Eduardo De Filippo è padrone solo in teatro
Della sua molteplice esperienza di autore e sceneggiatore cinematografico (come attore debuttò nel 1932 con Peppino nel film «Tre uomini in frak» di Camerini) non è rimasto a Eduardo «che il rancore verso ì produttori».
D. - Ripercorrendo l'itinerario della sua vita artistica, fermiamo brevemente l’attenzione sul periodo '31-34. Secondo alcuni critici di allora, e in modo particolare di Consiglio, durante tale periodo lei era i estraneo al bisogno di soluzioni morali, non sollecito ai problemi storici», ed agiva al di fuori del «rispetto di una qualsiasi tradizione» e «senza alcuna preoccupazione d'originalità». Può mai essere vero tutto ciò?
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R. No. Queste sono idee di Consiglio al quale era stato chiesto di dare un parere sulla mia opera, e lui formulò un suo giudizio, molto opinabile, su questo autore, su quest’attore di quell’epoca. Ma io trovo che già a quel tempo i semi del mio teatro erano abbastanza sviluppati per poter avere già una loro definizione; avevano una coscienza, non erano dei fatti sporadici, come Consiglio disse pure. C’era forse un’altra cosa che lui non ha saputo individuare: il bisogno di scavalcare e di arrivare comunque, tenendo presente la platea di quel tempo. Platea che era abituata ad un teatro come quello di Viviani, di Di Giacomo, Scarpetta: quindi, non si poteva da un attimo all’altro annullare tutto questo. Bisognava servirsi proprio di quei tentativi per poi scavalcare e poter raggiungere qualche altra cosa. Io questo trapasso l’ho fatto a bella posta.
D. - E in che epoca?
R. - Nei ’30-’31. Quando ho impegnato la platea con certi elementi farseschi, elementi che ancora potevano dare gusto al pubblico. Se io avessi raccontato nel ’30 la storia di Filumena Marturano avrei fatto fiasco. Quindi fu un giudizio avventato quello dato da Consiglio.
D. - In altre parole, già in quell'epoca lei aveva bene in mente le tappe del suo futuro itinerario artistico?
R. - Già e di ciò le posso dare una riprova con qualcosa di concreto. Il mio programma è stato preciso fin dal ’28-'32. E’ stato un programma definito che ha avuto i suoi scatti a tempo debito. Infatti, allora, la critica era quasi tutta contro di me: sia perché il Fascismo non vedeva di buon occhio il teatro dialettale, sia perché molti di quei critici avevano il copione sottobraccio (capita pure oggi!) e quindi la corsa alla Direzione Generale del Teatro presso il Ministero della Cultura Popolare, era sempre contro di me, contro questo autorello che veniva fresco fresco a mietere gli allori e i frutti materiali di quegli allori: teatri pieni, ecc. Per continuare il discorso iniziato, il programma mio, io lo presentai una volta sulle colonne del Giornale d'Italia, nel ’33 o ’34, con un articolo «Edoardo difende il suo teatro», e dissi pure quel che ho detto ora a lei e che cioè bisognava attendere, che la platea non era ancora matura per certe esperienze. Finita la guerra, mi trovavo al Salone Margherita in Roma con Napoli milionaria. Era la prima. Alla fine del terzo atto mi presentai al pubblico e dissi: «La guerra fa passare cento anni. Noi dobbiamo abbandonare le commedie di prima della guerra per affrontare altri problemi. Ed io questo teatro ve lo darò». Ci fu un critico che mi piace ricordare, Vincenzo Talarico, che scrisse sul giornale ciò che io avevo detto e concludeva: «Ma si può credere in questo?», con un bel punto interrogativo. Io, comunque, ho mantenuto la promessa.
D. - Quali sono state le letture che hanno inciso sulla formazione del suo gusto?
R. - A parte le opere di Pirandello, che ho letto tutte — quest’autore è stato la mia passione giovanile! — ho letto Ibsen e Cecov. Anzi Cecov è stato l'autore da me prediletto, che mi ha insegnato tante cose. Quell’affluorescenza di episodi che ce nei suoi racconti, mostrano la vita.
D. - Parlando di lei non si può tralasciare di considerare l’influenza che subì da Pirandello. Ed è Lei stesso a dircelo nel ’36 e nel ’37. Crede di avere ancora oggi dei punti di contatto con l’Autore siciliano?
R. - Io adoro Pirandello. E’ un maestro e si capisce che non si può dimenticarlo. Ma c’è una sostanziale differenza tra me e lui. Pirandello distrugge, tutto, io sono all’opposizione. Il mio è un teatro di fede, che cerca di costruire. Di fede in tutto. Io invito sempre alla speranza.
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D. - Quand’è che apparve compiuto il superamento degli archetipi pirandelliani?
R. - Più che parlare di archetipi pirandelliani a cui io mi sarei rifatto, come dice pure un autore che ha scritto un libro su di me, sarebbe meglio dire che la mia ispirazione ha avuto qualche collegamento con quella pirandelliana.
D. - Per cui oggi sarebbe allora più giusto parlare di una agnizione?
R. - Sì. Nel ’45 poi, nasce quel segno — con Napoli milionaria — in cui comincia veramente l’originalità. Napoli milionaria è una commedia piena di speranza (basterebbe la battuta finale detta dal protagonista alla moglie: «Adda passa’ ’a nuttata!»). Nel ’48 avvertii nella società un cedimento morale, un ripetersi di errori e scrissi Le voci di dentro, come ritorsione, perché a quell’epoca ebbi qualcosa come uno shock. Scrissi dunque questa commedia senza speranza. Ma dopo mi sono ricreduto: l’uomo non può vivere solamente servendo gli impulsi. E così sono arrivato a scrivere Sabato, domenica e lunedì; commedia che qualcuno ha definito come «sterile tentativo intellettualistico». E’ una commedia piena di fermenti culturali, ma è anche piena di speranza, anzi soprattutto piena di speranza.
D. - E’ stato detto che «Le bugie con le gambe lunghe» e soprattutto «La grande magia» riecheggiano un surrealismo kafkiano. Personalmente direi di no.
R. - Ma ne dicono tante! Se io le dicessi che La grande magia si riallaccia ai vecchi canovacci del teatro dell’800 napoletano, forse non mi crederebbe. L’opera io l’ho scritta quando questi signori che adesso parlano di Kafka, ancora non potevano leggere i suoi libri perché proibiti, e poi, per affermare una cosa del genere vuol dire pure che non conoscono ii vecchio teatro napoletano, le favole napoletane, come quelle scritte nel 700 dall'abate Galliani! La grande magia fu scritta così, senza pretese intellettualistiche. Quindi Kafka non c’entra.
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D. - Vito Pandolfì insiste, in un suo libro, nel definirla artista non seguace «di dati culturali» che «non ha ceduto a visioni estetiche». Fino a che punto possono essere valide tali conclusioni?
R. - Pandolfi è un mio amico e un mio ammiratore ed io lo sono di lui. Ma credo che abbia dato una definizione un po’ troppo intellettualistica al mio modo di lavorare. Sì. certamente, a me manca una profonda cultura, ma io di questa cultura non ne ho bisogno, perché io ho creato una mia cultura, in quanto il teatro io l’ho seguito, l'ho studiato nei particolari, e conosco ogni mezzo del teatro, ogni settore e quindi posso rivoltarlo a seconda delle necessità che mi si presentano ogni qualvolta io individuo qualche particolare atteggiamento dell’uomo.
D. - Si sa che lei scrive una commedia di getto, costruendola però prima, e per molto tempo, interamente nella sua mente. Ha un motivo particolare per attenersi ad un simile metodo di lavoro?
R. - Durante il lungo periodo di «gestazione» di una commedia, io faccio una analisi attenta, a volte anche spietata, dei vari personaggi. Pensi che spesso gli appunti restano nel cassetto per dieci, dodici e anche quindici anni! E non mi sono mai pentito di aver aspettato tanto.
D. - In questo segue un po’ i grandi autori.
R. - L’accostamento può essere un po’ imprudente! A meno che lei non intenda che anche per il teatro si debba fare un lavoro di lima, di rifinitura. Uno spunto, un’osservazione che si può fare partendo da un caso della vita, può essere tenuta dentro e maturata per molto tempo. E ciò perché lo spunto può essere suscettibile di modifiche con l’evolversi del tempo stesso.
D. - Ciò mi porta a pensare che Lei osserva tutto quanto le succede intorno.
R. - Certamente. Anche perché io non sono un autore «introverso»!
D. - In questi ultimi anni c’è stato in Italia il «fenomeno» Pasolini, il quale con i suoi libri ha imposto, sul piano linguistico, qualche interrogativo circa la natura della dialettalità nel romanzo. Lei aveva imposto tali interrogativi in ordine al linguaggio teatrale. Il «dialetto» può costituire l’avvio ad un discorso sulla sostanza poetica e letteraria di caratteri universali?
R. - L’avvio da me dato a questo genere di teatro, che ha proiettato il dialetto sulla letteratura maggiore e che entra anche nella sfera internazionale, mi auguro che possa dare in avvenire tanti Pasolini: finché potremo avere a nostra disposizione una lingua ricca che ci consente di dire quanto urge in noi, deve considerarsi giustificato l’uso di qualsiasi koinè. Credo che anche i dialetti possono contribuire alla formazione di una letteratura maggiore anche se non nazionale.
D. - Se è vero che i suoi personaggi non sono «confinati» in un regione definita nella etnografìa e nella lingua e pur mostrano d’essere vibrazioni di un mondo che ai giovani può apparire ormai già «passato», tali personaggi sono in grado di suggerire possibilità nuove ai nostri spiriti?
R. - Io lavoro per questo. Osservo la vita per questo. Studio gli uomini per questo. Mi rifaccio agli antichi e studio tutto per questo, e sempre per questo motivo — cioè quello di suggerire qualcosa di nuovo agli spiriti — spero di poter dare ancora qualche opera valida che possa mirare a questo scopo.
D. - Quindi un autore può apportare un contributo utile alla chiarificazione di elementi etico-religiosi?
R. - Credo di sì. Noi abbiamo in Italia Diego Fabbri che lavora anche in questo senso.
D. - Ma il teatro di Fabbri è stato definito da molti «teatro confessionale»!
R. - Ed è giusto, forse. Manca, infatti di fermenti sociali e letterali. Però il suo è un teatro che cerca di aiutare a chiarire alcuni punti di questa grande tematica, la fede, a coloro i quali sono lontani o tormentati da essa,
D. - Lei condividerebbe un teatro confessionale?
R. - Non saprei. Penso però che sia possibile un teatro d'ispirazione cristiana... Qualcuno ha cercato di attribuire alle mie opere il carattere di «teatro di fede». Se questi ha voluto dire di una fede non confessionale, allora si. Io infatti seguo l’umanità, cerco di capire e di penetrare il pensiero degli uomini, di tutti gli uomini Sotto questo profilo il mio teatro si può anche dire che sia pregno di una «humaniras christiana».
D. - Cosa ne pensa del teatro italiano d’oggi?
R. - Fabbri forse tiene in piedi qualcosa. C’è Patroni Griffi che va pure bene. Ma c’è poco. Gli altri? Sono tentativi che non lasciano però scoprire un commediografo.
D. - Se lei dovesse dire qualcosa ai giovani, cosa direbbe?
R. - La parola di incoraggiamento io la do nel mio ultimo lavoro L’arte della commedia, ove presento situazioni che riflettono il teatro nel momento in cui lo trattiamo. Essa cerca di chiarire ai giovani quale deve essere il punto di contatto con l’arte e quel che deve essere il teatro come specchio di verità.
D. - In «La grande magia» e in «Mia famiglia» lei tenta di mettere in luce il dissidio tra le due generazioni, protagoniste degli anni '50, le quali sembrano urtarsi e che, invece, alla fine, scoprono una ragione d’intesa. Cosa si dovrebbe accrescere oggi per meglio intendersi tra i giovani e voi anziani?
R. - L'amicizia, soprattutto. I giovani hanno dei diritti e noi anziani dobbiamo riconoscere tali diritti, che sono del pensiero, dei gusti, delle tendenze. Oggi troppo di noi pensano di essere padri con le virgolette, e si capisce che non si è padri se non si è amici. Noi dobbiamo donare ai giovani tutto ciò che possediamo. Il rapporto di amicizia può concorrere anche a sviluppare una maggiore coscienza morale nel giovane.
D. - Ritiene che cause esterne possano deviare il senso morale dei giovani?
R. - Sì. Però se la famiglia è ben organizzata, se essa instrada bene un giovane, cinema, radio, televisione, stampa e amici poco buoni limiteranno di molto la loro influenza negativa. Nella famiglia di oggi ci sono ancora molti difetti. Se essa si vuole tenere in piedi è necessario che si riveda, che si corregga in certe sue forme.
D. - Veniamo ora a «Filumena Marturano». Qui ogni sentimento, ogni emozione scuote. C’è un meraviglioso senso di intimità che ridesta nel nostro animo l’eco di passioni che operano assiduamente in noi, ma che pure dispiacciono. Con questa commedia Lei pare che spii i margini segreti dell’anima umana per seminarvi i fiori della poesia. Assistendo all’interpretazione data dalla compianta Titina e dalla Bianchi, tali sensazioni erano vissute dallo spettatore. Ci si dimenticava, insomma, di vedere sul palco Titina 0 la Bianchi: si vedeva Filumena. Ciò non succede con la Loren. E quindi non crede che l’opera ne esca inficiata, o per lo meno contaminata?
R. - Sì. Abbiamo avuto una discussione molto accesa io e Ponti. Quando lui mi ha chiesto la mia commedia, io ho avuto le mie riserve e anche la Loren, veramente, era perplessa di fronte a questo personaggio. Mi sono preso una ventina di giorni di tempo per pensarci su, durante i quali stesi la sceneggiatura, in cui si trattava di inquadrare la figura di Filumena in un discorso più ampio, più panoramico, come richiedeva il discorso cinematografico. Presentai così la sceneggiatura, secondo me, buona. Ma poi ho avuto dei dispiaceri. Innanzitutto il titolo che stona: Matrimonio all'italiana (e io sono stato contrario a questo titolo). In Italia ci si divorzia in una maniera strana, ma ci si sposa come in tutti i posti del mondo. Insomma, non era il caso di sfruttare il titolo di un film di successo. E’ un fatto di cattivo gusto! Il personaggio trattato da me nella sceneggiatura avrebbe dato alla Loren l’opportunità di essere identificata anche lei come Filumena e non come Loren che interpreta Filumena. Invece la Loren non è la madre che bada ai suoi figli ma è una femmina che pensa ad un uomo e quest’uomo non è più il Domenico Soriano della commedia, ma è una specie di maniaco, e pazzoide e buffone. Quindi è stato un fatto molto triste che la mia sceneggiatura sia stata manomessa. De Sica poi ha ceduto al compromesso, mentre io ho ceduto la commedia a Ponti perché De Sica mi dava delle assicurazioni. Lui per me rappresentava una garanzia di serietà. Mi ha sorpreso la sua indulgenza verso il produttore. Sofia è brava e forse regge tutto, Mastroianni è scialbo. Tutto l’insieme è una fanfaronata!
D. - Delle sue esperienze cinematografiche ricorda qualcosa di buono?
R. - Di esse non mi è rimasto che il rancore verso i produttori.
D. - A parte questo, esse hanno comunque influito sulla sua formazione di artista?
R. - Forse no. Io ho fatto delle esperienze cinematografiche piuttosto importanti. Ma i produttori cambiano le carte in mano! Se io non avessi avuto il teatro che mi rende felice, dove sono il padrone!... Come regista, ho voluto mandare a benedire tutti quelli del cinema.
Angelo Lucano, «Rivista del cinematografo», n.2, febbraio 1965
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Angelo Lucano, «Rivista del cinematografo», n.2, febbraio 1965 |