patetico, in punta di voce, è finito, Billi e Riva le rifanno il vitto, continuando sullo stesso motivo, ma sostituendo «nutrimento» a «sentimento», «sapore» a «cuore», «fame» a «brame».
Nel castello della granduchessa ci sono molti sogni, ma si sente il bisogno di un buon arrosto. Meno male che a rimediare ai guai, arriva un milanese, il commendator Gaviraghi, che ha il portafogli a fisarmonica. Compra tutte: avi, blasoni, domestici, e perfino i debiti. Ma sua moglie, la signora Lilì, futura castellana, ci par proprio di averla già vista: perbacco, ma non era la famosa Lillì che faceva la kellerina nel «Cavallino Bianco» di Schwarz? Un'ottima occasione per ritornare indietro nel tempo, una ventina di anni e più, quando tutta l'Italia cantava «Parrebbe un sogno, un’illusione...» e «Sigismondo è il più galante cavalier». Che tempi d'oro per lo spettacolo musicale! Mi chiamava ancora operetta. E adesso è chiaro perchè nei manifesti il nuovo spettacolo della Wanda ha abbandonato il glorioso nome di rivista per chiamarsi appunto operetta. Vuol saltare la «crisi», e tornare al «Cavallino» o magari a Franz Lehar.
HA RAGIONE TARANTO
Forse ha avuto ragione Taranto. Rifiutando d’essere travolto e impagliato (un uomo ha il vantaggio che non gli si ricorda l’età dei figli, guardando il décolleté) ha preferito emigrare, ed è passato alla prosa. Recita al Nuovo, Il teatro di Paone, in una commedia napoletana di modesto valore, dove si parla molto di numeri del lotto. I numeri non escono mai. Ma Taranto se la sbriga con tale semplicità e disinvoltura da conquistarsi in una sera la simpatia di tutti i critici di teatro. I più misurati si sono limitati a tributargli elogi, dicendo che ha saputo trasfigurare il copione; gli altri, senza peli sulla lingua, hanno confessato (Tessersi finalmente divertiti a teatro, cosa che non capitava loro da parecchi anni. In un tempo in cui la prosa diventa accademia, gli attori difficilmente sfuggono alle maniere, alle pretese, alla spocchia: Taranto sbalordisce perchè abituato alla rivista, dove dal loggione piovono fiori, ma possono anche piovere frutti, certi lussi non se li è mai potuti permettere.
COME DEVE ESSERE
Ritornerà alla rivista? E’ la stessa domanda che in questi ultimi mesi viene ripetuta a Remigio Paone che quest’anno ha lasciato l’intero campo della rivista a Trinca, (forse pensando di fargli ripetere l’esperienza di Napoleone in Russia). Ma, in direzione opposta, vale anche per la Pagnani, la Zoppelli, Calindri, che sono passati allo spettacolo musicale. Torneranno alla prosa? A chi non se ne intende, queste trasferte possono sembrare dei capricci (ne fanno tanti, gli attori, per attirarsi un po’ di reclame), oppure delle esigenze di carriera. L’attore di prosa fa un anno o due di rivista. perchè rende di più, e permette di incontrare un pubblico più grosso e impegnato. Cambiare aria non fa mai male. L’attore di rivista trascorre, invece un anno o due nel teatro di prosa per misurare e calibrare le sue qualità di recitazione; una fatica che assomiglia un po’ — senza voler far paragoni, s’intende — a quella cui si sobbarcò il Manzoni quando, scritti i «Promessi Sposi», passò a risciacquarne la lingua in Toscana.
Ora. le ragioni dei vari clamorosi «traslochi» possono essere anche queste; però non sono soltanto queste. Alla base di tutto c’è la crisi della rivista, e non è affatto sintomo di vecchiaia, ma esuberanza di gioventù. La rivista, se mai, corre il rischio di crepare di salute: ne fornisce la prova un recente referendum tra gli spettatori milanesi. Alla domanda «Perchè preferite il cinema al teatro», gli interrogati hanno risposto che alla sera non vogliono fare fatica. Tutto il giorno debbono costringersi su una sedia, sorridere quando avrebbero voglia di lanciar calamai, rispondere cortesemente al telefono soffocando la tentazione di buttar giù la cornetta con uno sfogo di parolacce. La parola d’ordine è adattarsi, sforzarsi, capire. Ma almeno dopo cena, vogliono evitare ogni esercizio di buona volontà. Altrimenti, che divertimento sarebbe?
Il referendum ha insistito: «Perchè, se andate a teatro, preferite la rivista?» Perchè assomiglia di più al cinema. Perchè è una distrazione continua. Perchè è veloce.
L’uomo moderno — prendiamo in prestito il verbo dai tecnici dell’automobilismo — è «velocitato». Come il pilota, guidando per un lungo tratto a cento chilometri all’ora, ha l’impressione di essere fermo, così l’uomo moderno, vivendo la sua giornata a un ritmo sempre più frenetico, finisce con l’abituarsi a quel ritmo anche negli svaghi. Preferisce il cinema e la rivista, perchè la lirica e la prosa gli imporrebbero la fatica e i sussulti di una rude frenata. Lo sketch breve, il gioco dei costumi, delle scene, delle luci, gli evitano il disagio di con-
centrare la sua attenzione su tre attori che, per bravi che siano, sono vestiti sempre alla stessa maniera e parlano sempre davanti alla stessa scena.
La rivista, dunque, non può tramontare. Anzi — assomigli all’operetta oppure no, abbia o non abbia l’intreccio — è lo spettacolo che il pubblico richiede di più Tant’è vero che l’opera tenta di rincorrerla, e chiama alla Scala registi come Luchino Visconti; tant’è vero che anche la commedia la insegue sulla stessa strada e vuole Castellani per mettere in scena Shakespeare, e ormai non rinuncia più in nessun caso alle musiche di scena. La rivista è in crisi, perchè è diventata lo spettacolo più importante del nostro tempo, e chiede agli autori e agli attori sforzi ai quali essi non erano finora abituati. Le si impone di essere intelligente e popolare, fantasiosa e immediata da capire, gradevole al professore d'università come al ragazzotto coi foruncoli che viene per vedere le gambe delle ballerine. In definitiva, a Garinei e a Giovannini si rimprovera di non essere Shakespeare. E finché il problema non accenna a risolversi, Paone preferisce che il rischio lo corra Trinca, e Taranto cede il «Lirico» di via Larga alla Osiris.
L' "OSIRISMO"
E’ diffìcile far previsioni sulla data, ma non c’è dubbio che anche da noi, come in America, lo spettacolo si incanalerà presto sulle due grandi strade, quella del cinema e quella della commedia musicale (o rivista) che si disputeranno i migliori attori. E’ già il destino di Billi e Riva che passano da un film come «Scuola Elementare» di Lattuada, a una operetta come «La granduchessa e i camerieri» della Osiris. Ecco perchè tocca a loro due, che sono i più moderni, di reggere stavolta il peso dello spettacolo.
Quando avverrà il «disgelo»? La sera della prima, un critico, bonariamente, ha paragonato la Wandissima a Stalin. Non perchè abbia i baffi, tutt’altro: le è stato, anzi, riconosciuto all’unanimità il diritto di competere con Marlene Dietrich per il titolo di «più bella nonna del mondo». La massima «gaffe», parlando con Maner Lualdi, che ne ha sposato la figlia Cicci, sarebbe di chiamare la Osiris «suocera». Però comincia ad essere chiaro che la crisi della rivista si chiama proprio «osirismo». Grave al punto che sono bastati tre ragazzi di buon naso, come Parenti, Durano e Fo, e un medio copione come «Il dito nell’occhio» per decretare uno dei maggiori successi degli ultimi anni: uno spettacolo senza scene, senza costumi, senza milioni, senza gambe nude. Anche le belle figliole, per polemica, recitavano in tuta di felpa turchina.
Ma finché resta sulla breccia, la Wanda bisogna andarla ad applaudire. Sorride come poche dive impareranno mai a fare, si muove sul palcoscenico con una impagabile disinvoltura, riuscirebbe a riempire la scena anche se fosse sola. Quest’anno poi, a un certo punto dello spettacolo si mette persino sui fianchi un gran grembiule bianco, da donna di casa e afferma di saper cucinare il pollo alla diavola. Allora si spiega perchè tutto il pubblico — anche quella parte che l’anno scorso l’aveva fischiata — ogni volta che la Wanda accenna un passo di danza scatta in piedi come se suonasse l’inno nazionale.
Giorgio Vizzani, «Settimana Incom Illustrata», anno VIII, n.45, 5 novembre 1955
Giorgio Vizzani, «Settimana Incom Illustrata», anno VIII, n.45, 5 novembre 1955 |