Petrolini in gonnella

Franca-Valeri


1962 12 16 Epoca Franca Valeri intro

Franca Valeri è dominata dal suo straordinario senso dell'umorismo. Riesce a scoprire, con fulminea rapidità, il lato assurdo in ogni parola ed in ogni gesto suo e degli altri. Perciò è sempre “in difesa” ed esita a rivelarsi per quello che è: una donna intelligente, dalla simpatica energia milanese.

Roma, dicembre

«Vero, bambolo?», dice Franca Valeri, rivolta al marito, Vittorio Caprioli. «Per il suo prossimo film, quello che comincerà a girare in primavera, lui avrebbe voluto un'altra attrice come protagonista. E io ero tutta riserbo, ma mi seccava, mi seccava da morire. Poi ci ha ripensato e ha deciso che per fare quel tipino lì andava proprio bene la Franchina. La Franca, cioè io, caro bambolo.»

«Mi scusi, sa», continua a raccontare, «ma esco da una fine settimana da ammazzare un bue. Pensi che il mio appartamento lo devo lasciare perché la casa dove abitavamo l'ha comprata la Camera. La Camera, cioè il Parlamento. Chissà quanti soldini ha speso. Allora dobbiamo uscire di casa ad una data ed entrare nell’abitazione nuova ad un'altra. E io come faccio? Perché di tutte le cose pratiche, in casa mia, mi occupo io. Sono milanese, ho il genio dell'organizzazione. Vittorio, povero caro, lui non va mica molto in là con la riflessione: è sempre tanto immerso nei suoi pensieri che vive momento per momento. Io invece devo penare per tenere insieme quel clima di dolce violenza che è un po' il sale della nostra vicenda umana.»

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L’attrice si sta truccando nel suo camerino al teatro Valle. «Cosa vuole sapere di me? Che tipo di personaggio sono? Oh Dio, un momento che devo finire... Questo strato di cerone vivo fa parte delle gioie dell'andata in scena. Non sopporto la mano altrui, sentisse che sofferenza quando aderisce al vivo della pelle. Basta, io devo fare un'infinità di cose, e non riesco mai a disimpegnarmi. Noi donne ci hanno divise proprio in due categorie, quelle che danno e quelle che prendono. E noi datrici non saremo che vecchiette grinzose, e ancora darò dare dare. Io poi sono una donna timida. Timida e fegatosa. Permalosa come tutte le milanesi. Questo mi dà tanto il mito dell'efficienza. Sono perduta-mente pigra, ma lavoro tutto il giorno. Alla mattina no, perché mi viene tanto sonno. Ma al pomeriggio devo pensare a tutto. Dicono che leggo molto, ma non è mica poi vero. La gente, quando lavora, finisce che legge solo in due casi : o per necessità o perché vuole conoscere i classici. Io i classici li conosco tutti, si domanda?

La sua commedia Le catacombe sta per andare in scena. Il successo cresce di replica in replica. Ma ora Franca Valeri discute davanti a noi - e davanti a se stessa - il boom della letteratura.

«Dev'essere per via di quelle pillole che ravvivano la memoria. Le persone le ingoiano, ricordano tutti i nomi dei romanzieri e leggono tutto. Una cultura un po’ provinciale, dico bene? Dal canto mio, vado volentieri all'opera e ai concerti. Quando posso, mi spingo nel Settentrione per andare alla Scala dove ho visto II Trovatore a tre anni. Mia madre, che abita a Milano, dice che torno a casa più per la Scala che per la famiglia. Che poi neppure questo è vero, sa? Mi piace tanto Pippo Di Stefano che ho dato il suo nome al mio cane. Ho sempre adorato la Maria, la Callas, eravamo tanto amiche... Lo siamo ancora, spero. Ecco, l'opera è il mio unico divertimento. Il cinema, si sa, è interessante, ma è un occhio freddo che ti guarda, finisce per avere dei limiti specifici.

Io poi voglio vedere solo i film comici perché altrimenti finisce che si soffre, come quando si sta in casa solitari con i caloriferi che sporcano. Vittorio, invece, vuole vedere i film di guerra e a me fanno impressione, ma lo accontento, povero caro sacrificato, perché tanto so che a metà usciamo. Lui ha l'intolleranza, un film lo irrita sempre e dopo un po' si agita sulla poltrona e vuole andarsene. Allora guardiamo la televisione.

«Dicono che è tutto brutto alla televisione. Ebbene, è vero. Ma credo che deve essere così. Non ho mai visto, in tutto il mondo, una televisione che desse begli spettacoli. Si vive in un clima di insensibilità totale. Ma tanto la televisione dovrebbe essere uno spettacolino, una cosuccia senza peso, da buttarci un'occhiata ogni tanto. Taci, però, che la televisione è sempre meglio del night-club. perché quando entriamo in un night-club Vittorio è subito colto dal collassino di malumore, i suoi occhi si depauperano di ogni luce di grata gaiezza e capisco che comincia a parlare con un tono pochissimo affettuoso. Cosa si può fare in un night-club? Parlare no, perché la musica soffoca le parole. Ballare, figurarsi se mi metto a fare il madison, proprio io. Dopo due passi mi si gonfiano i piedi. Finisce che vado a letto disperata e perdo tutto il mio dono di simpatia.

«La simpatia umana! Quella sì che ti dà il vago brivido di malinconia. Me ne accorgo quando vado in automobile con Vittorio e la gente mi guarda dai finestrini delle altre macchine e mi riconosce. Intrecciamo così un colloquio senza parole, perché la parola disturba, è sempre venata di un leggero strabismo, dice di più o di meno di quello che vorrebbe dire, e ci rende incomunicabili. Invece, il parlarsi da lontano, con lo sguardo, ti evita i disgusti fatali della conversazione e permette di entrare in un'intimità in po’ più recondita. L’ho capito quando ho visto Chaplin alla Comédie Francaise, in una serata in cui lui, io ed alti i attori recitavamo in onore l’attrice illustre. Lui giocava con smorfie deliziose, è un magnifico buffone, parlava di sé e della moglie, e dice-vecchio sposo tanto divertente. Io poi feci uno sketch sulle donne, lui rideva, si vedeva che non aveva capito niente, ma gli piaceva come io mimavo, e Poi me lo disse che lui di mimica se ne intende e che come mimavo io gli era piaciuto.»

«Lei è sportiva?»

«Oh Dio, no, non che non sopporti sentire parlare di sport, ma non lo pratico, ecco. Una volta facevo qualcosa. Tuffi. Noi di Milano se non si va a sciare (e a me non piace perché si prende tanto di quel freddo), va a finire che non si fa proprio niente. E invece l'esercizio fisico fa bene, è tanta salute.»

«Guida la macchina di suo marito?»

«No, non c’è una ragione particolare ma non guido. L'auto di mio marito... Una Mercedes, mi dicono...»

«È vero che una signora della società romana si è riconosciuta nel personaggio della sua commedia Le catacombe, e si è irritata moltissimo?»

«Sì, dicono che io mi ispiri a gente che conosco, ma anche questo è vero solo in parte. I miei personaggi invece nascono quasi sempre da ricordi, da impressioni, da cose lontane nel tempo, da letture. L'attualità mi interessa soltanto quando è lontana, quando è ricordata. Scusi un momento: devo guardare cosa c'è in questa lettera. Ah, una fattura! Non mi riguarda, la butto. Oh, che bello, posate qui tutto. È un pacco di mie fotografie. Eh, non c’è che dire: in scena faccio la mia figura... Carina, questa Franca! Buttala via. Però devo fare attenzione a una pieghimi che m'è venuta qui, nella chioma, può dare un'impronta ambiguo-maliziosa che non mi piace. Oh, cosa vedo!»

“I critici? Giudicano sempre troppo in fretta”

È entrato un compagno di lavoro dell’attrice, con un leoncino in braccio. E Franca riparte: «Bellino, bellino, che aria di selvatichino ha. Quando cammina sembra proprio un leone. Ma guardi come sembra impossibile che da piccoli i bambini e gli animali hanno la stessa espressione. £ tutto un fanatismo, vien voglia di dargli un bel pizzicotto, povero darling. È molto bello nelle spalle, forse meno nel complesso nuca-collo-spina dorsale. Un vero fanatismo, da presentarsi contesissimo. Ricorda come recitava Maria Melato? lo cercavo un liopardo ch'egli donato m’avea. È così? Questo leone mi ricorda i miei amici. Li tengo nella mia villa, ai Campi di Annibaie sopra Rocca di Papa : quattro cani, quattro gatti e un asino. Che daffare, tenerli ordinati! Perché io sono ordinatissima, mi creda. Invece mio marito, povero coniuge vagotonico, è disordinato, ma dice che lui le cose le trova nel suo disordine, come può essere vero, e quando io gliele sposto non le trova più. Quello che conta è che possa lavorare con serenità. Siamo un po' stretti, adesso. Due locali, e nella camera da letto teniamo anche lo studio. A volte lavoriamo insieme, a volte da soli. Io quando mi metto a scrivere ho sempre lo sconforto della pagina bianca: un senso di vuoto, ma poi passa, una volta che si è cominciato la cosa va. E poi. le idee me le tengo in mente per un pezzo, alla fine sgorgano.»

«Quando siete con gli amici, lei e suo marito, qual è la conversazione prediletta? Su quali argomenti preferisce intrattenersi?»

«Quando sono in compagnia. la mia conversazione preferita è tacere. È abbastanza che parlino gli altri. E parlano sempre di cinema. Sul cinema litigano, immancabilmente. Io recrimino che si parli troppo di cinema. Un film è quella cosa che quando lo si è visto, basta, è finito. Visto, giudicato e chiuso. Anche adesso io ho sentito la necessità di fare del teatro perché mi ero dedicata intensamente al cinema e sentivo il bisogno di tornare a recitare. Per me recitare vuol dire fare del teatro.»

«Legge le critiche?»

«Ecco, non si vuole sembrare polemici a tutti i costi, sarebbe volgare. Ma diciamo: a volte secca dipendere da un momento di umore di persone di cui non si finisce con l'avere piena stima. Prenda, per esempio, l'ultimo film mio e di Vittorio, Parigi o cara. Un critico non ha capito dì quel film nulla di nulla, ma ci elogia talmente, ne parla così bene che non si può neppure arrabbiarsi. Invece, c'è un altro critico che ci capisce, ma ormai ha talmente scomodato tutti per paragonarli a noi -Joyce. Kafka, Proust, Musil -che non sa più a chi ricorrere. A volte la critica può servire - mio marito una volta ha modificato uno spettacolo per i suggerimenti d'un critico -ma per lo più la recensione dipende dalla fretta del critico e dai suoi umori.»

«Quella pelliccia è un regalo?»

«Sì, di mio marito. Si ricorda sempre, alle prime, di mandarmi il pensiero. Stavolta è stata la pelliccia, di solito è un gioiellino, qualcosa di fine e di delicato. Ma come ci si muove a fatica, in questo camerino. Io sono punita severamente, come tutta la gente con manìe. Quando sono venuta in questo teatro, ho scelto il camerino più piccolo. Un po’ perché mi aveva già portato fortuna una volta e un po' perché era così angusto che pensavo che non ci si sarebbe fermato nessuno. E infatti, non ci sta nessuno ma vi si muovono sempre dentro cento persone. Ma guardalo quel leoncino, che fanatismo! Capisco che vogliano coccolarlo, piccola bestia gagliarda, ma ho anche paura che me lo torturino un po'. Le bestie vanno lasciate tranquille. Sono le più isteriche ed irrequiete fra le persone. Anche noi, a volte, siamo isterici, ma si sa, c’è l’educazione, e allora via, sia pure con una strettolina al cuore, si soffre in silenzio.»

Cosi è Franca Valeri. Un autorevole critico l’ha definita il Petrolini in gonnella perché del grandissimo attore ha la qualità più profonda: distrugge tutte le parole che pronuncia. Le rende grottesche e inutili. Dette da lei, anche le parole più umane diventano ridicole. Il sarcasmo le priva di ogni poetico significato. Per questo è una formidabile attrice moderna, forse ancora più di quanto non sappia lei stessa. È una funambola del linguaggio. Gioca con le parole come il prestigiatore manovra conigli e palline. Cammina senza rete sul filo teso della pura follia verbale e scompone i dialetti con la magia dell'osservazione. Forse è l’uovo di Colombo: ma è lei. comunque, che ha scoperto quanto sia assurdo, sciocco, ingolfato di luoghi comuni il linguaggio di cui ci serviamo. Le basta dire «Buonasera», perché il saluto più comune diventi un grottesco.

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Lei cammina per la strada, un taxi arriva di corsa e la inzacchera, lei pronuncia con uno sdegnato sibilio una sola parola: «Ordinario!», e devono ridere tutti, anche il taxista. Ha preso per la coda il demonietto bizzarro che si cela nelle pieghe del vocabolario, delle parole, delle virgole, dei punti di domanda. E avverte talmente questo grottesco che. a volte, ha paura essa stessa di parlare. Forse non sa se è lei che parla o la Signorina Snob. E allora dietro i vetri di un finestrino di automobile. nelle ore frenetiche del grande traffico romano inizia un dialogo muto con gli altri automobilisti, come se volesse dimostrare che nel mondo in cui viviamo il lato più catastrofico è la distruzione di ogni possibile linguaggio.

«Franca è una dubbiosa», dice il marito. Può sembrare antipatica perché in ogni momento sa cosa c'è di storto in quello che fa e dice, in quello che gli altri fanno e dicono. E allora, per salvarsi, dice di essere senza memoria.

«Oh Dio, dimentico tutto. Che impegni avevo? Cosa dovevo fare? Avrei molto bisogno di riposarmi tornando in villa. I miei nervi cominciano a fare i matti. Oggi è una giornata un po' campale. Si lavora senza tregua. Io chiudo gli occhi per non vedere lo scempio. Come farò a ricordare tutto, cosi crisastica come sono?» E invece non è vero perché ha una memoria di ferro, e una volontà solidissima, e fa sempre tutto quello che ha deciso di fare. In un anno è riuscita a scrivere una commedia di successo, interpretare un film e fare cento altre «cosucce» ancora. È una donna di carattere: inafferrabile e geniale, comune e paradossale. una maschera da Commedia dell'Arte nell'epoca della psicanalisi e delle public relation*. «Snobba» le donne perché ne condivide le debolezze. Si rifiuta di dire la sua età, le piacciono i complimenti, pensa con ironica tenerezza agli «angelici bruti», gli attori di Hollywood. Un suo personaggio scrive cosi a Montgomery Clift: «Montgomery! Pensare che ti chiami come il mio cappotto. Ma lui è ridotto brutto e vecchio come il più sciupatello degli orsi e tu sei bello ed elettrizzante come un mambo».

È ora di congedarci. Siamo in due, il fotografo e io, quindi dico all'attrice: «La ringraziamo». Lei, gli occhietti che sprizzano ironia, le braccia piantate con decisione sui fianchi robusti, risponde: «Anche noi». Come sempre, sulle sue labbra la parola è diventata grottesca, ha perso il suo significato comune. Cosi Petrolini in gonnella solletica, aggredisce, punzecchia l'umanità perché in fondo le vuol bene.

Guido Gerosa, «Epoca», anno XIII, n.638, 16 dicembre 1962


Epoca
Guido Gerosa, «Epoca», anno XIII, n.638, 16 dicembre 1962