Ettore Petrolini, discorso dell'attor comico
Dopo avere studiato e consultato Tagore, l’orario delle Ferrovìe, la Tavola Pitagorica e l’Annuario dei Telefoni senza voler parlare delle Leggi delle 12 Tavole e del Calendario Gregoriano, mi permetto dì dire che in fatto di opere di teatro difficilmente se ne potrà incontrare una che a prima vista non appaia noiosa. La materia della recitazione è nei libri di teatro quasi sempre immobile, se si eccettui qualcuna delle opere scritte dagli scrittori-attori come Shakespeare, Molière e Goldoni. E cioè quelle commedie o drammi che alla lettura sembrano innocentemente melensi, oziosamente spiritosi dì uno spinto piuttosto vecchiotto. Sì discute molto di teatro teatrale e di teatro non teatrale. A tale proposito i critici per fare impressione ci accoppano di nomi : Gwimplane, Gogol, Renard e Shaw, Pico della Mirandola, Landru, Girardengo, Marinetti e la Mandragola di Niccolò Machiavelli.
Lasciamoli dire: la verità è che la maggior parte del teatro scritto dalla Commedia dell’Arte in poi è noioso e antiteatrale. Il fallimento dei teatri sperimentali non è colpa della incomprensibilità del pubblico, è originato soltanto dal fatto che in questi tempietti domina il più stomachevole e inutile rispetto dell’opera d'arte.
Nozze... a distanza.
Che cosa direste voi se annunziandosi le nozze di un vostro amico con una bellissima donna vi dicessero che lo sposo si è proposto di essere con lei rispettosissimo e a debita distanza? Nella stessa posizione sono coloro i quali professano per l’arte un rispetto che toglie loro qualsiasi iniziativa, qualsiasi libertà, anche quando è il maggior segno di stima profittarne e abusarne con violenza. L'opera d’arte va fecondata, giacchè il fatto di essere conservata per iscritto è per essa una imbalsamazione, un artificio, un mezzo qualsiasi. Per renderla leggibile occorre aggiungerle un carattere che non è il suo; l'opera teatrale scritta è soltanto lo scheletro della rappresentazione. Il borghese Gentiluomo di Molière, è l'opera molieriana che risente maggiormente della differenza fra teatro scritto e teatro recitato.
In questa commedia i mezzi teatrali non sono taciuti nè sottintesi ma chiaramente trascritti con tutti i preziosi trucchi comici dei dialogo, con tutte le soluzioni in cui si evita qualsiasi conclusione o catastrofe o spiegazione. La commedia finisce in balletto e la satira finisce in canzonetta. È uno dei componimenti tipici di quello che nell’ arte della recitazione voglio chiamare «lo spazio vuoto».
L’attore che meriti questo nome oltre al bagaglio d'immagini e di battute comiche prestabilite, deve avere una sensibilità dell'ambtente in cui lavora, un senso speciale che non è altro se non il talento dell’attore. Il pubblico del teatro è in continuo spostamento e oscillazione. Basta un nonnulla per orientarlo, basta poco per metterlo in sospetto e in allarme. In tale continuo movimento il pubblico è come una materia compatta che spostandosi da un punto all'altro apre improvvisamente alcuni spazi e fenditure che minacciano tutta la compagine dello spettacolo. L'associazione delle idee che nelle sere di spettacolo lavora rapidissima nella mente degli spettatori, le suggestioni che agiscono sul pubblico quasi all'unisono, sono altrettanti pericoli di catastrofi cui deve far fronte l’attore coi suoi mezzi.
Lo spazio vuoto.
Per colmare queste fenditure degli spazi vuoti nel pubblico non basta l’opera recitata cosi com’è, come non bastano le vecchie risorse di trucchi teatrali predisposti e tradizionali: occorre avere un senso esatto di quello che domina il pubblico in quel momento e orientarlo improvvisamente a tradi-mento verso qualche idea nuova che lo colpisca all’improvviso e lo domini per qualche minuto. Un allusione a fatti del giorno che formano il fondo dei pensieri d’ognuno ma che nessuno s'aspetta di sentirsi ricordare a teatro.
Una falsa intonazione. - Un fischietto. - Un versaccio. - Una scemenza. - Una malignità. E in caso disperato una cattiveria.
Il pericolo maggiore è che il pubblico preveda tutto mentre si svolge la commedia, e che non si aspetti nulla di imprevisto e sia minato da quel torpore di cattivo augurio che gli attori conoscono molto bene. Credo che ì vecchi comici che interpretavano commedie quasi sempre dello stesso soggetto avessero appunto il senso dello spazio vuoto. Altrimenti non si potrebbe spiegare la sopravvivenza di molti mezzi teatrali che hanno tutti lo stesso carattere, dalla recitazione dei comici dell'arte a quella degli attori più colti. Osservando bene si trova che hanno più resistenza di molte opere i mezzi buffoneschi più sfruttati; essi sopravvivono da Aristofane a noi con una perenne attualità che molte opere teatrali non hanno.
Lo spirilo dell'attor comico non sarebbe mai mutato, come si può vedere in quello che nelle commedie scritte sopravvive dei mezzi della recitazione; non sarebbe mai mutato lo spirito del pubblico che si è sempre lasciato accalappiare da tali mezzi; i quali a leggerli a tavolino sanno di scemenza, ma riportati alla ribalta hanno una meravigliosa freschezza e una vita segreta che non si riesce a spiegare altrimenti che come un fenomeno segreto della creazione più personale dell'attore.
Tempismo.
Come accade per gli effetti di tutte le arti, non ve ne sono di vecchi o di nuovi a teatro, come nelle parole o nei colori o nella musica non esistono effetti sorpassati e inefficaci: sono tali soltanto quando sono usati a sproposito e fuori tempo. Essi diventano convenzionali se sono adoperati a colmare una insufficienza del creatore, poeta o attore che sia. Gli artisti sanno la straordinaria efficacia di un luogo comune, di una buffoneria risentita infinite volte, quando queste cose arrivano a tempo, riassumono una situazione, un mezzo d'espressione, danno un calcio alla logica, al senso comune, all'opera stessa e formano la vera e propria soluzione teatrale. L’attore che dispone di questi mezzi risolve da attore una situazione che nessun altro mezzo letterario avrebbe potuto risolvere con tanta efficacia; dà vigorosamente uno scappellotto alla storia e alla tragedia, piomba sugli spettatori e li prende nel pugno, tradisce la loro attenzione e l'accapparra per qualche tempo: apre, nel dramma, lui stesso, quello «spazio vuoto», ed egli stesso lo colma con un’insuperabile bravura fino a quando non intervengono te risorse del letterato.
Slittamenti
Un caso particolarissimo e spesso interessante di quelle improvvisazioni con cui si riempie lo «spazio vuoto» è quello che io chiamo «slittamento» (l’uscire dalle dimensioni della finzione scenica passando per un momento in quelle della realtà). Per esempio si può parlare col suggeritore, ammonire un rumoroso ritardatario, insomma trarre profitto di tutto, dal rumore del seggiolino della poltrona lasciato cadere sbadatamente, all'immancabile pianto del bambino nelle rappresentazioni diurne.
Naturalmente bisogna essere «tempisti», e cogliere il momento sia di uscire, sia di rientrare nello «spazio scenico».
Lavorando su questo terreno per molti anni mi sono accorto che non esiste commedia impossibile da recitare. Molti critici dicono, ed io lo riconosco senza difficoltà, che il mio repertorio è pieno di cose idiote che non sarebbero degne di stare accanto alle cose intelligenti che vi si trovano. Per me è lo stesso. La commedia la considero come un buon pretesto e null'altro. Io ho recitato nella mia vita delle cose stupidissime che avevano soltanto il torto di non essere a quel punto di imbecillità che desideravo e che alla fine, per ottenerlo, dovetti inventare da me.
"Più stupidi di cosi si muore"
Nel periodo di musoneria italiana in cui un buon attore non era considerato tale se non si prestava alle parti lacrimose, io passai come un buffone distinto. Mi venivano a sentire per esclamare: «Quanto è scemo». Io in quel tempo inventai il mio motto: «Più stupidi di così si muore» formulai in quel tempo due cose che amo sovrarutto: «I salamini» e «Fortunello» che considero il principio di quel modo di recitare che perfezionai attraverso parecchi anni di lavoro.
Molti critici mi proclamarono l'interprete della idiozia sublime, quella idiozia che è la sola fuga possibile da questo mondo troppo logico, dove esistono troppi problemi insolubili e troppe domande senza risposta, e dove esiste un’arte che la sola logica non può avviare alle soluzioni estreme.
"Perchè si"
Basterà che ricordi come divenne grido trionfale e addirittura una formula, il primo verso dei «Salamini»: «Ho comprato i salamini e me ne vanto», e tutto il formulario delle risposte che risolvevano per me molti problemi: «Perchè la terra gira? — Perche sì. — Perchè gli uomini sono fatti di carne e d’ossa anziché di acciaio? — Perchè si. — » E via dicendo con domande angosciose miste ad altre soltanto pettegole, fino alla conclusione illogica ma riassuntiva: «Ho comprato i salamini e me ne vanto». Lo stesso sistema ho adottato nelle commedie e nei drammi che recito.
Autobiografìa.
L'attore in momenti come questi non fa più che dell'autobiografia, giacché io dò all’autobiografia in teatro una importanza pari a quella che essa ha nelle altre arti. Intendo una autobiografia superiore, un modo di insinuare nell'opera i propri sentimenti e punti di vista, la propria ironia o il proprio patetico come espressioni caratteristiche di uno stato d’animo individuale in cui tutti si riconoscono.
Ho fatto nei primi anni della mia vita, di tutto (a Piazza Guglielmo Pepe a Roma) nei teatri da quattro soldi i primi posti, a due soldi i secondi... Dal camaleonte all'istrice, dal pappagallo sapiente alla scìmmia imbalsamata, ora piangendo lacrime di coccodrillo, or ridendo il riso sesquipedale dell'ippopotamo. Fu una vita selvaggia allegra e guitta, e un'educazione a tutti i trucchi e tutti i funambolismi davanti al pubblico, che magnava le fusaja (i lupini) e poi tirava le coccie (le buccie) sur parcoscenico al lume de certe lampene (lampade) che er fumo spargeva dapertutto un'odore da bottega da friggitore. Di là sono salito ai Caffè Concerto di second'ordine con la consumazione obbligatoria, dalle ribalte di legno ai palcoscenici di muratura, dallo spettacolo da quattro soldi con la grancassa e la parata all'entrata al Varietà con lire una d'ingresso.
Ho lasciato le foche sapienti e la donna barbuta (che era un uomo travestito) per le attrazioni ginnastiche e le canzonettiste deliziosamente ignoranti. Ho imparata in questa mia esperienza a sondare la stupidaggine, ad anatomizzare la puerilità, a vivisezionare il grottesco e l'imbecillità del nostro prossimo, per arricchire il museo della cretineria.
Il sentimentalismo schifoso, le prosopopee, il tragicismo ad ogni costo mi hanno attratto irresistibilmente, e la boria presuntuosa di qualche attore del teatro cosi detto serio, mi ha fornito molto materiale umoristico per il mio teatro. Alla fine, non profittavo più dello spazio vuoto del mio pubblico, ma lo creavo io stesso, e non per colmarlo, ma per tenere l’uditorio in quello stato di esaltazione in cui qualsiasi cosa si dica finisce per avere un senso o per non averne nessuno: più cretini di così si muore. Il mio ideale era ormai la creazione dell'imbecille di statura ciclopica.
Devo dichiarare che non ho mai preso l’aria di estetizzante e di decadente, non mi sono mai entusiasmato alle metropoli, e da romano de Roma preferisco a tutti gli asfalti na strada serciata o un vicoletto co li panni stesi che interrompano l'uniformità del panorama: non mi sono mai chiamato con tre nomi... e non per modestia. Mi sono tenuto sempre lontano dalla modestia per paura di diventare orgoglioso di essere modesto.
Ettore Petrolini, «Comoedia», anno X, settembre-ottobre 1928
Ettore Petrolini, «Comoedia», anno X, settembre-ottobre 1928 |