Peppino De Filippo, cent'anni di ingratitudine

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2003 08 21 La Stampa Peppino De Filippo intro

2003 08 21 La Stampa Peppino De Filippo f1Non fosse per la Tv che, specie nei periodi di stanca, ricicla a caso qualcuno dei suoi film, sarebbe difficile conservare il ritratto vivo di Peppino De Filippo, E invece, smanettando da un canale all'altro, eccolo riaffiorare dal buio: perfido, furbastro, imbroglione, tiraschiaffi; eccolo con i suoi baffetti stizziti e lo scatto spiritato degli occhi mentre ci invade con quei suoi personaggi frustrati, tempestati di tic, magari ipocriti, magari spocchiosi e vili, che costringevano Indro Montanelli a dire: «Io non sono napoletano, ma di fronte a Peppino, non so come, mi capita sempre di diventarlo». Il 24 agosto saranno cent'anni dalla nascita di questo attore che sembrava venire da lontano, dalle atellane e dalla Commedia dell'Arte, Non sappiamo se il Teatro e il Cinema lo ricorderanno come merita, se la sua comicità fragorosa e terremotata stimolerà una ripresa degli studi sulla sua complessa fisionomia di attore, di commediografo, di narratore, di poeta, di musicista, di illustratore, di vignettista che, come Sergio Tofano, pubblicava nel 1940 sul periodico per famiglie Mammina tavole e versi il cui protagonista si chiamava Giulippo (crasi di Giuseppe De Filippo).

Non sappiamo neppure se Mondadori ristamperà gh sketch di Pappagone, la maschera che Peppino creò nel 1966 per il programma Tv Scala reale. E' stata la sua ultima buffoneria ingigantita a dismisura dai mass-media, è stato l'ultimo lampo di una popolarità che, dagli anni Trenta al momento della morte (26 gennaio 1980) non ha avuto né cedimenti né eclissi: la maschera candida del mamo, l'idiota puro con un ciuffetto di capelli che si impennava a gancio al sommo del parrucchino color carota, lo strafalcionista che, nel mezzo del discorso stralunato, buttava il suo famosissimo intercalare «ecque qua!». Quante cose non sappiamo. Forse perché Peppino, nonostante la riconosciuta genialità istrionica, continua ad essere considerato un «comico», una presenza minore, l'ombra perfida di Eduardo, lo Zanni flemmatico e cialtrone che un giorno fece dire al produttore Angelo Rizzoli «Ecco questa bella faccia di cretino!», Raidue ha celebrato il centenario trasmettendo a notte fonda (il 16 di agosto) le farse Miseria bella e Cupido scherza e spazza. Nello scorso marzo, a Napoli, il Comitato nazionale delle celebrazioni ha organizzato con l'Università un mastodontico convegno su «Peppino De Filippo e la comicità del Novecento», ma l'eco di quelle discussioni non è riuscita a superare la cinta municipale. Progetti di spettacoli sono stati annunciati dal Teatro stabile di Napoli, ma poi i programmi sono cambiati. Sarebbe interessante scoprire il motivo di tanta evasività. Qualcuno la spiega così: poiché è il solo custode e amministratore del patrimonio paterno, Luigi De Fihppo vuole avere voce su tutto ciò che si progetta: senza il suo benestare, non si fa niente. E' davvero così? E, anche fosse, sarebbe sufficiente a spiegare l'approssimazione e la malavoglia che circondano il centennale? Disse una volta Peppino: «Ormai mi sono rassegnato. Un discorso serio su di me autore sarà fatto soltanto dopo che io non ci sarò più». Era il 1978, Venticinque anni dopo, siamo ancora in attesa del discorso serio.

Venticinque anni dopo, Peppino è costretto a fare quel che ha sempre fatto: combattere. Cominciò dalla nascita. Era l'ultimo dei tre figli che Eduardo Scarpetta ebbe da Luisa De Filippo, nipote della moglie legittima, Titina (la maggiore), Eduardo e Peppino chiamavano il loro padre «zio», un po' perché lui non li riconobbe mai, un po' perché era zio per davvero. Una «famiglia brutta, tarata, moralmente scassata in modo irreparabile», ricordò Pappino nell'autobiografia, una famiglia dominata da quello zio che arrivava ogni tanto in casa e si comportava da padrone. Scarpetta sarà pure stato «un incallito e impenitente sporcaccione», ma fu anche il primo maestro dei ragazzi, Peppino aveva soltanto cinque anni quando fu buttato sul palcoscenico per interpretare il personaggio di Peppinello in Miseria e nobiltà. Fu l'inizio di un lavoro che non si fermò mai e vide i tre fratelli impegnarsi in ordine sparso, prima di riunirsi in una «ditta» che fece epoca. Erano i tempi del Kursaal e del Sannazzaro (1931), Il trio costituì la mitica Compagnia del Teatro Umoristico che s'impose a Napoli e, da lì, ai pubblici di Roma, di Milano, di Torino, Nacque allora la leggenda della loro inseparabilità e anche quando Peppino, nel '45, si mise per conto proprio con una sua compagnia, durò a lungo il rammarico di chi avrebbe voluto vederli sempre insieme, a dar vita a quei loro spettacoli scatenati tra lingua e dialetto, in un repertorio che alternava le commedie di Eduardo a quelle di Peppino e di Titina e mescolava, in cartelloni bizzarri, Pirandello, Armando Curcio, Ernesto Grassi.

Divenne subito memorabile Peppino nel Berretto a sonagli, nel ruolo del delegato Spanò, così spocchioso e servile. Ma se Titina era abbastanza simile per temperamento a Eduardo e a Eduardo, pur tra litigi e separazioni, tornò sempre, Peppino aveva bisogno di uno spazio tutto suo. La recitazione di Eduardo era lenta, friabile, corrosa dalla malinconia; quella di Peppino, schietta, corposa, veloce, richiamava un passato di lazzi, la Commedia dell'Arte, il San Carlino, Senza questa memoria inconscia e potente, Peppino non avrebbe potuto operare certe mimesi clamorose, non avrebbe potuto trasformarsi, per esempio, nel neonato con baffi e cuffietta delle Metamorfosi di un suonatore ambulante, un canovaccio di quattro secoli prima da lui recuperato e riadattato, mostrando quanto fosse arcaica la sua comicità, come essa nascesse dal ventre, da una sofferenza e da un'allegria perdute, dal sentimento di plebi affamate e scomparse, ma il cui segno umile e nero durava nel paesaggio, nella storia. Aveva molte ambizioni Peppino, Scriveva e versificava. Tra rifacimenti e copioni originali è stato autore di una cinquantina di commedie, magari non tutte grandissime, ma segnate da un livello artigianale rigoroso: Non è vero ma ci credo, Quelle giornate, Don Rafele 'o trumbone, Quaranta ma non li dimostra, In queste opere contava soprattutto il suo gioco d'attore. Lo sapeva così bene, che faceva coincidere il carattere dei personaggi inventati con le sue naturali tendenze istrioniche, E così, quando poteva, ci metteva dentro quei suoi tipi un po' loschi, i grandi scrocconi, i furbastri ghiotti.

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Apriva, in altre parole, una larga zona espressiva di ipocrisia e di maniacalità che indusse Federico Fellini ad affidare a lui quel personaggio tartufesco contrapposto alla carnalità peccaminosa di Anita Ekberg nel primo episodio di Boccaccio '70. Fellini mise una specie di sigillo sulla carriera cinematografica di Peppino, una carriera poco amata, accettata per necessità, tesa soltanto a far quattrini da riversare magari nell'attività teatrale, E tuttavia quel lavoro malamato fece crescere in modo esponenziale la sua popolarità; quei film con Totò, con Fabrizi, con Walter Chiari, girati in fretta e su sceneggiature approssimative, lo fecero arrivare là dove non sarebbe mai giunto con il suo teatro. Un po' come accadrà più tardi con la televisione, quando lui rifiutò il ruolo del presentatore e, ricordandosi di un antico personaggio della commedia di Armando Curdo I casi sono due (il cuoco Gaetano Esposito), lo reinventò e tirò fuori la tempestosa ottusità di Pappagone, Ecque qua! Non è stato soltanto un formidabile istrione Commediografo, poeta e narratore, ha creato tipi umani irresistibili.

Osvaldo Guerrieri, «La Stampa», 21 agosto 2003


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«Peppino? Facevamo un bel terzetto io, lui e Totò». Ricordando gli anni lontani del loro lavoro cinematografico, Aroldo Tieri ritrova un guizzo di tenerezza. Dice: «Raccontano che sul set lui e Totò improvvisassero. Non è vero. Studiavano la scena nel camerino di Totò, rispettavano la sceneggiatura, al massimo aggiungevano qualcosa». Confessa: «Era meraviglioso guardarli lavorare. Tra loro s'ingaggiava una bellissima gara. Vedevo in Peppino un estro e ima fantasia che mi hanno sempre affascinato. Per questo dico che nelle scuole di recitazione dovrebbero far studiare la scena della lettera nel film Totò, Peppino e la malefemmina.

Lì Peppino mostrava tempi comici fantastici», Tieri, che da qualche anno ha rinunciato a recitare, soprattutto per polemica nei confronti dell'imbarbarimento teatrale, ricorda di Peppino l'eleganza. Eleganza dell'uomo e dell'artista, «Andavo spesso a casa sua. Suonava il pianoforte, cantava. Conservo ancora la registrazione di molte nostre serate. Era un uomo intelligentissimo e un attore di enorme eleganza. Sapeva essere credibile sia come miliardario sia come poveraccio. Aveva ima genialità che nessuno ha saputo sottolineare».

«La Stampa», 21 agosto 2003


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2003 08 28 CDS Peppino De Filippo centenario intro

Correva la primavera del 1948 quando, durante un ciclo di recite a Trieste, Peppino De Filippo venne a colazione a casa dei miei genitori. Vado a spiegare il perché dell'insolita circostanza. Qualche sera prima Fattore aveva presentato una sua commedia accolta freddamente; ma in quel periodo il nostro Teatro Verdi era sempre pronto a esplodere in manifestazioni patriottiche e ai ringraziamenti l'artista, per riscaldare la sala, aveva tirato fuori il Tricolore scatenando ovazioni.

Poi, in risposta all'applauso, aveva recitato fuori programma una poesia che cominciava: «Cara signora bionda, ditemi, ricordate I quando per voi scrivevo canzoni e serenate?».

Fu cosi che gli amici Mariano Faraguna e Lino Carpinteri mi indussero a salire con loro nel camerino del capocomico per chiedergli il permesso di stampare la poesia sul settimanale La Cittadella, e quando Fautore acconsentì, Faraguna pensò che sarebbe stato gentile invitarlo a colazione. Il giorno dopo mia madre, informata della faccenda disse: «E dove lo portate il signor De Filippo, al ristorante ? Poveretto, mangia sempre fuori: invitatelo qui, gli farà piacere la cucina di casa».

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Peppino, del quale proprio oggi si celebra il centenario della nascita, allora di anni ne aveva 44. Arrivò in blu e con la cravatta, compito e diffidente; e varcata la soglia mi chiese: «Ma voi siete già stato rappresentato?».

Temeva, evidentemente, che l'invito fosse un pretesto per rifilargli un copione. Gli risposi sorpreso che non avevo mai scritto per il teatro né avevo in progetto di farlo; e qui sbagliai perché proprio da quella domanda nacque forse la mia vocazione di drammaturgo.

Dell'incontro mi torna in mente l'atmosfera, come se il tutto si fosse svolto sulla scena. Fu una specie di recita di dilettanti ingessati (noi), con una partecipazione straordinaria un pò distratta (lui).

Nonostante la combinazione di due professionisti dell'umorismo come Faraguna & Carpinteri con il futuro irresistibile Pappagone della Tv, non ricordo un solo momento di buonumore. In perfetto contrasto con ciò che mi raccontò poi Fellini, il quale cercava sempre Peppino per farsi quattro risate, mentre Eduardo gli metteva tristezza. Nella consapevolezza che l'ltalia stava dividendosi in due partiti, uno per ciascuno dei fratelli ormai separati nell'arte e nella vita, e considerati esponenti l'uno del sorriso e l'altro dell'impegno, osai chiedere a Peppino che cosa pensava della sorprendente crescita di Eduardo commediografo dopo Napoli Milionaria! A disagio 7iel toccare l'argomento, rispose: «A mio fratello non posso che augurare ogni bene, ma mi preoccupa perla sua salute la fatica di tavolino che si impone. Quanto potrà andare avanti con questi ritmi di lavoro?».

Forse a Peppino non sarebbe dispiaciuto che Eduardo saltasse qualche stagione lasciando spazio alle Commedie che scriveva lui, ingiustamente sottovalutate commedie opere del De Filippo minore.

Verso la fine del pranzo, al quale i miei familiari non avevano imposto la loro presenza, l'avvocato mio padre non si trattenne ed entrò gridando «Caro De Filippo»!, precipitandosi ad abbracciarlo. Lì per lì Peppino parve spaventato, 7na si rassicurò accorgendosi di aver di fronte Un devotissimo ammiratore suo e dei fratelli (inclusa Titina), dei quali non aveva mai perso una recita trascinandomi sempre con lui.

Peppino De Filippo Dolores Palumbo 1961 L

Travolto da tanta espansività, l'ospite parve finalmente a suo agio, azzardò qualche battuta e infine invitò il padrone di casa ad accompagnarlo all'albergo. Dalla finestra li vedemmo allontanarsi a braccetto e non seppi mai che cosa si raccontarono per la strada, ma restai con l'idea che Fattore avesse confidato qualcosa a papà, magari il nome della signora bionda destinataria della poesia.

L'impressione che mi rimase di Peppino fu che fuori scena svelava Un fondo serio e meditabondo, mentre in seguito incontrando Eduardo scoprii che la sua laconicità era permeata di una vena irridente. lnsomma i due grandi fratelli si assomigliavano più di quel che si crede. Nell'urlo, a cercar bene, finivi sempre per trovare qualcosa dell'altro; e tutt'e due, imiti o divisi, hanno fatto la gloria dello spettacolo italiano.

Tullio Kezich, «Corriere della Sera», 28 agosto 2003


La Stampa

«La Stampa», 21 agosto 2003

Corriere della Sera

«Corriere della Sera», 28 agosto 2003